CALEB CAUDLE Better Hurry Up (Baldwin County Public Records, 2020)
Canta di libertà Caleb Caudle in Better Hurry Up, il suo ottavo disco in carriera. E mai come in questo momento sembra una parola chiave, basilare, oggi e per il nostro incerto futuro.
"Sono cresciuto ai piedi degli Appalachi, in particolare le montagne Sauratown della Contea di Stokes, nella Carolina del Nord. Ho trascorso molto tempo girovagando nei boschi inventando canzoni. A volte mia mamma trovava i miei scarabocchi sui tovaglioli nelle tasche dei miei jeans quando faceva il bucato" racconta, ricordando un'infanzia che stava già incanalandosi verso la musica. La scoperta di Bob Dylan fu poi il raggio illuminante da seguire.
E la libertà di viaggiare ha segnato la sua carriera. La vera svolta per la sua musica la incontrò a New Orleans dove sviluppò anche l'amore per il groove nero in una delle capitali mondiali del ritmo. Nel 2014, tornato nella sua Carolina Del Nord anche l'amore è a una svolta importante: conosce Lauren che risulterà determinante per vincere la sua battaglia contro l'alcolismo.
Con la sua compagna l'anno scorso si è spostato a Nashville (altra città dove la musica la incontri sull'uscio di casa) dove ha preso forma questo disco.
Il disco è nato nella famosa Cabin che Johnny Cash fece costruire nel 1979, un posto magico, pieno di cimeli, che non può che fare bene a chiunque decida di entrarci. E così anche Better Hurry Up ne ha beneficiato.
Se poi aggiungiamo personaggi di primo piano della musica americana che vi hanno lavorato, questo rischia di diventare uno dei dischi di americana più importanti di questo periodo. John Jackson dei Jayhawks in produzione, e il famoso compagno di band Gary Louis come ospite sono già un buon lasciapassare verso i piani alti.
E poi ancora Pat Sansone (Wilco), Elizabeth Cook, Dennis Crouch, Russ Pahl, John Paul White e tanti altri, arricchiscono la lista nei credits.
Il suono nero e gospel di 'Better Hurry Up' , le chitarre spigolose di 'Call It A Day' , il folk di 'Regular Riot' e 'Front Porch', l'oscurità di 'Dirty Curtain', il country blues di Let's Get', il rock chitarristico di 'Monte Carlo' e 'Reach Down' che ricordano tanti John Mellencamp, la west coast country di 'Freelin' Free', il country pop di 'Wait A Minute', la ballata a tutta pedal steel di 'Bigger Oceans', mettono in fila lo straordinario e ampio range musicale di Caleb Caudle.
lunedì 6 aprile 2020
venerdì 3 aprile 2020
RECENSIONE in pillole: LOGAN LEDGER (Logan Ledger)
LOGAN LEDGER Logan Ledger (Electro Magnetic/Rounder Records, 2020)
La nuova scommessa di T- Bone Burnett si chiama Logan Ledger, giovane californiano domiciliato a Nashville che pare aver sbagliato l'anno di nascita. Come tanti altri in questo primo quarto di anno nefasto: mi vengono in mente Jesse Daniel e Early James dei quali ho già parlato nei giorni scorsi. ...
Burnett gli piazza intorno musicisti di prima grandezza come Marc Ribot, Jay Bellerose, Dennis Crouch (che in verità è il vero talent scout di Ledger) e gli fa registrare un debutto (dopo un Ep) dove il tempo sembra essersi fermato agli anni 50 e 60 quando andavano di moda Elvis Presley, Roy Orbison e la Sun Records. Difficile sbagliare se un po' di talento lo hai e la voce pure.
Burnett parla con orgoglio delle registrazioni in studio con il suo nuovo pupillo:" ha una voce piena di storia. Potevo sentire gli echi di un grande cantante dopo l'altro nel suo tono. Cantava senza artificio". Narrazioni spesso scure e malinconiche raccontate con voce tenebrosa a metà strada tra Orbison e Cash, allungate dalla steel guitar come 'Imagining Raindrops' totalmente calata nei sapori '50 o come la tristezza che permea 'Invisible Blue' che si contrappongono alla più corale e rockabilly 'Starlight' o la più movimentata e rock 'I Don' t Dream Anymore', mentre 'Electric Fantasy' si bagna con garbo nell'oceano del pop psichedelico.
Da segnalare anche le penne di Steve Earle autore di' The Lights Of San Francisco' e di John Paul White di 'Tell Me A Lie'. Un nuovo artista da seguire a vista.
La nuova scommessa di T- Bone Burnett si chiama Logan Ledger, giovane californiano domiciliato a Nashville che pare aver sbagliato l'anno di nascita. Come tanti altri in questo primo quarto di anno nefasto: mi vengono in mente Jesse Daniel e Early James dei quali ho già parlato nei giorni scorsi. ...
Burnett gli piazza intorno musicisti di prima grandezza come Marc Ribot, Jay Bellerose, Dennis Crouch (che in verità è il vero talent scout di Ledger) e gli fa registrare un debutto (dopo un Ep) dove il tempo sembra essersi fermato agli anni 50 e 60 quando andavano di moda Elvis Presley, Roy Orbison e la Sun Records. Difficile sbagliare se un po' di talento lo hai e la voce pure.
Burnett parla con orgoglio delle registrazioni in studio con il suo nuovo pupillo:" ha una voce piena di storia. Potevo sentire gli echi di un grande cantante dopo l'altro nel suo tono. Cantava senza artificio". Narrazioni spesso scure e malinconiche raccontate con voce tenebrosa a metà strada tra Orbison e Cash, allungate dalla steel guitar come 'Imagining Raindrops' totalmente calata nei sapori '50 o come la tristezza che permea 'Invisible Blue' che si contrappongono alla più corale e rockabilly 'Starlight' o la più movimentata e rock 'I Don' t Dream Anymore', mentre 'Electric Fantasy' si bagna con garbo nell'oceano del pop psichedelico.
Da segnalare anche le penne di Steve Earle autore di' The Lights Of San Francisco' e di John Paul White di 'Tell Me A Lie'. Un nuovo artista da seguire a vista.
lunedì 30 marzo 2020
RECENSIONE: JESSE DANIEL (Rollin' On)
JESSE DANIEL Rollin' On (Orchard Music/Die True Records, 2020)
a country boy can survive
Il giovane Jesse Daniel da Santa Cruz, California, ha già mille esperienze nascoste dentro a quel cappello che indossa con orgoglio. Infanzia difficile la sua, un passato da batterista in una punk band per sfogare la rabbia accumulata e poi la deriva sfociata nel mare inquinato delle droghe e giornate passate nella solitudine di un carcere prima e di un centro di riabilitazione poi, tanto per completare un quadro di v...ita disegnato sopra le assi che nascondono il lato più sporco della vita. A vederlo non sembra.
"Sono diventato un bidone della spazzatura. Prendevo qualsiasi droga, prendevo prendevo, fino a quando non avrei certamente trovato l'eroina" racconta in una intervista.
La sua salvezza l'ha trovata nella country music (a volte succede pure questo, pensate) e Rollin On, prodotto da Tommy Detamore, è il secondo disco che batte su quelle strade dopo il debutto di due anni fa.
Canzoni scritte, penna e chitarra, in tour insieme alla compagna e manager Jody Lyford, che raccontano di una felicità raggiunta senza dimenticare l'amaro passato, che amano viaggiare sulle strade musicalmente vivaci dell'honky Tonk country più selvaggio e disinibito. Basterebbe ascoltare 'Rollin On', sfrenata e irresistibile nel battito di quel pianoforte che ne guida l'andamento, o le note della chitarra nel rockabilly di 'Tar Snakes' o quel rock inzuppato di bluegrass che circonda la strumentale 'Chickadee'.
Anche se poi si concede a un tradizionale violino country in 'St. Claire's Retreat', alla fisarmonica da festa campestre Tex Mex nell'autobiografica 'Champion', alla ballate folk come succede in 'Old At Heart' , o alla pigra andatura da valzer da fine nottata di 'Son Of The San Lorenzo' che chiude il disco.
Un po' Doug Sahm, un po' Jim Lauderdale, un po' Blasters, un po' di Waylon Jennings, un po' Merle Haggard. Dopo due grandi songwriter introspettivi come Colter Wall e Ian Noe, Jesse Daniel riporta un po' di vigore alla country music delle nuove generazioni.
a country boy can survive
Il giovane Jesse Daniel da Santa Cruz, California, ha già mille esperienze nascoste dentro a quel cappello che indossa con orgoglio. Infanzia difficile la sua, un passato da batterista in una punk band per sfogare la rabbia accumulata e poi la deriva sfociata nel mare inquinato delle droghe e giornate passate nella solitudine di un carcere prima e di un centro di riabilitazione poi, tanto per completare un quadro di v...ita disegnato sopra le assi che nascondono il lato più sporco della vita. A vederlo non sembra.
"Sono diventato un bidone della spazzatura. Prendevo qualsiasi droga, prendevo prendevo, fino a quando non avrei certamente trovato l'eroina" racconta in una intervista.
La sua salvezza l'ha trovata nella country music (a volte succede pure questo, pensate) e Rollin On, prodotto da Tommy Detamore, è il secondo disco che batte su quelle strade dopo il debutto di due anni fa.
Canzoni scritte, penna e chitarra, in tour insieme alla compagna e manager Jody Lyford, che raccontano di una felicità raggiunta senza dimenticare l'amaro passato, che amano viaggiare sulle strade musicalmente vivaci dell'honky Tonk country più selvaggio e disinibito. Basterebbe ascoltare 'Rollin On', sfrenata e irresistibile nel battito di quel pianoforte che ne guida l'andamento, o le note della chitarra nel rockabilly di 'Tar Snakes' o quel rock inzuppato di bluegrass che circonda la strumentale 'Chickadee'.
Anche se poi si concede a un tradizionale violino country in 'St. Claire's Retreat', alla fisarmonica da festa campestre Tex Mex nell'autobiografica 'Champion', alla ballate folk come succede in 'Old At Heart' , o alla pigra andatura da valzer da fine nottata di 'Son Of The San Lorenzo' che chiude il disco.
