...Il ritorno a sonorità radicali e senza paure, suoni che non hanno vergogna di sottrarsi a vicenda e di arricchire le storie cantate con la loro presenza selvatica e solitaria. Raramente ho incontrato persone che dopo una lunga carriera attraverso i suoni e le cose da dire, hanno mantenuto quella determinazione, quella gentilezza nei confronti dell'arte... (Davide Van De Sfroos)
Intervista a Luigi Maieron, autore quest'anno di "Vino Tabacco e Cielo" un disco fatto di antiche e sincere tradizioni confermate dalle sue parole...tutto da scoprire.
Una piccola autopresentazione per chi non conosce Luigi Maieron?Sono nato e vivo in Carnia, nell’alto Friuli. Abito in un paese di 200 anime, quanto un palazzo di una qualsiasi città. Ho il privilegio di essere circondato e protetto da montagne stupende e di poter assistere giorno per giorno al procedere di ogni stagione. Ho incominciato a suonare giovanissimo. Un amico di mia madre mi ha regalato una chitarra, in casa mia tutti erano musicanti; così a 11 anni ho debuttato con mio nonno Pio, mitico suonatore di contrabbasso e mia madre Cecilia, straordinaria suonatrice di fisarmonica. Le fumose osterie di Carnia sono state la mia palestra nel bene e nel male.
Molte tue canzoni parlano di antiche tradizioni (La cidule, Done Mari (tradizionale), Trei Puemas) e storie della Carnia. Qual'è e come funziona il tuo lavoro di recupero di arcaiche storie?Credo nella tradizione utile, così come nelle parole utili. Le tradizioni sono un riassunto popolare è un depositato che la gente lascia generazione dopo generazione. Oggi si rischia di cogliere solo l’aspetto folkloristico in quanto non sempre si tende a considerare l’utilità del passato, ma molte tradizioni contengono aspetti molto utili per decifrare il mondo di oggi. Gli esempi che hai fatto descrivono in La Cidule la speranza di una ragazza che non si concretizza e che le fa pensare di non piacere a nessuno, ma poi riaccende la speranza e decide di aspettare fino all’indomani. Done mari svela un mondo al femminile dominato dalle regole da seguire nel sacrificio. Trei puemas parla del passaggio dalla adolescenza al mondo adulto, con la voglia di correre incontro alla vita attente ai passi da fare.
Il lavoro di recupero tiene conto della utilità del tema, da argomenti che hanno al centro le persone e che appartengono a tutti i tempi. Il loro viaggio è il nostro, delle nostre famiglie, delle nostre comunità.
Con quale criterio scegli le canzoni da cantare in dialetto e quelle in italiano?...e cosa ti ha portato ad incidere un disco più "suonato" rispetto ai precedenti?Ci sono temi che meglio si adattano al dialetto o ad una lingua locale come nel caso del friulano, altri temi invece che meglio si adattano all’italiano. Ci sono espressioni e storie che hanno una forza insostituibile in dialetto perché sono figlie di quel territorio, di quella mentalità. E’ impossibile rappresentare certi temi se non vestendoli con il suono di quel posto. Ti faccio un esempio concreto: certi nomi di persone che pronunci in dialetto non sembrano appartenere alle stesse persone se tradotte in italiano. Quella persona è diventato quel suono ed è rappresentato solo così.
Sento che il cantautorato tradizionale segna un poco il passo ma le parole utili non sempre possono essere usate con leggerezza, così ho lasciato alla musica questa facoltà di alleggerimento… insomma scendere in profondità correndo in superficie.
In Vino, Tabacco e Cielo (la canzone) parli del rapporto tra un bambino ed una figura "guida" adulta. Quanto c'è di autobiografico e quali sono i valori che ogni bambino dovrebbe perseguire per crescere in questo mondo?Si è vero parlo del rapporto tra un bambino ed una figura “guida”. Questi può essere un parente un nonno, un padre ecc. oppure una figura mitica che ha inciso nella nostra formazione. Io sono cresciuto senza papà, Cecilia mia madre mi ha avuto a soli sedici anni da un uomo venuto da fuori e poi ritornato al suo paese. Questo tema mi ha tormentato per tutta la vita. Mi sono attaccato a mio nonno ma mi serviva un vero padre. Questa canzone è da tanto che girava nei miei sentimenti. Ho pensato di raccontare quanto è importante per un ragazzo avere un padre che lo tenga d’occhio.
Per un ragazzo è importante avere i riferimenti e sentirsi amato, con questi elementi si riesce a crescere.
In Cramar-Marochin e Arjentina, affronti in modo diverso lo stesso tema, sempre di attualità, come l'emigrazione. Come ti poni di fronte a quello che una volta era considerata "ricerca della dignità" e ora sembra essere ridotta solo ad un problema.C’è una frase in Cramar-marochin che dice… “ma cosa stiamo a discutere… tanto si muore comunque… si ma per il momento bisogna vivere” è la conclusione. La sopravvivenza è un diritto irrinunciabile, la ricerca di un lavoro è un diritto essenziale e non importa di che colore sei il diritto vale per tutti. Padre Maria Turoldo ci ha lasciato una lezione preziosa con il suo film “Gli ultimi”. In Argjentina ho raccontato la nostra emigrazione e il danno che questa ha comportato in ogni famiglia di Carnia e Friuli. Da noi il trenta per cento di emigranti ha significato una persona per famiglia, quasi sempre il capofamiglia, con una sottrazione di affetti notevole e con la conseguenza di una eredità lasciata ai figli di “status” da orfani. C’è un filo che ci lega e che non va spezzato.
I fantasmi di pietra ti è stata ispirata da un racconto di Mauro Corona. Quali sono i tuoi ricordi personali legati a questa grande tragedia (il Vajont) e cosa è rimasto nella tua generazione e quella di Corona e cosa nelle varie generazioni che sono succedute? Noti dei cambiamenti o è rimasto tutto radicato nelle persone?
Ricordo che dopo poco tempo dalla disgrazia, (avevo 8 anni) assieme ai miei compagni di elementari siamo andati a visitare i posti accompagnati dal nostro parroco, don Isola. All’epoca abbiamo vissuto l’esperienza come una sorta di gita. Non eravamo in grado di capire la gravità dell’evento. Ricordo una stanza rimasta a metà, e dei sanitari di un bagno nuovi che mi sembrarono una rarità, solo l’anno dopo infatti li mettemmo a casa nostra. Crescendo invece quell'immagine ha svelato i suoi reali contorni. Chi è del posto non ha rimarginato del tutto la ferita, è ancora tutto lì, cucito nelle anime delle persone. Ma tutti ce lo portiamo addosso perché ha significato il tradimento di un sistema nei confronti delle persone. Una ottusa insistenza a scapito di tante vite spezzate, di tanti sogni rimasti in sospeso nelle case, i fantasmi di pietra rimasti.
Come hai conosciuto Davide Van De Sfroos?Mi piace molto il lavoro di Davide, è un autore disincantato che vede le cose con occhio lucido e sa raccontare le persone come pochi: la sue parole arrivano in profondità. Degli amici in comune ci hanno messo in contatto e lui mi ha invitato a qualche suo concerto.
Quest'anno Davide ha partecipato a Sanremo. Cosa pensi di questa manifestazione e se ti presentasse l'occasione, ci andresti?Per quanto riguarda Sanremo, credo di aver qualche anno di troppo per questa manifestazione e poi non so come farebbero a farci entrare questo tipo di canzoni. La vedo dura.
Questa faccia mi ha ricordato molto Johnny Cash, mentre Filo spinato, De Andrè. Quanto i grandi songwriters americani e italiani influenzano la tua musica e quali sono i tuoi preferiti?Su Questa faccia la pensi come Davide Van de Sfroos, anche lui mi ha detto la stessa cosa. Filo spinato parla di una guerra di oggi, dove il soldato lo fa come lavoro. E’ solo una missione di pace ed invece…
Non ci crederai ma io ascolto poca musica. Certo Tom Waits, Bob Dylan, Nick Drake, Johnny Cash, Fabrizio De Andrè sono sicuramente riferimenti e probabilmente qualcosa di loro mi è rimasta appiccicata addosso, ma vorrei procedere con il vecchio adagio di Waits, meglio un insuccesso alle mie condizioni che un successo alle condizioni degli altri.
Il legame con la tua terra è forte e radicato. Dovessi fare un piccolo spot pubblicitario per la Carnia e il Friuli in generale come lo faresti?La mia è una terra di confine e di passaggio. E’ un luogo selvaggio, aspro, duro dove la gente non ha mai avuto una vita comoda. E’ fatta di tanti piccoli paesi alcuni quasi completamente disabitati ma il contatto con la natura è talmente forte e presente che non ti fa mai volare, ti tiene sempre ben ancorato a terra e pretende da te sempre una giusta umiltà. E’ un posto vero ed i posti veri vanno visitati.
Prossimi impegni...?In novembre o ai primi di dicembre presento il cd in terra di Carnia, poi il 18 dicembre ho un concerto insieme a Mauro Corona e Toni Capuozzo, forse il 30 dicembre sarò a Spilimbergo e il 28 gennaio a spazio musica a Parma. Voglio procedere con il passo del montanaro, scarponi ai piedi e un passo alla volta.
RECENSIONE di "Vino Tabacco e Cielo":
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/10/recensione-luigi-maieron-vino-tabacco-e.html
lunedì 31 ottobre 2011
giovedì 27 ottobre 2011
RECENSIONE: FRANCESCO DE GREGORI Live@Hiroshima Mon Amour, TORINO, 26 Ottobre 2011
“Voglio andare in giro in quei posti dove passa la musica più viva, dove c’è un pubblico speciale, non addomesticato. Dopo tanti teatri, dopo un bagno di velluti rossi, sento il bisogno di una dimensione più ‘disordinata’.”
Con queste parole, Francesco De Gregori lanciò il tour autunnale che continua, a suo modo, a seguire l'esempio del suo "faro" Dylan. Un never ending tour che, a partire dagli anni novanta , ha innalzato il momento live come vera e propria istantanea artistica degli anni che passano e dello stato di salute dell'autore. Campo di battaglia dove è libero di ripercorrere la propria storia in modo aperto, lasciando fluire l'improvvisazione e i bizzarri arrangiamenti come ingredienti che tengono in vita le canzoni. Un "work in progress" che non è solamente il titolo dell'ultima fortunata e commemorativa tournèe con Lucio Dalla ma uno status di lavoro che De Gregori segue da molti anni ormai, testimoniato ed impresso sui numerosi dischi live usciti negli ultimi quindici anni.
Conscio di filtrare attraverso i media per un personaggio non proprio simpaticissimo, aveva promesso divertimento a se stesso e al pubblico. Divertimento di chi a 60 anni può permettersi di tornare ad una dimensione più umana, andando a ricercare il calore, il sudore e gli occhi di chi è cresciuto ascoltando la sua musica. Così è stato.
Pubs and Clubs Tour approda nella caldissima e sold out sala dell' Hiroshima Mon Amour di Torino che questa sera potrebbe essere scambiata per un qualsiasi club di Roma degli anni settanta, quando la sua musica si intrecciava con quella degli amici Antonello Venditti e Rino Gaetano.
Il percorso a ritroso che De Gregori ha voluto far compiere con questa serie di date, funziona e fa bene alla sua musica e al personaggio. Ma non è un concerto nostalgico. Ci sono, sì i classici , ma c'è tanto del De Gregori degli anni zero, sempre pronto a stravolgere le sue canzoni, cambiarne gli arrangiamenti e divertirsi nel farlo, andando a percorrere il suo personale coast to coast lungo le strade musicali degli Stati Uniti(country, folk, blues, rockabilly).
Troviamo così una Buonanotte Fiorellino che sapora di fiesta tex-mex e con una introduzione circense presa da Rainy Day Women di Bob Dylan. Tutta una festa. Chi l'avrebbe mai detto che una delicata ninnananna potesse trasformarsi così. Oppure Rimmel che parte in acustico con l'ukulele suonato dal bravo Paolo Giovenchi per poi trasformarsi in una solare versione Reggae che non avrebbe sfigurato sul live At Budokan di Dylan.
Complice una band con i fiocchi. A partire dal vecchio compagno Guido Guglielminetti al basso, passando per le chitarre di un altro veterano come Lucio Bardi (anche al violino in un divertente duello tra archi), Paolo Giovenchi, Alessandro
Valle , anche alle pedal steel e poi la batteria di Stefano Parenti, le tastiere del giovane Alessandro Arianti e il violino della bella e brava Elena Cirillo, anche ai cori. Piacevole sorpresa.
Una superband che riporta alla mente la Rolling Thunder Revue Band che accompagnò Dylan nel "giocoso" tour che seguì il fortunato Desire del 1976. Nuovamente Dylan, non un caso. Come non è un caso che De Gregori chieda di ringraziare "il vecchio Bob" dopo l'esecuzione di Non dirle che non è così, ossia la versione italiana di If you see her say hello(titolo che si è prestato per un piccolo sketch sulla pronuncia inglese), scelta dallo stesso Dylan ed inserita nella soundtrack di Masked and Anonymous.
Ma non c'è solo Dylan nella musica di De Gregori. De Gregori, sotto il cappello e gli occhiali, è in gran forma e lo si capisce subito quando attacca con una Generale che è tornata in apertura come nel lontano disco omonimo del 1978 in cui era contenuta, ad indicare il ritorno a casa del soldato che riassapora gli odori familiari, così come questa serata e questo tour rappresentano anche il ritorno a casa di De Gregori e il suo riappropriarsi del pubblico.
Un pubblico transgenerazionale, partecipe e rumoroso quando serve e assorto e concentrato quando c'è da ascoltare la fuga d'amore de La donna Cannone che continua a mettere i brividi, nonostante la si è ascoltata milioni e milioni di volte, oppure seguire il "principe" che si posiziona al piano per interpretare Sempre e per Sempre e La Storia, con tutta la band che gli si fa attorno. Nessuno si senta escluso. In periodi come questo serve unità. Più del solito.
Il locale è saturo di calore e la camicia sudata di De Gregori che si intravede da sotto la giacca fa da buon termometro.
Tese, tirate e rock sono la bellissima Il panorama di Betlemme, visioni dylaniane tra guerra e fede, Tempo Reale, Vai in Africa, Celestino! e L'Agnello di Dio.
Tra una sorprendente versione di Titanic impreziosita dal violino della Cirillo, la sempre immancabile e cantata da tutti Alice e le più recenti Gambadilegno a Parigi e la quieta La Casa(presa dal recente e dimenticato Calypsos), si arriva ai primi bis: Bellamore, Battere e Levare e la sempre godereccia Sotto le stelle del Messico a trapanar.Gran finale con una inaspettata A chi di Fausto Leali, ripescata dopo essere apparsa nei live di molti anni fa. Una versione blues e soul con De Gregori che a fine concerto dimostra di avere ancora una gran voce e una presenza da crooner navigato ed invidiabile.
Perchè, in fondo, in Italia, a nessuno è mai riuscito di unire così bene il folk e il canto popolare italiano con il sogno americano come a De Gregori.
Se il cantautore romano dovesse continuare a questi livelli i suoi concerti in posti raccolti ed intimi, al bando...subito...palazzetti dalla pessima acustica, teatri con il pubblico immobile ed imbalsamato e stadi dispersivi. Lo vogliamo sempre qui, cheek to cheek, per vederlo e sentirlo meglio.
Poche parole durante la serata, ma i suoi gesti, la sua mimica, i sorrisi, l'affiatamento dei musicisti sono stati raccolti dal pubblico e ricambiati con affetto durante le due ore di concerto. Ben tornato a casa e grazie per aver mantenuto le promesse. Non è da tutti.
Per brevità...chiamato Artista.
