martedì 15 aprile 2014

RECENSIONE: LEON RUSSELL (Life Journey)

LEON RUSSELL  Life Journey (Universal Music, 2014)



A leggere le note di retro copertina pare di trovarsi di fronte ad una sorta di testamento musicale in cui il settantaduenne Leon Russell allinea i suoi "maestri", un tributo a tutti i musicisti che ne hanno segnato la carriera (più due nuove composizioni scritte di suo pugno). Esce adesso che il viaggio-di vita-è quasi arrivato alla fine, come ripete più volte, evidentemente affranto dai tanti problemi fisici che lo perseguitano. Facendo i dovuti scongiuri si spera non sia così- anche se qualche buontempone, recentemente, ha pure messo in giro la "bufala" della sua presunta morte-perché il carismatico musicista dell'Oklahoma sta vivendo una seconda brillante giovinezza che sembra quasi una continuazione degli anni d'oro gravitanti intorno al carrozzone messo in piedi con Joe Cocker prima e dalle cause umanitarie promosse da George Harrison dopo, che lo videro protagonista e che lo portarono al centro della scena musicale americana tra il 1969 e il 1973, facendolo diventare il più grande turnista americano dell'epoca ma anche con un paio di dischi solisti da enciclopedia rock sul groppone ed un passato remoto di tutto rispetto alla corte di Phil Spector. Non esiste più lo straripante e fantasioso performer di quegli anni, ma è rimasto l'ineguagliabile feeling del saggio fuoriclasse capace di portare le canzoni-e che canzoni- verso i suoni che hanno caratterizzato tutta la carriera: blues, swing, R & B, country, jazz, dixieland (la sua contagiosa Down In Dixieland, posta in chiusura e suonata con la Dixieland Band di John Clayton è un omaggio al genere di New Orleans. Più che riuscito numero da big band.).
Già lo splendido The Union (2010) condiviso con sir Elton John aveva lasciato intravedere segnali positivi e l'ispirazione dei vecchi tempi andati, facendo dimenticare i tanti anni di oblio-la stessa cosa che sta succedendo all'ispiratissimo Elton John degli ultimi lavori. Con il baronetto inglese ancora dietro alle quinte come produttore esecutivo e con il veterano produttore di estrazione jazz Tommy Lipuma a dare consigli ("il miglior produttore con cui abbia mai lavorato" dice Russell),  Life Journey è a suo modo un piccolo classico-costruito sui classici dell'american songbook-che ammalia da cima a fondo senza mai stancare, tenuto legato dall'inconfondibile voce strascicata e arrochita che serpeggia, graffia ancora nei momenti up-tempo, quasi commuove quando ci si rilassa, mettendo in campo il classico blues riletto e modificato (Come On In My Kitchen di Robert Johnson), trascinanti rock'n'roll guidati da un piano barrellhouse (la sua Black Lips), confidenziali evergreen che più classici non si puo' come Georgia On My Mind portata al successo dal suo mito di gioventù Ray Charles, I Really Miss You di Paul Anka e I Got It Bad And That Ain't Good, tutte arricchite dalla presentissima sezione fiati della Clayton Hamilton Jazz Orchestra.
Fever ha l'indole rock'n'roll con la voce di Russell scatenata e protagonista assoluta che un solo attimo dopo sa veleggiare lentamente sopra alla sonnacchiosa pedal steel di Greg Leisz in Think Of Me e nella solarità country/soul/gospel di That Lucky Old Sun. E poi ancora numeri di alta classe come The Masquerade Is Over e New York State Of mind  di Billy Joel, anticipata da una personale intro e riletta con  devozione e bravura, non perdendo per strada nulla dello skyline metropolitano dipinto da Joel a suo tempo, nonostante Russell abbia dichiarato di conoscere solo vagamente la canzone, prontamente propostagli dal produttore Lipuma.
Classe infinita. "Master Of Space And Time" ancora una volta, non l'ultima. Vero
Russell?


vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)



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vedi anche RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)



giovedì 10 aprile 2014

RECENSIONE: BIGELF (Into The Maelstrom)

BIGELF Into The Maelstrom (Insideout Music, 2014)




La creatura di Damon Fox cresce come un fungo allucinogeno lasciato sotto il sole californiano (loro sono di Los Angeles): le radici nel passato, le nefaste conseguenze, per chi lo coglierà e lo assaggerà, nel futuro. Sono passati ben sei anni e tanti problemi (cambi di formazione, problemi con l'etichetta discografica) dall'ultimo album in studio Cheat The Gallows, e venti dalla nascita, ma la vena compositiva deviata è rimasta ben salda dentro il cilindro calato nella testa di Fox, ormai diventato un one man band assoluto, dopo la dipartita degli altri membri storici del gruppo che lo hanno lasciato solo al momento della stesura delle canzoni, ma comunque sostituiti su disco da Luis Maldonado alle chitarre (buon lavoro il suo) e Duffy Snowhill al basso (comunque in formazione dal 2000). L'arrivo in soccorso di Mike Portnoy (ex batterista di Dream Theatre e mille altri progetti), un presenzialista a cui non si può certamente negare la passione musicale e un posto in squadra, ha riportato la voglia di ripartire in quarta, unitamente agli studi di registrazione Kung-Fu Gardens messi a disposizione da Linda Perry (ex 4 Non Blondes) che ha collaborato anche alla stesura di Already Gone e agli occhi vigili in produzione di Alain Johannes (Queens Of The Stone Age, Them Crooked Vultures tra i suoi lavori).
La musica dei Bigelf è rimasta la stessa tinozza piena e strampalata di sempre, forse meno sorprendente e a volte perfino (fintamente) confusionaria nell'eccesiva ricerca del grandeur d'effetto (chi? i Queen?) che rischia di perdersi o anche farci perdere le mille intuizioni sparse un po' ovunque, ma sempre affascinante e con un po' di attenzione si potranno cogliere tutte le sorprese nascoste dietro ad ogni angolo di questo lungo viaggio temporale all'interno della mente umana: le care melodie beatlesiane sparse un po' ovunque (Already Gone, Theater Of Dreams), teatralità glam grandguignol (The Professor & The Madman, Mr. Harry McQuhae) e allucinata (Vertigo), crescendo progressive/psichedelici che riportano alla mente King Crimson e Genesis (gli otto minuti del viaggio finale ITM), la nuova direzione fantascientifica e apocalittica (l'accoppiata iniziale Incredible Time Machine, Hyperspeed), tastiere e il groove dettato dalla pesantezza delle chitarre sabbathiane (Alien Frequency, Control Freak), schegge indefinibili di pazzia musicale (High, Edge Of Oblivion) si prendono per mano ed iniziano a girare in tondo veloci, sempre più veloci fino a portare allo stordimento, lanciando la follia compositiva in ogni direzione.
I Bigelf sono creatura non per tutti, da maneggiare con cautela, da prendere a piccole dosi inizialmente. Quello che in principio potrebbe sembrare uno spocchioso calderone vintage ha le capacità di tramutarsi in una esperienza esaltante e letale. Se vi lasciate coinvolgere nel vertigo è finita.



vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS- The Winery Dogs (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE NASHVILLE PUSSY- Up The Dosage (2014)


giovedì 3 aprile 2014

RECENSIONE: MATT WALDON (Learn To Love) & INTERVISTA a MATT WALDON

MATT WALDON Learn To Love  (Arkham Records, 2014)