Un po' Doug Sahm, un po' Jim Lauderdale, un po' Blasters, un po' di Waylon Jennings, un po' Merle Haggard. Dopo due grandi songwriter introspettivi come Colter Wall e Ian Noe, Jesse Daniel riporta un po' di vigore alla country music delle nuove generazioni.
venerdì 27 marzo 2020
RECENSIONE in pillole: EARLY JAMES (Singing For My Supper)
EARLY JAMES Singing For My Supper (Nonesuch Records, 2020)
Dan Auerbach continua a pescare personaggi dal suo cilindro senza fondo. Ecco questo EARLY JAMES, ventiseienne nativo di Birmingham, Alabama, voce profonda, aspra e soul da vecchio crooner navigato, un giovane nato vecchio, testi sarcastici che affondano nella profondità del suo animo e del suo sud, a partire dal primo singolo che apre il disco 'Blue Pill Blues' che naviga tra i suoi passati problemi con la depressione con un rock pop a tinte psichedeliche che pare uscito dai... tardi anni sessanta.
"Non sta scrivendo una canzone per essere universale; sta scrivendo una canzone per lui" dice Auerbach.
E "vintage" è la parola chiave che apre le porte alle dieci canzoni di questo debutto SINGING FOR MY SUPPER, sia quando le canzoni si fanno country folk ('Easter Eggs'), toccano il calypso nell'atipica 'All Down Hill', esplorano il noir alla Tom Waits in 'It Doesn' t Matter Now', si arricchiscono di un'orchestra in 'High Horse' che potrebbe fare la sua figura in Western Stars di Springsteen (sulle tracce di Glen Campbell), fino a diventare nere e scure come accade nella notturna 'Gone As A Ghost'.
Povero Early James non poteva scegliere tempi peggiori per affacciarsi sul mercato musicale.
Dan Auerbach continua a pescare personaggi dal suo cilindro senza fondo. Ecco questo EARLY JAMES, ventiseienne nativo di Birmingham, Alabama, voce profonda, aspra e soul da vecchio crooner navigato, un giovane nato vecchio, testi sarcastici che affondano nella profondità del suo animo e del suo sud, a partire dal primo singolo che apre il disco 'Blue Pill Blues' che naviga tra i suoi passati problemi con la depressione con un rock pop a tinte psichedeliche che pare uscito dai... tardi anni sessanta.
"Non sta scrivendo una canzone per essere universale; sta scrivendo una canzone per lui" dice Auerbach.
E "vintage" è la parola chiave che apre le porte alle dieci canzoni di questo debutto SINGING FOR MY SUPPER, sia quando le canzoni si fanno country folk ('Easter Eggs'), toccano il calypso nell'atipica 'All Down Hill', esplorano il noir alla Tom Waits in 'It Doesn' t Matter Now', si arricchiscono di un'orchestra in 'High Horse' che potrebbe fare la sua figura in Western Stars di Springsteen (sulle tracce di Glen Campbell), fino a diventare nere e scure come accade nella notturna 'Gone As A Ghost'.
Povero Early James non poteva scegliere tempi peggiori per affacciarsi sul mercato musicale.
lunedì 23 marzo 2020
RECENSIONE: ARBOURETUM (Let It All In)
ARBOURETUM Let It All In (Thrill Jockey, 2020)
in perenne viaggio
Procede senza sosta la marcia della band di Baltimora guidata dal gran cerimoniere Dave Heumann. Fino ad ora si può dire che non abbiano incontrato ostacoli nel loro percorso, sbagliando veramente poco e costruendo con il tempo il loro ampio habitat naturale che però sembra non avere steccati o confini. Gli spigoli più taglienti della loro musica li hanno abbandonati da tanto tempo ormai, in favore di un viaggio sonoro, avv...enturoso, ipnotico, suggestivo, dilatato ed elegante nella forma, carico di riferimenti spirituali, metafore e leggende, lavorando con minuziosa arte sui dettagli che forse ha toccato il suo apice con Coming Out Of The Fog (2012).
In perenne armonia tra cosmicità e radici, sanno passare con disinvoltura attraverso le brumose colline del folk progressive britannico, i fantasmi dei Fairport Convention sono sempre dietro l'angolo ('A Prism In Reverse') per poi atterrare sulla superficie, rendendo omaggio alla patria America con un honky tonk dove è il pianoforte a fare da guida ('High Water Song') e nel folk blues di 'No Sanctuary Blues'.
Sanno cucire bene la malinconia nelle trame di 'Headwaters II' dove la chitarra piazza il suo bel assolo che conduce al finale, sanno avvolgere nella rassicurante apertura 'How Deep It Goes', raggiungendo l'apoteosi negli undici muniti di 'Let It All In' una corsa a spron battuto attraverso un crescendo di elettricità, psichedelia, fughe e un finale jammato, carico di distorsione.
"Let It All In è stato qualcosa che abbiamo suonato per mesi, anche prima che venisse modificato il testo o gli accordi. L'abbiamo suonata solo perché era bello suonarla. Quando siamo entrati in studio con la canzone, avevamo sviluppato un'intera metodologia attorno al brano. Ci siamo sistemati, ci siamo sintonizzati e l'abbiamo lasciata scorrere. Trascorsero dodici minuti e ci rendemmo conto di averla fatta quasi perfettamente. Eccola lì, al primo ciak." racconta Heumann.
In continuo movimento, gli Arbouretum fluttuano sopra al pianeta musica ormai da diciotto anni e nove dischi. Sarebbe un peccato non riuscire ad acciuffarli almeno una volta. In tempi come questi poi, riescono ad allegerirci i pensieri portandoli lontano per almeno 45 minuti ed è già qualcosa.
in perenne viaggio
Procede senza sosta la marcia della band di Baltimora guidata dal gran cerimoniere Dave Heumann. Fino ad ora si può dire che non abbiano incontrato ostacoli nel loro percorso, sbagliando veramente poco e costruendo con il tempo il loro ampio habitat naturale che però sembra non avere steccati o confini. Gli spigoli più taglienti della loro musica li hanno abbandonati da tanto tempo ormai, in favore di un viaggio sonoro, avv...enturoso, ipnotico, suggestivo, dilatato ed elegante nella forma, carico di riferimenti spirituali, metafore e leggende, lavorando con minuziosa arte sui dettagli che forse ha toccato il suo apice con Coming Out Of The Fog (2012).
In perenne armonia tra cosmicità e radici, sanno passare con disinvoltura attraverso le brumose colline del folk progressive britannico, i fantasmi dei Fairport Convention sono sempre dietro l'angolo ('A Prism In Reverse') per poi atterrare sulla superficie, rendendo omaggio alla patria America con un honky tonk dove è il pianoforte a fare da guida ('High Water Song') e nel folk blues di 'No Sanctuary Blues'.
Sanno cucire bene la malinconia nelle trame di 'Headwaters II' dove la chitarra piazza il suo bel assolo che conduce al finale, sanno avvolgere nella rassicurante apertura 'How Deep It Goes', raggiungendo l'apoteosi negli undici muniti di 'Let It All In' una corsa a spron battuto attraverso un crescendo di elettricità, psichedelia, fughe e un finale jammato, carico di distorsione.
"Let It All In è stato qualcosa che abbiamo suonato per mesi, anche prima che venisse modificato il testo o gli accordi. L'abbiamo suonata solo perché era bello suonarla. Quando siamo entrati in studio con la canzone, avevamo sviluppato un'intera metodologia attorno al brano. Ci siamo sistemati, ci siamo sintonizzati e l'abbiamo lasciata scorrere. Trascorsero dodici minuti e ci rendemmo conto di averla fatta quasi perfettamente. Eccola lì, al primo ciak." racconta Heumann.
In continuo movimento, gli Arbouretum fluttuano sopra al pianeta musica ormai da diciotto anni e nove dischi. Sarebbe un peccato non riuscire ad acciuffarli almeno una volta. In tempi come questi poi, riescono ad allegerirci i pensieri portandoli lontano per almeno 45 minuti ed è già qualcosa.
venerdì 20 marzo 2020
RECENSIONE: SADLER VADEN (Anybody Out There?)
SADLER VADEN Anybody Out There? (Dirty Mag Records, 2020)
o la va o la spacca...
C'è sempre un tempo in cui i grandi piano piano si fanno da parte. C'è chi perde l'ispirazione e chi ci lascia, a volte per sopraggiunta anzianità a volte anche prematuramente per sempre. Ci vogliono forze nuove dietro. Sempre. Sandler Vaden, originario del South Carolina, non è proprio giovanissimo, nei suoi 34 anni di vita ha messo in valigia così tante buone esperienze da gregario che ora può permettersi di uscire allo scoperto per tappare un po' di quei posti mancanti tra le fila del classic rock americano, quello che viaggia in mezzo tra chitarre elettriche e ballate, tra southern rock e americana. Già chitarra nei 400 Unit di Jason Isbell e nei Drivin' N Cryin' di Kevin Kinney, Anybody Out There? è il secondo album solista dopo il debutto a suo nome uscito nel 2016.
Un disco che non si inventa nulla, pagando dazio a chi è venuto prima di lui. Il suo grande merito? Lasciare la sua firma e la sua personalità in modo diretto e senza troppi fronzoli in un genere che ha già dato il meglio di sé.
Echi di Tom Petty in 'Next To You' che messa lì all'inizio è un buon biglietto da visita che sa di classico, di quelli come si facevano ai bei tempi, così come la positività elargita in 'Good Man' riportano alla mente sempre il compianto biondo di Gainesville.
I toni medi e pacati sembrano avere la meglio, ma mentre le ariose ballate acustiche 'Don' t Worry' allungata con l'hammond e 'Be Here, Right Now' adagiata su una slide guitar convincono, 'Curtain Call' gioca la carta della malinconia con i suoi archi e funziona alla grande, 'Modern Times' lascia poche impronte e convince meno.
Per una 'Peace +Harmony' che lui stesso dichiara ispirata da George Harrison, 'Golden Child' ha il tiro del Ryan Adams più sbarazzino, mentre nella title track fa valere le sue doti chitarristiche, in un rock blues con chitarre belle presenti e taglienti. Certamente tra le migliori del disco.
