venerdì 13 luglio 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 66: HEART (Little Queen)

HEART  Little Queen (1977)





La prima vacanza in macchina (la mia) con gli amici non si scorda mai. Anno 1992. Rimini. Terzo giorno. Spiaggia: quattro teli mare, quattro zaini e otto ciabatte sulla sabbia. Avendo almeno l’accortezza di prendere i portafogli, ci si allontana per raggiungere le ragazze conosciute la sera prima, non sono lontane, il bagno è quello prima del nostro. Risultato: con le ragazze non si è combinato nulla, in compenso al nostro ritorno erano rimasti tre teli mare, tre zaini e sei ciabatte. I conti non tornano. Le bestemmie arrivano. Qualcuno pensò bene di trasformarsi in me, raccattare tutte le mie cose con estrema disinvoltura (credo) e sparire dalla spiaggia. Risultati: durante le vacanze non guidai più la macchina (nello zaino c’erano i miei occhiali da vista), ma soprattutto non ascoltai più musica. Nello zaino c’erano il mio amato walkman e alcune cassette preparate con tanta cura prima di partire. Tra queste ricordo una compilation con canzoni di Blue Oyster Cult, Meat Loaf, Argent, Boston, Motorhead, Gary Moore e gli (le) HEART, appunto. ‘Barracuda’ era tra le mie preferite, una cavalcata hard dal tiro micidiale che ho sempre affiancato a ‘Easy Livin’ degli Uriah Heep e ‘Running Free’ degli Iron Maiden e che ho sempre inserito nelle mie cassette artigianali dell’epoca. Il secondo disco delle sorelle Wilson, nate in California ma presto trasferitesi prima a Seattle e poi in Canada, uscito nel 1977, era più Led Zeppelin degli stessi Zeppelin di quell’anno. Un perfetto connubio tra la parte folk bucolica (‘Sylvan Song’,’ Dream Of The Archer’) e mediovaleggiante (il mandolino di ‘Say Hello’, ‘Cry To me’) con l’incendiario hard rock’n’roll (‘Barracuda’, 'Kick It Out’, la finale strumentale ‘ Go On Cry’). Roba più british che americana ( il funk di ‘Little Queen’ con l’evocativo finale con la voce di Ann Wilson in grande spolvero) che troverà la sublimazione al California Jam Festival del 1978. Ancora oggi quando ascolto ‘Barracuda’ penso a quello zaino e a quella cassetta, sicuramente passati a migliore vita da almeno ventiquattro anni. Anni dopo presi il vinile che la sabbia non l'ha mai vista.




PUNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #45: JACKSON BROWNE-Running On Empty (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #46: THE ROLLING STONES-Emotional Rescue (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #47:TOM PETTY-Highway Companion (2006)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #48:STEVE FORBERT-Alive On Arrival (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #49:CRY OF LOVE -Brother (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #50:THE BLACK CROWES-By Your Side (1999 )
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #51: NEIL YOUNG-Re-Ac-Tor (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #52: DUST-Dust (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #53:THE GEORGIA SATELLITES-Open All Night (1988)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #54:LYNYRD SKYNYRD-1991/The Last Rebel (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #55:CHRIS WITLEY-Living With The Law (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #56:BOB DYLAN-Planet Waves (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #57:BOB DYLAN-Infidels (1983)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #58:GRINDERSWITCH-Honest To Goodness (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #59:THE DEL FUEGOS-Boston, Mass. (1985)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #60:BILLY JOEL-Cold Spring Harbor (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #61:GRAM PARSONS-G.P. (1973)
DISCHI DAISOLA AFFOLLATA # 62: LOVE/HATE-Wasted In America (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #63: SCREAMING TREES-Dust (1996)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #64: LOU REED-Sally Can't Dance (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #65 BLACK SABBATH-Vol.4 (1972)

 

lunedì 9 luglio 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 65: BLACK SABBATH (VOL. 4)


 BLACK SABBATH    Vol.4 (1972)
 
 
 
 
 