Dopo Ottobre arriva Novembre. Sempre Autunno è. La stagione delle sfumature più belle e intense è ancora una volta la preferita di Matt Waldon, schietto cantautore veneto con la spiccata dote dell'introspezione e l'onestà del buon ragazzo che non pretende di sgomitare troppo per farsi largo, lasciando alle sole canzoni il compito di parlare. Il primo singolo Under Your Breath ha la lingua giusta per farlo: un lieve violino ad allungare le lettere delle parole (Micol Tosatti), la sua voce doppiata (da Samanta Gorda) e la chitarra elettrica di Kevin Salem a mettere la punteggiatura finale. Le radio americane già se ne sono accorte.
Questo suo secondo lavoro, concepito lungo l'infinita strada che da Padova e Rovigo porta a Woodstock, NY, dove è stato effettuato il missaggio ad opera di Kevin Salem, si presenta in modo ancor più omogeneo rispetto al precedente e già ottimo Oktober (2012). Mancano i graffi rock che grattavano la superficie ma quest'ultima si è fatta più compatta, distesa e accomodante e tutto si concentra nei trenta minuti costruiti con dovizia e bravura su acustiche ballate che sembrano nate lungo i pochi minuti che separano le amare passeggiate tra la tranquillità dell'alba e l'arrivo frenetico del giorno, tra i pensieri persi in un tramonto e la misteriosa pace notturna dell'oscurità. Un tempo ristretto della sua vita messo in musica. Un attimo fuggente, colto, masticato e suonato con strumentazione quasi totalmente acustica e gravitante tra i pianeti dell'amato Ryan Adams più introspettivo e le stelle mai cadenti di alcuni passaggi che mi hanno ricordato Steve Earle o le ultime produzioni del vecchio giaguaro John Mellencamp, quelle targhate T Bone Burnett, come nella bella You Can Run As Far, con la slide di Enrico Ghetti, la batteria di Giampietro Viola, il basso di Damiano Marin e la fisarmonica di Walter Sigolo che giocano intimamente-ma intensamente-di squadra. Nella sua pur breve mezz'ora di durata, il disco è ricco di buoni spunti: a partire da un ospite di prim'ordine come l'amico Neal Casal (lunga carriera solista ma anche nei Cardinals di Ryan Adams, nei lisergici Chris Robinson Brotherhood e gli ultimi arrivati Hard Working Americans) che presta la sua chitarra elettrica e accompagna Learn To Love verso l'alta perfezione. Per Matt un bel sogno che si avvera, per noi una bella canzone da ascoltare.
L'aspetto acustico che pervade tutte le canzoni (gli umori cangianti di Fast Clouds, l'opener Broken, la notturna e tesa Devils On The Feeway)  ha un sussulto nel tenebroso e riuscitissimo border folk che ispira l'armonica di Kevin Salem, riportando alla mente il vecchio Tom Russell, ma anche il primo e ruspante Ryan Bingham di Mescalito.
Mi piace sottolineare, inoltre, la bella rilettura a tutta band di New York City, canzone di Keith Caputo (ora Mina Caputo, dopo il cambio di sesso), ex cantante dei Life Of Agony che iniziò la sua carriera solista con Died Laughing-disco che consiglio sempre vivamente (vedi riquadro sotto)- e da cui è estratta questa cruda ode alla città di New York, che Matt ha fatto sua dopo un viaggio nella grande mela. Completano due bonus track: l'intima e folkie per sola voce e chitarra Moon Kills Sun e la particolare Sweetness con il piano di Mrmichael in primo piano.
(Enzo Curelli)


INTERVISTA  a MATT WALDON
Finito l’ascolto, è chiara la differenza con il precedente ‘Oktober’. Questo è un disco più compatto, omogeneo e quasi esclusivamente acustico, figlio, credo, di un tempo ristretto e delimitato della tua vita. Come è nato?
È nato un po’ per caso, avevo brani pronti per 2 dischi, brani completamente diversi tra di loro, metà acustici e di stampo chiaramente folk e metà molto più rock e chitarristici. L’idea iniziale era di fare il disco rock e più commerciale, poi riflettendoci bene l’idea dell’acustico ha finito con il conquistarmi, forse più azzardata come scelta ma i brani di questo Learn To Love rispecchiano di più quanto vissuto personalmente durante quest’ultimo anno.

Quindi possiamo attenderci un altro disco a breve?
A breve non penso, questo disco e' stato veramente sofferto e mi ha proprio spremuto molto a livello di risorse, i brani ci sono ma non e' matematico che debba usare proprio quelli per un nuovo disco! Vedremo insomma, comunque qualcosa a breve certamente no.


Tempo fa, se non ricordo male, su facebook facesti anche un gioco/referendum chiedendo ai tuoi contatti come avrebbero voluto il tuo prossimo disco: acustico o elettrico. E’ stato determinante anche questo esito o era solo un gioco, appunto?
Vedo che mi segui e hai una buona memoria! Ah ah... Volevo tastare un po’ il polso della gente che ascolta la mia musica per capire un po’ in che versione piacevo di più, ma il referendum non è stato per nulla decisivo, lo è stato forse il consiglio di un amico nonché gran musicista che poi ha collaborato al disco (Neal Casal).

Ecco Neal Casal. Dopo anni di amicizia, Neal Casal ha suonato in un tuo disco. Soddisfatto? Hai ascoltato le sue ultime collaborazioni con Chris Robinson e con gli Hard Working Americans, cosa ne pensi?
Soddisfatto? Diciamo che ho realizzato un mio sogno! Siamo sempre rimasti in contatto in questi anni ed è sempre stata una persona splendida e disponibile con me, disponibilità che mi ha spiazzato anche in questo caso. In realtà ci eravamo sentiti anche quando stavo registrando “Oktober” ma in quel periodo lui era presissimo nel progetto con Chris Robinson e non aveva tempo materiale per collaborare al mio disco. Inizio a godermi ora piano piano questo suo immenso regalo, ascolto dopo ascolto, quando mi arrivarono le sue registrazioni di chitarra non transitavo attraverso uno splendido periodo personale e non ebbi modo di godere a pieno. Si certo che lo seguo, i due progetti che ha intrapreso sono molto differenti a livello musicale tra di loro, con Chris esplora sonorità musicali che ci riportano un po’ alle atmosfere psichedeliche dei Grateful Dead & degli Allman Brothers con gli Hard Working lo stampo è più classico e tipico della country roots music sudista.

Tra le canzoni che più mi hanno colpito,c’è The Heart Is A Lonely Hunter. Sembra staccarsi dal resto, una border song che mi ha ricordato il vecchio Tom Russell, ma anche il primissimo Ryan Bingham, c’è qualche bella storia dietro?
Non sei il primo tra le poche persone che hanno già ascoltato il mio nuovo disco ad accostare questo brano a Tom Russell, in realtà non ho seguito molto la sua musica e di quel poco che ho ascoltato in realtà nulla mi ha attratto in maniera così decisa, in ogni caso mai dire mai! Bingham invece lo seguo e l’ho ascoltato molto di più ma penso che questo brano sia figlio un po’ di un esigenza mia di voler provare ad esplorare sonorità e situazioni musicali non abitualmente praticate

Keith Caputo. Con me tocchi un nervo scoperto. Adoro il suo primo disco solista Died Laughing (vedi riquadro sotto), ma lo seguo fin dai tempi dei Life Of Agony (il mio periodo pane e metal), mentre ora sembra giunto ad un bivio importante della sua vita, il cambiamento di sesso. Perché hai scelto la sua New York City?
Adoro anch’io quel disco, è da li che l’ho conosciuto/a musicalmente ed ho continuato poi a seguirlo/a. E sempre stato/a un cantautore che con le sue canzoni ha saputo trasmettermi carica in un condensato di rabbia e rivalsa toccando temi ed aspetti della vita a volte scomodi. Ho scelto New York City perché forse tra i suoi tanti brani scritti era quello che più si adattava al contesto acustico del mio disco e a come volevo riarrangiarla, e poi quando decisi di inserirla nel disco arrivavo da una splendida mia prima volta nella Grande Mela e la saudade da metropoli ha in parte influito su questa scelta.

Come promuoverai il disco?
Sulla strada, on the road come si dice, su palchi, club conosciuti e meno conosciuti, perché è li che vive la vera musica.