Un buon biglietto da visita che questa volta è sicuramente da raccogliere.
o la va o la spacca...
C'è sempre un tempo in cui i grandi piano piano si fanno da parte. C'è chi perde l'ispirazione e chi ci lascia, a volte per sopraggiunta anzianità a volte anche prematuramente per sempre. Ci vogliono forze nuove dietro. Sempre. Sandler Vaden, originario del South Carolina, non è proprio giovanissimo, nei suoi 34 anni di vita ha messo in valigia così tante buone esperienze da gregario che ora può permettersi di uscire allo scoperto per tappare un po' di quei posti mancanti tra le fila del classic rock americano, quello che viaggia in mezzo tra chitarre elettriche e ballate, tra southern rock e americana. Già chitarra nei 400 Unit di Jason Isbell e nei Drivin' N Cryin' di Kevin Kinney, Anybody Out There? è il secondo album solista dopo il debutto a suo nome uscito nel 2016.
Un disco che non si inventa nulla, pagando dazio a chi è venuto prima di lui. Il suo grande merito? Lasciare la sua firma e la sua personalità in modo diretto e senza troppi fronzoli in un genere che ha già dato il meglio di sé.
Echi di Tom Petty in 'Next To You' che messa lì all'inizio è un buon biglietto da visita che sa di classico, di quelli come si facevano ai bei tempi, così come la positività elargita in 'Good Man' riportano alla mente sempre il compianto biondo di Gainesville.
I toni medi e pacati sembrano avere la meglio, ma mentre le ariose ballate acustiche 'Don' t Worry' allungata con l'hammond e 'Be Here, Right Now' adagiata su una slide guitar convincono, 'Curtain Call' gioca la carta della malinconia con i suoi archi e funziona alla grande, 'Modern Times' lascia poche impronte e convince meno.
Per una 'Peace +Harmony' che lui stesso dichiara ispirata da George Harrison, 'Golden Child' ha il tiro del Ryan Adams più sbarazzino, mentre nella title track fa valere le sue doti chitarristiche, in un rock blues con chitarre belle presenti e taglienti. Certamente tra le migliori del disco.
Un buon biglietto da visita che questa volta è sicuramente da raccogliere.
lunedì 16 marzo 2020
RECENSIONE: THE WOOD BROTHERS (Kingdom In My Mind)
THE WOOD BROTHERS Kingdom In my Mind (Honey Jar Records, 2020)
Quando si scava tra l'american roots è sempre difficile uscirne con qualcosa di unico e originale. La band dei fratelli Wood, Chris (basso, contrabbasso e voce) e Oliver (chitarre, voce e songwriting), insieme al polistrumentista Jani Rix, in qualche modo ci ha sempre provato, unendo folk, blues e gospel con l'approccio libero e senza confini del jazz. Questo ottavo album della loro carriera, iniziata nel 2006, ha preso forma da lunghe jam in studio di registrazione a Nashville.
"Non stavamo suonando canzoni. Stavamo solo improvvisando e lasciando che la musica dettasse tutto. Normalmente quando stai registrando stai pensando alle tue parti e alla tua esibizione, ma con queste sessioni, stavamo solo interagendo l'un l'altro e ci divertivamo sul momento". Spiega Oliver Wood.
È nato in modo casuale, in completa libertà, rispecchiando lo stesso approccio che li anima sopra ai palchi: ecco allora che le contaminazioni jazz portate in dote da Chris Wood segnano il lento incedere dell'apertura 'Alabaster'. Ma poi è un continuo peregrinare acustico tra le radici folk blues di 'Little Bit Sweet', il gospel di 'Jitterbug Love', il funk di 'Little Bit Broken', il soul di 'Cry Over Nothing', il boogie della più elettrica 'Don' t Think About My Death', il country bluegrass di 'The One I Love', il corale blues 'A Dream' s A Dream', la ballata 'Satisfied'.
Un gioco di rimandi nella pura tradizione americana condotto con cristallina bravura e in completa libertà.
Ma i veri segreti di questo disco si celano nel calore e nella vivacità d'esecuzione, nell' alto approccio alla materia, mai banale, nella registrazione degli strumenti che sembra non perdersi nemmeno il più soffuso dei rumori prodotti in studio di registrazione. Un disco da crepuscolo. Vincente, pur mantenendo la voce bassa e il carattere umile.
Quando si scava tra l'american roots è sempre difficile uscirne con qualcosa di unico e originale. La band dei fratelli Wood, Chris (basso, contrabbasso e voce) e Oliver (chitarre, voce e songwriting), insieme al polistrumentista Jani Rix, in qualche modo ci ha sempre provato, unendo folk, blues e gospel con l'approccio libero e senza confini del jazz. Questo ottavo album della loro carriera, iniziata nel 2006, ha preso forma da lunghe jam in studio di registrazione a Nashville.
"Non stavamo suonando canzoni. Stavamo solo improvvisando e lasciando che la musica dettasse tutto. Normalmente quando stai registrando stai pensando alle tue parti e alla tua esibizione, ma con queste sessioni, stavamo solo interagendo l'un l'altro e ci divertivamo sul momento". Spiega Oliver Wood.
È nato in modo casuale, in completa libertà, rispecchiando lo stesso approccio che li anima sopra ai palchi: ecco allora che le contaminazioni jazz portate in dote da Chris Wood segnano il lento incedere dell'apertura 'Alabaster'. Ma poi è un continuo peregrinare acustico tra le radici folk blues di 'Little Bit Sweet', il gospel di 'Jitterbug Love', il funk di 'Little Bit Broken', il soul di 'Cry Over Nothing', il boogie della più elettrica 'Don' t Think About My Death', il country bluegrass di 'The One I Love', il corale blues 'A Dream' s A Dream', la ballata 'Satisfied'.
Un gioco di rimandi nella pura tradizione americana condotto con cristallina bravura e in completa libertà.
Ma i veri segreti di questo disco si celano nel calore e nella vivacità d'esecuzione, nell' alto approccio alla materia, mai banale, nella registrazione degli strumenti che sembra non perdersi nemmeno il più soffuso dei rumori prodotti in studio di registrazione. Un disco da crepuscolo. Vincente, pur mantenendo la voce bassa e il carattere umile.
venerdì 13 marzo 2020
RECENSIONE: MONDO GENERATOR (Fuck It)
MONDO GENERATOR Fuck It (Heavy Psych Sounds, 2020)
calci nel sedere
Kyuss lives! è naturalmente quello che speriamo tutti a molti anni dallo scioglimento ma è anche il monicker con il quale alcuni ex componenti della band portarono in giro il repertorio della cult band americana qualche anno fa. Insieme a John Garcia e Brant Bjork c'era naturalmente Nick Oliveri che nel nuovo album della sua creatura MONDO GENERATOR, che esce in questi giorni a otto anni di distanza dall'ultimo, sembra scherzarci su con una traccia intitolata 'Kiuss Dies!' che a questo punto o chiude definitivamente il discorso oppure lo riapre clamorosamente.
A quella reunion non partecipò Josh Homme (a lui sempre l'ultima parola) che però per questo ritorno dei Mondo Generator mette a disposizione i suoi Pink Duck Studio. Un ritorno che non guarda in faccia nessuno: grezzo, furente, selvaggio, schizzato ('Listening To The Daze').
14 tracce in 44 minuti di pura agonia punk. Insieme a Mike Amster (Nebula) e Mike Pygmie (della Band Of Gold di John Garcia) spara le sue cartucce di intransigente punk hardcore: 'Up Against The Void' , 'Turboner' , 'When Death Comes' , in S. V. E. T. L. A. N. A. S duetta con Olga dei Svetlanas, gruppo in cui suona pure Oliveri da qualche anno (forse la traccia che meno mi è piaciuta del disco), 'It's You I Don't Believe' è una scheggia di intransigente aggressività.
Senza dimenticare di gettare un po' di vecchia sabbia del deserto in tracce come 'Fuck It', 'Silver Tequila/666 Miles Away', 'Option Four' ma sono solo piccoli granelli in un mare di sudore punk rock alla vecchia maniera che richiama in causa mostri sacri come Bad Brains, Dead Kennedys e Black Flag.
"Puoi sentire la polvere e la sabbia del deserto californiano mescolate con l’odore marcio di un seminterrato sporco!”. Con queste parole il gruppo cerca di spiegare l'album sul proprio sito. Io ci sento più lo sporco mentre il deserto si intravede solo in lontananza, ma non è un male, ciò conferma che Nick Oliveri non ha ancora perso quella carica eversiva che ne ha segnato l'intera carriera, a volte strabordando in eccesso soprattutto nel privato.
lunedì 9 marzo 2020
RECENSIONE: JONATHAN WILSON (Dixie Blur)
JONATHAN WILSON Dixie Blur (Bella Union, 2020)
going up the country...
Due anni di tour insieme a Roger Waters e un ultimo disco, Rare Birds, nato dopo la fine di una relazione d'amore, che dal bassista dei Pink Floyd prendeva pure ispirazione, ma non solo questo, visto che era talmente ambizioso nel suo viaggiare nel tempo (c'erano anche gli azzardi di certi anni ottanta lì dentro) che è risultato ostico e poco capito anche dai suoi fan. Questa volta Jonathan Wilson ha puntato diritto a Nashville ( in questi giorni alle prese con la devastazione di un uragano) sotto il suggerimento di Steve Earle e con l'aiuto di Patrick Sansone (Wilco) in produzione ha scritto tredici canzoni (più una cover) dove riversa la sua personale idea di country americana, a volte con i piedi ben piantati nel classico, altre con le scarpe a un metro da terra, dando sfogo alla sua arte più visionaria come già ci ha abituato nel passato.
Registrato in presa diretta, in soli sei giorni, al Sound Emporium Studio con gli straordinari musicisti del posto, professionisti della country music con in cima il violinista Mark O'Connor, vero gran protagonista lungo tutta la durata del disco, che fanno risultare Dixie Blur il suo disco più diretto e accessibile di sempre. Un metodo e un approccio di registrazione completamente diversi rispetto ai precedenti quattro lavori.
"Questo è il suono del Sud, il suono delle colline della Carolina. Questa è la mia casa, da dove vengo. Alcune cose che ho fatto in passato sono più i suoni della mia immaginazione. Ma queste canzoni hanno il suono di mio padre, dei miei zii". Rivendica con orgoglio Wilson che comunque non ha dimenticato Topanga. .