SETLIST:Generale/Caldo e scuro/Vai in Africa, Celestino!/Niente da capire/Finestre rotte/Gambadilegno a Parigi/L'agnello di Dio/Non dirle che non è così/Il panorama di Betlemme/Sempre e per sempre/La storia/Tempo reale/La casa/Titanic/Alice/Buonanotte fiorellino/La donna cannone/Rimmel/Bellamore/Compagni di viaggio/Battere e levare/Sotto le stelle del Messico a trapanar/A chi
Video di RIMMEL
mercoledì 26 ottobre 2011
RECENSIONE: MOJO FILTER (Mrs. Love Revolution)
MOJO FILTER Mrs Love Revolution ( Club De Musique, 2011)
"He got muddy water, he one mojo filter", cantava qualcuno a Liverpool, "Rock'n'roll can never dies ", rispondeva qualcun altro in Canada e mai come in questi ultimi tempi , anche l'Italia mette sul piatto i suoi immortali del rock. I Mojo Filter sono una portata alcolica e appetitosa, lontana dal rock alternativo che tira tanto nella penisola, ma estremamente più vicino a quell'idea di rock che incarna il sogno americano e la sua naturale prosecuzione britannica. Fin qui le coordinate geografiche, per quelle temporali basta l'immortalità sopra citata, senza date di scadenza.
"Mrs. Love Revolution" si presenta subito con una copertina accattivante(di Ferdinando Lozza) che prosegue il discorso iniziato dalla band lombarda nel precedente Ep (The Spell), uscito l'anno scorso e che lasciava intravedere buone cose all'orizzonte. La band lombarda ha registrato e catturato la semplicità in pochi giorni , sotto la produzione di Jono Manson, musicista e produttore statunitense che recentemente abbiamo visto e sentito nella superband di Massimo Bubola , i Barnetti Bros Band.
Proprio la semplicità e il mestiere sono la forza di un disco che riporta a galla quei suoni perduti nei seventies ma che rivivono ancora durante i live sopra ad un palco, pochi fuochi d'artificio in produzione ed una essenzialità che sta alla base del rock. I Mojo Filter hanno delle solide basi e su quelle costruiscono un disco che sa essere vario, spontaneo e fresco pur non inventando nulla di nuovo.
Canzoni come semplici e vecchi distillati, tramandati dalla tradizione, ma che mantengono i sapori e i gradi necessari per guadagnare l'appellativo di "senza tempo". Dai riff rotolanti di Lick me Up, What i've Got e Ragged Companion, rock'n'roll sporchi, torridi e appiccicosi come nella miglior tradizione insegnata dagli Stones.
Just like a Soldier mischia blues e soul rimanendo a galla nel rock grazie alle chitarre di Alessandro Battistini (anche voce) e Carlo Lancini, riff portanti incisivi e assoli così come in No Comment Please che riprende dal rock blues inglese di Cream e Free.
Fiammeggiante blues The River dove si mette in mostra la voce "consumata" di Battistini e la sezione ritmica formata dal basso di Daniele Togni e la batteria di Jennifer Longo.
Un divertimento che centra l'obiettivo è Las Vegas, un veloce honk tonk country che porta direttemente nelle grandi highways degli States, dove ha preso forma.
I ritmi rallentano decisamente nella meno incisiva e soul, Liar o nella finale dagli accenni funk Water Gun, canzoni che sembrano mancare di quel qualcosa in grado di lasciare il segno ma senza scalfire più di tanto alla complessità dell'album.
Attitudine giusta e voglia di fare non mancano al quartetto lombardo, già impegnatissimi in sede live(di cui questo disco riprende il concetto on the road).Hanno già aperto per Willie Nile, Jonny Kaplan Band , North Mississippi All Stars e sicuramente questo lavoro aprirà altre nuove ed interessanti strade (anche se già battute) ma sempre piene di sorprese e naturalmente qualche insidia che sapranno evitare.
INTERVISTA
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
"He got muddy water, he one mojo filter", cantava qualcuno a Liverpool, "Rock'n'roll can never dies ", rispondeva qualcun altro in Canada e mai come in questi ultimi tempi , anche l'Italia mette sul piatto i suoi immortali del rock. I Mojo Filter sono una portata alcolica e appetitosa, lontana dal rock alternativo che tira tanto nella penisola, ma estremamente più vicino a quell'idea di rock che incarna il sogno americano e la sua naturale prosecuzione britannica. Fin qui le coordinate geografiche, per quelle temporali basta l'immortalità sopra citata, senza date di scadenza.
"Mrs. Love Revolution" si presenta subito con una copertina accattivante(di Ferdinando Lozza) che prosegue il discorso iniziato dalla band lombarda nel precedente Ep (The Spell), uscito l'anno scorso e che lasciava intravedere buone cose all'orizzonte. La band lombarda ha registrato e catturato la semplicità in pochi giorni , sotto la produzione di Jono Manson, musicista e produttore statunitense che recentemente abbiamo visto e sentito nella superband di Massimo Bubola , i Barnetti Bros Band.
Proprio la semplicità e il mestiere sono la forza di un disco che riporta a galla quei suoni perduti nei seventies ma che rivivono ancora durante i live sopra ad un palco, pochi fuochi d'artificio in produzione ed una essenzialità che sta alla base del rock. I Mojo Filter hanno delle solide basi e su quelle costruiscono un disco che sa essere vario, spontaneo e fresco pur non inventando nulla di nuovo.
Canzoni come semplici e vecchi distillati, tramandati dalla tradizione, ma che mantengono i sapori e i gradi necessari per guadagnare l'appellativo di "senza tempo". Dai riff rotolanti di Lick me Up, What i've Got e Ragged Companion, rock'n'roll sporchi, torridi e appiccicosi come nella miglior tradizione insegnata dagli Stones.
Just like a Soldier mischia blues e soul rimanendo a galla nel rock grazie alle chitarre di Alessandro Battistini (anche voce) e Carlo Lancini, riff portanti incisivi e assoli così come in No Comment Please che riprende dal rock blues inglese di Cream e Free.
Fiammeggiante blues The River dove si mette in mostra la voce "consumata" di Battistini e la sezione ritmica formata dal basso di Daniele Togni e la batteria di Jennifer Longo.
Un divertimento che centra l'obiettivo è Las Vegas, un veloce honk tonk country che porta direttemente nelle grandi highways degli States, dove ha preso forma.
I ritmi rallentano decisamente nella meno incisiva e soul, Liar o nella finale dagli accenni funk Water Gun, canzoni che sembrano mancare di quel qualcosa in grado di lasciare il segno ma senza scalfire più di tanto alla complessità dell'album.
Attitudine giusta e voglia di fare non mancano al quartetto lombardo, già impegnatissimi in sede live(di cui questo disco riprende il concetto on the road).Hanno già aperto per Willie Nile, Jonny Kaplan Band , North Mississippi All Stars e sicuramente questo lavoro aprirà altre nuove ed interessanti strade (anche se già battute) ma sempre piene di sorprese e naturalmente qualche insidia che sapranno evitare.
INTERVISTA
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
lunedì 24 ottobre 2011
RECENSIONE: THE ZEN CIRCUS ( Nati per subire)
THE ZEN CIRCUS Nati per subire( La Tempesta Dischi, 2011)
No, non cercateli in tv o nelle radio in filodiffusione del supermercato sotto casa, magari quello immortalato in copertina. Difficilmente a qualcuno dei regnanti/padroni dei mass-media di questo nostro paese fatto a forma di scarpa potrà piacere un testo dei Zen Circus, a meno che non venga travisato e lanciato solo perchè il coro prende bene(...di esempi ne abbiamo e il coro de L'amorale ci sguazza in pieno).
Dopo l'abbandono dell'inglese, dopo lo smussamento di tutti gli angoli che li avevano portati ad essere bollati come i Violent Femmes italiani, fino a finire per collaborare proprio con Brian Ritchie in Villa Inferno, il primo disco in cui si avvistavano i primi segni di cambiamento. L'approdo avviene con Andate tutti affanculo(2009), un esperimento tutto cantato in italiano che funzionò così bene che il seguito era quasi obbligatorio, per capire l'effetto che fa.
Se a qualcuno il successo, quello del sottobosco per intenderci, anche di critica, non era andato giù, poco importa, perchè per arrivare fino a qui, Appino, Ufo e Karim hanno vissuto la gavetta che tante segretarie e sottosegretarie della repubblica italiana hanno bellamente saltato in favore di altri salti su lettoni di costruzione "russa". I tempi dei buskers che giravano Pisa, con i vestiti comprati ai mercatini delle pulci e registravano Doctor Seduction, inventandosi, poi, le storie del signor Nello Scarpellini, sono passati. Non invano , però. Ora è tempo di diffondere il messaggio in modo chiaro e capibile. In fondo il rock'n'roll è solo questo e gli Zen Circus lo sanno.
"Andate tutti affanculo" diceva tutto nel titolo, così come Nati per subire che ne è il giusto seguito e non una rassegnazione. Naturalmente al loro successo non si dovrà chiedere in cambio nessun cambiamento di rotta, la loro vena scherzosa, la loro critica pungente e sarcastica, l'autoironia è rimasta infatti intatta.Viene a mancare l'effetto sorpresa e novità che il precedente disco riuscì a smuovere e una cura nei suoni e negli arrangiamenti che li ha allontanati forse un pò troppo dallo spirito iniziale dei primissimi dischi, ma gli Zen Circus rimangono le solite teste calde che sanno sbeffeggiare e denunciare con il cervello ben collegato e pensante.
Agli Zen Circus piace usare la nostra Italia come capro espiatorio delle loro storie. A ragione. In fondo la vita, la morte, l'amore, la rabbia e la felicità passano attraverso le strade assolate e le vie buie del nostro bel paese(Atto secondo). Una regola che vale per "quasi" tutti gli abitanti con passaporto regolare o acquisito.
Nel paese che sembra una scarpa è il manifesto programmatico che apre il disco con gli ingredienti cari al gruppo: testi cinici dove l'umorismo scava in verità spesso conosciute ma nascoste per comodo, a malo modo, in uno sgabuzzino. (...così le banche prestano dei nomi a tutti quanti / tua nonna come sempre ti regalerà dei guanti / il lavoro è disprezzare gli altri per ventiquattro ore / e ci spezziamo ancora le ossa per amore / un amore disperato per tutta questa farsa / insieme nel paese che sembra una scarpa....).
Il folk/rock acustico prevale ma lascia spesso e volentieri il passo all'elettrico e agli assoli come nel primo singolo L'Amorale, con il bersaglio anticlericale centrato in pieno e sbeffeggiato con una cantilena fanciullesca. Il bullismo imperante e patologico di Nati per subire, specchio che riflette un pò tutti noi, il folk di La Democrazia semplicemente non funziona con Giorgio Canali, ospite nel consigliarci di "farci fottere".
C'è anche un avvicinmamento al mondo cantautorale italiano, palese e poco nascosto in tracce come I Qualunquisti. Rino Gaetano, da lassù ascolta e ringrazia (...l'ultimo dei tuoi problemi è la mobilità sociale / che non s'è mai capito cosa vuol significare / infatti siam tutti in giro che non si riesce a passare / che ci sia di sociale ce lo devono spiegare / son poveri di spirito i poveri in generale...). Così come in Franco, storia di quotidiana vita operaia che mi ha rimandato subito a L'opearaio della fiat "la 1100" del compianto cantautore calabrese.
Gli Zen Cicus si divertono e giocano molto musicalmente. Dall'amarezza alt/new wave de Il mattino ha l'oro in bocca, alle atmosfere leggere e pop come l'ironico dileggiare di I milanesi al mare che gioca con il surf/punk/pop degli amati Ramones fino alle atmosfere sixty/pop di Ragazzo Eroe, un giro d'Italia alla ricerca di arruolamenti di giovani ragazzi per il buon futuro del belpaese. Fino ad arrivare all'amara conclusione di Cattivo Pagatore, ritratto reale di tante giovani famiglie in lotta con il precariato e il "fine mese" alle porte.
Sarà veramente uno sparo l'unica soluzione?
Graditi ospiti, oltre al già citato Giorgio Canali: Enrico Gabrielli, Dente, Francesco Motta(Criminal Jokers), Alessandro Fiori, Il Pan Del Diavolo, Nicola Manzan, Ministri e Tommaso Novi ( Gatti Mèzzi ).
No, non cercateli in tv o nelle radio in filodiffusione del supermercato sotto casa, magari quello immortalato in copertina. Difficilmente a qualcuno dei regnanti/padroni dei mass-media di questo nostro paese fatto a forma di scarpa potrà piacere un testo dei Zen Circus, a meno che non venga travisato e lanciato solo perchè il coro prende bene(...di esempi ne abbiamo e il coro de L'amorale ci sguazza in pieno).
Dopo l'abbandono dell'inglese, dopo lo smussamento di tutti gli angoli che li avevano portati ad essere bollati come i Violent Femmes italiani, fino a finire per collaborare proprio con Brian Ritchie in Villa Inferno, il primo disco in cui si avvistavano i primi segni di cambiamento. L'approdo avviene con Andate tutti affanculo(2009), un esperimento tutto cantato in italiano che funzionò così bene che il seguito era quasi obbligatorio, per capire l'effetto che fa.
Se a qualcuno il successo, quello del sottobosco per intenderci, anche di critica, non era andato giù, poco importa, perchè per arrivare fino a qui, Appino, Ufo e Karim hanno vissuto la gavetta che tante segretarie e sottosegretarie della repubblica italiana hanno bellamente saltato in favore di altri salti su lettoni di costruzione "russa". I tempi dei buskers che giravano Pisa, con i vestiti comprati ai mercatini delle pulci e registravano Doctor Seduction, inventandosi, poi, le storie del signor Nello Scarpellini, sono passati. Non invano , però. Ora è tempo di diffondere il messaggio in modo chiaro e capibile. In fondo il rock'n'roll è solo questo e gli Zen Circus lo sanno.
"Andate tutti affanculo" diceva tutto nel titolo, così come Nati per subire che ne è il giusto seguito e non una rassegnazione. Naturalmente al loro successo non si dovrà chiedere in cambio nessun cambiamento di rotta, la loro vena scherzosa, la loro critica pungente e sarcastica, l'autoironia è rimasta infatti intatta.Viene a mancare l'effetto sorpresa e novità che il precedente disco riuscì a smuovere e una cura nei suoni e negli arrangiamenti che li ha allontanati forse un pò troppo dallo spirito iniziale dei primissimi dischi, ma gli Zen Circus rimangono le solite teste calde che sanno sbeffeggiare e denunciare con il cervello ben collegato e pensante.
Agli Zen Circus piace usare la nostra Italia come capro espiatorio delle loro storie. A ragione. In fondo la vita, la morte, l'amore, la rabbia e la felicità passano attraverso le strade assolate e le vie buie del nostro bel paese(Atto secondo). Una regola che vale per "quasi" tutti gli abitanti con passaporto regolare o acquisito.
Nel paese che sembra una scarpa è il manifesto programmatico che apre il disco con gli ingredienti cari al gruppo: testi cinici dove l'umorismo scava in verità spesso conosciute ma nascoste per comodo, a malo modo, in uno sgabuzzino. (...così le banche prestano dei nomi a tutti quanti / tua nonna come sempre ti regalerà dei guanti / il lavoro è disprezzare gli altri per ventiquattro ore / e ci spezziamo ancora le ossa per amore / un amore disperato per tutta questa farsa / insieme nel paese che sembra una scarpa....).
Il folk/rock acustico prevale ma lascia spesso e volentieri il passo all'elettrico e agli assoli come nel primo singolo L'Amorale, con il bersaglio anticlericale centrato in pieno e sbeffeggiato con una cantilena fanciullesca. Il bullismo imperante e patologico di Nati per subire, specchio che riflette un pò tutti noi, il folk di La Democrazia semplicemente non funziona con Giorgio Canali, ospite nel consigliarci di "farci fottere".