KEITH CAPUTO-Died Laughing (2000). Un’esistenza scandita da tante cicatrici mai rimarginate completamente. Prima mimetizzate dal pesante suono HC/Metal della sua band, i newyorchesi Life Of Agony, poi lasciate in solitaria evidenza nella superficie ingannevole del trascorrere del tempo, in seguito curate dai suoi dischi solisti, che si staccano completamente dal suono della band, rifugiandosi nel cantautorato rock, acustico, intimistico, a tratti anche beatlesiano, pop e west costiano, con qualche fulmine elettrico, lascito della "sua" poco fortunata e depressa generazione grungy. I testi autobiografici sono quelli di una persona cresciuta sola che ha perso entrambi i genitori in giovane età, divorati dall’eroina e di chi non è mai riuscito a trovare il proprio io ('Selfish'), confermato dal recente cambio di sesso. Ora Keith Caputo è diventato Mina Caputo. Ora forse è felice. Una vocalità straordinaria e canzoni che toccano i nervi scoperti: la terribile infanzia negata ('Brandy Duval', 'Razzberry Mockery'), la cruda dedica alla sua città ('New York City'), un riuscito omaggio a Kurt Cobain, dove punta il dito anche sui fan, nella quasi jazzata 'Cobain (Rainbow Deadhead)'. Un disco “confessione”, intenso e sofferto che rispecchia fedelmente i tormenti del suo autore. (Enzo Curelli)






vedi anche RECENSIONE: MATT WALDON- Oktober (2012)
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vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS-J.A.B./CRISTIANO CARNIEL (2014)

lunedì 31 marzo 2014

RECENSIONE: JOHN GORKA (Bright Side Of Down)

JOHN GORKA Bright Side Of Down (Red House Records/IRD, 2014)




John Gorka è uno dei migliori impressionisti folk dell'America d'oggi. Un songwriter dall'andatura sempre prudente. Gentile, nostalgico, intimo, raffinato e meticoloso che non ha mai messo fretta alla sua vena compositiva, un coerente, uno che si trova bene ai margini, davanti alla vetrata di un diner a tarda sera ad osservare, riflettere e contemplare dopo una giornata di lunghi spostamenti, dopo aver visto paesaggi, neve, sole, uomini, donne e colori. Bright Side Of Down è il suo dodicesimo disco in carriera e non sfugge alle caratteristiche dei predecessori: voce calda e rassicurante, tenui impianti acustici, semplici arrangiamenti ad accompagnare liriche di vissuto (le vere protagoniste nella sua musica)  nate sulla strada, cresciute con la spada del tempo puntata, seguendo gli umori e i colori dettati dalle stagioni. Si parte dallo spigoloso inverno, si arriva alla tenue primavera (Really Spring), dalla morte delle speranze alla rinnovata rinascita. "Penso che questa nuova raccolta di canzoni possa aiutare il corpo ad attraversare il freddo per arrivare alla primavera". "Ogni primavera è una vittoria quando gli inverni sono così freddi" canta in Thirstier Wind.
Il suo vissuto nel freddo Minnesota questa volta è stato ancora più determinante per creare l'intimità folk delle undici canzoni che non hanno la pretesa di farci fare un sussulto ma chiedono solamente di essere ascoltate, comprese, lette nei tanti dettagli lasciati dall'autore.
Saggi di vita per sola voce e chitarra (Don't Judge A Life) raccontati in prima persona (Outnumbered), positività quotidiana trainata dal violino (Mind To Think), corti e spensierati inni d'amore scritti per la figlia (Honeybee), la solarità contagiante di More Than One, l'aiuto di fidati amici (Eliza Gilkyson-appena uscito anche il suo The Nocturne Diaries- , Lucy Kaplansky in Bright Side Of Down, Claudia Schmidt in Procrastination Blues), la rilettura di She's That Kind Of Mystery di Bill Morrissey (un altro amico scomparso solo tre anni fa) fanno da contorno ai pensieri più profondi e attuali di High Horse ma soprattutto ai colpi di spazzola e fisarmonica che introducono Holed Up Mason City, canzone che da il via a tutto, narrandoci di un Gorka in balia di una bufera di neve nella città di Mason City, nello Iowa, tristemente famosa per essere stata la città da dove partì l'ultimo volo aereo che condusse Big Popper, Buddy Holly e Richie Valens verso il paradiso del rock'n'roll. Canzone che diventa pretesto per riflessioni e visioni: "At the Big Bopper Diner there's bunch of stranded refugees/ And nobody's talking or looking very eager to please/ In a booth I saw Buddy Holly's ghost, writing to the girl he loved the most/ Holed up in Mason City, the future isn't ready tonight".
Se la coerenza in musica molto spesso viene scambiata per ripetitività, fino a diventare un difetto, nel suo caso è un sigillo al valore. Chi lo segue fin dall'esordio I Know (1987) vuole questo. Un disco rassicurante e sincero, specchio dell' autore, solo per questo vero e meritevole di un ascolto.



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vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)

lunedì 24 marzo 2014

RECENSIONE: JOHNNY CASH (Out Among The Stars)

JOHNNY CASH  Out Among The Stars (Columbia/Legacy, 2014)