In mezzo alle ariose e introspettive '69 Corvette' (che cela ricordi d'infanzia snocciolati in stile American Recordings) e 'So Alive' (la forza dell'amore), alle ballate al pianoforte e steel guitar di 'Fun For The Masses' e 'Oh Girl' con il suo crescendo, alla crepuscolare e sentita interpretazione in 'New Home', al bluegrass di 'El Camino Real', al suono alla Phil Spector adattato agli anni 2000 di 'Enemies', al malinconico country western al chiaro di luna di 'Golden Apples', all'incedere cupo di 'Riding The Blinds', a una 'Platform' che vedrei bene cantata da Willie Nelson, fino al folk di 'Pirate' e l'honk tonk di 'In Heaven Making Love', c'è una 'Just For Love' dei Quicksilver Messenger Service, posta in apertura, a fare da giusto ponte con il passato, allungando la vista verso il futuro, come sempre.
going up the country...
Due anni di tour insieme a Roger Waters e un ultimo disco, Rare Birds, nato dopo la fine di una relazione d'amore, che dal bassista dei Pink Floyd prendeva pure ispirazione, ma non solo questo, visto che era talmente ambizioso nel suo viaggiare nel tempo (c'erano anche gli azzardi di certi anni ottanta lì dentro) che è risultato ostico e poco capito anche dai suoi fan. Questa volta Jonathan Wilson ha puntato diritto a Nashville ( in questi giorni alle prese con la devastazione di un uragano) sotto il suggerimento di Steve Earle e con l'aiuto di Patrick Sansone (Wilco) in produzione ha scritto tredici canzoni (più una cover) dove riversa la sua personale idea di country americana, a volte con i piedi ben piantati nel classico, altre con le scarpe a un metro da terra, dando sfogo alla sua arte più visionaria come già ci ha abituato nel passato.
Registrato in presa diretta, in soli sei giorni, al Sound Emporium Studio con gli straordinari musicisti del posto, professionisti della country music con in cima il violinista Mark O'Connor, vero gran protagonista lungo tutta la durata del disco, che fanno risultare Dixie Blur il suo disco più diretto e accessibile di sempre. Un metodo e un approccio di registrazione completamente diversi rispetto ai precedenti quattro lavori.
"Questo è il suono del Sud, il suono delle colline della Carolina. Questa è la mia casa, da dove vengo. Alcune cose che ho fatto in passato sono più i suoni della mia immaginazione. Ma queste canzoni hanno il suono di mio padre, dei miei zii". Rivendica con orgoglio Wilson che comunque non ha dimenticato Topanga. .
In mezzo alle ariose e introspettive '69 Corvette' (che cela ricordi d'infanzia snocciolati in stile American Recordings) e 'So Alive' (la forza dell'amore), alle ballate al pianoforte e steel guitar di 'Fun For The Masses' e 'Oh Girl' con il suo crescendo, alla crepuscolare e sentita interpretazione in 'New Home', al bluegrass di 'El Camino Real', al suono alla Phil Spector adattato agli anni 2000 di 'Enemies', al malinconico country western al chiaro di luna di 'Golden Apples', all'incedere cupo di 'Riding The Blinds', a una 'Platform' che vedrei bene cantata da Willie Nelson, fino al folk di 'Pirate' e l'honk tonk di 'In Heaven Making Love', c'è una 'Just For Love' dei Quicksilver Messenger Service, posta in apertura, a fare da giusto ponte con il passato, allungando la vista verso il futuro, come sempre.
sabato 7 marzo 2020
RECENSIONE: HAYSEED DIXIE (Blast From The Grassed)
HAYSEED DIXIE Blast From The Grassed (2020)
anniversario bluegrass
Vent'anni fa quattro boscaioli poco raccomandabili muniti di strumenti musicali al posto delle motoseghe scesero dai monti Appalachi alla conquista del mondo a suon di brani heavy e hard rock rivisitati in salsa country e bluegrass (rockgrass è il loro trademark). All'epoca in testa alle loro preferenze c'erano gli AC DC naturalmente, ma anche Motorhead, Judas Priest, Black Sabbath, Queen (da manuale la loro... 'Bohemian Rhapsody' che sa di erba e sterco).
Quest'anno per festeggiare la ricorrenza il leader John Wheeler (voce, chitarra e violino) accompagnato dall'irsuto bassista e veterano Jake Bakesnake Byers, il funambolico mandolino di Hippy Joe Hymas e il banjo suonato da Tim Carter hanno fatto uscire un disco alla vecchia maniera, solo cover e niente brani propri come ci avevano abituato ultimanente. Se già conoscete gli individui sapete a cosa andrete incontro, se invece li avete ignorati fino ad oggi, il consiglio è quello di non perderveli dal vivo dove suonano intorno a un frigorifero ben fornito di alcol, piazzato dove di solito c'è una batteria, diventando di fatto l'unico "strumento elettrico" sopra al palco in mezzo a una sarabanda di strumenti a corda che si intrecciano tra loro: mandolino, chitarra, banjo, violino, double bass e uno schiacciapensieri a disturbare. Headbanging assicurato quando superano i duecento all'ora.
BLAST FROM THE GRASSED ha una scaletta da festa delle medie, spuma corretta compresa nel prezzo: se avete sempre odiato i Toto forse questa volta 'Africa' vi strapperà almeno un sorriso. Sotto alla palla stroboscopica potrete pomiciare con l'amante di turno su 'Staying Alive' (Bee Gees) e 'Dancing Queen' (Abba) riarrangiate da festa campestre. Poi tutti con i capelli cotonati con una carrellata di hit da superclassifica show anni ottanta: 'Shout' (Tears Of Fears), 'Tainted Love' (Soft Cell) e 'Take On Me' (A-ha), 'Sweet Dreams' (Eurhythmics) mentre 'Eternal Flame' (The Bangles) e 'Blue Monday' (New Order) sono per i più secchioni della compagnia, quelli più sofisticati che non si accontentano mai.
Un po' come quelli che vorrebbero più serietà e legame alla tradizione rock. Per loro ci sono 'Suspicious Minds' (Elvis Presley) e 'Mrs. Robinson' (Simon & Garfunkel).
Naturalmente il tutto è da non prendere troppo sul serio, c'è il rischio di rovinare la festa.
anniversario bluegrass
Vent'anni fa quattro boscaioli poco raccomandabili muniti di strumenti musicali al posto delle motoseghe scesero dai monti Appalachi alla conquista del mondo a suon di brani heavy e hard rock rivisitati in salsa country e bluegrass (rockgrass è il loro trademark). All'epoca in testa alle loro preferenze c'erano gli AC DC naturalmente, ma anche Motorhead, Judas Priest, Black Sabbath, Queen (da manuale la loro... 'Bohemian Rhapsody' che sa di erba e sterco).
Quest'anno per festeggiare la ricorrenza il leader John Wheeler (voce, chitarra e violino) accompagnato dall'irsuto bassista e veterano Jake Bakesnake Byers, il funambolico mandolino di Hippy Joe Hymas e il banjo suonato da Tim Carter hanno fatto uscire un disco alla vecchia maniera, solo cover e niente brani propri come ci avevano abituato ultimanente. Se già conoscete gli individui sapete a cosa andrete incontro, se invece li avete ignorati fino ad oggi, il consiglio è quello di non perderveli dal vivo dove suonano intorno a un frigorifero ben fornito di alcol, piazzato dove di solito c'è una batteria, diventando di fatto l'unico "strumento elettrico" sopra al palco in mezzo a una sarabanda di strumenti a corda che si intrecciano tra loro: mandolino, chitarra, banjo, violino, double bass e uno schiacciapensieri a disturbare. Headbanging assicurato quando superano i duecento all'ora.
BLAST FROM THE GRASSED ha una scaletta da festa delle medie, spuma corretta compresa nel prezzo: se avete sempre odiato i Toto forse questa volta 'Africa' vi strapperà almeno un sorriso. Sotto alla palla stroboscopica potrete pomiciare con l'amante di turno su 'Staying Alive' (Bee Gees) e 'Dancing Queen' (Abba) riarrangiate da festa campestre. Poi tutti con i capelli cotonati con una carrellata di hit da superclassifica show anni ottanta: 'Shout' (Tears Of Fears), 'Tainted Love' (Soft Cell) e 'Take On Me' (A-ha), 'Sweet Dreams' (Eurhythmics) mentre 'Eternal Flame' (The Bangles) e 'Blue Monday' (New Order) sono per i più secchioni della compagnia, quelli più sofisticati che non si accontentano mai.
Un po' come quelli che vorrebbero più serietà e legame alla tradizione rock. Per loro ci sono 'Suspicious Minds' (Elvis Presley) e 'Mrs. Robinson' (Simon & Garfunkel).
Naturalmente il tutto è da non prendere troppo sul serio, c'è il rischio di rovinare la festa.
lunedì 2 marzo 2020
RECENSIONE: HUMULUS (The Deep)
HUMULUS The Deep (Kozmik Artifact, 2020)
nuovi orizzonti in profondità
Mettersi in mano ai tedeschi. Detta così sembra quasi una minaccia, ma a volte può essere salvifico e in questo caso diventare pure appagante e stimolante per il futuro. Il gruppo bergamasco/bresciano ha fiutato bene il territorio europeo più adatto alla propria proposta musicale e la decisione sembra dare buoni risultati già da qualche tempo. Gli affollati festival europei già affrontati dalla band sono lì a dimostrarlo.
THE DEEP esce per l'etichetta tedesca Kozmik Artifact mentre le date live saranno in mano all'agenzia berlinese Magnificent Booking. Ben fatto.
Benedetti da fiumi di birra che nell'etichetta porta il loro nome, prodotta dal birrificio Elav (questo sì 100% italiano come loro) e rappresentati questa volta da un polpo in copertina (in passato c'erano trichechi e elefanti) con THE DEEP il gruppo di Andrea Van Cleef (chitarra e voce), Giorgio Bona (basso) e Massimiliano Boventi (batteria) arriva al traguardo dei dieci anni di carriera con un album in grado di giocarsi le migliori carte sopra ai più importanti palchi europei di musica pesante grazie ad una proposta mai stagna ma in continuo movimento, sinonimo di grande libertà artistica, da leggere anche come maturità.