C'è anche un avvicinmamento al mondo cantautorale italiano, palese e poco nascosto in tracce come I Qualunquisti. Rino Gaetano, da lassù ascolta e ringrazia (...l'ultimo dei tuoi problemi è la mobilità sociale / che non s'è mai capito cosa vuol significare / infatti siam tutti in giro che non si riesce a passare / che ci sia di sociale ce lo devono spiegare / son poveri di spirito i poveri in generale...). Così come in Franco, storia di quotidiana vita operaia che mi ha rimandato subito a L'opearaio della fiat "la 1100" del compianto cantautore calabrese.
Gli Zen Cicus si divertono e giocano molto musicalmente. Dall'amarezza alt/new wave de Il mattino ha l'oro in bocca, alle atmosfere leggere e pop come l'ironico dileggiare di I milanesi al mare che gioca con il surf/punk/pop degli amati Ramones fino alle atmosfere sixty/pop di Ragazzo Eroe, un giro d'Italia alla ricerca di arruolamenti di giovani ragazzi per il buon futuro del belpaese. Fino ad arrivare all'amara conclusione di Cattivo Pagatore, ritratto reale di tante giovani famiglie in lotta con il precariato e il "fine mese" alle porte.
Sarà veramente uno sparo l'unica soluzione?
Graditi ospiti, oltre al già citato Giorgio Canali: Enrico Gabrielli, Dente, Francesco Motta(Criminal Jokers), Alessandro Fiori, Il Pan Del Diavolo, Nicola Manzan, Ministri e Tommaso Novi ( Gatti Mèzzi ).
venerdì 21 ottobre 2011
RECENSIONE: LOU REED/METALLICA (Lulu)
LOU REED/METALLICA Lulu ( Warner Records, 2011)
Ecco, finalmente, il matrimonio del secolo che farà discutere, dividerà, accomunerà, esalterà, riempirà i social network di discussioni, rischiando di non piacere ai parenti dei due sposi, oppure far nascere una nuova grande comune a conduzione familiare con lieto fine incluso.
Ma andiamo con ordine.
Come tante storie d'amore: galeotto fu il primo incontro. L'occasione si presenta per il 25° anniversario della Rock And Roll Hall Of Fame al Madison Square Garden di New York, esattamente due anni fa, nell’ottobre 2009. Lou Reed e i Metallica suonano insieme sul palco Sweet Jane e White light/White Heat. Si piacciono a vicenda. Difficile diversamente, visto l'importanza dei personaggi nella storia della musica, al di là dei generi proposti, l'amore dei 'Tallica per il rock d'annata (i vari Garage Days a testimoniarlo) e la curiosità di Reed nel confrontarsi con qualcosa di diverso e rumoroso (Metal Machine Music fu buon profeta). A farsi avanti è il vecchio Lou, assente discograficamente dal lontano The Raven (2003), che inizialmente propone alla band di incidere vecchie canzoni dimenticate nei cassetti, per poi cambiare idea e proporre di musicare lo spettacolo teatrale "Lulu", l’opera teatrale di Robert Wilson basata sui racconti di Frank Wedekind, andata in scena a Berlino.
Lulu è un opera dove il sesso è predominante fino ad divenire la forza dominante che tiene a galla il mondo, scagliandosi contro i pregiudizi preventivi della borghesia moralista e legata ai dogmi religiosi. La protagonista immaginaria è Lulu: dall'infanzia, passando alla sua attività di ballerina, i numerosi intrecci amorosi, la sua natura da "ammaliatrice" di uomini, fino all'incontro con Jack the Ripper e la morte. La sua vita diventa pretesto e corpo per diffondere queste nuove verità. Eros, sesso, dramma, crudeltà e morte gli ingredienti che fanno dell'opera, in origine scritta da Albarn Berg, un racconto fortemente osteggiato negli anni trenta e a quanto pare anche al giorno d'oggi, vista la censura che la copertina del disco ha già ricevuto a Londra.
Metallica e Lou Reed si chiudono in gran segreto in sala di registrazione con la supervisione di Hal Willner e Greg Fidelman ed in poco tempo, si parla di alcune canzoni "buone alla prima", fanno uscire un disco, in alcuni punti eclettico che fa delle visionarie liriche, che seguono la storia, il vero punto focale. Con incursioni elettroniche e arrangiamenti d'archi come uniche aggiunte esterne.
Lulu (il disco) è composto da dieci canzoni, quasi 90 minuti di musica suddivisi in 2 CD.
Questo è, a tutti gli effetti, un disco di Lou Reed musicato dai Metallica. Un Berlin che pare, in molti punti, sovrapposto alle diverse incarnazioni a cui i Metallica ci hanno abituato negli anni(dall'old school thrash dei primi anni, passando al pesante hard rock del Black Album fino alle sfumature più mainstream di Load). Un disco che divide anche gli stessi protagonisti: Lou Reed ne parla in modo fin troppo trionfalistico, Kirk Hammett, il chitarrista dei Metallica, lo ha innalzato a miglior disco mai registrato dalla band, James Hetfield si è subito prodigato a ribadire quanto Lulu non sia il nuovo lavoro della band ma semplicemente una collaborazione.
Brandenburg Gate inizia con un tranquillo arpeggio e la voce di Reed che attacca il suo mantra recitativo: (...I would cut my legs and tits off/When I think of Boris Karloff and Kinski/In the dark of the moon/It made me dream of Nosferatu/Trapped on the isle of Doctor Moreau/Oh wouldn’t it be lovely...), fino all'entrata di Hetfield e della band di San Francisco che ricorda non poco i Guns 'n' Roses alle prese con la dylaniana Knockin' on Heaven's door.
Alcune cose sembrano funzionare come Iced Honey con i cori di Hetfield (il ripetuto ...small Town girl...), quelli che abbiamo imparato a conoscere da Load in avanti, da quando ha iniziato a cantare bene diventando più noiosetto con le quelle parole fastidiosamente e stancamente allungate fino alla nausea appunto (in questo disco poco presenti quindi ben accolte). Oppure Cheat on me, la più sperimentale, se non fosse per l'eccessiva lunghezza che tocca quasi i 12 minuti si farebbe anche apprezzare.
Il matrimonio riesce meno quando i Metallica fanno i Metallica mentre Lou Reed continua il suo lavoro recitativo e di reading (trattasi sempre e comunque di un'opera teatrale). Il rischio diventa così realtà. Le due parti sembrano incollate una sull'altra, lasciando quella sensazione di copia-incolla che nuoce alle due parti e al prodotto finale.
Capita così di imbattersi in una delle canzoni più furiose dei Metallica da molti anni a questa parte, che li riconduce incredibilmente agli esordi di Kill'Em All: Mistress Dread, una furia thrash metal/noise che però con il recitato declamatorio di Reed incollato sopra, perde tutte le sue potenzialità. Seguiamo la musica o ci concentriamo sulle parole? Oppure in The View, cadenzata e pesante thrash song con un finale accelerato e lasciato alla voce di Hetfield.
Pumping Blood è forse il brano dove l'accostamento, pur nella sua diversità, funziona meglio. Stacchi pesanti e arpeggi lugubri si alternano, con le chitarre di Hetfield e Hammett che lasciano uscire sinistri riff slayeriani che si pensavano persi chissà dove e Reed che accenna uno tra i pochi versi veramente cantati. (If I pump blood in the sunshine/ And you wear a leather box with azaleas/And I pump more blood/ And it seeps through my skin/Will you adore the river /The stream, the trickle /The tributary of my heart).
La seconda parte del disco è quella che funziona meglio. La band si mette a completa disposizione di Reed, le sfuriate metal sono meno estreme e sembrano legare maggiormente con la voce .
Ottima Frustration che include un recitato teatrale di Lou Reed accompagnato solamente dalla batteria di Lars Ulrich ed un pesante e sinistro riff sabbathiano che eleva la canzone, trasformandola nel miglior brano dell'opera.(...But all I do is fall over/I don’t have the strength /I once had/In you and your prickless lover /And his easel in his eyes/I feel the pain creep up my leg/Blood runs from my nose/I puke my guts out at your feet/You’re more man than I/To be dead to have no feeling /To be dry and spermless like a girl /I want so much to hurt you...).
Little dog è cantata interamente da Reed con un sottofondo liquido e quasi inesistente, Dragon è hard rock che convince con un buon assolo di Kirk Hammett. Il finale è affidato ai 20 minuti di Junior Dad, eterea canzone con la presenza di orchestrazioni e la fine del sogno con il brusco risveglio accluso.
Lulu è un'opera che va ascoltata con i testi alla mano e la santa voglia di ripetere gli ascolti, nonostante il minutaggio elevato di quasi tutti i brani possa scoraggiare. La prima sensazione è senza dubbio straniante.
Un'opera che sicuramente resterà unica e irripetibile. L'unione di due mondi diversi (il terzo è l'opera teatrale). Due entità artistiche dissonanti-sotto molti punti di vista, generazionale e musicale in primis-che cercano un punto d'incontro e trovano alcune difficoltà nel percorso. Vanno premiati il coraggio e la voglia di mettersi in gioco.
Sul lato negativo: pesano la riuscita di pochi brani tra i dieci proposti, l'elevato minutaggio-che poche volte fa rima con scorrevolezza-e l'impressione che difficilmente ci ricorderemo di queste composizioni in futuro. Sottolineando quanto sia difficile musicare un'opera teatrale senza far cadere la tensione e far perdere la concentrazione.
Uno sfizio che gioverà più agli interpreti che agli spettatori. Anche economicamente.
Voto 6,5
Ecco, finalmente, il matrimonio del secolo che farà discutere, dividerà, accomunerà, esalterà, riempirà i social network di discussioni, rischiando di non piacere ai parenti dei due sposi, oppure far nascere una nuova grande comune a conduzione familiare con lieto fine incluso.
Ma andiamo con ordine.
Come tante storie d'amore: galeotto fu il primo incontro. L'occasione si presenta per il 25° anniversario della Rock And Roll Hall Of Fame al Madison Square Garden di New York, esattamente due anni fa, nell’ottobre 2009. Lou Reed e i Metallica suonano insieme sul palco Sweet Jane e White light/White Heat. Si piacciono a vicenda. Difficile diversamente, visto l'importanza dei personaggi nella storia della musica, al di là dei generi proposti, l'amore dei 'Tallica per il rock d'annata (i vari Garage Days a testimoniarlo) e la curiosità di Reed nel confrontarsi con qualcosa di diverso e rumoroso (Metal Machine Music fu buon profeta). A farsi avanti è il vecchio Lou, assente discograficamente dal lontano The Raven (2003), che inizialmente propone alla band di incidere vecchie canzoni dimenticate nei cassetti, per poi cambiare idea e proporre di musicare lo spettacolo teatrale "Lulu", l’opera teatrale di Robert Wilson basata sui racconti di Frank Wedekind, andata in scena a Berlino.
Lulu è un opera dove il sesso è predominante fino ad divenire la forza dominante che tiene a galla il mondo, scagliandosi contro i pregiudizi preventivi della borghesia moralista e legata ai dogmi religiosi. La protagonista immaginaria è Lulu: dall'infanzia, passando alla sua attività di ballerina, i numerosi intrecci amorosi, la sua natura da "ammaliatrice" di uomini, fino all'incontro con Jack the Ripper e la morte. La sua vita diventa pretesto e corpo per diffondere queste nuove verità. Eros, sesso, dramma, crudeltà e morte gli ingredienti che fanno dell'opera, in origine scritta da Albarn Berg, un racconto fortemente osteggiato negli anni trenta e a quanto pare anche al giorno d'oggi, vista la censura che la copertina del disco ha già ricevuto a Londra.
Metallica e Lou Reed si chiudono in gran segreto in sala di registrazione con la supervisione di Hal Willner e Greg Fidelman ed in poco tempo, si parla di alcune canzoni "buone alla prima", fanno uscire un disco, in alcuni punti eclettico che fa delle visionarie liriche, che seguono la storia, il vero punto focale. Con incursioni elettroniche e arrangiamenti d'archi come uniche aggiunte esterne.
Lulu (il disco) è composto da dieci canzoni, quasi 90 minuti di musica suddivisi in 2 CD.
Questo è, a tutti gli effetti, un disco di Lou Reed musicato dai Metallica. Un Berlin che pare, in molti punti, sovrapposto alle diverse incarnazioni a cui i Metallica ci hanno abituato negli anni(dall'old school thrash dei primi anni, passando al pesante hard rock del Black Album fino alle sfumature più mainstream di Load). Un disco che divide anche gli stessi protagonisti: Lou Reed ne parla in modo fin troppo trionfalistico, Kirk Hammett, il chitarrista dei Metallica, lo ha innalzato a miglior disco mai registrato dalla band, James Hetfield si è subito prodigato a ribadire quanto Lulu non sia il nuovo lavoro della band ma semplicemente una collaborazione.
Brandenburg Gate inizia con un tranquillo arpeggio e la voce di Reed che attacca il suo mantra recitativo: (...I would cut my legs and tits off/When I think of Boris Karloff and Kinski/In the dark of the moon/It made me dream of Nosferatu/Trapped on the isle of Doctor Moreau/Oh wouldn’t it be lovely...), fino all'entrata di Hetfield e della band di San Francisco che ricorda non poco i Guns 'n' Roses alle prese con la dylaniana Knockin' on Heaven's door.
Alcune cose sembrano funzionare come Iced Honey con i cori di Hetfield (il ripetuto ...small Town girl...), quelli che abbiamo imparato a conoscere da Load in avanti, da quando ha iniziato a cantare bene diventando più noiosetto con le quelle parole fastidiosamente e stancamente allungate fino alla nausea appunto (in questo disco poco presenti quindi ben accolte). Oppure Cheat on me, la più sperimentale, se non fosse per l'eccessiva lunghezza che tocca quasi i 12 minuti si farebbe anche apprezzare.
Il matrimonio riesce meno quando i Metallica fanno i Metallica mentre Lou Reed continua il suo lavoro recitativo e di reading (trattasi sempre e comunque di un'opera teatrale). Il rischio diventa così realtà. Le due parti sembrano incollate una sull'altra, lasciando quella sensazione di copia-incolla che nuoce alle due parti e al prodotto finale.
Capita così di imbattersi in una delle canzoni più furiose dei Metallica da molti anni a questa parte, che li riconduce incredibilmente agli esordi di Kill'Em All: Mistress Dread, una furia thrash metal/noise che però con il recitato declamatorio di Reed incollato sopra, perde tutte le sue potenzialità. Seguiamo la musica o ci concentriamo sulle parole? Oppure in The View, cadenzata e pesante thrash song con un finale accelerato e lasciato alla voce di Hetfield.
Pumping Blood è forse il brano dove l'accostamento, pur nella sua diversità, funziona meglio. Stacchi pesanti e arpeggi lugubri si alternano, con le chitarre di Hetfield e Hammett che lasciano uscire sinistri riff slayeriani che si pensavano persi chissà dove e Reed che accenna uno tra i pochi versi veramente cantati. (If I pump blood in the sunshine/ And you wear a leather box with azaleas/And I pump more blood/ And it seeps through my skin/Will you adore the river /The stream, the trickle /The tributary of my heart).
La seconda parte del disco è quella che funziona meglio. La band si mette a completa disposizione di Reed, le sfuriate metal sono meno estreme e sembrano legare maggiormente con la voce .
Ottima Frustration che include un recitato teatrale di Lou Reed accompagnato solamente dalla batteria di Lars Ulrich ed un pesante e sinistro riff sabbathiano che eleva la canzone, trasformandola nel miglior brano dell'opera.(...But all I do is fall over/I don’t have the strength /I once had/In you and your prickless lover /And his easel in his eyes/I feel the pain creep up my leg/Blood runs from my nose/I puke my guts out at your feet/You’re more man than I/To be dead to have no feeling /To be dry and spermless like a girl /I want so much to hurt you...).