L'uomo in nero sbiadito che si presenta agli albori degli anni ottanta è un Johnny Cash che stava precipitando ancora in disgrazia: inciampa nuovamente nelle rovine della bulimica dipendenza da sostanze chimiche, confermando che tra gli inarrivabili alti vi erano ancora i tanti profondi abissi che lo accompagnarono lungo tutta la carriera, tanto che la famiglia lo convinse persino al ricovero presso la clinica di riabilitazione Betty Ford Center a cavallo tra il 1983 e il 1984. Lui ne uscì quasi rinato. Non solo, l'allontanamento di Marshall Grant, da trent'anni fedele compagno musicale come bassista nei Tennessee Three, lascerà tanti strascichi personali ma anche legali. In più: i tanti problemi fisici che il suo corpo deve sopportare-incidenti vari, ricoveri e operazioni sembrano diventare routine quasi giornaliera nella sua vita- e non ultima una scampata rapina nel 1981 dipingono nell'insieme un quadro non propriamente esaltante attorno ad un uomo che dietro gli abiti neri pareva nascondere nefaste striature che solo la sua smisurata fede in Dio riusciva a raddrizzare, mitigare e spiegare.
Nonostante tutto, alcuni dischi dell'epoca come Silver (1979), Rockabilly Blues (1980), e soprattutto Johnny 99 (1983), un primo vero anticipo delle American Recordings che arriveranno dieci anni dopo e costruito frugando tra il bianco e il nero contenuti in Nebraska di Bruce Springsteen, sono piccole perle degne dei tempi migliori, quanto meno il segnale che l'allora cinquantenne artista era ancora vivo e vegeto (gli occhi della morte, in quegli anni, lo avevano puntato più volte). Quello che mancò veramente fu il grande pubblico. Johnny Cash non era più l'eroe di vent'anni prima, la casa discografica sembrava averlo abbondonato al suo destino con poco rispetto, le sue trasmissioni televisive non avevano più i numeri di un tempo, MTV stava prendendo le sembianze di un uragano spazza tutto (pure Cash ci cascò nel terribile ma ironico video di Chicken In Black del 1984), altri personaggi, altri suoni e altra musica catalizzavano l'attenzione, e nemmeno l'unione delle forze fra vecchi "eroi" e "sopravvissuti" riuscì nell'intento di riportare in auge certe sonorità e antichi fuorilegge: prima, nel 1981 con i concerti insieme a Jerry Lee Lewis e Carl Perkins che diventeranno un disco, poi il più riuscito progetto Highwaymen con Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson nel 1985, che fu bissato qualche anno dopo e molto probabilmente sarà triplicato prossimamente, stando alle voci (naturalmente senza le insostituibili pedine Cash e Jennings, ma con un Merle Haggard della partita) .
Il ritrovamento di questo "disco perduto" per mano del figlio John Carter Cash, ci dimostra quanto, a undici anni dalla morte, la musica di Jonny Cash riesca ancora a catalizzare l'attenzione, accendere gli animi e far sanguinare i cuori. Sembra l'uscita di un artista ancora in vita. Altro che anni ottanta. Le dodici canzoni furono registrate tra il 1981 (solo due escono dalle session del deludente The Baron negli studi Columbia) e il 1984-la maggioranza con un Cash ripulito e brillante- lavorato insieme al produttore Billy Sherrill, e musicisti quali l'allora giovanissimo Marty Stuart (alla chitarra e al mandolino), Jerry Kennedy (chitarra), Pete Drake (steel guitar), Hargus "Pig" Robbins, Bobby Wood (pianoforte), Kenny Malone (batteria), Terry McMillan (armonica) e Henry Strzelecki (basso), a cui è stata aggiunta una pennellata di moderna post produzione da parte di Steve Berkowitz che ha visto coinvolti in studio lo stesso Marty Stuart, il grande Buddy Miller, Jerry Douglas, Laura Cash, Carlene Carter e molti altri. Canzoni che vanno a tappare un piccolo buco della sua carriera artistica, dimostrando quanto i brani che all'epoca furono messi in stand-by e dimenticati chissà dove dopo la brutta rottura con l'etichetta Columbia avvenuta dopo trent'anni di collaborazione, ora, nell'anno 2014, sono una benedizione dal cielo. Indispensabili per riconnetterci con il personaggio-anche un po' influenzati dall'effetto nostalgico e di deja vu in cui ci fanno cadere, ammettiamolo-e ridare una nuova pennellata di nero ai suoi abiti.
Pur se l'inconfondibile imprinting dato all'epoca dal produttore Billy Sherrill è ancora percettibile, nonostante sia stato anche smussato in post-produzione, in queste dodici canzoni, (tutte riletture tranne due autografe) c'è tutto l'universo di Cash. Il classic country di Out Among The Stars, Tennessee, la sua Call Your Mother, il talkin' che cresce If I Told You Who It Was con un cameo dell'attrice Minnie Pearl; i celeberrimi duetti con l'adorata moglie June Carter nella veloce, rutilante e riuscitissima Baby Ride Easy di Richard Dobsone e in Don't You Think our Time Will Come; c'è il Johnny Cash esistenzialista e solitario vicino alle American Recodings di Rick Rubin in She Used To Love Me A Lot (già incisa dal suo autore David Allan Coe), anche se sembra di averla ascoltata mille volte all'interno della sua sconfinata discografia, la profonda voce arriva diritta al cuore con tutta la forza per diventare un nuovo classico da ricordare, la canzone è pure uscita come singolo in vinile, presentando, nella facciata B, un remix curato da Elvis Costello; c'è l'indomito animo rock della vecchia Memphis in Rock And Roll Shoes, quello polveroso e da strada in I'm Movin On di Hank Snow, canzone che non ha bisogno di troppe presentazioni se non dire che qui è cantata con l'amico Waylon Jennings e che il solo di chitarra sembra tagliato troppo in fretta nel finale; c'è l'amore, l'immancabile fede e la redenzione in After All e l'atuobiografica I Came To Believe. "Sono arrivato a credere ad un potere molto superiore a me".
Quando escono dischi come questo, ci si chiede spesso: ce n'era bisogno? Sì, è la mia risposta, tanto che le stanche rughe che appaiono nel video di Hurt (2002), una delle ultime testimonianze pubbliche in video di Cash prima di morire, sembrano dissolversi lasciando spazio ad un acciaccato ma ancora baldanzoso cinquantenne di nero vestito. Un nero luccicante.




vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)





vedi anche RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO-Images 13 (2014)




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(2014)



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mercoledì 19 marzo 2014

RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO (Images 13)

DEX ROMWEBER DUO  Images 13 ( Bloodshot Records /IRD, 2014)


Inquietudine. Di quella positiva, se mai esistesse in qualche piega nascosta delle nostre menti. Questo è lo stato in cui mi fa cadere Images 13, terzo lavoro del progetto Dex Romweber Duo e la canzone finale Weird (Aurora Borealis) (scritta da Harry Lubin ed estrapolata dalla colonna sonora di un vecchio show televisivo), è una intima, minimale e inquietante traccia strumentale, quasi tribale nel suo ipnotico incedere, che congeda l'ascoltatore e conferma la mia ansia. Il buio e la luna piena che scorgo dalla finestra amplificano il tutto all'ennesima potenza. Sento ululati sulla collina.
Il chitarrista Dex Romweber è un veterano con carisma da vendere, anche se giovanissimo nei suoi quarantasette anni d'età, di quelli che hanno girato di notte i più malfamati sottoboschi musicali, quelli dove la luna piena entrava dalle finestre di un sottoscala e perforava le menti solo per far danni, quelli dove rockabilly, country e surf scorrevano come rigoli di sangue amaro sopra i palchi e scendevano giù dalle scale che conducevano ai maleodoranti cessi di qualche locale infimo. Uno con una cultura musicale immensa, capace di ripercorrere la storia americana ma anche attraversare l'oceano e approdare in Gran Bretagna: si parte da Eddie Cochran e Johnny Cash, si passa dal sempre dimenticato Link Wray, i Blasters e i Cramps, si arriva a Kinks e Who. E poi, vuoi lasciare fuori l'Australia di Nick Cave?
Uno a cui Jack White e Black Keys dovrebbero erigere un monumento: in verità, White già lo fa, indicandolo come uno dei suoi punti di riferimento musicali. Dex Romweber insieme alla versatile sorella Sara-che siede dietro alla batteria- si è inventato questo duo che ha il maggior pregio nell'approccio  secco e minimale alla musica, pur seguendo quanto già fatto con la sua vecchia band Flat Duo Jets, attiva dal 1990 al 1999 e nata sulle ceneri ancora ardenti della scena post-punk  di Athens e dedita ad un psycho punk travolgente ed energico che comunque rimane in scaletta, diventando solo una parte dei suoi nuovi orizzonti musicali, costruiti su: abbondanti dosi di garage suonato senza fronzoli, gothic blues, oscuro country'n'roll (Beyond The Moonlight), caldi sipari latineggianti, e sinistri temi surf (la strumentale Blackout! con l'immancabile riverbero della chitarra "alla Dick Dale", anticipata da un altro nero strumentale Prelude In G Minor) che farebbero faville nelle pellicole di Quentin Tarantino (la frizzante-ancora strumentale-Blue Surf).
Difficile non farsi conquistare dalla rocambolesca e ringhiosa apertura (Roll On), riscaldamento per la sua chitarra; dalle atmosfere pop '60 della conosciuta So Sad About Us degli amati e fonte d'ispirazione The Who che vede la partecipazione di Mary Huff alla voce; dalla ballata dark a ritmo di lento valzer in stile '50 di I Don't Want To Listen cantata con voce baritonale da consumato crooner; da We'll Be Togheter Again, altro lento con più luce, composto da Sharon Sheeley, compagna del povero Eddie Cochran. La canzone fu scritta dopo la morte di Cochran, ma mai nessuno la pubblicò. Romweber ne è venuto in possesso e l'ha fatta sua in maniera splendida.
Ma anche la nostalgica Baby I Know What It's Like To Be Alone, gli inserti calypso che si introducono tra le pieghe rock'n'roll di Long Battle Coming, e il folk di One Sided Love Affair, ballata scritta da Johnny Burnette. Lasciano tutte il segno. La lunga linea compresa tra romantico dramma e alta tensione che percorre l'intero disco (sono solo trenta minuti e una decina di minuti in più li avrei apprezzati) scorre piacevole e veloce. Il mio disco rock'n'roll di Marzo.




vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST- Warsaw Holiday (2014)
vedi anche RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS- English Ocean (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH- Out Among The Stars (2014)



venerdì 14 marzo 2014

RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS (English Oceans)

DRIVE-BY TRUCKERS English Oceans (ATO, 2014)