Le due canzoni che sfiorano i quindici minuti 'Into The Heart Of The Volcano Sun' e 'Sanctuary III-The Deep' sembrano già racchiudere gran parte della loro bibbia musicale fatta di luci, chiaro scuri e buia profondità spalmate su lunghe divagazioni psichedeliche dal forte richiamo progressive e pesanti ripartenze stoner doom con il particolare timbro vocale di Andrea Van Cleef a toccare le corde più basse soprattutto nei tre minuti di quiete dell'acustica 'Lunar Queen', la cosa più vicina ai suoi lavori solisti.
Ma se la cavalcata stoner 'Gone Again' (accompagnata dal video) e la sabbathiana 'Devil' s Peak' mostrano il lato più heavy e intransigente, sono le lente e magnetiche sfumature etniche e tribali di 'Hajra' interrotte da violente esplosioni elettriche cariche di fuzz a regalare all'intero disco otto sorprendenti minuti che mettono in luce la perfetta coesione raggiunta della band.
Un viaggio lungo cinquanta minuti tra infinito deserto, alte stelle, profondi fondali e sogni onirici. Musica che scuote forte la pancia e galleggia quieta nel cervello.
nuovi orizzonti in profondità
Mettersi in mano ai tedeschi. Detta così sembra quasi una minaccia, ma a volte può essere salvifico e in questo caso diventare pure appagante e stimolante per il futuro. Il gruppo bergamasco/bresciano ha fiutato bene il territorio europeo più adatto alla propria proposta musicale e la decisione sembra dare buoni risultati già da qualche tempo. Gli affollati festival europei già affrontati dalla band sono lì a dimostrarlo.
THE DEEP esce per l'etichetta tedesca Kozmik Artifact mentre le date live saranno in mano all'agenzia berlinese Magnificent Booking. Ben fatto.
Benedetti da fiumi di birra che nell'etichetta porta il loro nome, prodotta dal birrificio Elav (questo sì 100% italiano come loro) e rappresentati questa volta da un polpo in copertina (in passato c'erano trichechi e elefanti) con THE DEEP il gruppo di Andrea Van Cleef (chitarra e voce), Giorgio Bona (basso) e Massimiliano Boventi (batteria) arriva al traguardo dei dieci anni di carriera con un album in grado di giocarsi le migliori carte sopra ai più importanti palchi europei di musica pesante grazie ad una proposta mai stagna ma in continuo movimento, sinonimo di grande libertà artistica, da leggere anche come maturità.
Le due canzoni che sfiorano i quindici minuti 'Into The Heart Of The Volcano Sun' e 'Sanctuary III-The Deep' sembrano già racchiudere gran parte della loro bibbia musicale fatta di luci, chiaro scuri e buia profondità spalmate su lunghe divagazioni psichedeliche dal forte richiamo progressive e pesanti ripartenze stoner doom con il particolare timbro vocale di Andrea Van Cleef a toccare le corde più basse soprattutto nei tre minuti di quiete dell'acustica 'Lunar Queen', la cosa più vicina ai suoi lavori solisti.
Ma se la cavalcata stoner 'Gone Again' (accompagnata dal video) e la sabbathiana 'Devil' s Peak' mostrano il lato più heavy e intransigente, sono le lente e magnetiche sfumature etniche e tribali di 'Hajra' interrotte da violente esplosioni elettriche cariche di fuzz a regalare all'intero disco otto sorprendenti minuti che mettono in luce la perfetta coesione raggiunta della band.
Un viaggio lungo cinquanta minuti tra infinito deserto, alte stelle, profondi fondali e sogni onirici. Musica che scuote forte la pancia e galleggia quieta nel cervello.
domenica 1 marzo 2020
RECENSIONE: THE OUTLAWS (Dixie Highway)
THE OUTLAWS Dixie Highway (SPV, 2020)
Ce n'è ancora…
'Southern Rock Will Never Die', la canzone che apre il disco (che copertina brutta però), sembra essere anche il manifesto programmatico di quello che DIXIE HIGHWAY (secondo album dopo il ritorno del 2012) promette fin da subito: un ritorno agli antichi fasti anni settanta degli OUTLAWS, dove la tradizionale epicità del southern rock e la forza delle tre chitarre viaggiano all'unisono lungo quello che è rimasto della vecchia Dixie Highway, autostrada che univa Chicago a Miami. Chitarre fiammeggianti, lunga coda finale e l'omaggio a tutti i grandi caduti del southern rock. E purtroppo sono tanti. "Ghost riders on the wind in the southern sky" cantano.
A caricare i fucili ci pensano i due veterani Henry Paul (chitarra e voce) e Monte Yoho (batteria). Con loro: Randy Threet (basso), Steve Grisham (chitarre), Dave Robbins (tastiere), Dale Oliver (chitarra), Jaran Sorenson (batteria) e l'ospite Billy Crain (chitarra).
Henry Paul sembra essere battagliero e deciso: "abbiamo scritto e registrato questo album per rafforzare l'idea che gli Outlaws contano ancora e che il southern rock avrà sempre importanza. È un messaggio che siamo orgogliosi di portare nel ventunesimo secolo".
E dentro ai solchi di Dixie Highway sembra veramente di ritrovare le atmosfere dei tempi migliori, anche perché gli spazi aperti disegnati in 'Heavenly Blues' arrivano direttamente dall'album Hurry Sundown uscito nel 1977. Un ripescaggio che funziona. Ma non è l'unico, visto che anche la cangiante 'Windy City' s Blue' arriva da un vecchio demo dimenticato degli anni settanta, scritta del vecchio bassista Frank O'Keefe, scomparso nel 1995 a soli 44 anni.
La forte componente western country che li distingueva in album come l'esordio del 1975 e Lady In Waiting (1976) e che fece guadagnare loro l'appellativo di "Eagles del southern rock" (e qui sta voi decidere se è un bene o no) esce prepotente in canzoni come 'Over The Night in Athens' mentre in 'Endless Ride' risplende tutta l'epicità del vecchio southern rock con infiniti duelli di chitarre e poi quella 'Dark Horse Run' che si gioca la carta delle armonie vocali di stampo west coast sotto un tappeto più leggero.
Mentre la forza delle chitarre che caratterizzò un live album epocale come Bringing Back Alive (1978) sembra non essersi affievolita troppo nel tempo, ascoltando canzoni come lo scatenato blues boogie di 'Rattlesnake Road' e la strumentale 'Showdown' che fa riaffiorare i fantasmi della Allman Brothers Band che poi rivivono fieramente nella ballata finale 'Macon Memories' che con i suoi omaggi agli eroi di un'epoca irripetibile chiude idealmente il disco proprio come era iniziato.
Un disco di southern rock alla vecchia maniera come non si sentiva da tempo, firmato da una delle band, o meglio quello che resta di quella band (ma non è importante) che quei tempi gloriosi li visse in diretta. E per un attimo sembra di respirare ancora quella mistura bastarda di erba appena tagliata, polvere e asfalto che i vecchi vinili emanavano ad ogni giro.
Fieri, battaglieri, nostalgici e autentici, i fuorilegge sono tornati.
Ce n'è ancora…
'Southern Rock Will Never Die', la canzone che apre il disco (che copertina brutta però), sembra essere anche il manifesto programmatico di quello che DIXIE HIGHWAY (secondo album dopo il ritorno del 2012) promette fin da subito: un ritorno agli antichi fasti anni settanta degli OUTLAWS, dove la tradizionale epicità del southern rock e la forza delle tre chitarre viaggiano all'unisono lungo quello che è rimasto della vecchia Dixie Highway, autostrada che univa Chicago a Miami. Chitarre fiammeggianti, lunga coda finale e l'omaggio a tutti i grandi caduti del southern rock. E purtroppo sono tanti. "Ghost riders on the wind in the southern sky" cantano.
A caricare i fucili ci pensano i due veterani Henry Paul (chitarra e voce) e Monte Yoho (batteria). Con loro: Randy Threet (basso), Steve Grisham (chitarre), Dave Robbins (tastiere), Dale Oliver (chitarra), Jaran Sorenson (batteria) e l'ospite Billy Crain (chitarra).
Henry Paul sembra essere battagliero e deciso: "abbiamo scritto e registrato questo album per rafforzare l'idea che gli Outlaws contano ancora e che il southern rock avrà sempre importanza. È un messaggio che siamo orgogliosi di portare nel ventunesimo secolo".
E dentro ai solchi di Dixie Highway sembra veramente di ritrovare le atmosfere dei tempi migliori, anche perché gli spazi aperti disegnati in 'Heavenly Blues' arrivano direttamente dall'album Hurry Sundown uscito nel 1977. Un ripescaggio che funziona. Ma non è l'unico, visto che anche la cangiante 'Windy City' s Blue' arriva da un vecchio demo dimenticato degli anni settanta, scritta del vecchio bassista Frank O'Keefe, scomparso nel 1995 a soli 44 anni.
La forte componente western country che li distingueva in album come l'esordio del 1975 e Lady In Waiting (1976) e che fece guadagnare loro l'appellativo di "Eagles del southern rock" (e qui sta voi decidere se è un bene o no) esce prepotente in canzoni come 'Over The Night in Athens' mentre in 'Endless Ride' risplende tutta l'epicità del vecchio southern rock con infiniti duelli di chitarre e poi quella 'Dark Horse Run' che si gioca la carta delle armonie vocali di stampo west coast sotto un tappeto più leggero.
Mentre la forza delle chitarre che caratterizzò un live album epocale come Bringing Back Alive (1978) sembra non essersi affievolita troppo nel tempo, ascoltando canzoni come lo scatenato blues boogie di 'Rattlesnake Road' e la strumentale 'Showdown' che fa riaffiorare i fantasmi della Allman Brothers Band che poi rivivono fieramente nella ballata finale 'Macon Memories' che con i suoi omaggi agli eroi di un'epoca irripetibile chiude idealmente il disco proprio come era iniziato.