 
“Eravamo talmente impegnati a cazzeggiare che fu un miracolo riuscire a scrivere qualche pezzo.” Ozzy Osbourne.
Quella croce al collo di Tony Iommi che percuote le corde della chitarra, generando lo strano effetto che si sente su ‘FX’ e che poi finirà su disco, e quel sussurro appena percettibile di Ozzy Osbourne che pronuncia la parola “Cocaine” in ‘Snowblind’ potrebbero incarnare bene la direzione musicale e l’atmosfera stonata che si respirava nell’album VOL .4, il primo vero tentativo di andare oltre che caratterizzerà almeno i due successivi dischi. Ancora quelli fondamentali. Generato (a fine registrazioni tutti e quattro i componenti erano degli stracci da ricovero) tra la villa di Bel Air del 1930, con tanto di camerieri e giardinieri inclusi nel pacchetto, e i Record Plant Studios a Los Angeles, dove si erano rifugiati in buona compagnia di fumo e coca, quest’ultima fu l’ospite più gradito, presente in quantità massiccia, tanto che vennero spesi più soldi per le droghe che per la realizzazione del disco. “Metà del budget finì in cocaina…” rivelò Geezer Butler.
“Eravamo giovani e facevamo quello che fanno i giovani. Non ci controllavamo. Mi facevo di coca ogni volta che potevo, ma anche di altre cose che non riesco neanche a ricordare". Dirà Tony Iommi.
Grande protagonista anche nelle note di copertina: camuffata ma c’è. Ecco da dove arrivava l’ode, questa volta poco nascosta in verità, ‘Snowblind’ (titolo originale del disco che l’etichetta accantono’ subito). “In quel periodo mi cacciavo tanta di quella roba su per il naso che dovevo fumarci sopra un sacchetto di erba al giorno per impedire che mi esplodesse il cuore”. Così Ozzy Osbourne nella sua autobiografia, alla cui realizzazione di questo disco dedica un capitolo intero. Nascono così: una ballata al pianoforte, buona per ogni occasione, come ‘Changes’, voce, pianoforte e archi, la strumentale, arpeggiata ed evocativa ‘Laguna Sunrise’ e tutti i cambiamenti d’umore e le sperimentazioni che girano intorno ai pesanti riff di canzoni come ‘Under The Sun’, ‘Wheels Of Confusion’, ‘Supernaut’, scuola per le future generazioni. “‘Supernaut’ fu una delle canzoni preferite da John Bonham all’epoca” disse Bill Ward. Anche a Frank Zappa piaceva tantissimo.
E poi una delle mie preferite: ‘St.Vitus Dance’, un hard blues che i Led Zeppelin non avrebbero disdegnato di inserire in qualsiasi loro disco.
Lester Bangs che aveva distrutto i primi due dischi si esaltò per questo, arrivando addirittura a comparare i testi di Vol 4 a quelli di Bob Dylan. Rolling Stone, nella sua recensione tirò fuori un “ canzoni di heavy metal liquido”, aggiungiamo un “stonato”, una copertina iconica e abbiamo tutto.


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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #46: THE ROLLING STONES-Emotional Rescue (1980)
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DISCHI DAISOLA AFFOLLATA # 62: LOVE/HATE-Wasted In America (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #63: SCREAMING TREES-Dust (1996)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #64: LOU REED-Sally Can't Dance (1974)

 

giovedì 5 luglio 2018

BRESCIA ROCK (3 nomi da conoscere): Simone Grazioli, Staggerman & The Hobo's Amen, Ducolis


Breve viaggio in mezzo al prolifico Rock bresciano. Anno particolarmente ricco di uscite questo 2018 per certe sonorità legate al rock americano, al blues, al rock'n'roll. Dopo Superdownhome, Andrea Van Cleef, Bonebreakers e Cek Franceschetti ecco altri tre nomi da seguire e conoscere (per i non bresciani sicuramente): Simone Grazioli, Staggerman e i Ducolis.