Un altro bel passo in avanti che non ti aspetti. Non musicale-da loro sappiamo cosa aspettarci- ma di solidità e longevità. Sono passati tre anni-tanti per i loro canoni-dal rilassato, nero e trascinato (con classe) Go-Go Boots (in verità nato già come un sequel di The Big To-Do), ma la band texana di Patterson Hood e Mike Cooley (ampio il suo apporto in fase di scrittura questa volta) dimostra di non avere ancora le pile completamente scariche dopo vent'anni di onorata carriera e il prestigioso merito di aver tenuto alto il vessillo di un certo modo di suonare e vivere il rock tutto americano, impreziosito da liriche sempre al di sopra della media, anche qualcosina in più come dimostrato anche questa volta nell'attacco politico di The Part Of Him e nei consueti dipinti quasi gotici delle terre del sud (l'up country alla Willie Nelson di First Air Of Autumn). Negli anni duemila, anni poveri e senza veri scossoni musicali, avere tutte queste caratteristiche e qualità è un pregio da difendere con i denti e loro sembrano farlo fin dall'attacco dell'iniziale e dura Shit Shots Count, chitarre che non lasciano il respiro se non nell'irruzione dei fiati, nel finale, che virano la canzone al suono di New Orleans. Fedeli agli stilemi dettati da loro stessi nella monumentale rock opera sudista che ha aperto il nuovo millennio (Southern Rock Opera del 2001) dove southern rock e americana convogliavano a nozze per non separarsi più, English Oceans è un disco che guarda più a quel passato, spogliandosi di tutti gli orpelli superflui e maestosi dell'altro ieri (nuovamente cambi in formazione intorno ai due leader, questa volta ad abbandonare i camionisti sono Shonna Tucker sostituita da Matt Patton proveniente dalla band ‘The Dexateens’ e John Neff , mai sostituito) registrato in pochi giorni e con il groppo in gola dopo la scomparsa di Craig Lieske, roadie tuttofare del loro entourage, a cui il disco è dedicato. La lunga, malata e conclusiva Grand Canyon è tutta per lui.
Ne hanno beneficiato l'immediatezza e la schiettezza. Le chitarre riprendono il comando del suono, correndo nervose come il vecchio "cavallo pazzo" montato da Neil Young (When He's Gone, Hearing Jimmy Loud), il pianoforte è una presenza gradita e sempre vivace nel riempire i pochi buchi della loro musica come avviene in Til He's Dead Or Rising e nel bellissimo e sbilenco honky tonk Natural Light , e quando cala l'oscurità sulle terrose strade del sud, calano anche i ritmi ma non l'intensità: Made Up English Oceans, Hangin On, la pianistica When Walter Went Crazy sono ballate amare, condite dalla consueta ironia, ma distese e pacificanti. Nessuna novità, ma non è questo che ci si aspetta da un gruppo come loro.  Band da tenere stretta stretta.






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martedì 11 marzo 2014

RECENSIONE:LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS (J.A.B.) & INTERVISTA A CRISTIANO CARNIEL

LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS  J.A.B. (autoproduzione, 2014)



Vuoi fare l'americano? Fallo almeno bene. Questa è una regola non scritta che pochi seguono, ma quei pochi che lo fanno sono degni, degnissimi di nota, tanto da meritare lande musicali più vaste dei nostri traballanti e miopi confini nazionali, e gli esempi in questi ultimi anni sono fortunatamente tanti. I Little Angel & The Bonecrashers, band del varesotto attiva dal 2000, arrivano al secondo album con dieci canzoni autografe che sono una piccola lezione di umiltà e rispetto verso un'intera scena musicale talmente vasta  che il rischio di perdersi è alto e sempre in agguato: si  parte dalle radici e si arriva agli albori di quell'alt country che è stato una delle ultime vere novità che ha condizionato, anche per vie traverse, tutte le nuove generazioni di musicisti americani.
In mezzo, a tenere tutto unito, lo swamp rock, la lezione di band universali, buone per ogni occasione, epoca e pubblico, come i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty (ascoltate l'iniziale country/rock Harry's Wife e capirete). I Little Angel &The Bonecrashers sanno fare gli americani, non per puro spirito d'emulazione ma per vero amore verso un suono ruspante (tre chitarre in formazione), caldo e dal fascino incalzante che alza polvere sulle secche strade e che la simpaticissima copertina vuole anticipare prima ancora di leggerne i titoli e ascoltare le canzoni. Ma anche viaggiare a passo lento lungo il nulla del deserto, tra meditazione, sogno e contemplazione del paesaggio: la lentezza ha il suo fascino. C'è il loro cuore che pulsa in queste dieci canzoni. Si sente.
"La cultura, anche se bassa, come la musica che noi suoniamo, ti rende più bello. Dentro (darei un braccio per farvi provare quello che sento quando suono qualcosa che mi piace o quando una canzone mi si aggrappa allo stomaco) e anche fuori (i Little Angel quando suonano insieme sono bellissimi, cieco chi non se ne accorge). Scrivono nel loro profilo facebook.
Difficile etichettarli, perché il gruppo guidato da Cristiano Carniel  sa trottare in solitaria per gli ultimi lunghi e misteriosi viaggi ( My Last Ride con la chitarra ospite di Davide Buffoli) come farebbe un Johnny Cash spirituale davanti alle sue amate ferrovie; adagiarsi pigramente sopra ai tasti di un pianoforte (suonato da Agostino Barbieri) in Birdies; avanzare sardonicamente in Troubled Everyday, canzone che si alza e si abbassa seguendo umori cari a Neil Young; girare intorno ad un valzer western (Cowboy's Prayer); cavalcare il suono rock e ruspante che esce da 1000 Miles Amelia; sprigionare vivacità nell' autobiografica e ironica Just Another Band, nella spensieratezza di Regrets (Sweet Revenge Song); il tutto legato dalle buone armonie vocali (oltre a Carniel, alla voce anche i due chitarristi Stefano Tosi e Andrea Bergamin, completano la formazione: Marco Sola alla batteria, Gianluca Lavazza al basso). Veri, freschi e vivaci: può bastare?


INTERVISTA
Due parole con Cristiano Carniel, voce e chitarra del gruppo.
Come è nata la band?
"I Little Angel & the Bonecrashers nascono sul border Milano-Varese nel 2000. Cinque amici di lunga data con diverse collaborazioni in band musicali della zona del varesotto. L'idea di partenza è, dopo molti anni passati a suonare nei locali quello che piace alla gente, di suonare finalmente quello che piaceva a noi: Los Lobos, Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Eagles, Creedence Clearwater Revival, Neil Young e la per noi bellissima musica che in quegli anni arrivava dal movimento alt-country. Quindi le prime scalette vedevano brani degli Uncle Tupelo, tra gli altri, vicino a pezzi dei mostri sacri di cui sopra. Nel 2003 registriamo un demo di  sei cover e a marzo 2006 esce il primo cd che contiene 6 brani originali e 3 cover. Nel novembre 2008  abbiamo aperto il concerto della cantautrice americana Sarah Pierce e nell'ottobre 2009 partecipiamo per la prima volta al Townes Van Zandt Tribute (bis nel 2013).

 Una delle cose che si notano maggiormente è la vostra totale immersione nella tradizione musicale americana, tanto che è difficile inquadrarvi in un solo genere, quindi vi ho inquadrato in un gruppo: i Creedence Clearwater Revival. Totalizzanti. Cosa ne pensi?
Penso che hai fatto centro. Come puoi ben immaginare, è difficile che cinque persone abbiano gli stessi gusti musicali. E così è per noi. Qualcuno è appassionato di country, qualcuno predilige il punk e qualcuno addirittura l'heavy metal (penso che l'ultimo concerto a cui sia stato Totò (Stefano Tosi) sia stato quello degli Slipknot o dei Ramstein, non ricordo bene, 'not my cup of tea'. Però ci sono tre o quattro gruppi/artisti per cui tutti e cinque nutriamo una passione sfrenata: Creedence Clearwater Revival, Uncle Tupelo, Los Lobos e Johnny Cash. Quando qualche anno fa John Fogerty venne all'Alcatraz eravamo tutti e cinque sotto il palco. Fu una messa celebrata dal reverendo Fogerty. Noi i suoi adepti. Non ti nascondo che ogni volta che predo in mano la chitarra per vedere se c'è un pezzo nuovo pronto ad uscire, l'idea è quella della "3 minutes song" dei Creedence. Semplice ma non banale e che faccia cantare e ballare tutti quelli che l'ascoltano".