Little dog è cantata interamente da Reed con un sottofondo liquido e quasi inesistente, Dragon è hard rock che convince con un buon assolo di Kirk Hammett. Il finale è affidato ai 20 minuti di Junior Dad, eterea canzone con la presenza di orchestrazioni e la fine del sogno con il brusco risveglio accluso.
Lulu è un'opera che va ascoltata con i testi alla mano e la santa voglia di ripetere gli ascolti, nonostante il minutaggio elevato di quasi tutti i brani possa scoraggiare. La prima sensazione è senza dubbio straniante.
Un'opera che sicuramente resterà unica e irripetibile. L'unione di due mondi diversi (il terzo è l'opera teatrale). Due entità artistiche dissonanti-sotto molti punti di vista, generazionale e musicale in primis-che cercano un punto d'incontro e trovano alcune difficoltà nel percorso. Vanno premiati il coraggio e la voglia di mettersi in gioco.
Sul lato negativo: pesano la riuscita di pochi brani tra i dieci proposti, l'elevato minutaggio-che poche volte fa rima con scorrevolezza-e l'impressione che difficilmente ci ricorderemo di queste composizioni in futuro. Sottolineando quanto sia difficile musicare un'opera teatrale senza far cadere la tensione e far perdere la concentrazione.
Uno sfizio che gioverà più agli interpreti che agli spettatori. Anche economicamente.
Voto 6,5
martedì 18 ottobre 2011
RECENSIONE: TOM WAITS (Bad As Me)
TOM WAITS Bad As Me ( ANTI Records, 2011)
Arriva puntuale quel momento dell'anno in cui i dischi di Tom Waits suonano meglio, nell'impianto stereo. Quando i colori della natura si riempiono di tutte quelle sfumature di cui i nostri occhi si beano, quando il vento soffia sulle foglie degli alberi e le costringe a cadere giù, a passo di danza, prima di toccare terra. Waits, tutto questo, sembra saperlo: Last Leaf (...Sono l'ultima foglia sull'albero/ L'autunno ha preso il resto /Ma non mi prenderanno/ Sono l'ultima foglia sull'albero...).
Quel momento dell'anno è questo che stiamo vivendo; le giornate si accorciano e ti illudono a vivere la giornata in modo più veloce per poter godere ed assaporare della luce del sole più a lungo, senza però disdegnare totalmente l'imbrunire e il buio della notte. "La morte si nascode negli orologi"(cit. intervista rilasciata a Paolo Sorrentino su Repubblica, 15 Ottobre 2011).
Tom Waits, quest'anno fa il regalo più grande. In questi giorni possiamo mettere da parte, per una volta, le nostre copie di Blue Valentine, Rain Dogs, Bone Machine e Mule Variations, fiduciosi di ritrovarli, sempre pronti alleati, in futuro e mettere sullo stereo una nuova raccolta di tredici canzoni. La prima dall'ultimo disco Real Gone uscito sette anni fa.
Bad As me, pur non raggiungendo la sublime bellezza di alcuni suoi predecessori, è certamente una raccolta di canzoni importante; cerca di mettere ordine alla sua carriera, un pò come fece l'uscita della raccolta di inediti, Orphans, qualche anno fa. Da una parte le canzoni bastarde, dall'altra gli schiamazzi rumorosi e poi quelle più disperate e romantiche. In Bad As me ci sono tutte e rappresentano, più di ogni disco di Waits ,il suo mondo musicale riunito. Un mondo come al solito multistrato dove Waits riesce a masticare la storia della musica a suo piacimento, rileggendola in modo unico, permettendosi di citare se stesso in modo brillante senza apparire nostalgico o peggio, ripetitivo. Tom Waits al suo ventesimo disco è ancora fuori da qualsiasi ingranaggio del tempo. Inarrivabile e mai come questa volta, diretto.
C'è il Tom Waits rumorista del singolo Bad as me, che abbiamo già imparato a conoscere, con la sua voce beffarda dentro ad una rumba guidata dalla chitarra di Marc Ribot (...Sono il cappello sul letto/ sono il caffè/ il pesce o l'esca/ Sono il detective sveglio fino a tardi/ Sono il sangue sul pavimento/ Il tuono e il rombo/La barca che non affonda/ non ho chiuso occhio/ Tu sei cattiva come me ...).
C'è il Tom Waits che abbandona la sua voce da orco per il falsetto della jazzata Taking At the Same Time e per rincorrere il rock'n'roll anni '50, trasformandolo in un battito frenetico in Get Lost. La sua voce cambia, ancora, radicalmente in Back in the crowd, suadenza che si trasforma in una una ballad sentimentale che sapora di Messico con l'amarezza e la ricerca di indipendenza in età adulta.(...Se non vuoi che queste braccia ti sorreggano/ Se non vuoi che queste labbra ti bacino/ Se hai trovato qualcuno di nuovo/rimettimi in mezzo alla folla/ Metti il sole dietro le nuvole/ Rimettimi in mezzo alla folla...). Anche quando percorre strade già battute, il suo mettersi in gioco con la voce(Face to the Highway, sembra fare il verso all'anima folk di Springsteen), fa risultare tutto nuovo ed affascinante.
C'è poi l'amicizia con Keith Richards che si rinsalda nuovamente dopo i lontani Rain Dogs(1985) e Bone Machine(1992). Richards suona su quattro canzoni tra cui Chicago, Hell Broke luce e Satisfied( al basso Les Claypool) che non nasconde i suoi riferimenti ai Rolling Stones in maniera più che esplicita nella musica e nelle citazioni del testo(...Avrò soddisfazione / sarò soddisfatto / ora Mr. Jagger e Richards / Gratterò il prurito...) e sull'autunnale Last Leaf , dove il pirata Richards accompagna Waits anche al controcanto.
Il romantico Waits di inizio carriera ricompare per magia in Kiss Me: lui, il piano, la chitarra ed il basso di Marcus Shelby e il fruscio dimenticato di un vecchio vinile in sottofondo, facendo affiorare il suo appassionato bacio a Rickie Lee Jones sul retro di copertina di Blue Valentine tra neon accesi e vecchie cadillac posteggiate ai bordi della strada: (...Baciami/ Voglio che tu mi baci ancora una volta come un estraneo/ Baciami come un estraneo ancora una volta/ voglio credere che il nostro amore è un mistero/ voglio credere che il nostro amore è un peccato/ Voglio che tu mi baci come un estraneo, ancora una volta...).
Tra l'urgenza urbana guidata dai fiati dell'iniziale Chicago e una Raised Right Men che sembra uscire da una spy-story, c'è la notturna atmosfera di Pay Me, con un violino e una fisarmonica che accompagnano, in modo leggero, l'arrivo del mattino e la voglia di fuga, che si fa ancora più prepotente in Face to the Highway(...il Diavolo vuole un peccatore /Il cielo vuole una uccello/Il tavolo vuole una cena/ Le Labbra vogliono una parola/Il bicchiere vuole il vino/Il pugno vuole colpire/L'orologio vuole il tempo/ E la pala vuole lavorare...).
Prima di arrivare alla fine, piazza ancora il rumoroso blues di Hell Broke Luce, che gioca con l'hip hop e con i suoi bizzarri personaggi come già fatto nel precedente e poco capito Real Gone(2004) ma solo come un vecchio prestigiatore potrebbe fare.
Fino ad arrivare alla stupenda e narrativa chiusura di New Year's Eve con la chitarra di David Hidalgo(massiccia la sua presenza su tutto il disco) che conduce le danze di un lento, caloroso e alcolizzato walzer, che abbraccia, avvolge e coccola, invogliando a ripetere l'ascolto ripartendo dal principio (...Tutto il rumore era inquietante/ ...e io non riuscivo a trovare Irving/ E 'stato come essere in due posti nello stesso momento/ E poi ho nascosto le chiavi della tua macchina / Ho preparato un caffè nero e ho buttato giù il resto del rum...).
Per chi ne ha voglia, sull'edizione Deluxe del disco, la magia prosegue con altre tre canzoni: She Stole the Blush, Tell Me, After You Die.
Waits continua il suo discorso di decostruzione della forma canzone iniziata negli anni ottanta con l'aiuto della moglie Kathleen Brennan(coautrice dei testi). Non sarà più sorprendente come una volta, ma la sua personale miscela musicale: bizzarra, visionaria e frenetica che allo stesso tempo sa essere poetica, romantica e malinconica continua a conquistare adesso come quarant'anni fa. Polvere e brillantina. Antiche foto e quotidianità unite. Magia ineguagliabile di questo autunno alle porte.
Arriva puntuale quel momento dell'anno in cui i dischi di Tom Waits suonano meglio, nell'impianto stereo. Quando i colori della natura si riempiono di tutte quelle sfumature di cui i nostri occhi si beano, quando il vento soffia sulle foglie degli alberi e le costringe a cadere giù, a passo di danza, prima di toccare terra. Waits, tutto questo, sembra saperlo: Last Leaf (...Sono l'ultima foglia sull'albero/ L'autunno ha preso il resto /Ma non mi prenderanno/ Sono l'ultima foglia sull'albero...).
Quel momento dell'anno è questo che stiamo vivendo; le giornate si accorciano e ti illudono a vivere la giornata in modo più veloce per poter godere ed assaporare della luce del sole più a lungo, senza però disdegnare totalmente l'imbrunire e il buio della notte. "La morte si nascode negli orologi"(cit. intervista rilasciata a Paolo Sorrentino su Repubblica, 15 Ottobre 2011).
Tom Waits, quest'anno fa il regalo più grande. In questi giorni possiamo mettere da parte, per una volta, le nostre copie di Blue Valentine, Rain Dogs, Bone Machine e Mule Variations, fiduciosi di ritrovarli, sempre pronti alleati, in futuro e mettere sullo stereo una nuova raccolta di tredici canzoni. La prima dall'ultimo disco Real Gone uscito sette anni fa.
Bad As me, pur non raggiungendo la sublime bellezza di alcuni suoi predecessori, è certamente una raccolta di canzoni importante; cerca di mettere ordine alla sua carriera, un pò come fece l'uscita della raccolta di inediti, Orphans, qualche anno fa. Da una parte le canzoni bastarde, dall'altra gli schiamazzi rumorosi e poi quelle più disperate e romantiche. In Bad As me ci sono tutte e rappresentano, più di ogni disco di Waits ,il suo mondo musicale riunito. Un mondo come al solito multistrato dove Waits riesce a masticare la storia della musica a suo piacimento, rileggendola in modo unico, permettendosi di citare se stesso in modo brillante senza apparire nostalgico o peggio, ripetitivo. Tom Waits al suo ventesimo disco è ancora fuori da qualsiasi ingranaggio del tempo. Inarrivabile e mai come questa volta, diretto.
C'è il Tom Waits rumorista del singolo Bad as me, che abbiamo già imparato a conoscere, con la sua voce beffarda dentro ad una rumba guidata dalla chitarra di Marc Ribot (...Sono il cappello sul letto/ sono il caffè/ il pesce o l'esca/ Sono il detective sveglio fino a tardi/ Sono il sangue sul pavimento/ Il tuono e il rombo/La barca che non affonda/ non ho chiuso occhio/ Tu sei cattiva come me ...).
C'è il Tom Waits che abbandona la sua voce da orco per il falsetto della jazzata Taking At the Same Time e per rincorrere il rock'n'roll anni '50, trasformandolo in un battito frenetico in Get Lost. La sua voce cambia, ancora, radicalmente in Back in the crowd, suadenza che si trasforma in una una ballad sentimentale che sapora di Messico con l'amarezza e la ricerca di indipendenza in età adulta.(...Se non vuoi che queste braccia ti sorreggano/ Se non vuoi che queste labbra ti bacino/ Se hai trovato qualcuno di nuovo/rimettimi in mezzo alla folla/ Metti il sole dietro le nuvole/ Rimettimi in mezzo alla folla...). Anche quando percorre strade già battute, il suo mettersi in gioco con la voce(Face to the Highway, sembra fare il verso all'anima folk di Springsteen), fa risultare tutto nuovo ed affascinante.
C'è poi l'amicizia con Keith Richards che si rinsalda nuovamente dopo i lontani Rain Dogs(1985) e Bone Machine(1992). Richards suona su quattro canzoni tra cui Chicago, Hell Broke luce e Satisfied( al basso Les Claypool) che non nasconde i suoi riferimenti ai Rolling Stones in maniera più che esplicita nella musica e nelle citazioni del testo(...Avrò soddisfazione / sarò soddisfatto / ora Mr. Jagger e Richards / Gratterò il prurito...) e sull'autunnale Last Leaf , dove il pirata Richards accompagna Waits anche al controcanto.
Il romantico Waits di inizio carriera ricompare per magia in Kiss Me: lui, il piano, la chitarra ed il basso di Marcus Shelby e il fruscio dimenticato di un vecchio vinile in sottofondo, facendo affiorare il suo appassionato bacio a Rickie Lee Jones sul retro di copertina di Blue Valentine tra neon accesi e vecchie cadillac posteggiate ai bordi della strada: (...Baciami/ Voglio che tu mi baci ancora una volta come un estraneo/ Baciami come un estraneo ancora una volta/ voglio credere che il nostro amore è un mistero/ voglio credere che il nostro amore è un peccato/ Voglio che tu mi baci come un estraneo, ancora una volta...).
Tra l'urgenza urbana guidata dai fiati dell'iniziale Chicago e una Raised Right Men che sembra uscire da una spy-story, c'è la notturna atmosfera di Pay Me, con un violino e una fisarmonica che accompagnano, in modo leggero, l'arrivo del mattino e la voglia di fuga, che si fa ancora più prepotente in Face to the Highway(...il Diavolo vuole un peccatore /Il cielo vuole una uccello/Il tavolo vuole una cena/ Le Labbra vogliono una parola/Il bicchiere vuole il vino/Il pugno vuole colpire/L'orologio vuole il tempo/ E la pala vuole lavorare...).
Prima di arrivare alla fine, piazza ancora il rumoroso blues di Hell Broke Luce, che gioca con l'hip hop e con i suoi bizzarri personaggi come già fatto nel precedente e poco capito Real Gone(2004) ma solo come un vecchio prestigiatore potrebbe fare.
Fino ad arrivare alla stupenda e narrativa chiusura di New Year's Eve con la chitarra di David Hidalgo(massiccia la sua presenza su tutto il disco) che conduce le danze di un lento, caloroso e alcolizzato walzer, che abbraccia, avvolge e coccola, invogliando a ripetere l'ascolto ripartendo dal principio (...Tutto il rumore era inquietante/ ...e io non riuscivo a trovare Irving/ E 'stato come essere in due posti nello stesso momento/ E poi ho nascosto le chiavi della tua macchina / Ho preparato un caffè nero e ho buttato giù il resto del rum...).
Per chi ne ha voglia, sull'edizione Deluxe del disco, la magia prosegue con altre tre canzoni: She Stole the Blush, Tell Me, After You Die.
Waits continua il suo discorso di decostruzione della forma canzone iniziata negli anni ottanta con l'aiuto della moglie Kathleen Brennan(coautrice dei testi). Non sarà più sorprendente come una volta, ma la sua personale miscela musicale: bizzarra, visionaria e frenetica che allo stesso tempo sa essere poetica, romantica e malinconica continua a conquistare adesso come quarant'anni fa. Polvere e brillantina. Antiche foto e quotidianità unite. Magia ineguagliabile di questo autunno alle porte.
lunedì 17 ottobre 2011
RECENSIONE: KIMBALL/JAMISON
KIMBALL/JAMISON Kimball Jamison (Frontiers Records, 2011)
L'etichetta partenopea Frontiers Records, da alcuni anni sta monopolizzando il mercato AOR e classic Hard Rock, accaparrandosi vecchie e nuove glorie del genere. La sfilza di nomi si fa di anno in anno sempre più lunga e blasonata: Toto, Journey, Asia,Winger, Tesla e tantissime altre band hanno trovato nella label fondata da Perugino una spalla ideale fatta di competenza e amore per il rock. La voce si diffonde in fretta e in tempi in cui le grandi case discografiche puntano sulle vendite stagionali, una label fatta di fans competenti è merce assai rara.