Iniziamo dal più giovane della lista (comunque fresco trentenne), anche se nella custodia della chitarra nasconde già una buona esperienza con gli Hell Spet, il suo gruppo principale dove suona il mandolino dentro all’indiavolato cow heavy country bluegrass, più tante altre robe ancora, proposto dalla band (imperdibili dal vivo) poi con i suoi tanti progetti paralleli tra cui i Quarry Brothers, duo bluegrass, tanto tradizionale quanto anomalo. SIMONE GRAZIOLI, polistrumentista a tutto tondo, per questo debutto LA FUGA sceglie di scappare in direzione della tortuosa strada cantautorale e della sempre complicata lingua italiana, tra storie di ordinaria follia costruite su quotidianità e sogni, bagnate da alcol che scorre impetuoso e appicicaticcio tra bar e locali, ma anche intrise d’amore e romanticismo, canzoni raccolte nel tempo e finalmente liberate dal cassetto dove erano rinchiuse, non mancando di calpestare i territori a lui più cari dell’hard blues, del country e del folk, strizzando pure l’occhio a certo indie rock italico. Un disco vario, difficile inquadrarlo ma penso che sia proprio quello che cercava il suo autore.
Pochi chilometri più a nord di Brescia, sulle sponde del lago d’Iseo troviamo STAGGERMAN, il progetto personale di Matteo Crema (già bassista con i monumentali The Union Freego) che arriva al traguardo del terzo disco, HOBOS AND GENTLEMEN, a sei anni dall’ultimo album inciso.
Accompagnato dagli Hobo’s Amen che questa volta si guadagnano il monicker in copertina, Staggerman continua il suo viaggio a passo d’uomo in territori che richiamano la profonda America di frontiera ma anche certi anfratti sonori cari a mister E e i suoi Eels. Un suono intimo e avvolgente con poche vere scosse, ma ricamato su ballate country rock innaffiate dalla calda presenza dei fiati, border Song illuminate dal sole a cui si aggiungono volentieri ombre e suggestioni più scure e nere. Disco da viaggio ideale.
Addentrandosi nella sterminata Val Camonica ci DUCOLIS: nome, copertina e grafica sembrano parlare chiaro. Ma non è esattamente così. Non solo. L’aspetto ludico e goliardico dei Ramones è presente: i quattro componenti non sono fratelli di sangue ma hanno tutti lo stesso cognome, popolare dalle loro parti. Una gita fuori porta, ma nemmeno troppo, per il navigato cantautore Alessandro Ducoli che brandisce il microfono e all’urlo di “free your dog” detta i tempi, l’instancabile chitarra di Luke Duke (Thee Jones Bones) macina riff e la possente sezione ritmica formata da due Domenico Ducoli (eh sì, anche lo stesso nome) a tenere il tempo. Un disco costruito d’istinto in pochi giorni in sala prove da veterani con il rock stampato nel DNA (indiscrezioni raccontano di materiale già pronto per un altro album) dove blues, hard rock, rock’n’roll,Southern rock, garage e punk trovano la via comune. Senza fronzoli, vizioso e sporco il giusto anche quando si devia verso la disco e il reggae. Qui dentro ci si diverte dall’inizio alla fine.
si imbatte invece nei

BRESCIA ROCK (5 band da conoscere: Slick Steve & The Gangsters, Van Cleef Continental, Thee Jones Bones, Il Sindaco, The Union Freego)
CEK FRANCESCHETTI: Blues Tricks (2018)
ANDREA VAN CLEEF: Tropic Of Nowhere (2018)
SUPERDOWNHOME: Twenty-Four Days (2017)
THE CROWSROADS: Reels (2016)
SEDDY MELLORY: Urban Cream Empire (2016)




martedì 3 luglio 2018

RECENSIONE: HOWLIN RAIN (The Alligator Bride)

HOWLIN RAIN   The Alligator Bride (Silver Current Records, 2018)






Ethan Miller  (voce e chitarra) e i suoi HOWLIN RAIN (Daniel Cervantes all'altra chitarra, Jeff McElroy al basso e Justin Smith alla batteria) sembrano vivere ancora dentro quella grande bolla di sapone inesplosa che gravita leggera tra gli anni sessanta e i settanta, ogni tanto perdendo pure il passo trovandosi in certo soul targato Motown. Illuminata dall’accecante sole californiano come succede negli otto minuti di ‘The Wild Boys’ ("il mio omaggio al romanzo omonimo di William S. Burroughs" dice Miller), riflettente immagini distorte e psichedeliche care ai Grateful Dead, o più vicine all'altra band di Miller, il supergruppo Heron Oblivion, sporcandosi di blues tra le acque del bayou (‘Rainbow Trout’), allungata come i più lunghi feedback dei migliori Crazy Horse di Neil Young (ascoltate la title track), la bolla di Ethan Miller splende spesso più di altre ma pochi sembrano accorgersene. Forse perché troppo alta e imprendibile?
The Alligator Bride è il quinto disco della band di San Francisco (Bay Area). Un vortice lungo, lisergico e ipnotico, trainato dai venti del sud, avventuroso e avvolgente che come sempre ripercorrere i migliori anni del rock con disinvoltura unica e libertà, tra intense atmosfere (‘’Speed’, ‘In The Evening’) e attacchi fumosi (‘Viking Down’). Musica da altre epoche. Fortunatamente conosciute. Non è forse quello che cerchiamo ancora?