E’ ormai un obbligo chiedere ad una band con il proprio repertorio originale, che difficoltà incontra nel trovare date e locali per suonare in Italia senza essere una cover band. Voi come siete messi? Il brano Just Another Band sembra collegarsi anche a questo.
Noi abbiamo iniziato come cover band. Solo pezzi che piacevano a noi però. Abbiamo poi iniziato a inserire qualche pezzo nostro e adesso abbiamo una scaletta con il 75% di brani originali e il 25% di cover (sempre riarrangiate e ripensate "a modo nostro" comunque). Siamo stati fortunati perché sul nostro cammino abbiamo incontrato due persone senza le quali non saremmo riusciti ad arrivare fino qui. Una è Max, il proprietario del Nidaba Theatre di Milano, a cui abbiamo inviato il nostro primo cd, senza conoscerlo di persona e senza nessuna "raccomandazione". Lui se l'è ascoltato e ci ha chiamato a suonare nel suo locale. Le serate al Nidaba, davanti a un pubblico che viene per ascoltare quel tipo di musica, diciamo un pubblico competente, sono state una delle migliori palestre per il gruppo e per il suono. L'altra è Claudio Giuliani del Buscadero che crede in noi più di quanto ci crediamo noi stessi. E ci ha dato la possibilità di aprire per qualche artista americano che si esibiva dalle nostre parti, più di una volta. In questo momento trovare date è molto difficile. I locali cercano la via più semplice per fare incasso (le tribute band per esempio) e di gestori appassionati ce ne sono sempre meno. Tieni conto poi che paradossalmente in un momento in cui la comunicazione dovrebbe essere semplice, visti i mezzi a nostra disposizione (mail, facebook, ecc.), tutto diventa più difficile. Passi i giorni a mandare mail o cd che nessuno leggerà, né ascolterà.

Due parole sull’originale e intrigante progetto grafico...
"La grafica del cd è opera di Dario Arcidiacono, un mio ex collega di lavoro, (http://www.darioarcidiacono.org/) che su FB usa lo pseudonimo di Nom Couture e che già aveva disegnato il logo della band per il disco precedente. Ha questo stile "splatter" apocalittico con cui illustra temi di attualità internazionale. E ha anche ottimi riscontri. A maggio inaugura a Milano una sua esposizione. Il suo stile descrive efficacemente il modo ironico e scanzonato con cui scriviamo e ci presentiamo"


Tra le canzoni più particolari, mi ha colpito 1000 Miles Amelia. Come è nata?
"L'Amelia, chiamata anche la Millemiglia o la Bersagliera, era una signora che dagli anni '50 occupava ogni giorno una postazione fissa, qualsiasi tempo facesse, lungo una strada che collegava Castellanza (il paese da cui veniamo) a Busto Arsizio e "donava a tutti la stessa rosa". Dai nostri nonni a noi, tre generazioni l'hanno vista sempre là, sotto il sole o sotto la pioggia. Ci ha lasciato circa cinque anni fa. I giornali locali ne hanno tutti parlato. Non mi sorprenderebbe sapere che ai funerali ci fosse anche il sindaco. Un'istituzione delle nostre parti. La canzone è ispirata a lei".

Tra gli ospiti in My Last Ride (una delle mie preferite) c'è Davide Buffoli. Come vi siete conosciuti?
Davide Buffoli è ormai un amico di lunga data. Quando ancora i Little Angel non esistevano lo vedevo aprire i concerti di artisti americani organizzati da Carlo Carlini nella nostra zona. Non aveva ancora vent'anni, ma aveva già quel suono e quel tocco sullo strumento che fanno di lui, secondo me, uno dei più bravi chitarristi italiani. Grazie a Claudio Giuliani, i Little Angel e la Davide Buffoli Band hanno condiviso spesso lo stesso palco. È risultato naturale, nel momento in cui ci siamo ritrovati a volere un suono di chitarra diverso dalle nostre in una canzone (My Last Ride) del disco, rivolgerci a lui. E lui ha preso in mano la canzone, l'ha riarrangiata e gli ha dato quella veste che si può sentire sul disco. È stato poi un preziosissimo aiuto in fase di missaggio dove ha affiancato Atos Travaglini, il tecnico del suono dei Nomadi.

La classica domanda finale: progetti futuri a corto e lungo termine?
La domanda più difficile. In fin dei conti siamo dei dopolavoristi. Siamo già sorpresi di essere arrivati a incidere due dischi. Mai avremmo pensato di poter continuare a suonare insieme per quattordici anni. Prendiamo quello che viene. Qualche data nell'immediato futuro per promuovere il disco e poi sotto a scrivere i pezzi per il terzo cd.



vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)

vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)



 

lunedì 3 marzo 2014

RECENSIONE:JONO MANSON (Angels On The Other Side)

JONO MANSON  Angels On The Other Side (Appaloosa Records/IRD, 2014)

Jono Manson ha tre case: una negli States, nato e cresciuto-anche musicalmente a fine anni settanta- a New York, da più di vent'anni vive a Santa Fe nel New Mexico dove è stato registrato il disco e dove si porta la maggior parte del lavoro da produttore, una in Italia, sua seconda patria dove ha abitato per tre anni e custode di tanti amici musicisti (e non) sempre pronti ad accoglierlo per suonare, farsi produrre o semplicemente ospitarlo per godere della sua gioviale compagnia e sincera passione, la terza è
nel cuore umile della musica, rifugio dove sta a proprio agio sempre e comunque. Artista ben voluto e cercato, uno che non si tira indietro mai e che si è costruito il percorso musicale con la coerenza dei classici "piccoli passi ma ben distesi"-anche se il suo curriculum potrebbe impressionare- che lo hanno portato a registrare l'ennesimo buon album in carriera ( l'ultimo fu November  del 2008 se si esclude il progetto Barnetti Bros Band con i "fratelli italiani" Massimo Bubola, Andrea Parodi e Massimiliano Larocca) dove la consueta vena soul che abita imperiosa la sua preziosa ugola-caratteristica che lo accomuna e lo porta ad essere paragonato da sempre ad un mostro sacro come John Hiatt- lega il folk con il country, il country al blues, il blues al rock e con i testi (presenti tutte le traduzioni ad opera della meticolosa Appallosa Records) che evocano i fantasmi dei ricordi, gli spettri dell' amore, i misteri che tengono uniti i forti legami famigliari, la fede, i segreti nascosti dei grandi paesaggi naturali, creando un fascinoso concept dove la positività in tutti i suoi aspetti sembra brillare su tutto e penetrare la vita come il raggio di sole fa con il paesaggio in copertina. "Un album dedicato a tutti gli angeli custodi dall'altra parte e a quelli che vivono alla mia destra, qui in terra." Così Jono Manson chiosa nel libretto e canta nel delicato country d'apertura guidato dalla slide di Jay Boy Adams: "Perché ho ali sotto i vestiti/Ho i miei angeli custodi dall'altra parte/E ho abbastanza amore nel mio cuore/Per godermi il viaggio".
Io ci aggiungo: "Un' anima non è mai senza la scorta degli Angeli, questi spiriti illuminati sanno benissimo che l'anima nostra ha più valore che non tutto il mondo" . Lo diceva il monaco francese San Bernardo di Chiaravalle, uno che apparve perfino a Dante nel Paradiso della Divina Commedia.
Un disco positivo, di fede e speranza. Sospinto dall'energia illuminante di alcuni membri del gruppo texano Shurman che lasciano l'impronta soprattutto nei pezzi più tirati e rock: nel bar nascosto e vizioso che popola le nostre menti nel tiro southern di  Honky Tonk In My Mind, nelle chitarre garage di There's a Whole World On Fire, e nel trascinante blues da "american dream" spezzato di I'm Gonna Get It.
Angels On The Other Side è un disco a tre velocità ma con un'unica profondità. Oltre ai già citati episodi più elettrici e terreni, lascia il maggior segno  negli episodi intimistici e rallentati, ballate dove il leggero e arioso country si insinua tra famiglia e fede (Togheter Again, i contorni che contano nella stupenda The Frame la cui stesura risale a qualche anno fa), e tra le salvifiche e intense dichiarazioni d'amore di Angelica e Everething To Me, nella tenue brezza che soffia sopra il lato bello della natura (Silver Lining) sospinta dall'armonica dell'amico di sempre John Popper dei Blues Traveler e sceneggiata come piacerebbe ai suoi cugini registi, i fratelli Coen; ma anche nei mezzi toni melodici di Snowed It, soffice schizzo d'amore invernale lasciato cadere come neve sul tappeto '60, lo stesso che accoglie l'illuminante e speranzosa The Other Yesterday.
Nella finale Grateful tra le maglie di una slide e il vintage sound dell'hammond è scritto tutto il testamento del disco, ma anche la sua appagante filosofia di vita: "non ho niente di romantico da aggiungere/Sono stato sulla strada ma non è andata così male/ho scontato la mia parte di pena/Ho scontato la mia parte d'inferno/Ma sono sempre stato protetto/E sono sempre stato servito bene".
Ma c'è ancora il tempo per una intensa e sentita interpretazione al pianoforte di Never Never Land, rilettura di L'isola Che Non C'è di un altro vecchio amico italiano, Edoardo Bennato, presente come bonus track nella sola versione italiana. Sembra che Bennato abbia già approvato.
Che gli angeli siano con voi e continuino a vegliare sulla musica scritta con passione e onestà.