Quello che l'etichetta propone su un piatto d'argento a due dei più grandi cantanti ed esponenti del genere è cosa da non rifiutare.
Ecco così servito il disco AOR dell'anno. Bobby Kimball, cantante storico dei Toto e Jimi Jamison dal 1984 nei Survivor(sua la voce nella hit "Burning Heart") colgono l'occasione per rinverdire un'amicizia ultradecennale e unire le loro inconfondibili voci. Canzoni dal taglio hard e moderno confermano quanto label e band coinvolte non giochino mai sul passato ma guardino al presente. Per questo debutto del duo Kimball/Jamison, grande merito per i suoni va al produttore tedesco Mat Sinner, vecchia volpe dell' Heavy Metal melodico europeo e già membro e fondatore di Sinner e Primal Fear e canzoni scritte da grandi songwriters del genere come Jim Peterick, Richard Page, Robert sall, Roby Goodrum e molti altri.
Accompagnati da una band di tutto rispetto che vede lo stesso Sinner al basso, il duttile chitarrista Alex Beyrodt(Silent Force, Voodoo Circle), Martin Schmidt(Atrocity e turnista per tanti artisti) alla batteria e Jimmy Kresic(Voodoo Circle) alle tastiere, Kimball e Jamison si dividono quasi in modo democratico le vocals durante l'intero disco per unirsi nei tanti chorus presenti.
Dai momenti più hard di Can't wait for love,primo singolo e vero masterpiece del progetto, con le sue tastiere catchy e i pesanti riff di chitarra. I chorus non possono che rimandare ai migliori Toto.
Chasing Euphoria e Get back in the game sono due buoni esercizi di hard rock melodico con i chorus che non lasciano scampo e con la voce di Kimball che svetta come nei suoi migliori anni spesi con Steve Lukather e soci ed in alcuni frangenti più hard sembra di ascoltare l'ultimo disco registrato dalla band americana, quel "Falling in Between" (2006) che aveva svecchiato il sound in modo superlativo.
Per contro Jamison, meno iperbolico il suo modo di cantare, dà concretezza a canzoni come l'iniziale e piena di feeling Worth Fighting For e alla più melodica Sail Away, alla bella ed evocativa ballad pianistica Find another way fino ad arrivare alla conclusiva e cristallina Your Photograph, uno dei punti più alti di un disco che cerca il rilancio di un genere che ha certamente conosciuto tempi più brillanti. Your Photograph "fotografa" veramente in modo perfetto il carattere del disco e di due cantanti ancora in piena forma che hanno poca voglia di crogiolarsi sugli allori passati, mettendosi in gioco con freschezza.
A sentire i due, il progetto sembra essere qualcosa di veramente concreto che non si esaurirà con questo debutto ma sembra già promettere un seguito.
L'etichetta partenopea Frontiers Records, da alcuni anni sta monopolizzando il mercato AOR e classic Hard Rock, accaparrandosi vecchie e nuove glorie del genere. La sfilza di nomi si fa di anno in anno sempre più lunga e blasonata: Toto, Journey, Asia,Winger, Tesla e tantissime altre band hanno trovato nella label fondata da Perugino una spalla ideale fatta di competenza e amore per il rock. La voce si diffonde in fretta e in tempi in cui le grandi case discografiche puntano sulle vendite stagionali, una label fatta di fans competenti è merce assai rara.
Quello che l'etichetta propone su un piatto d'argento a due dei più grandi cantanti ed esponenti del genere è cosa da non rifiutare.
Ecco così servito il disco AOR dell'anno. Bobby Kimball, cantante storico dei Toto e Jimi Jamison dal 1984 nei Survivor(sua la voce nella hit "Burning Heart") colgono l'occasione per rinverdire un'amicizia ultradecennale e unire le loro inconfondibili voci. Canzoni dal taglio hard e moderno confermano quanto label e band coinvolte non giochino mai sul passato ma guardino al presente. Per questo debutto del duo Kimball/Jamison, grande merito per i suoni va al produttore tedesco Mat Sinner, vecchia volpe dell' Heavy Metal melodico europeo e già membro e fondatore di Sinner e Primal Fear e canzoni scritte da grandi songwriters del genere come Jim Peterick, Richard Page, Robert sall, Roby Goodrum e molti altri.
Accompagnati da una band di tutto rispetto che vede lo stesso Sinner al basso, il duttile chitarrista Alex Beyrodt(Silent Force, Voodoo Circle), Martin Schmidt(Atrocity e turnista per tanti artisti) alla batteria e Jimmy Kresic(Voodoo Circle) alle tastiere, Kimball e Jamison si dividono quasi in modo democratico le vocals durante l'intero disco per unirsi nei tanti chorus presenti.
Dai momenti più hard di Can't wait for love,primo singolo e vero masterpiece del progetto, con le sue tastiere catchy e i pesanti riff di chitarra. I chorus non possono che rimandare ai migliori Toto.
Chasing Euphoria e Get back in the game sono due buoni esercizi di hard rock melodico con i chorus che non lasciano scampo e con la voce di Kimball che svetta come nei suoi migliori anni spesi con Steve Lukather e soci ed in alcuni frangenti più hard sembra di ascoltare l'ultimo disco registrato dalla band americana, quel "Falling in Between" (2006) che aveva svecchiato il sound in modo superlativo.
Per contro Jamison, meno iperbolico il suo modo di cantare, dà concretezza a canzoni come l'iniziale e piena di feeling Worth Fighting For e alla più melodica Sail Away, alla bella ed evocativa ballad pianistica Find another way fino ad arrivare alla conclusiva e cristallina Your Photograph, uno dei punti più alti di un disco che cerca il rilancio di un genere che ha certamente conosciuto tempi più brillanti. Your Photograph "fotografa" veramente in modo perfetto il carattere del disco e di due cantanti ancora in piena forma che hanno poca voglia di crogiolarsi sugli allori passati, mettendosi in gioco con freschezza.
A sentire i due, il progetto sembra essere qualcosa di veramente concreto che non si esaurirà con questo debutto ma sembra già promettere un seguito.
sabato 15 ottobre 2011
RECENSIONE: JOE HENRY ( Reverie)
JOE HENRY Reverie ( ANTI Records, 2011)
Camminando velocemente, cercando di seminare il freddo pungente di Gennaio, lasciandolo alle spalle. All'interno di quella grande gigantografia in bianco e nero appesa al muro che fotografa le vie secondarie di quella grande città: dove i tombini sbuffano e la sottile patina di ghiaccio si sta sciogliendo lentamente nelle tarde ore della mattinata. I lampioni sono ancora accesi dalla notte prima e il sole timidamente cerca di pugnalare la nebbia. Il terzo caffè, puro esercizio di riscaldamento, è andato giù veloce quando dalle finestre aperte di uno scantinato si materializza della musica. Lo scambio di parti fa fuoriuscire la musica dalla finestra, mentre i rumori della strada entrano nella stanza insonorizzata dove un piano, una chitarra, un contrabbasso e una batteria suonano coesi. Musica e rumori si uniscono, diventano una cosa sola. La curiosità di sbirciare dalla finestra è tanta, la voglia di entrare diventa ossessiva dopo aver capito che dentro quello scantinato si produce romanticismo e calore che possono cambiarti la giornata o come minimo riscaldare un'ora della fredda quotidianità. Antichi sapori che cercavi da tempo, dimenticando dove li avevi incontrati l'ultima volta.
Joe Henry ha voglia di acustico, di fermare il tempo della vita che scorre lungo 14 canzoni dal sapore di antica pellicola in bianco e nero, colorata solamente dal rosso sangue che vi scorre dentro (sue testuali parole). Lo fa, ci riesce e ci dona canzoni jazzate nello spirito dove i tasti del pianoforte rimbombano forte, i tocchi delle bacchette e le rullate di batteria di Jay Bellerose sono protagonisti (Heaven's Escape) come il respiro che ci tiene in vita. Si uniscono gli stridori delle corde di una chitarra durante Odetta, un titolo, un programma.
Un timido cane ulula in lontananza e il gospel soul di Sticks and stones è un perfetto rifugio su cui contare. Grand Street sembra giocare con un tempo di valzer e con l'improvvisazione dei musicisti coinvolti (Kefefus Ciancia al piano e David Piltch al contrabbasso) e Joe Henry intrattenere come consumato crooner, anche quando duetta con la sua pupilla Lisa Hannigan in Piano Furnace.
Un'altro ospite ha bussato alla porta: è Marc Ribot. Porta con se la chitarra. Si unisce. Dalla finestra escono fuori Dark Tears e Tomorrow is October. Il cane continua il suo stanco esercizio di insofferenza, mentre Ribot impugna l'ukulele ed esce Deathbed Versions.
Il ghiaccio è rotto e Joe Henry con la sua band corrono via lisci, tra folk ( Room at Arles) e jazz appassionati ( Eyes out for you), non importa se chi passa vicino alla finestra dello scantinato possa sentire tutto, impossessati dal fuoco della musica si continua. E' il dodicesimo album del cinquantenne cantautore/produttore, ma la voglia di mettersi alla prova è tanta, soprattutto con un prodotto che elogia l'essenzialità.
Gioca con l'acustica degli strumenti e con l'evocazione delle parole, intente a scardinare il trascorrere del tempo con dimenticata e calorosa vena romantica. Joe Henry, dall'alto dei tanti premi vinti in carriera, anche quando si affida al classico non smette di sperimentare con la musica, in totale continuità con le sue passate esperienze. Qui toglie per arricchire. Anche se è ancora presto e banale, Reverie si presta bene a chi vive ancora la nascita del Salvatore come una festa da passare nel tepore rassicurante delle mura domestiche, a patto di ricordarsi di lasciare aperta una finestra. I rumori devono entrare.
Camminando velocemente, cercando di seminare il freddo pungente di Gennaio, lasciandolo alle spalle. All'interno di quella grande gigantografia in bianco e nero appesa al muro che fotografa le vie secondarie di quella grande città: dove i tombini sbuffano e la sottile patina di ghiaccio si sta sciogliendo lentamente nelle tarde ore della mattinata. I lampioni sono ancora accesi dalla notte prima e il sole timidamente cerca di pugnalare la nebbia. Il terzo caffè, puro esercizio di riscaldamento, è andato giù veloce quando dalle finestre aperte di uno scantinato si materializza della musica. Lo scambio di parti fa fuoriuscire la musica dalla finestra, mentre i rumori della strada entrano nella stanza insonorizzata dove un piano, una chitarra, un contrabbasso e una batteria suonano coesi. Musica e rumori si uniscono, diventano una cosa sola. La curiosità di sbirciare dalla finestra è tanta, la voglia di entrare diventa ossessiva dopo aver capito che dentro quello scantinato si produce romanticismo e calore che possono cambiarti la giornata o come minimo riscaldare un'ora della fredda quotidianità. Antichi sapori che cercavi da tempo, dimenticando dove li avevi incontrati l'ultima volta.
Joe Henry ha voglia di acustico, di fermare il tempo della vita che scorre lungo 14 canzoni dal sapore di antica pellicola in bianco e nero, colorata solamente dal rosso sangue che vi scorre dentro (sue testuali parole). Lo fa, ci riesce e ci dona canzoni jazzate nello spirito dove i tasti del pianoforte rimbombano forte, i tocchi delle bacchette e le rullate di batteria di Jay Bellerose sono protagonisti (Heaven's Escape) come il respiro che ci tiene in vita. Si uniscono gli stridori delle corde di una chitarra durante Odetta, un titolo, un programma.
Un timido cane ulula in lontananza e il gospel soul di Sticks and stones è un perfetto rifugio su cui contare. Grand Street sembra giocare con un tempo di valzer e con l'improvvisazione dei musicisti coinvolti (Kefefus Ciancia al piano e David Piltch al contrabbasso) e Joe Henry intrattenere come consumato crooner, anche quando duetta con la sua pupilla Lisa Hannigan in Piano Furnace.
Un'altro ospite ha bussato alla porta: è Marc Ribot. Porta con se la chitarra. Si unisce. Dalla finestra escono fuori Dark Tears e Tomorrow is October. Il cane continua il suo stanco esercizio di insofferenza, mentre Ribot impugna l'ukulele ed esce Deathbed Versions.
Il ghiaccio è rotto e Joe Henry con la sua band corrono via lisci, tra folk ( Room at Arles) e jazz appassionati ( Eyes out for you), non importa se chi passa vicino alla finestra dello scantinato possa sentire tutto, impossessati dal fuoco della musica si continua. E' il dodicesimo album del cinquantenne cantautore/produttore, ma la voglia di mettersi alla prova è tanta, soprattutto con un prodotto che elogia l'essenzialità.
Gioca con l'acustica degli strumenti e con l'evocazione delle parole, intente a scardinare il trascorrere del tempo con dimenticata e calorosa vena romantica. Joe Henry, dall'alto dei tanti premi vinti in carriera, anche quando si affida al classico non smette di sperimentare con la musica, in totale continuità con le sue passate esperienze. Qui toglie per arricchire. Anche se è ancora presto e banale, Reverie si presta bene a chi vive ancora la nascita del Salvatore come una festa da passare nel tepore rassicurante delle mura domestiche, a patto di ricordarsi di lasciare aperta una finestra. I rumori devono entrare.
giovedì 13 ottobre 2011
RECENSIONE: THE ANSWER (Revival)
The ANSWER Revival ( Spinefarm records, 2011)
Per il terzo capitolo della loro carriera, i The Answer lasciano le verdi vallate nord irlandesi di casa(benchè la copertina sembri dire l'opposto) per approdare sulle rosse terre americane situate nel confine tra Stati Uniti e Messico, luogo dove Revival ha preso forma tra una tappa e l'altra del lungo tour intrapreso dalla band da supporto agli Ac/Dc e documentato nell'altrettanto fresco di stampa e dall'esplicito titolo:"412 Days of Rock'n'Roll" .
La location di registrazione vicina a El Paso ha lasciato un segno pesante nella direzione musicale, marchiando la maturità raggiunta da Cormac Neeson e soci avvicinandoli ad un suono di matrice americana più marcato ed in alcuni punti vicino all'attitudine street metal anni ottanta, con la produzione deluxe di Chris ‘Frenchie’ Smith e aumentando le sfumature musicali del gruppo rispetto ai pur due ottimi dischi precedenti ("Rise"-2006 e "Everyday Demons"-2009).
Se con i precedenti dischi il rischio di essere liquidati come i nuovi cloni dei grandi gruppi hard rock britannici degli anni settanta(Led Zeppelin in primis) era sempre dietro l'angolo(Jimmy Page in persona si prodigò di elogi e li accomunò al dirigibile...), la maggior varietà di Revival, depone a loro favore. Ascoltando la slide che introduce Waste your tears che apre il disco in modo frizzante con grandi chorus da grande arena rock ottantiana e chitarre in grande spolvero. Trouble è un hard blues con tanto di armonica che mi ricorda il suono che Richie Kotzen riuscì ad introdurre nei patinati Poison, sporcandoli di blues, sfornando il sempre poco acclamato e da rivalutare Native Tongue(1993), a tutti gli effetti il picco qualitativo del gruppo americano.
La bravura dei The Answer nel mischiare melodia e la pesante impronta hard rock si nota in tracce come Nowhere Freeway con Neeson che duetta con la voce femminile di Lynne Jackman, cantante dei Saint Jude e nella semi ballad Can't remember, can't forget con la sua impronta hair street metal.
Tornado, uno degli episodi più riusciti , con parti acustiche ed esplosioni elettriche che si rincorrono con la fenomenale voce del rosso cantante che gioca a fare Robert Plant. Indubbiamente uno dei migliori singer dell'ultima generazione.