Un disco di southern rock alla vecchia maniera come non si sentiva da tempo, firmato da una delle band, o meglio quello che resta di quella band (ma non è importante) che quei tempi gloriosi li visse in diretta. E per un attimo sembra di respirare ancora quella mistura bastarda di erba appena tagliata, polvere e asfalto che i vecchi vinili emanavano ad ogni giro.
Fieri, battaglieri, nostalgici e autentici, i fuorilegge sono tornati.
martedì 25 febbraio 2020
RECENSIONE: GREG DULLI (Random Desire)
GREG DULLI Random Desire (Cream/BMG, 2020)
la bellezza ci salverà
Difficile voler male a un artista come Greg Dulli, uomo viscerale che poche volte ha sbagliato le sue mosse. E anche quando l'ispirazione non era delle migliori a salvarlo è sempre stata l'onestà e un approccio alla musica unico e ancora romantico come pochi. In un periodo della vita in cui l'ispirazione sembra tornata ai massimi livelli (In Spades degli Afghan Whigs uscito tre anni fa è ancora caldo e scalpitante, degno dei migliori episodi targati anni novanta) sarebbe stato veramente un peccato lasciare queste dieci canzoni (per soli 37 intensi minuti, curati in ogni minimo particolare) chiuse in un cassetto. Meglio farle uscire anche se tutti gli amici più stretti erano impegnati in altri progetti.
"Tutti avevano un progetto, quindi ero tipo:'Devo fare qualcosa e se mai lo farò, dovrei farlo subito' " dice.
E allora, decide di fare quasi tutto da solo questa volta con l'aiuto di una ristretta schiera di musicisti tra cui Jon Skibic, Rick G. Nelson, Jon Theodore: il risultato finale non sembra così distante da quanto proposto con gli ultimi Afghan Whigs (ascoltare 'Black Moon') , Gutter Twins e soprattutto con il progetto Twilight Singers. Ballate alla Greg Dulli, liriche ('Sempre') oscure e viziose, investigative tra le pieghe più carnali dell'amore, tra i chiaro scuri della vita e delle perdite (pesante e dolorosa la morte dell'amico Dave Rosser), dei demoni personali, condotte dalla linea guida di un pianoforte come la finale 'Slow Pan', 'It Falls Apart', e ' Scorpio' che lo stesso Dulli ha dichiarato ispirata da Prince. Malinconiche e notturne pennellate acustiche come 'Marry Me' e la strepitosa 'Ghost', scritta a New Orleans, con un violino a disegnare velata malinconia, una algida e elettronica 'Lockless' scaldata dal soffio di una tromba, con qualche lampo elettrico ed esplosivo ('Pantomina', 'The Tide') a pompare ancora sangue rosso carminio.
la bellezza ci salverà
Difficile voler male a un artista come Greg Dulli, uomo viscerale che poche volte ha sbagliato le sue mosse. E anche quando l'ispirazione non era delle migliori a salvarlo è sempre stata l'onestà e un approccio alla musica unico e ancora romantico come pochi. In un periodo della vita in cui l'ispirazione sembra tornata ai massimi livelli (In Spades degli Afghan Whigs uscito tre anni fa è ancora caldo e scalpitante, degno dei migliori episodi targati anni novanta) sarebbe stato veramente un peccato lasciare queste dieci canzoni (per soli 37 intensi minuti, curati in ogni minimo particolare) chiuse in un cassetto. Meglio farle uscire anche se tutti gli amici più stretti erano impegnati in altri progetti.
"Tutti avevano un progetto, quindi ero tipo:'Devo fare qualcosa e se mai lo farò, dovrei farlo subito' " dice.
E allora, decide di fare quasi tutto da solo questa volta con l'aiuto di una ristretta schiera di musicisti tra cui Jon Skibic, Rick G. Nelson, Jon Theodore: il risultato finale non sembra così distante da quanto proposto con gli ultimi Afghan Whigs (ascoltare 'Black Moon') , Gutter Twins e soprattutto con il progetto Twilight Singers. Ballate alla Greg Dulli, liriche ('Sempre') oscure e viziose, investigative tra le pieghe più carnali dell'amore, tra i chiaro scuri della vita e delle perdite (pesante e dolorosa la morte dell'amico Dave Rosser), dei demoni personali, condotte dalla linea guida di un pianoforte come la finale 'Slow Pan', 'It Falls Apart', e ' Scorpio' che lo stesso Dulli ha dichiarato ispirata da Prince. Malinconiche e notturne pennellate acustiche come 'Marry Me' e la strepitosa 'Ghost', scritta a New Orleans, con un violino a disegnare velata malinconia, una algida e elettronica 'Lockless' scaldata dal soffio di una tromba, con qualche lampo elettrico ed esplosivo ('Pantomina', 'The Tide') a pompare ancora sangue rosso carminio.
Profondo e ispirato.
venerdì 21 febbraio 2020
RECENSIONE: SUPERSUCKERS (Play That Rock'n'Roll)
SUPERSUCKERS Play That Rock'n'Roll (2020)
alzate il volume
Ci sono band a cui nessuno chiederebbe mai delle rivoluzioni. Band nate per suonare rock'n'roll dall'inizio alla fine dei loro giorni. I Supersuckers di Eddie Spaghetti sono una di queste. Questa volta poi sta tutto nella foto di copertina e nel titolo: e che vada alla malora anche l'originalità. "La nostra lettera d'amore al rock'n'roll" lascia detto Spaghetti. Dopo aver festeggiato i trent'anni di carriera con il precedente Suck It (2018) ma soprattutto dopo la riabilitazione di Spaghetti reduce da una doppia vittoria sulla vita (ha sconfitto un tumore alla gola e mandato la morte a farsi fottere dopo un brutto incidente stradale) si buttano come freschi ventenni (Eddie e soci, il chitarrista Marty Chandler e il batterista Chris Von Streicher battono tutti intorno al mezzo secolo di vita) con immutata spavalderia a suonare come se non ci fosse un domani. E se ci fosse sarebbe proprio tale e quale al loro presente.
Tolta 'Ain't No Day Like Yesterday' con una chitarra vagamente psichedelica non c'è un attimo di tregua nelle dodici canzoni registrate a Austin, Texas, nello studio di Willie Nelson. Dall'iniziale 'Ain' t Gonna Stop' dove Spaghetti sembra già mettere le cose in chiaro "non smetterò fino a quando non lo fermerò" canta, passando per la dura e diretta 'Last Time Again' che sarebbe tanto piaciuta a Lemmy, dal punk di 'Bringing It Back' al blues di 'You Ain’t The Boss Of Me', dall'atto d'amore scritto con sangue, sudore e devozione della title track, viaggio nella storia del rock, fino alla cover di 'Dead, Jail o Rock n 'Roll' di Michael Monroe, un altro grande troppo spesso dimenticato. Play It Loud e long live rock'n'roll.
alzate il volume
Ci sono band a cui nessuno chiederebbe mai delle rivoluzioni. Band nate per suonare rock'n'roll dall'inizio alla fine dei loro giorni. I Supersuckers di Eddie Spaghetti sono una di queste. Questa volta poi sta tutto nella foto di copertina e nel titolo: e che vada alla malora anche l'originalità. "La nostra lettera d'amore al rock'n'roll" lascia detto Spaghetti. Dopo aver festeggiato i trent'anni di carriera con il precedente Suck It (2018) ma soprattutto dopo la riabilitazione di Spaghetti reduce da una doppia vittoria sulla vita (ha sconfitto un tumore alla gola e mandato la morte a farsi fottere dopo un brutto incidente stradale) si buttano come freschi ventenni (Eddie e soci, il chitarrista Marty Chandler e il batterista Chris Von Streicher battono tutti intorno al mezzo secolo di vita) con immutata spavalderia a suonare come se non ci fosse un domani. E se ci fosse sarebbe proprio tale e quale al loro presente.
Tolta 'Ain't No Day Like Yesterday' con una chitarra vagamente psichedelica non c'è un attimo di tregua nelle dodici canzoni registrate a Austin, Texas, nello studio di Willie Nelson. Dall'iniziale 'Ain' t Gonna Stop' dove Spaghetti sembra già mettere le cose in chiaro "non smetterò fino a quando non lo fermerò" canta, passando per la dura e diretta 'Last Time Again' che sarebbe tanto piaciuta a Lemmy, dal punk di 'Bringing It Back' al blues di 'You Ain’t The Boss Of Me', dall'atto d'amore scritto con sangue, sudore e devozione della title track, viaggio nella storia del rock, fino alla cover di 'Dead, Jail o Rock n 'Roll' di Michael Monroe, un altro grande troppo spesso dimenticato. Play It Loud e long live rock'n'roll.
lunedì 17 febbraio 2020
RECENSIONE: OZZY OSBOURNE (ORDINARY MAN)
OZZY OSBOURNE Ordinary Man (Epic, 2020)
Un "all right now" gridato come ai vecchi tempi, poi la sua inconfondibile risata malefica. ORDINARY MAN, il nuovo disco di OZZY OSBOURNE inizia nel segno della tradizione. Un deja vu che ti fa pensare immediatamente: "Ozzy è tornato, è sempre lui". Quando qualche mese fa diceva che questo è il miglior disco della sua carriera però non gli credevo. Ora, parecchi ascolti gli credo ancor meno, ma mica perché sia brutto eh, solo perché ritengo non sia così. Ha voluto accontentare un po' tutti con questo disco e in qualche modo si è pure rimesso in gioco (l'hanno rimesso in gioco): ha messo in fila la sua carriera con una decina di belle canzoni. Sicuramente il miglior disco dai tempi di Ozzmosis.
Ci sono i riff pesanti e alcune veloci ripartenze in stile vecchi Black Sabbath (la schizofrenica e fumosa 'Goodbye') anche se non c'è Tony Iommi e nemmeno Zakk Wylde, c'è perfino un'armonica che porta il pensiero dritto dritto a 'The Wizard' in 'Eat Me', c'è la malignità horror e alcuni momenti ('Straight To Hell') che richiamano Blizzard Of Ozz e Diary Of A Madman (eccoli i motivi per cui questo non sarà mai il miglior disco di Ozzy), c'è una 'Under The Graveyard' in bilico tra eighties e i novanta di Ozzmosis ma in qualche modo con tutti gli attributi di un classico e una melodia che ti si inchioda nel cervello, c'è perfino una velocissima traccia dall'attitudine punk ('It's A Raid') che da un Ozzy settantunenne non ti aspetteresti più, forse mai, nata ricordando quei caldi giorni in California immersi nella cocaina durante le registrazioni di Vol. 4 dei Black Sabbath come ha recentemente dichiarato.