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vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA-ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)

giovedì 27 febbraio 2014

RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI (Cosmic Sessions)

ALESSANDRO BATTISTINI   Cosmic Sessions  (Club De Musique/IRD, 2014)



Un "out on the weekend" lontano dalla sua band madre che negli ultimi tre anni lo ha tenuto impegnato e continua a farlo. Mentre scrivo, i Mojo Filter sono occupati in un piccolo tour in Germania, "il tour è andato molto bene, abbiamo conosciuto gente che apprezza il rock and roll e che non ha paura di fare km su km per sentire un concerto", arrivando a guadagnarsi una vistosa e continua crescita esponenziale nel panorama rock italiano, confermata dall'ultimo, ottimo disco in studio The Roadkill Songs (2013). Cosmic Sessions è un viaggio introspettivo dentro al suo, ma anche un po' nostro, mondo. Una bizzarra nave/mongolfiera (bella la cover art, opera di Zeppelin Studio) che, piuttosto che solcare mari, sembra alzarsi in aria permettendo uno sguardo a 360 gradi sopra alle sue passioni musicali, quelle che confluiscono molto spesso in un'unica direzione temporale: la California a cavallo tra gli anni 60 e i 70, posto ancora carico di suggestioni a distanza di anni e nonostante la tecnologia di mezzo a fare da ostacolo. Stacca spesso l'amplificazione delle chitarre, quelle che graffiano nei Mojo Filter, si spoglia di ogni orpello elettrico, si circonda di buoni e anche prestigiosi amici, scruta l'infinito spazio e mette in moto la fantasia: "Antonio Gramentieri (Sacri Cuori) aveva già collaborato con i Mojo Filter e si è offerto di suonare una parte di chitarra in 'Wise Rabbit' e devo dire che sono felicissimo che l’abbia fatto… è un artista che ammiro molto e che ha grande gusto e talento, ha saputo riconoscere e enfatizzare il lato acido e vintage di 'Wise Rabbit'. John Egenes e Craig Dreyer sono due grandi musicisti con un curriculum infinito e decisamente all’altezza della loro fama: mi è piaciuto molto lavorare con loro, adoro il solo di sax di Craig alla fine di 'Wise Rabbit', sembra che si spalanchino le porte dell’inferno… è l’ira del coniglio saggio!! … John, invece, ha reso speciali 'All Of Those Rainy Days' e 'Nothing More To Say' … molto di più di quello che mi aspettavo"
Alessandro Battistini, chitarra e voce dei comaschi Mojo Filter rilascia il primo disco solista in modo semplice e spontaneo, registrando il tutto come fosse una session tra vecchi amici intorno ad un falò estivo a tarda notte sotto le luci guida di luna e stelle; ma il filo luminoso che lega le dieci canzoni riesce a trasmettere in modo chiaro la scossa che anima la sua devota passione musicale. "Appartengono in effetti più o meno tutte allo stesso periodo… all’incirca Dicembre 2013… all’improvviso ho sentito che era il momento di assecondare una parte di me e della mia creatività a cui non avevo mai dato il giusto peso e, quando mi sono messo a scrivere, le canzoni sono uscite in blocco… chissà forse sono sempre state lì ad attendere…"
Dondolanti barrelhouse songs (Staring At Your Splendor con il pianoforte di Simone Spreafico), corali e ruzzolanti bluegrass con la sarabanda di un banjo in azione (Fill My World), country accomodanti e rassicuranti sotto le pigre note di una pedal steel come succede in All Of Those Rainy Days e dove anche la "povera" semplicità di Home, che suona tanto scarna con la sola presenza di un ukulele, si arricchisce all'infinito grazie alla voce pregna di soul dell'ospite Jono Manson, cantautore (è appena uscito il suo nuovo album Angels On The Other Side-vedi recensione) e produttore americano-di casa in Italia e già collaboratore degli stessi Mojo Filter- che si è portato il lavoro a casa, masterizzando il tutto nei suoi magici studi di Santa Fe nel New Mexico. "In questo disco Jono si è occupato della masterizzazione (impeccabile come sempre), mentre in ‘Mrs.Love Revolution’ aveva fatto anche il mix. Jono poi mi ha regalato un’interpretazione fantastica di 'Home', uno dei pezzi del disco a cui tengo di più".
Ma anche l'antico rhythm & blues di Rufus Thomas in Walking A Dog (unica cover ed episodio più terroso del disco), la soffice e leggera apertura Nothing More To Say che sale fino ad esplodere in un  gospel nel finale (i cori sono di Francesca Arrigoni), la spensierata chiusura con il fischiettio di Xmas Time's Outside My Door, i momenti più psichedelici (Wise Rabbit) e rarefatti nella connessione con il paradiso tentata nella splendida The Inner Side e portata avanti da un Rhodes e dalle percussioni incantatrici suonate da Mr.Lobo Jim. Disco corto ma intenso, che va diritto al punto, anche quando l'approccio assolutamente "free" delle canzoni porterebbe a pensare il contrario, e immaginare lunghe parti strumentali e minutaggi elevati :"Cosmic Sessions, come dice lo stesso titolo, si rifà a un certo approccio sixties molto jam che ho sempre adorato, ma è comunque anche un tentativo di rendere quello spirito più attuale e diretto. Nei live, tuttavia, avremo sicuramente modo e voglia (molta) di approfondire quelle parti strumentali…quelle che, se riescono, rendono ogni gig speciale e unica".




vedi anche INTERVISTA MOJO FILTER
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vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
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martedì 25 febbraio 2014

RECENSIONE: BOCEPHUS KING (Amarcord)

BOCEPHUS KING   Amarcord (Appaloosa Records/IRD, 2014)