Certo, il giochino dei paragoni e dei rimandi è sempre in agguato: Use me, può essere un devoto omaggio che rasenta il plagio ai vicini di casa scozzesi Nazareth e all'ugola del loro cantante Dan McCafferty o One more Revival che batte i territori degli amati Free.
Anche quando alcune canzoni strizzano troppo l'occhio al facile ritornello, come New Day Rising e il primo singolo scelto Vida(I want you), il tutto viene salvato dai prodigiosi interventi chitarristici di Paul Mahon.
La ricerca ossessiva del chorus diventa così croce e delizia della band, in alcuni punti del disco offusca il buon lavoro delle chitarre ma in linea di massima eleva Revival a disco dove l'equilibrio tra i due fattori hard e melodia trovano la simbiosi perfetta, divenendo insieme a "Pressure & Time" dei Rival Sons la migliore uscita dell'anno nel settore. Interessante, infine, la deluxe edition dell'album che aggiunge un bonus cd ("After the Revival") con un paio di inediti(Piece by piece, Faith gone down), demos, versioni live acustiche e la cover di Fire and water dei Free, per un totale di undici canzoni e facendone un valore aggiunto a tutti gli effetti.
Per il terzo capitolo della loro carriera, i The Answer lasciano le verdi vallate nord irlandesi di casa(benchè la copertina sembri dire l'opposto) per approdare sulle rosse terre americane situate nel confine tra Stati Uniti e Messico, luogo dove Revival ha preso forma tra una tappa e l'altra del lungo tour intrapreso dalla band da supporto agli Ac/Dc e documentato nell'altrettanto fresco di stampa e dall'esplicito titolo:"412 Days of Rock'n'Roll" .
La location di registrazione vicina a El Paso ha lasciato un segno pesante nella direzione musicale, marchiando la maturità raggiunta da Cormac Neeson e soci avvicinandoli ad un suono di matrice americana più marcato ed in alcuni punti vicino all'attitudine street metal anni ottanta, con la produzione deluxe di Chris ‘Frenchie’ Smith e aumentando le sfumature musicali del gruppo rispetto ai pur due ottimi dischi precedenti ("Rise"-2006 e "Everyday Demons"-2009).
Se con i precedenti dischi il rischio di essere liquidati come i nuovi cloni dei grandi gruppi hard rock britannici degli anni settanta(Led Zeppelin in primis) era sempre dietro l'angolo(Jimmy Page in persona si prodigò di elogi e li accomunò al dirigibile...), la maggior varietà di Revival, depone a loro favore. Ascoltando la slide che introduce Waste your tears che apre il disco in modo frizzante con grandi chorus da grande arena rock ottantiana e chitarre in grande spolvero. Trouble è un hard blues con tanto di armonica che mi ricorda il suono che Richie Kotzen riuscì ad introdurre nei patinati Poison, sporcandoli di blues, sfornando il sempre poco acclamato e da rivalutare Native Tongue(1993), a tutti gli effetti il picco qualitativo del gruppo americano.
La bravura dei The Answer nel mischiare melodia e la pesante impronta hard rock si nota in tracce come Nowhere Freeway con Neeson che duetta con la voce femminile di Lynne Jackman, cantante dei Saint Jude e nella semi ballad Can't remember, can't forget con la sua impronta hair street metal.
Tornado, uno degli episodi più riusciti , con parti acustiche ed esplosioni elettriche che si rincorrono con la fenomenale voce del rosso cantante che gioca a fare Robert Plant. Indubbiamente uno dei migliori singer dell'ultima generazione.
Certo, il giochino dei paragoni e dei rimandi è sempre in agguato: Use me, può essere un devoto omaggio che rasenta il plagio ai vicini di casa scozzesi Nazareth e all'ugola del loro cantante Dan McCafferty o One more Revival che batte i territori degli amati Free.
Anche quando alcune canzoni strizzano troppo l'occhio al facile ritornello, come New Day Rising e il primo singolo scelto Vida(I want you), il tutto viene salvato dai prodigiosi interventi chitarristici di Paul Mahon.
La ricerca ossessiva del chorus diventa così croce e delizia della band, in alcuni punti del disco offusca il buon lavoro delle chitarre ma in linea di massima eleva Revival a disco dove l'equilibrio tra i due fattori hard e melodia trovano la simbiosi perfetta, divenendo insieme a "Pressure & Time" dei Rival Sons la migliore uscita dell'anno nel settore. Interessante, infine, la deluxe edition dell'album che aggiunge un bonus cd ("After the Revival") con un paio di inediti(Piece by piece, Faith gone down), demos, versioni live acustiche e la cover di Fire and water dei Free, per un totale di undici canzoni e facendone un valore aggiunto a tutti gli effetti.
lunedì 10 ottobre 2011
RECENSIONE: JOHNNY WINTER (Roots)
JOHHNY WINTER Roots (Megaforce/Sony, 2011)
Non fosse per le rughe che segnano il percorso della sua vita, poche cose sono cambiate nell'aspetto fisico di Johnny Winter, dal 1969, anno del suo basilare debutto omonimo ad oggi( magie o scherzi dell'albinismo?). Il fisico è sempre asciutto, pelle bianchissima macchiata come pelo di leopardo dai suoi tatuaggi, ossa sporgenti, lunghi e fini capelli lisci che fuoriescono dal capellaccio calato in testa e chitarra in mano mimetizzata come un prolungamento del suo esile corpo. Vincitore di tante battaglie importanti nella vita che comunque ne hanno influenzato la salute, a 67 anni continua a prodigarsi nell' insegnare il verbo del blues bianco.
Mancava su disco dal 2004, anno di "I'm A Bluesman" (negli ultimi anni presente sul mercato solamente con numerosi live) e questo suo ritorno, sulla spinta ed incoraggiamento conto terzi, è una celebrazione totale del genere che lui stesso contribuì a svecchiare, tanto da convincere, nel 1977, un padre putativo come Muddy Waters ad incidere con lui. Lo produsse e contribuirono insieme a rilucidare il blues con l'album Hard Again. La carriera di Waters, in netto calo negli anni settanta, riprese a correre e finirono per influenzare più di un chitarrista a venire.
Blues e chitarre , questi gli ingredienti di sempre che Winter ha scelto per questo ritorno: grandi canzoni della gioventù che lo hanno fatto crescere, ascoltate alla radio quando era un dodicenne, ed importanti ospiti ad aiutarlo. Poche celebrazioni come nel suo stile e tanta musica. Da una parte la sua voce, la sua chitarra e la sua band: Paul Nelson (anche produttore del lavoro) alla chitarra, Scott Spray al basso e Vito Liuzzi alla batteria, dall'altra parte undici classici senza tempo ed una schiera di ospiti di tutto rispetto.
Mi piace partire dalla strumentale Honk Tonk, un classico suonato con il fratello Edgar al sax: immaginarli ancora ragazzi, sopra ad un palco nei clubs texani, mentre riscaldano il pubblico con i sogni già proiettati nel futuro.I due fratelli rifanno un pezzo che li ha visti crescere insieme, sugellando l'infinito amore verso la musica e quel sogno che si è avverato.
Cosa dire quando la coppia dell'anno Tedeschi/Trucks si separa momentaneamente: la slide di Dereck Trucks (Allman Brothers Band) che si unisce a Winter in una infuocata versione di Dust my broom-quando tutto ebbe un inizio con Robert Johnson ed un proseguo con Elmore James-e la voce di Susan Tedeschi si affianca a quella di Winter in Bright lights big city di Jimmy Reed. Due matrimoni pienamente riusciti.
Quando il blues inventa il rock'n'roll : Maybelline di Chuck Berry suonata insieme al tocco country di Vince Gill.
La continuità della tradizione di Elmore James in Done Somebody Wrong suonata con Warren Haynes (Allman Brothers Band, Gov't Mule), il discepolo che più di ogni altro ha regnato nell'ultimo decennio.
T-Bone Shuffle di T-Bone walker con Sonny Landreth apre il disco con canonico fervore accendendo la fiamma che scalderà tutto il disco e vedrà ancora Jimmy Vivino, John Popper (Blues Traveler) e il tastierista jazz John Medesky unirsi a Winter che anche da solo, senza ospiti, con Got my Mojo workin' del vecchio amico Muddy Waters fa saltare e tenere il tempo mentre le sacre fiamme si propagano.
Un disco che non è la solita (auto)celebrazione di routine ma un vibrante, sentito e fresco omaggio di un vero bluesman, con tante chitarre riunite in una sola passione. Eroi omaggiati da un eroe. Poco altro da chiedere.
Non fosse per le rughe che segnano il percorso della sua vita, poche cose sono cambiate nell'aspetto fisico di Johnny Winter, dal 1969, anno del suo basilare debutto omonimo ad oggi( magie o scherzi dell'albinismo?). Il fisico è sempre asciutto, pelle bianchissima macchiata come pelo di leopardo dai suoi tatuaggi, ossa sporgenti, lunghi e fini capelli lisci che fuoriescono dal capellaccio calato in testa e chitarra in mano mimetizzata come un prolungamento del suo esile corpo. Vincitore di tante battaglie importanti nella vita che comunque ne hanno influenzato la salute, a 67 anni continua a prodigarsi nell' insegnare il verbo del blues bianco.
Mancava su disco dal 2004, anno di "I'm A Bluesman" (negli ultimi anni presente sul mercato solamente con numerosi live) e questo suo ritorno, sulla spinta ed incoraggiamento conto terzi, è una celebrazione totale del genere che lui stesso contribuì a svecchiare, tanto da convincere, nel 1977, un padre putativo come Muddy Waters ad incidere con lui. Lo produsse e contribuirono insieme a rilucidare il blues con l'album Hard Again. La carriera di Waters, in netto calo negli anni settanta, riprese a correre e finirono per influenzare più di un chitarrista a venire.
Blues e chitarre , questi gli ingredienti di sempre che Winter ha scelto per questo ritorno: grandi canzoni della gioventù che lo hanno fatto crescere, ascoltate alla radio quando era un dodicenne, ed importanti ospiti ad aiutarlo. Poche celebrazioni come nel suo stile e tanta musica. Da una parte la sua voce, la sua chitarra e la sua band: Paul Nelson (anche produttore del lavoro) alla chitarra, Scott Spray al basso e Vito Liuzzi alla batteria, dall'altra parte undici classici senza tempo ed una schiera di ospiti di tutto rispetto.
Mi piace partire dalla strumentale Honk Tonk, un classico suonato con il fratello Edgar al sax: immaginarli ancora ragazzi, sopra ad un palco nei clubs texani, mentre riscaldano il pubblico con i sogni già proiettati nel futuro.I due fratelli rifanno un pezzo che li ha visti crescere insieme, sugellando l'infinito amore verso la musica e quel sogno che si è avverato.
Cosa dire quando la coppia dell'anno Tedeschi/Trucks si separa momentaneamente: la slide di Dereck Trucks (Allman Brothers Band) che si unisce a Winter in una infuocata versione di Dust my broom-quando tutto ebbe un inizio con Robert Johnson ed un proseguo con Elmore James-e la voce di Susan Tedeschi si affianca a quella di Winter in Bright lights big city di Jimmy Reed. Due matrimoni pienamente riusciti.
Quando il blues inventa il rock'n'roll : Maybelline di Chuck Berry suonata insieme al tocco country di Vince Gill.
La continuità della tradizione di Elmore James in Done Somebody Wrong suonata con Warren Haynes (Allman Brothers Band, Gov't Mule), il discepolo che più di ogni altro ha regnato nell'ultimo decennio.
T-Bone Shuffle di T-Bone walker con Sonny Landreth apre il disco con canonico fervore accendendo la fiamma che scalderà tutto il disco e vedrà ancora Jimmy Vivino, John Popper (Blues Traveler) e il tastierista jazz John Medesky unirsi a Winter che anche da solo, senza ospiti, con Got my Mojo workin' del vecchio amico Muddy Waters fa saltare e tenere il tempo mentre le sacre fiamme si propagano.
Un disco che non è la solita (auto)celebrazione di routine ma un vibrante, sentito e fresco omaggio di un vero bluesman, con tante chitarre riunite in una sola passione. Eroi omaggiati da un eroe. Poco altro da chiedere.
giovedì 6 ottobre 2011
RECENSIONE: MASTODON (The Hunter)
MASTODON The Hunter (Roadrunner Records, 2011)
Sarà, The Hunter, quel passo di troppo che condusse il "Black Album" e "Songs for the Deaf" e i loro rispettivi autori verso il grande pubblico mainstream, slegato da quello affezionato e devoto di settore? Difficile rispondere a caldo, a ridosso dell'uscita del quinto lavoro della band di Atlanta. Per ora, diamoci qualche anno per valutare feedback e passi futuri. Ma finito l'ascolto, una mosca s'infila nell'orecchio e un piccolo pensiero lo si fa, soprattutto avendo, ancora, le orecchie foderate con i suoni dei precedenti dischi. Senza che questo sia un male ma piuttosto sperando sia la tappa di una carriera fino a qui ineccepibile e la voglia del gruppo di confrontarsi con qualcosa di diverso. Dopo tutto quei due album citati sono entrati di diritto tra gli imprenscindibili del rock, quindi quale augurio migliore? Qualcuno non sarà d'accordo.
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero). Le grandi capacità tecniche e compositive dei singoli elementi rimangono inalterate ma vanno ad esplorare altri terreni più accomodanti all'ascoltatore distratto.
Per la prima volta l'album non è un concept ma una raccolta di 13 canzoni, snelle ed univoche nella loro struttura. Non più lunghe e complicate suite ma canzoni più vicine alla canonicità come struttura e questo va a favore di una maggior fluidità e groove, incorrendo però nell'arma a doppio taglio che i fans della prima ora potrebbero mal digerire.
Dopo aver esplorato terrirori quasi progressive negli ultimi due strepitosi dischi Blood Mountain e Crack the skye, pieni di canzoni stratificate e articolate con i loro toni profondi, psichedelici e spaziali, traspare la voglia di dare alla melodia uno spiraglio maggiore. Le canzoni diventano dirette e spontenee, con poco post lavoro dietro , nonostante la superba produzione di Mike Elizondo. Anche la scelta del produttore, proveniente dal mondo hip hop è una sfida che a posteriori si può dire coraggiosa ed in parte vinta.
Le vocals sono quasi sempre pulite(...e purtroppo non sempre ricoprono il ruolo con efficacia), riprendendo l'ultimo Crack The Skye(2009) e poche volte si lasciano andare allo "sporco growl", la batteria di Brann Dailor rimane tra le cose migliori sentite negli ultimi anni e i riff di chitarra della coppia Brent Hinds e Bill Kelliher continuano a sfornare riff pesanti ma intelligenti.
L'iniziale Black Tongue mantiene quei riff pesanti e sinistri dei primissimi dischi e Spectrelight, viaggio nell'aldilà, con Scott Kelly dei Neurosis ospite, è la traccia più aggressiva e thrash oriented del lavoro, tra le cose migliori sicuramente.
La sensazione che prevale è quella di un disco che cerca di portare a galla le innumerevoli caratteristiche dei precedenti dischi(dall'hardcore, sludge, doom, progressive, psichedelia e thrash), imbastardendole con la melodia, più di quanto fatto fino ad ora. Ma là dove c'erano canzoni che al loro interno inglobavano tutte queste caratteristiche, ora abbiamo canzoni singole per ogni caratteristica. Blasteroid è veloce, vuole essere cattiva negli screams ma rimane imbrigliata nella melodia complessiva mentre Curl Of the Burl è sicuramente l'episodio più melodico concepito fino a qui dai Mastodon. Un massiccio hard stoner rock che strizza l'occhio al southern declamando la pazzia e ricordando non poco la lezione impartita dai Corrosion of Conformity di "Deliverance".