Di 'Ordinary Man' sappiamo già tutto, una ballata al pianoforte che da Ozzy Osbourne abbiamo già sentito tante altre volte. Ricordo: 'So Tired' , 'L. A. Tonight', 'Dreamer'. La grande differenza qui la fanno il pianoforte e la voce dell'ospite sir Elton John e l'assolo di chitarra lasciato da Slash.
"Mi sono accorto che assomigliava a una canzone di Elton. Così ho chiesto a Sharon: e se la cantassi con lui? Glielo abbiamo chiesto e, roba da non credere, ha detto di sì e ha cantato e suonato il pianoforte”.
Della sinfonica 'Holy For Tonight' sarà bello scoprire che ci piacerà con gli ascolti, grazie a quelle antiche reminescenze da Electric Light Orchestra che si trascina dietro.
Ci sono Chad Smith alla batteria, Duff McKagan al basso in tutte le tracce, Slash e Tom Morello a piazzare assoli e il giovane produttore, classe 1990, Andrew Watt alle chitarre, tutti insieme fanno il loro dovere facendo suonare il disco alla grande, seppur registrato in tempi brevissimi e un Ozzy a mezzo servizio. Il 2019 non è certamente stato tra i suoi anni da incorniciare.
C'è perfino l'auto-tune (orribile), soprattutto nella finale e già edita 'Take What You Want' e ospiti inconsueti (ma qui il vero ospite è Ozzy) come Post Malone e il rapper Scott Travis, da non confondere con Travis Scott, batterista dei Judas Priest (sarebbe stato certamente più utile), per accontentare le nuove generazioni che forse nemmeno sanno da dove spunti fuori un tale, tremolante, che si fa chiamare Ozzy, balzato agli onori delle cronache non musicali qualche anno fa per un reality ambientato in famiglia. Ah sì, poi ci sono i Black Sabbath. La sua strana famiglia che ora pare stringersi intorno a lui per proteggerlo.
E pensare che i primi 40 secondi promettevano pure bene. Ecco, forse di quest' ultima avremmo fatto volentieri a meno.
Ozzy Osbourne ha il morbo di Parkinson, già combattuto in passato, forse annullerà ancora una volta il suo ultimo tour, già più volte rimandato. Molto probabilmente questo sarà il suo ultimo disco in carriera e i pochi rimpianti per una vita condotta in corsia di sorpasso che affiorano in mezzo a cannibali e alieni verdi (quelli della inconsueta 'Scary Little Green Men') i tanti messaggi di addio sparsi nei testi sembrano purtroppo confermarlo. Il solo pensiero mi rattrista parecchio. Pare proprio un disco di commiato.
Ozzy è stato uno dei miei primi miti musicali.
Faccio ripartire tutto dal principio: un altro "all right now" ci seppellirà…
Un "all right now" gridato come ai vecchi tempi, poi la sua inconfondibile risata malefica. ORDINARY MAN, il nuovo disco di OZZY OSBOURNE inizia nel segno della tradizione. Un deja vu che ti fa pensare immediatamente: "Ozzy è tornato, è sempre lui". Quando qualche mese fa diceva che questo è il miglior disco della sua carriera però non gli credevo. Ora, parecchi ascolti gli credo ancor meno, ma mica perché sia brutto eh, solo perché ritengo non sia così. Ha voluto accontentare un po' tutti con questo disco e in qualche modo si è pure rimesso in gioco (l'hanno rimesso in gioco): ha messo in fila la sua carriera con una decina di belle canzoni. Sicuramente il miglior disco dai tempi di Ozzmosis.
Ci sono i riff pesanti e alcune veloci ripartenze in stile vecchi Black Sabbath (la schizofrenica e fumosa 'Goodbye') anche se non c'è Tony Iommi e nemmeno Zakk Wylde, c'è perfino un'armonica che porta il pensiero dritto dritto a 'The Wizard' in 'Eat Me', c'è la malignità horror e alcuni momenti ('Straight To Hell') che richiamano Blizzard Of Ozz e Diary Of A Madman (eccoli i motivi per cui questo non sarà mai il miglior disco di Ozzy), c'è una 'Under The Graveyard' in bilico tra eighties e i novanta di Ozzmosis ma in qualche modo con tutti gli attributi di un classico e una melodia che ti si inchioda nel cervello, c'è perfino una velocissima traccia dall'attitudine punk ('It's A Raid') che da un Ozzy settantunenne non ti aspetteresti più, forse mai, nata ricordando quei caldi giorni in California immersi nella cocaina durante le registrazioni di Vol. 4 dei Black Sabbath come ha recentemente dichiarato.
Di 'Ordinary Man' sappiamo già tutto, una ballata al pianoforte che da Ozzy Osbourne abbiamo già sentito tante altre volte. Ricordo: 'So Tired' , 'L. A. Tonight', 'Dreamer'. La grande differenza qui la fanno il pianoforte e la voce dell'ospite sir Elton John e l'assolo di chitarra lasciato da Slash.
"Mi sono accorto che assomigliava a una canzone di Elton. Così ho chiesto a Sharon: e se la cantassi con lui? Glielo abbiamo chiesto e, roba da non credere, ha detto di sì e ha cantato e suonato il pianoforte”.
Della sinfonica 'Holy For Tonight' sarà bello scoprire che ci piacerà con gli ascolti, grazie a quelle antiche reminescenze da Electric Light Orchestra che si trascina dietro.
Ci sono Chad Smith alla batteria, Duff McKagan al basso in tutte le tracce, Slash e Tom Morello a piazzare assoli e il giovane produttore, classe 1990, Andrew Watt alle chitarre, tutti insieme fanno il loro dovere facendo suonare il disco alla grande, seppur registrato in tempi brevissimi e un Ozzy a mezzo servizio. Il 2019 non è certamente stato tra i suoi anni da incorniciare.
C'è perfino l'auto-tune (orribile), soprattutto nella finale e già edita 'Take What You Want' e ospiti inconsueti (ma qui il vero ospite è Ozzy) come Post Malone e il rapper Scott Travis, da non confondere con Travis Scott, batterista dei Judas Priest (sarebbe stato certamente più utile), per accontentare le nuove generazioni che forse nemmeno sanno da dove spunti fuori un tale, tremolante, che si fa chiamare Ozzy, balzato agli onori delle cronache non musicali qualche anno fa per un reality ambientato in famiglia. Ah sì, poi ci sono i Black Sabbath. La sua strana famiglia che ora pare stringersi intorno a lui per proteggerlo.
E pensare che i primi 40 secondi promettevano pure bene. Ecco, forse di quest' ultima avremmo fatto volentieri a meno.
Ozzy Osbourne ha il morbo di Parkinson, già combattuto in passato, forse annullerà ancora una volta il suo ultimo tour, già più volte rimandato. Molto probabilmente questo sarà il suo ultimo disco in carriera e i pochi rimpianti per una vita condotta in corsia di sorpasso che affiorano in mezzo a cannibali e alieni verdi (quelli della inconsueta 'Scary Little Green Men') i tanti messaggi di addio sparsi nei testi sembrano purtroppo confermarlo. Il solo pensiero mi rattrista parecchio. Pare proprio un disco di commiato.
Ozzy è stato uno dei miei primi miti musicali.
Faccio ripartire tutto dal principio: un altro "all right now" ci seppellirà…
martedì 11 febbraio 2020
RECENSIONE: THE CADILLAC THREE (Country Fuzz)
THE CADILLAC THREE Country Fuzz (Big Machine Records, 2020)
fuori da ogni etichetta
Birra fredda, whiskey Jack Daniels, pick up El Camino, Johnny Cash, Merle Haggard, Charlie Daniels sono solo alcuni nomi e parole che spuntano fuori leggendo i testi dei Cadillac Three, band di Nashville giunta al traguardo del quarto disco, a due anni dal precedente Legacy. Non ci vuole certamente troppo ingegno per inquadrarli : il loro è un southern rock dal taglio ruspante ed elettrico (il boogie 'Bar Round Here' apre le danze nel migliore dei modi) che ama anche adagiarsi sui verdi campi del country ('Back Home'), senza disdegnare sipari più melodici e pop ('Heat', la finale 'Long After Last Call' che gioca di slide).
Ma attenzione, perché da qui in avanti, stanchi di essere etichettati ( ecco in arrivo la canzone 'Labels') scelgono loro stessi il nome del genere musicale a cui vogliono essere associati: "country fuzz, va bene, grazie". Prendiamo nota.
"Ci siamo stufati di essere chiamati southern rock o essere visti troppo rock per suonare country, quindi, abbiamo dato a tutti qualcosa per chiamarci che in realtà pensavamo fosse bello e sensato."
"Non puoi giudicare un disco dalla copertina fino a quando non lo senti girare sul giradischi. C'è sempre di più dietro il titolo" cantano in 'Labels'.
Jared Johnston (voce e chitarra), Neil Mason (batteria) e Kelby Ray (basso) compensano una latente originalità dei contenuti (i titoli promettono proprio quello) con la giusta attitudine che gioca spesso e volentieri con il funk, danzereccio di 'The Jam' (e qui appare pure il fantasma di Prince) e 'All The Makin' s Of A Saturday Night', con il southern blues elettrico di 'Hard Out Here For A Country Boy' (con gli ospiti Chris Jason e Travis Trit) con le chitarre hard di 'Slow Rollin' e quelle di 'Crackin' Cold Ones With The Boys' dal taglio più moderno, con il blues acustico di 'Raise Hell'.