Un passaporto alla cui scritta "segni particolari" segue un "cittadino del mondo libero". James Perry in arte Bochephus King, nomignolo scelto senza un vero perché dopo essere stato a Nashville, è uno spirito senza dimora che ha inseguito-sta ancora inseguendo-il suo sogno musicale, lo stesso sogno che da bambino lo portava a dire "volevo essere un detective o un predicatore". Oggi che gli anni sono diventati quelli della saggezza, essere un musicista è l'unico modo in cui riesce realisticamente a conciliare gli aspetti più importanti di quei due lavori, almeno nella sua testa, come racconta nello splendido libretto che accompagna il Cd e che l'italiana Appaloosa Records ha preparato per presentare nel migliore dei modi, al pubblico italiano, un cantautore totalmente fuori dagli schemi ma meritevole di tutte le attenzioni possibili. Testi tradotti in italiano, uno scritto di presentazione preparato dall'amico Andrea Parodi e un'autopresentazione scritta di suo pugno ci introducono nel suo personale, strano, istrionico e ricco mondo, ma non bastano a contenerlo tutto fino a quando non partono le note dell'iniziale On The Allelujiah Side, canzone presa dal primo disco Joco Music del 1996, registrato nella casa di famiglia in Canada, con pochi mezzi e tanti sogni in tasca. Da qui in avanti si capisce di più, e fidatevi, dopo il primo ascolto riiniziare da capo viene naturale. Buon viaggio. Un percorso a sedici tappe che attraversa una carriera che sembra aver camminato sempre in quelle zone franche e poco battute nascoste dietro alla curiosità musicale, l'esplorazione, la genuinità: quelle vie che dal nativo Canada portano agli States, alle terre del sud, e poi all'Europa, quelle periferie buie e pericolose ai margini della città, quei paesi costruiti lontano dall'umanità conformista, quelle spiagge libere e abbandonate dove girare nudi non è reato ma solo libertà. Bochepus King riesce a camminare nello stesso lato del marciapiede calpestato dal primo romantico e sognatore Tom Waits, per poi fermarsi in un diner e osservare il calare della sera e i passi delle persone; raccogliere gli umori gipsy di un Willy De Wille sotto il falò di un accampamento nomade; scannerizzare il lato desolante dell'America (Cowboy Neal e Willie Dixon God Damn dal suo ultimo album in studio Willie Dixon God Damn uscito nel 2011) come farebbero solo Townes Van Zandt, John Prine e Steve Earle o i grandi scrittori della beat generation, guidando sopra ud un van e girando in lungo ed in largo i grandi spazi; far brillare le desertiche allucinazioni alla Calexico come succede nella splendida Blues For Buddy Bolden, uno dei suoi tanti picchi artistici; condividere tutto l'amore per il cinema italiano di Fellini e le colonne sonore di Morricone (da qui Amarcord per il titolo dell'antologia) in una Eight And Half che si insinua tra pazzia e libertà, ma anche cercare tra gli anfratti del presente quei modernismi-comunque moderati-presentati in Goodnight Forever Montgomery Clift  e Jesus The Bookie estrapolati dall' album All Children Believe In Heaven, che ci mostrano anche il suo lato più soul e gospel.
Bocephus King è tutto questo e molto di più: dentro ai suoi testi carichi di immagini, visioni e quel velo di mistero che sempre affascina e incuriosisce, c'è la vita.
Fino ad arrivare ad una splendida e originale versione di Senor, estrapolata da Street Legal, disco di Dylan che adoro in tutto e per tutto e che lo stesso Bochephus dice di aver risuonato per intero in compagnia di un manipolo di musicisti indiani conosciuti per caso in un locale. Dylan è il suo idolo da sempre e prima o poi farà uscire il suo personale omaggio, come già fa nei suoi comunicativi concerti.



vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2014)



mercoledì 19 febbraio 2014

RECENSIONE: EUGENIO FINARDI (Fibrillante)

EUGENIO FINARDI Fibrillante (Universal Music, 2014)



Nella bellissima autobiografia Spostare L'orizzonte (consigliata) uscita tre anni fa e scritta a quattro mani con Antonio G.D'Errico ci sono molti passi che anticipano almeno la metà dei testi contenuti nei dieci brani del suo nuovo album Fibrillante tanto da farci capire quanto Finardi sia coerente con se stesso, con i suoi inizi, con la sua storia, anche dopo le tante parentesi aperte sul pianeta musica negli ultimi anni: dalla musica sacra alla classica, fino al bellissimo Anima Blues (speravo nella seconda parte, ma ci sarà tempo), uno dei suoi picchi artistici di sempre, da avere assolutamente. Un esilio autoimposto, una fuga dal personaggio che, a suo dire, si era creato con il tempo, tanto da diventare "una condanna, privilegiata, una sorta di arresti domiciliari di me stesso...dovevo uscire..." dice Finardi.
Fibrillante, titolo dell'album-e della canzone-preso in prestito, suo malgrado, dalla fibrillazione atriale a cui è soggetto a causa di un problema di ipertiroidismo, è un ritorno al cantautore che dava battaglia negli anni settanta, uno dei primissimi esempi di cantautorato rock del nostro paese. L'ingenua voglia di cambiare il mondo dettata dalla gioventù si è trasformata in resistenza che solo distrattamente si potrebbe confondere con la rassegnazione di un uomo che ci ha sempre creduto e combatte ancora o cerca di farlo, in altri modi, anche urlando, cercando qualcuno che lo ascolti come canta in Come Savonarola: "so che ti faccio soffrire con le mie facce scure e la mia negatività/Ma devo solo ritrovare un nuovo modo di lottare per la nostra dignità/E una vita che sia umana più libera e più sana di giustizia e verità". Lotta che continua nella dura Cadere Sognare, con la partecipazione di Manuel Agnelli (Afterhours)-che Finardi proclamò suo erede-, un inno di ribellione alla conformità, agli sporchi giochi, una sorta di "non mi avrete mai come volete voi", un inno alla ribellione in questi anni zero (leggasi: zero uguale a vuoto). Una generazione che sembra aver perso, o perlomeno non aver vinto, ma che continua a sperare, aspettando: "ho bisogno di rispetto, di pace e tranquillità del calore di un affetto e di un po' di serenità di avere un ruolo e un posto nella società e sicurezza nel futuro " canta nell'apertura Aspettando, ma c'è anche chi non prende posizione, non rischia mai (Moderato) e rimane immobile, ingessato mentre tutto scorre e corre intorno a lui. "Muoviti, sbattiti, sbrigati, dai, lavora ancora un po'. Io mi ammazzo di fatica , e tu invece no"
Con un piede nei suoni seventies garantiti da ospiti come Patrizio Fariselli (Area) e Vittorio Cosma (ex PFM) ed uno nel presente assicurato dalla collaborazione con i Perturbazione, Manuel Agnelli e Max Casacci dei Subsonica, produttore e tuttofare, Fibrillante è un disco di una onestà disarmante che a tratti diventa fin troppo schietto e puro, calato perfettamente nel mondo odierno, trattando temi d'attualità anche con durezza, senza scorciatoie e giri di parole, preferendo la descrizione della scarna quotidianità creando quadretti di cronaca quotidiana come nella commovente La Storia Di Franco, disavventure di un padre separato senza più un tetto, costretto a vivere come un'ombra invisibile pur di vedere l'unico amore della sua vita, la figlia: "lei pensa che sono in Africa a combattere la povertà, infatti la combatto ma la mia Africa è qua" . Quanti uomini si ritroveranno in Franco?
O raccontando la forza e la superiorità delle donne  (Lei S'illumina dedicata alla moglie e alla madre), Le Donne Piangono In Macchina, ballata pianistica che conferma Finardi come uno dei più delicati e attenti cantautori dell'universo femminile.
Non tutto è perfetto e la finale Me Ne Vado costruita su un tappeto quasi improvvisato di free prog guidato magistralmente da Patrizio Fariselli vede Finardi recitare un testo di finanza quasi fossero i titoli di un telegiornale con il rischio di cadere nella retorica più spiccia. Una pretenziosa lezione di economia che pare eccessiva in un disco tanto onesto e diretto. Da ascoltare assolutamente.




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