Il matrimonio sembra riuscire meglio in tracce come Stargasm, nei momenti progressive di All the Heavy lifting con la sua alienante fuga, in Dry Bone Valley , si cade nelle valli della pazzia umana con le linee vocali che ricordano tanto i compianti Alice in Chains di Staley e nei tempi di Octopus Has No Friends con il solito grande lavoro di Dailor dietro le pelli.
Bedazzled Fingernails è un allucinato viaggio sonoro che piace certamente più di Creature lives, un riempitivo melenso, quasi pinkfloyadiano e assai inutile.
The Hunter, dedicata al fratello di Brent Hinds, scomparso dopo un malore durante una battuta di caccia e la finale The Sparrow sono due lisergiche ballads acustiche con quest'ultima, quasi interamente strumentale di una spanna sopra e impreziosita da un bell'assolo di chitarra.
Il consiglio migliore per godersi il disco è quello di non armarsi fino ai denti e andare a caccia dei fantasmi passati ma godersi l'album per quello che è, aspettando le prossime battute di caccia per inquadrarlo dentro alla discografia del gruppo. Solo allora scopriremo se questo "The Hunter" è una meritata pausa o un nuovo inizio. Nonostante tutte queste parole, una delle migliori uscite dell'anno.
Sarà, The Hunter, quel passo di troppo che condusse il "Black Album" e "Songs for the Deaf" e i loro rispettivi autori verso il grande pubblico mainstream, slegato da quello affezionato e devoto di settore? Difficile rispondere a caldo, a ridosso dell'uscita del quinto lavoro della band di Atlanta. Per ora, diamoci qualche anno per valutare feedback e passi futuri. Ma finito l'ascolto, una mosca s'infila nell'orecchio e un piccolo pensiero lo si fa, soprattutto avendo, ancora, le orecchie foderate con i suoni dei precedenti dischi. Senza che questo sia un male ma piuttosto sperando sia la tappa di una carriera fino a qui ineccepibile e la voglia del gruppo di confrontarsi con qualcosa di diverso. Dopo tutto quei due album citati sono entrati di diritto tra gli imprenscindibili del rock, quindi quale augurio migliore? Qualcuno non sarà d'accordo.
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero). Le grandi capacità tecniche e compositive dei singoli elementi rimangono inalterate ma vanno ad esplorare altri terreni più accomodanti all'ascoltatore distratto.
Per la prima volta l'album non è un concept ma una raccolta di 13 canzoni, snelle ed univoche nella loro struttura. Non più lunghe e complicate suite ma canzoni più vicine alla canonicità come struttura e questo va a favore di una maggior fluidità e groove, incorrendo però nell'arma a doppio taglio che i fans della prima ora potrebbero mal digerire.
Dopo aver esplorato terrirori quasi progressive negli ultimi due strepitosi dischi Blood Mountain e Crack the skye, pieni di canzoni stratificate e articolate con i loro toni profondi, psichedelici e spaziali, traspare la voglia di dare alla melodia uno spiraglio maggiore. Le canzoni diventano dirette e spontenee, con poco post lavoro dietro , nonostante la superba produzione di Mike Elizondo. Anche la scelta del produttore, proveniente dal mondo hip hop è una sfida che a posteriori si può dire coraggiosa ed in parte vinta.
Le vocals sono quasi sempre pulite(...e purtroppo non sempre ricoprono il ruolo con efficacia), riprendendo l'ultimo Crack The Skye(2009) e poche volte si lasciano andare allo "sporco growl", la batteria di Brann Dailor rimane tra le cose migliori sentite negli ultimi anni e i riff di chitarra della coppia Brent Hinds e Bill Kelliher continuano a sfornare riff pesanti ma intelligenti.
L'iniziale Black Tongue mantiene quei riff pesanti e sinistri dei primissimi dischi e Spectrelight, viaggio nell'aldilà, con Scott Kelly dei Neurosis ospite, è la traccia più aggressiva e thrash oriented del lavoro, tra le cose migliori sicuramente.
La sensazione che prevale è quella di un disco che cerca di portare a galla le innumerevoli caratteristiche dei precedenti dischi(dall'hardcore, sludge, doom, progressive, psichedelia e thrash), imbastardendole con la melodia, più di quanto fatto fino ad ora. Ma là dove c'erano canzoni che al loro interno inglobavano tutte queste caratteristiche, ora abbiamo canzoni singole per ogni caratteristica. Blasteroid è veloce, vuole essere cattiva negli screams ma rimane imbrigliata nella melodia complessiva mentre Curl Of the Burl è sicuramente l'episodio più melodico concepito fino a qui dai Mastodon. Un massiccio hard stoner rock che strizza l'occhio al southern declamando la pazzia e ricordando non poco la lezione impartita dai Corrosion of Conformity di "Deliverance".
Il matrimonio sembra riuscire meglio in tracce come Stargasm, nei momenti progressive di All the Heavy lifting con la sua alienante fuga, in Dry Bone Valley , si cade nelle valli della pazzia umana con le linee vocali che ricordano tanto i compianti Alice in Chains di Staley e nei tempi di Octopus Has No Friends con il solito grande lavoro di Dailor dietro le pelli.
Bedazzled Fingernails è un allucinato viaggio sonoro che piace certamente più di Creature lives, un riempitivo melenso, quasi pinkfloyadiano e assai inutile.
The Hunter, dedicata al fratello di Brent Hinds, scomparso dopo un malore durante una battuta di caccia e la finale The Sparrow sono due lisergiche ballads acustiche con quest'ultima, quasi interamente strumentale di una spanna sopra e impreziosita da un bell'assolo di chitarra.
Il consiglio migliore per godersi il disco è quello di non armarsi fino ai denti e andare a caccia dei fantasmi passati ma godersi l'album per quello che è, aspettando le prossime battute di caccia per inquadrarlo dentro alla discografia del gruppo. Solo allora scopriremo se questo "The Hunter" è una meritata pausa o un nuovo inizio. Nonostante tutte queste parole, una delle migliori uscite dell'anno.
martedì 4 ottobre 2011
RECENSIONE: RYAN ADAMS (Ashes & Fire)
RYAN ADAMS Ashes & Fire ( Columbia Records, 2011)
Dismessi ma non traditi i panni metallari che lo hanno portato ad incidere un disco: Orion(2010), che voleva omaggiare e calpestare territori testuali e programmatici cari a gruppi come i Voivod, da sempre nella playlist del nostro. Fatto uscire un doppio album con canzoni provenienti dalle registrazioni dell'ultimo album con i Cardinals, Cardinology(2008), sembrava quasi incredibile che fossero passati quattro anni senza nulla di realmente nuovo.
Anni serviti ad Adams per ritrovare un' ispirazione che nelle ultime prove sembrava persa dietro a canzoni di puro mestiere con pochi picchi e tanti riempitivi fatti per soddisfare la sua impellente e ingorda voglia di musica.
Per farlo, Ryan Adams si priva di tutti gli orpelli ingombranti intorno a lui e compone undici canzoni in solitaria che escono a suo nome senza essere seguito dai fidi Cardinals nelle note di copertina:"Adoro lavorare da solista: solo io, le mie canzoni e la mia anima messa a nudo".
Registrate alla vecchia maniera analogica con l'aiuto del "mitico"produttore di decine di capolavori del rock, Glyn Johns, undici ballate ispirate che non fanno che confermare la sua carriera bulimica di musica, fatta come una montagna russa senza fine. Orge rock e delicati incontri folk-americana continuano a susseguirsi nella sua discografia con una logica che solo l'autore potrebbe spiegare.
Questa volta, Adams ritrova il basso profilo acustico, la vena romantica e l'amarezza creativa di dischi come Love is Hell(2003), alcuni tocchi oscuri di 29(2005) e la semplicità country del primissimo Heartbreaker(2000) e incide il suo disco più ispirato da molti anni a questa parte e lo si capisce subito ascoltando l'introspettiva amarezza di Dirty rain che apre il disco con hammond e piano che dialogano sull'asfalto bagnato, chiarori di luna e campane che suonano. Ancora acqua che scorre nel up-tempo dall'incedere dylaniano della titletrack Ashes & Fire, ma sono fiumi di lacrime versate per amore che possono materializzarsi e diventare catene in Chains of Love, due minuti in crescendo con gli arranggiamenti orchestrali protagonisti.
La grevità solenne di Do I Wait che parte lenta con l'acustica ed un organo che fiata per sfociare in un assolo di chitarra elettrica che fa esplodere i chorus finali, sicuramente uno dei migliori momenti del disco.
Le delicate Come Home(...You built this house/ Built it stone by stone/ Hammer in your hand /You built his home /This house is strong /You raised it with your love /A shelter from the winds /From the cold and dark...), con le pedal steel in lontananza e la voce ospite di Norah Jones (insieme al vecchio amico Benmont Tench alle tastiere,graditi ospiti nell'intero disco) a fare da contrappunto a quella di Adams e Rocks sorretta dagli arrangiamenti e con Adams che declama il ritornello in falsetto (...I am not rocks in the river, I am birds singing...I am not rocks, I am not rain, I'm just another shadows in the stream...).
L'ombra dell'oscuro country del Neil Young di metà anni settanta aleggia su Invisible Riverside e nella bella ballad Save me, pianoforte, pedal steel e andamento ciondolante da caldo tramonto sullo sfondo. Mentre Lucky Now guarda al passato per apprezzare il presente nella canzone del disco che al primo ascolto rimane più in testa.
I love you but i don't know what to say chiude il tutto, sottolineando la vena romantica che aleggia intorno ad Adams in questo suo periodo artistico. Pianoforte e arrangiamenti d'orchestra per una canzone che parla come avrebbe fatto il miglior Billy Joel confidenziale degli anni settanta.
Sempre sopra le righe, divoratore di musica, prolifico a dismisura, apprezzato ma anche odiato per il suo carattere da irascibile rockstar viziata, eclettico, sopravvalutato ed ignorato, menefreghista e passionario: Ryan Adams conferma che le rose che campeggiavano su Strangers Almanac, disco dei suoi vecchi Whiskeytown, sono ancora lontane dall'appassirsi. Un colpo di coda vincente.
Dismessi ma non traditi i panni metallari che lo hanno portato ad incidere un disco: Orion(2010), che voleva omaggiare e calpestare territori testuali e programmatici cari a gruppi come i Voivod, da sempre nella playlist del nostro. Fatto uscire un doppio album con canzoni provenienti dalle registrazioni dell'ultimo album con i Cardinals, Cardinology(2008), sembrava quasi incredibile che fossero passati quattro anni senza nulla di realmente nuovo.
Anni serviti ad Adams per ritrovare un' ispirazione che nelle ultime prove sembrava persa dietro a canzoni di puro mestiere con pochi picchi e tanti riempitivi fatti per soddisfare la sua impellente e ingorda voglia di musica.
Per farlo, Ryan Adams si priva di tutti gli orpelli ingombranti intorno a lui e compone undici canzoni in solitaria che escono a suo nome senza essere seguito dai fidi Cardinals nelle note di copertina:"Adoro lavorare da solista: solo io, le mie canzoni e la mia anima messa a nudo".
Registrate alla vecchia maniera analogica con l'aiuto del "mitico"produttore di decine di capolavori del rock, Glyn Johns, undici ballate ispirate che non fanno che confermare la sua carriera bulimica di musica, fatta come una montagna russa senza fine. Orge rock e delicati incontri folk-americana continuano a susseguirsi nella sua discografia con una logica che solo l'autore potrebbe spiegare.
Questa volta, Adams ritrova il basso profilo acustico, la vena romantica e l'amarezza creativa di dischi come Love is Hell(2003), alcuni tocchi oscuri di 29(2005) e la semplicità country del primissimo Heartbreaker(2000) e incide il suo disco più ispirato da molti anni a questa parte e lo si capisce subito ascoltando l'introspettiva amarezza di Dirty rain che apre il disco con hammond e piano che dialogano sull'asfalto bagnato, chiarori di luna e campane che suonano. Ancora acqua che scorre nel up-tempo dall'incedere dylaniano della titletrack Ashes & Fire, ma sono fiumi di lacrime versate per amore che possono materializzarsi e diventare catene in Chains of Love, due minuti in crescendo con gli arranggiamenti orchestrali protagonisti.
La grevità solenne di Do I Wait che parte lenta con l'acustica ed un organo che fiata per sfociare in un assolo di chitarra elettrica che fa esplodere i chorus finali, sicuramente uno dei migliori momenti del disco.
Le delicate Come Home(...You built this house/ Built it stone by stone/ Hammer in your hand /You built his home /This house is strong /You raised it with your love /A shelter from the winds /From the cold and dark...), con le pedal steel in lontananza e la voce ospite di Norah Jones (insieme al vecchio amico Benmont Tench alle tastiere,graditi ospiti nell'intero disco) a fare da contrappunto a quella di Adams e Rocks sorretta dagli arrangiamenti e con Adams che declama il ritornello in falsetto (...I am not rocks in the river, I am birds singing...I am not rocks, I am not rain, I'm just another shadows in the stream...).
L'ombra dell'oscuro country del Neil Young di metà anni settanta aleggia su Invisible Riverside e nella bella ballad Save me, pianoforte, pedal steel e andamento ciondolante da caldo tramonto sullo sfondo. Mentre Lucky Now guarda al passato per apprezzare il presente nella canzone del disco che al primo ascolto rimane più in testa.
I love you but i don't know what to say chiude il tutto, sottolineando la vena romantica che aleggia intorno ad Adams in questo suo periodo artistico. Pianoforte e arrangiamenti d'orchestra per una canzone che parla come avrebbe fatto il miglior Billy Joel confidenziale degli anni settanta.
Sempre sopra le righe, divoratore di musica, prolifico a dismisura, apprezzato ma anche odiato per il suo carattere da irascibile rockstar viziata, eclettico, sopravvalutato ed ignorato, menefreghista e passionario: Ryan Adams conferma che le rose che campeggiavano su Strangers Almanac, disco dei suoi vecchi Whiskeytown, sono ancora lontane dall'appassirsi. Un colpo di coda vincente.
sabato 1 ottobre 2011
RECENSIONE: LUIGI MAIERON ( Vino, Tabacco e Cielo)
LUIGI MAIERON Vino, Tabacco e Cielo( PDT/Universal, 2011)
La Carnia è una terra friulana fatta di valli antiche che hanno mantenuto intatte la bellezza naturale dei loro paesaggi e le antiche tradizioni che, non senza difficoltà, continuano a tramandarsi di generazione in generazione. Paesi di montagna che nel corso del '900 hanno visto sempre più i loro abitanti emigrare in cerca di fortuna in giro per il mondo, chi è rimasto ha continuato a diffondere quelle tradizioni, fatte di canti popolari secolari, legami forti alla terra, al cibo contadino e a valori come il duro lavoro e la famiglia.
Luigi Maieron da quelle valli non se n'è mai andato e con certi valori è cresciuto fin da bambino. La sua predestinata missione è contribuire a far conoscere il suo territorio attraverso quello che gli riesce meglio: la canzone e la poesia. Ora poi, che le strade dei dialetti regionali sembrano aperte, un posto anche per lui c'è ed è quello su una corsia preferenziale. L'amico Davide Van De Sfroos (Maieron è presente come ospite nell'ultimo "Yanez" nella canzone Dove non basta il mare) nelle note di copertina ha forse scritto la migliore recensione del disco e proprio il successo del cantastorie comasco può aprire la strada a Maieron, che con "Vino Tabacco e cielo" realizza il suo quarto disco.
Maieron rilascia il suo disco musicalmente più vario, lasciando le atmosfere più intime e cantautorali dei precedenti per allargare i suoi confini musicali, avvicinandosi in certi punti a realtà già consolidate del folk dialettale come I Luf e Lou Dalfin, per rimanere nel nord Italia. La sua voce è rassicurante, un misto tra la profondità "scura" di Johnny Cash e la narrazione di Leonard Cohen con la confidenzialità dello zio saggio, sempre pronto a farti sedere sulle sue ginocchia e raccontare le vecchie storie dei luoghi dove è cresciuto. Il folk americano che incontra il Friuli. Rassicurante e sincero come quando canta con grande vena descrittiva i sentimenti d'amore e rispetto verso una figura guida(il nonno presumibilmente per lui, ma potrebbe essere chiunque) di grande importanza nel formare il carattere di un bambino ammirato davanti all'adulto, nel country -folk di Vino Tabacco e cielo, cantata in italiano.