Pochi fronzoli, tanta sostanza, voglia di divertirsi e attitudine live. Fieri e chiassosi, i Cadillac Three non pretendono di essere ricordati per i loro messaggi quanto per la varietà e la spensieratezza con cui affrontano la materia rock. Insieme a Whiskey Myers, Blackberry Smoke, Black Stone Cherry, Rival Sons rappresentano il miglior presente del classic rock legato al passato e questo è senza dubbio il loro miglior disco: "per noi ogni album è più ambizioso del precedente". Avanti così.
venerdì 7 febbraio 2020
RECENSIONE: DRIVE BY-TRUCKERS (The Unraveling)
DRIVE BY-TRUCKERS The Unraveling (ATO Records, 2020)
THE UNRAVELING sembra iniziare proprio là dove finiva il precedente American Band. "Gli ultimi tre anni e mezzo sono stati tra i più tumultuosi che il nostro paese abbia mai visto" racconta Patterson Hood. Se quattro anni fa la preoccupazione più grande era affrontare e scongiurare la possibile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, questo nuovo album fa i conti con tutto quello che è avvenuto dopo il trionfo dell'attuale presidente.
La band di Athens guidata da Patterson Hood e Mike Cooley che da tempo ha messo da parte l'epica southern rock si conferma una delle poche realtà ancora in grado di cavalcare il presente, mai così cupo, e metterlo in discussione con chitarre taglienti (anche se non mancano momenti meditativi come l'apertura 'Rosemary With A Bible And A Gu' guidata da pianoforte e archi o il country di Thoughts And Prayers') e testi diretti e provocatori, ambientati in una America in ombra da nubi nere e minacciose.
Tra gli ospiti Cody Dickinson e la sua washboard in 'Babies In Cages', brano registrato live in studio. Titoli come il ritratto americano dipinto in '21 st Century USA' dove "gli uomini lavorano sodo ma mai abbastanza per stare bene" , 'Armageddon's Back In Town' e la lunga 'Awaiting Resurrection' sulla scia delle cavalcate in crescendo alla Neil Young, sono chiarissimi e non hanno bisogno di troppe spiegazioni.
C'è poca luce tra i solchi, tra le parole serpeggia amarezza, voglia di riscatto e cambiamento. Anche altri spettri neri si stanno ripresentano minacciosi, conseguenza inevitabile del mal di vivere: "il 1971 non ci ha insegnato nulla!? Il 1994 non ci ha insegnato nulla?... Mi mancano i miei amici morti per via dell'eroina" cantano in 'Heroin Again'.
C'è da riempire il grosso buco di questo presente e nella lunga presentazione al disco che accompagna i testi, la conclusione recita: "non rinunciate a lottare, e non smettete di inseguire un sogno. Votate e resistete. A volte è la cosa migliore che possiamo fare. Ci vediamo al prossimo rock show".
Seguiamo i consigli.
DRIVE-BY TRUCKERS It’s Great To Be Alive! (2015)
THE UNRAVELING sembra iniziare proprio là dove finiva il precedente American Band. "Gli ultimi tre anni e mezzo sono stati tra i più tumultuosi che il nostro paese abbia mai visto" racconta Patterson Hood. Se quattro anni fa la preoccupazione più grande era affrontare e scongiurare la possibile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, questo nuovo album fa i conti con tutto quello che è avvenuto dopo il trionfo dell'attuale presidente.
La band di Athens guidata da Patterson Hood e Mike Cooley che da tempo ha messo da parte l'epica southern rock si conferma una delle poche realtà ancora in grado di cavalcare il presente, mai così cupo, e metterlo in discussione con chitarre taglienti (anche se non mancano momenti meditativi come l'apertura 'Rosemary With A Bible And A Gu' guidata da pianoforte e archi o il country di Thoughts And Prayers') e testi diretti e provocatori, ambientati in una America in ombra da nubi nere e minacciose.
Tra gli ospiti Cody Dickinson e la sua washboard in 'Babies In Cages', brano registrato live in studio. Titoli come il ritratto americano dipinto in '21 st Century USA' dove "gli uomini lavorano sodo ma mai abbastanza per stare bene" , 'Armageddon's Back In Town' e la lunga 'Awaiting Resurrection' sulla scia delle cavalcate in crescendo alla Neil Young, sono chiarissimi e non hanno bisogno di troppe spiegazioni.
C'è poca luce tra i solchi, tra le parole serpeggia amarezza, voglia di riscatto e cambiamento. Anche altri spettri neri si stanno ripresentano minacciosi, conseguenza inevitabile del mal di vivere: "il 1971 non ci ha insegnato nulla!? Il 1994 non ci ha insegnato nulla?... Mi mancano i miei amici morti per via dell'eroina" cantano in 'Heroin Again'.
C'è da riempire il grosso buco di questo presente e nella lunga presentazione al disco che accompagna i testi, la conclusione recita: "non rinunciate a lottare, e non smettete di inseguire un sogno. Votate e resistete. A volte è la cosa migliore che possiamo fare. Ci vediamo al prossimo rock show".
Seguiamo i consigli.
DRIVE-BY TRUCKERS It’s Great To Be Alive! (2015)
lunedì 3 febbraio 2020
RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB (Naked Truth)
TIJUANA HORROR CLUB Naked Truth (2020)
la nuda verità
Un altro lunedì è lasciato alle spalle ed è nuovamente ora di montare gli strumenti, preparare o disfare il backstage (tanto è uguale), riempire i bicchieri e salire sul palco. I bresciani Tijuana Horror Club non lasciano sciogliere troppo il ghiaccio nel tumbler della vita e ritornano a poco più di un anno dal precedente The Big Swindle. Lo fanno alla loro maniera proprio come recitava la copertina del precedente disco: una base ritmica solida e da battaglia formata da Mario Agnelli (batteria) e Davide Rudelli (basso), una bella dose di pianoforte saettante suonato da Alberto Ferrari (anche voce), la chitarra fuzz e la voce greve e cavernosa di Joey Gaibina a riempire e dare il tocco finale. Aggiungete a piacimento il sempre gradito supporto di Andy McFarlane, la tromba di Francesco Venturini e il trombone di Fabrizio Del Vecchio, ben presenti in tutti il disco, la produzione di Ronnie Amighetti al Klubhouse di Brescia e avrete l'esplosivo nuovo cocktail denominato Naked Truth.
L'aggiunta dei fiati nel suono da big band della travolgente 'Monday Blues' e la tromba nella finale 'Trained Wild Animals' a sbuffare malinconia aprono e chiudono un disco che mette nuovamente in fila i loro tanti punti fermi che passano dal macabro teatro di Screaming Jay Hawkins alle atmosfere notturne e caliginose di Tom Waits, dal rock'n'roll swing battuto dai tasti di Jerry Lee Lewis al punk, dal blues al psychobilly dei Cramps fino a quel Django Reinhardt tanto amato dalla band.
In mezzo tra lo swing ruspante di 'Party Girls', la luna piena che illumina 'Windy Night', il tiro rock di 'Soul Savers', il rock’n’roll di 'Dick Picking' e 'Grand Marnier' c'è anche il tempo di una pausa nella fumosa ballata da notte fonda ' Believe In What I Say'.
La nuda verità è che qui non ci sono inganni e truffe: tutto viene spiattellato in bella mostra come nel tavolo preparato per la copertina (foto di Paolo Tresoldi). Tra amori, feticci, strumenti di "lavoro", passioni ed effetti personali c'è pure il vinile di Sgt. Pepper e scoprirete perché ascoltando il disco.
La nuda verità è che tutto è suonato e sviscerato con il solo aiuto di sudore, passione, incrollabile fede rock'n'roll, alcol e faccia tosta da vendere. Basta assistere a un loro live.
L' appuntamento è per il 28 Febbraio 2020 alla Latteria Molloy di Brescia in occasione del release party, aperto dall'amico Cek Franceschetti.
RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB-The Big Swindle (2019)
la nuda verità
Un altro lunedì è lasciato alle spalle ed è nuovamente ora di montare gli strumenti, preparare o disfare il backstage (tanto è uguale), riempire i bicchieri e salire sul palco. I bresciani Tijuana Horror Club non lasciano sciogliere troppo il ghiaccio nel tumbler della vita e ritornano a poco più di un anno dal precedente The Big Swindle. Lo fanno alla loro maniera proprio come recitava la copertina del precedente disco: una base ritmica solida e da battaglia formata da Mario Agnelli (batteria) e Davide Rudelli (basso), una bella dose di pianoforte saettante suonato da Alberto Ferrari (anche voce), la chitarra fuzz e la voce greve e cavernosa di Joey Gaibina a riempire e dare il tocco finale. Aggiungete a piacimento il sempre gradito supporto di Andy McFarlane, la tromba di Francesco Venturini e il trombone di Fabrizio Del Vecchio, ben presenti in tutti il disco, la produzione di Ronnie Amighetti al Klubhouse di Brescia e avrete l'esplosivo nuovo cocktail denominato Naked Truth.
L'aggiunta dei fiati nel suono da big band della travolgente 'Monday Blues' e la tromba nella finale 'Trained Wild Animals' a sbuffare malinconia aprono e chiudono un disco che mette nuovamente in fila i loro tanti punti fermi che passano dal macabro teatro di Screaming Jay Hawkins alle atmosfere notturne e caliginose di Tom Waits, dal rock'n'roll swing battuto dai tasti di Jerry Lee Lewis al punk, dal blues al psychobilly dei Cramps fino a quel Django Reinhardt tanto amato dalla band.
In mezzo tra lo swing ruspante di 'Party Girls', la luna piena che illumina 'Windy Night', il tiro rock di 'Soul Savers', il rock’n’roll di 'Dick Picking' e 'Grand Marnier' c'è anche il tempo di una pausa nella fumosa ballata da notte fonda ' Believe In What I Say'.
La nuda verità è che qui non ci sono inganni e truffe: tutto viene spiattellato in bella mostra come nel tavolo preparato per la copertina (foto di Paolo Tresoldi). Tra amori, feticci, strumenti di "lavoro", passioni ed effetti personali c'è pure il vinile di Sgt. Pepper e scoprirete perché ascoltando il disco.
La nuda verità è che tutto è suonato e sviscerato con il solo aiuto di sudore, passione, incrollabile fede rock'n'roll, alcol e faccia tosta da vendere. Basta assistere a un loro live.
L' appuntamento è per il 28 Febbraio 2020 alla Latteria Molloy di Brescia in occasione del release party, aperto dall'amico Cek Franceschetti.
RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB-The Big Swindle (2019)
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