E' un disco con due anime ben precise, una intimista e cantautorale, che si riallaccia alle passate produzioni ed una più giocosa e divertente con l'uso della lingua italiana più marcato e presente rispetto al passato.
Quello che esce prepotente è l'attaccamento alla propria terra: nel cantato in dialetto, come in Done mari ripresa di un antico canto carnico tradizionale dell'800, in La cidule con le sue atmosfere da ballo da festa paesana che narra di un'antica tradizione carnica che vedeva coinvolte le giovani coppie dei paesi e Trei puemas sulla stessa lunghezza d'onda. I sapori e le atmosfere medio orientali che escono prepotenti da Cramar-marochin, divertente confronto tra gli ambulanti provenienti dall'est europeo nel 1200/1600 e i moderni extracomunitari e il delicato tango di Argjentina, storie di emigrazioni e tristi ritorni.
Maieron tiene la lingua italiana per le canzoni più intimiste come I fantasmi di pietra, folk evocativo ispirato da uno scritto di Mauro Corona e dedicato alle vittime del grande e triste disastro del Vajont e Il peso della Neve dominata da banjo e fisarmonica.
Tre piccole perle sono Filo Spinato, quasi una filastrocca alla maniera di De Andrè, visuale di una mamma con il figlio alpino al fronte, la piacevole analisi sul trascorrere del tempo di Questa faccia, su atmosfere da oscuro western che ricorda tanto il compianto "cowboy"Johnny Cash e l'invito a non mollare mai e superare tutti gli ostacoli della flemmatica Cosa senti.
Sostenuto da una band di tutto rispetto e dall'aiuto di alcuni ospiti come Ellade Bandini alla batteria e Francesco Più e Davide Brambilla, "Vino Tabacco e cielo" è un piccolo scrigno pieno di tradizioni e storie, che come insegnato da Van De Sfroos, possono varcare i confini regionali e allargarsi in tutta Italia abbattendo quei fittizi confini federali che fortunatamente non sono ancora stati eretti.
INTERVISTA
La Carnia è una terra friulana fatta di valli antiche che hanno mantenuto intatte la bellezza naturale dei loro paesaggi e le antiche tradizioni che, non senza difficoltà, continuano a tramandarsi di generazione in generazione. Paesi di montagna che nel corso del '900 hanno visto sempre più i loro abitanti emigrare in cerca di fortuna in giro per il mondo, chi è rimasto ha continuato a diffondere quelle tradizioni, fatte di canti popolari secolari, legami forti alla terra, al cibo contadino e a valori come il duro lavoro e la famiglia.
Luigi Maieron da quelle valli non se n'è mai andato e con certi valori è cresciuto fin da bambino. La sua predestinata missione è contribuire a far conoscere il suo territorio attraverso quello che gli riesce meglio: la canzone e la poesia. Ora poi, che le strade dei dialetti regionali sembrano aperte, un posto anche per lui c'è ed è quello su una corsia preferenziale. L'amico Davide Van De Sfroos (Maieron è presente come ospite nell'ultimo "Yanez" nella canzone Dove non basta il mare) nelle note di copertina ha forse scritto la migliore recensione del disco e proprio il successo del cantastorie comasco può aprire la strada a Maieron, che con "Vino Tabacco e cielo" realizza il suo quarto disco.
Maieron rilascia il suo disco musicalmente più vario, lasciando le atmosfere più intime e cantautorali dei precedenti per allargare i suoi confini musicali, avvicinandosi in certi punti a realtà già consolidate del folk dialettale come I Luf e Lou Dalfin, per rimanere nel nord Italia. La sua voce è rassicurante, un misto tra la profondità "scura" di Johnny Cash e la narrazione di Leonard Cohen con la confidenzialità dello zio saggio, sempre pronto a farti sedere sulle sue ginocchia e raccontare le vecchie storie dei luoghi dove è cresciuto. Il folk americano che incontra il Friuli. Rassicurante e sincero come quando canta con grande vena descrittiva i sentimenti d'amore e rispetto verso una figura guida(il nonno presumibilmente per lui, ma potrebbe essere chiunque) di grande importanza nel formare il carattere di un bambino ammirato davanti all'adulto, nel country -folk di Vino Tabacco e cielo, cantata in italiano.
E' un disco con due anime ben precise, una intimista e cantautorale, che si riallaccia alle passate produzioni ed una più giocosa e divertente con l'uso della lingua italiana più marcato e presente rispetto al passato.
Quello che esce prepotente è l'attaccamento alla propria terra: nel cantato in dialetto, come in Done mari ripresa di un antico canto carnico tradizionale dell'800, in La cidule con le sue atmosfere da ballo da festa paesana che narra di un'antica tradizione carnica che vedeva coinvolte le giovani coppie dei paesi e Trei puemas sulla stessa lunghezza d'onda. I sapori e le atmosfere medio orientali che escono prepotenti da Cramar-marochin, divertente confronto tra gli ambulanti provenienti dall'est europeo nel 1200/1600 e i moderni extracomunitari e il delicato tango di Argjentina, storie di emigrazioni e tristi ritorni.
Maieron tiene la lingua italiana per le canzoni più intimiste come I fantasmi di pietra, folk evocativo ispirato da uno scritto di Mauro Corona e dedicato alle vittime del grande e triste disastro del Vajont e Il peso della Neve dominata da banjo e fisarmonica.
Tre piccole perle sono Filo Spinato, quasi una filastrocca alla maniera di De Andrè, visuale di una mamma con il figlio alpino al fronte, la piacevole analisi sul trascorrere del tempo di Questa faccia, su atmosfere da oscuro western che ricorda tanto il compianto "cowboy"Johnny Cash e l'invito a non mollare mai e superare tutti gli ostacoli della flemmatica Cosa senti.
Sostenuto da una band di tutto rispetto e dall'aiuto di alcuni ospiti come Ellade Bandini alla batteria e Francesco Più e Davide Brambilla, "Vino Tabacco e cielo" è un piccolo scrigno pieno di tradizioni e storie, che come insegnato da Van De Sfroos, possono varcare i confini regionali e allargarsi in tutta Italia abbattendo quei fittizi confini federali che fortunatamente non sono ancora stati eretti.
INTERVISTA
mercoledì 28 settembre 2011
RECENSIONE: SUPERHEAVY(Superheavy)
SUPERHEAVY Superheavy ( AM Records, Universal, 2011)
La prima domanda sorge subito spontanea:ce n'era veramente bisogno? La risposta è più spontanea della domanda : no. Il problema risiede una volta finito l'ascolto quando al "no" si aggiunge anche un :"però è divertente". Scopo raggiunto. La patchanka globale sonora creata dal supergruppo messo in piedi da Dave Stewart funziona per soddisfare chi cerca 60 minuti di totale distrazione dagli impegni principali, la stessa che i cinque componenti cercavano in questo progetto: Dave Stewart appunto, Mick Jagger, Joss Stone, A.R. Rahman e Damian Marley forse colui che si è distratto meno, visto il mood globale su cui viaggiano quasi tutte le canzoni. Quindi se preso per quello che è, questo album è più che riuscito. Chi si era fatto illusorie aspettative cercando qui composizioni epocali rimarrà deluso, questo è chiaro.
Ma partiamo da due anni fa, quando a Dave Srewart, in bueno retiro in qualche paradiso vacanziero in Giamaica, balenò in testa l'idea di questo disco, ancor prima di trovare i compagni di viaggio. Stewart non si è mai imposto limiti e steccati musicali: dagli Eurythmics, ai suoi progetti solisti( ..chi si ricorda dei suoi Spiritual Cowboys e "The blackbird Diaries",l'ultimo disco solista di quest'anno che esplora il folk rock americano) alle sue collaborazioni da produttore con Bob Dylan e Tom Petty. Naturale, per lui, calarsi in questa divertente avventura che man mano ha visto l'aggiunta di nuovi elementi e come primo chi, se non Mick Jagger, cantante che non ha mai tradito il suo amore per certe sonorità. A partire dai Rolling Stones di "Black & Blue" e "Emotional Rescue", ai suoi poco convincenti episodi solisti e alle sue collaborazioni, fra cui quella con Peter Tosh. Una punta di diamante capace di attirare l'attenzione sul progetto( senza di lui avrebbe ottenuto lo stesso risalto?) e dare un aiuto nella produzione.
L'album registrato in numerosi punti sparsi in tutto il mondo cerca di riunire le caratteristiche dei cinque coinvolti, riuscendoci con un sound che partendo dal ritmo in levare, su cui si basano la maggior parte delle composizioni, si dirama in mille altre direzioni con un risultato di amalgama abbastanza intrigante a soddisfare più di un genere di ascoltatore ma soffermandosi di più sulle nuove generazioni. I fans degli Stones potranno riascoltare Jagger, sempre in straordinaria forma vocale, ricalcare le strade della band madre nella ballad per sola chitarra, voce e piano Never Gonna Change o nelle chitarre rock di I Can't Take It No More, tanto vicina agli Stones di metà anni ottanta oppure immergersi con grande duttilità nel reggae. Da quello più tradizionale e roots di Unbelievable e del singolo Miracle Worker a quello solare, rappato e contaminato con l'elettronica della danzereccia Energy, al feeling più oscuro di One Day One Night.
Non vi è dubbio che Damian Marley sguazzi a suo agio su queste composizioni che vedono i musicisti della sua band coinvolti e primeggiare nella confidenzialità di Rock Me Gently, dove la sua voce profonda, conquista. Sicuramente uno dei punti più alti del disco.
Joss Stone, la coccolata del gruppo, non si intimorisce di fronte ai grandi calibri coinvolti ma ci mette la sua voce duttile , presente in tutte le tracce: dolce (come nel leggero duetto con Jagger di I Don't Mind) e graffiante quando serve e il suo nuovo disco solista, prodotto dallo stesso Stewart segna per lei un nuovo inizio. Più difficile trovare la presenza del compositore indiano A.R. Rahman, star in patria, ma balzato agli onori della cronaca musicale mondiale dopo aver vinto l'oscar per la colonna sonora di The Millionaire e in luce solamente su Satyameva Jayathe anche se con un attento ascolto si trovano i suoi semi mediorientali( la lingua Urdu e certe orchestrazioni) in molti pezzi.
Il paradosso e limite del disco è il voler democraticamente unire tutte le forze dei presenti in canzoni che finiscono, pur nei numerosi imput presenti, ad assomigliarsi tutte e cedere il passo al pop. L'iniziale e corale Superheavy è il manifesto dell'operazione in tutti i sensi.
Nella versione limitata compaiono quattro tracks in più: l'episodio indiano Mahiya, la rockeggiante Warning People, la danzereccia e rappata Hey Captain e lo ska di Common Ground.
Un disco che con tutti i suoi limiti, riesce a prolungare la voglia d'estate, grazie ai suoi ritmi solari e caraibici e centra pienamente l'obiettivo prefissato. Non chiediamogli altro e soprattutto di più.VOTO:6,5
La prima domanda sorge subito spontanea:ce n'era veramente bisogno? La risposta è più spontanea della domanda : no. Il problema risiede una volta finito l'ascolto quando al "no" si aggiunge anche un :"però è divertente". Scopo raggiunto. La patchanka globale sonora creata dal supergruppo messo in piedi da Dave Stewart funziona per soddisfare chi cerca 60 minuti di totale distrazione dagli impegni principali, la stessa che i cinque componenti cercavano in questo progetto: Dave Stewart appunto, Mick Jagger, Joss Stone, A.R. Rahman e Damian Marley forse colui che si è distratto meno, visto il mood globale su cui viaggiano quasi tutte le canzoni. Quindi se preso per quello che è, questo album è più che riuscito. Chi si era fatto illusorie aspettative cercando qui composizioni epocali rimarrà deluso, questo è chiaro.
Ma partiamo da due anni fa, quando a Dave Srewart, in bueno retiro in qualche paradiso vacanziero in Giamaica, balenò in testa l'idea di questo disco, ancor prima di trovare i compagni di viaggio. Stewart non si è mai imposto limiti e steccati musicali: dagli Eurythmics, ai suoi progetti solisti( ..chi si ricorda dei suoi Spiritual Cowboys e "The blackbird Diaries",l'ultimo disco solista di quest'anno che esplora il folk rock americano) alle sue collaborazioni da produttore con Bob Dylan e Tom Petty. Naturale, per lui, calarsi in questa divertente avventura che man mano ha visto l'aggiunta di nuovi elementi e come primo chi, se non Mick Jagger, cantante che non ha mai tradito il suo amore per certe sonorità. A partire dai Rolling Stones di "Black & Blue" e "Emotional Rescue", ai suoi poco convincenti episodi solisti e alle sue collaborazioni, fra cui quella con Peter Tosh. Una punta di diamante capace di attirare l'attenzione sul progetto( senza di lui avrebbe ottenuto lo stesso risalto?) e dare un aiuto nella produzione.
L'album registrato in numerosi punti sparsi in tutto il mondo cerca di riunire le caratteristiche dei cinque coinvolti, riuscendoci con un sound che partendo dal ritmo in levare, su cui si basano la maggior parte delle composizioni, si dirama in mille altre direzioni con un risultato di amalgama abbastanza intrigante a soddisfare più di un genere di ascoltatore ma soffermandosi di più sulle nuove generazioni. I fans degli Stones potranno riascoltare Jagger, sempre in straordinaria forma vocale, ricalcare le strade della band madre nella ballad per sola chitarra, voce e piano Never Gonna Change o nelle chitarre rock di I Can't Take It No More, tanto vicina agli Stones di metà anni ottanta oppure immergersi con grande duttilità nel reggae. Da quello più tradizionale e roots di Unbelievable e del singolo Miracle Worker a quello solare, rappato e contaminato con l'elettronica della danzereccia Energy, al feeling più oscuro di One Day One Night.
Non vi è dubbio che Damian Marley sguazzi a suo agio su queste composizioni che vedono i musicisti della sua band coinvolti e primeggiare nella confidenzialità di Rock Me Gently, dove la sua voce profonda, conquista. Sicuramente uno dei punti più alti del disco.
Joss Stone, la coccolata del gruppo, non si intimorisce di fronte ai grandi calibri coinvolti ma ci mette la sua voce duttile , presente in tutte le tracce: dolce (come nel leggero duetto con Jagger di I Don't Mind) e graffiante quando serve e il suo nuovo disco solista, prodotto dallo stesso Stewart segna per lei un nuovo inizio. Più difficile trovare la presenza del compositore indiano A.R. Rahman, star in patria, ma balzato agli onori della cronaca musicale mondiale dopo aver vinto l'oscar per la colonna sonora di The Millionaire e in luce solamente su Satyameva Jayathe anche se con un attento ascolto si trovano i suoi semi mediorientali( la lingua Urdu e certe orchestrazioni) in molti pezzi.
Il paradosso e limite del disco è il voler democraticamente unire tutte le forze dei presenti in canzoni che finiscono, pur nei numerosi imput presenti, ad assomigliarsi tutte e cedere il passo al pop. L'iniziale e corale Superheavy è il manifesto dell'operazione in tutti i sensi.
Nella versione limitata compaiono quattro tracks in più: l'episodio indiano Mahiya, la rockeggiante Warning People, la danzereccia e rappata Hey Captain e lo ska di Common Ground.
Un disco che con tutti i suoi limiti, riesce a prolungare la voglia d'estate, grazie ai suoi ritmi solari e caraibici e centra pienamente l'obiettivo prefissato. Non chiediamogli altro e soprattutto di più.VOTO:6,5
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