lunedì 2 luglio 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #64: LOU REED (Sally Can't Dance)

LOU REED   Sally Can’t Dance (RCA, 1974)





Billy Joel confessò che era talmente sensibile che una recensione negativa avrebbe potuto distruggerlo. Il giornalista Greil Marcus con il famoso inizio di recensione “cos’è questa merda?” tagliò subito le gambe a SELF PORTRAIT di Bob Dylan sulle pagine di Rolling Stone. Lou Reed, invece, distrusse e uccise il suo disco SALLY CAN’T DANCE da solo, non risparmiando nulla: bocciò le canzoni (“sono venute malissimo, ma stavo cantando la peggior merda del mondo”), ma persino copertina e il suo nuovo look (“tingermi i capelli di biondo e tutte le altre stronzate. L’hanno voluto loro e io li ho accontentati”). Un album che Lou Reed arrivò a autodefinire uno schifo, per poi ironizzare: “ è fantastico vedere quanto abbia venduto, nonostante il mio lavoro fosse limitato, la prossima volta per essere primo in classifica basterebbe non comparire affatto”. Lou Reed arriva alla pubblicazione di SALLY CAN’T DANCE nel 1974 dopo un fresco arresto e la pubblicazione del live ROCK’N’ROLL ANIMAL. Effettivamente trascorse più tempo a farsi di eroina nelle retrovie che in studio di registrazione. Nonostante tutto, piazza alcune canzoni che, se per lui rientrano nella routine, quelle scritte a occhi chiusi, per altri potrebbero essere quelle della vita: iniziando da ‘Kill Your Sons’ che analizza in modo fin troppo accurato le sedute di elettroshock subite nell’ospedale psichiatrico dove i genitori lo fecero rinchiudere per curare la sua presunta omosessualità. Un Lou Reed poco lucido raccontò qualcosa di questo disco a Nick Kent: “Kill Your Sons parla di genitori che mandano i i figli dagli psichiatri e gli fanno fare l’elettroshock. Tutte le canzoni si muovono improvvisamente da una considerazione generale ad un esempio concreto…”.

Fu il suo primo disco solista registrato a New York, città che influenzerà le liriche della title track e di ‘NY Stars’ che si scagliava contro i suoi tanti imitatori, o quella ’Billy’ ispirata da un compagno di scuola partito per la guerra del Vietnam e che vede la collaborazione del vecchio amico Doug Yule, ex Velvet Underground, al basso. Risultato: SALLY CAN’T DANCE è il disco più venduto della sua discografia. Un disco che a più di quarant'anni dall’uscita per certi aspetti rimane ancora affascinante, soprattutto conoscendo lo scazzo con cui fu portato a termine, con quelle soluzioni musicali abbastanza ardite e lontane da quanto fatto prima che trovarono la totale disapprovazione di Reed, e poi quella voce così diversa, svogliata, quasi strafatta che sembra spesso assente ma che è lì. Quanto pagheremo per avere delle schifezze così nelle tristi classifiche di vendita dei nostri giorni?





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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #47:TOM PETTY-Highway Companion (2006)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #48:STEVE FORBERT-Alive On Arrival (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #49:CRY OF LOVE -Brother (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #50:THE BLACK CROWES-By Your Side (1999 )
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #51: NEIL YOUNG-Re-Ac-Tor (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #52: DUST-Dust (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #53:THE GEORGIA SATELLITES-Open All Night (1988)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #54:LYNYRD SKYNYRD-1991/The Last Rebel (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #55:CHRIS WITLEY-Living With The Law (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #56:BOB DYLAN-Planet Waves (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #57:BOB DYLAN-Infidels (1983)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #58:GRINDERSWITCH-Honest To Goodness (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #59:THE DEL FUEGOS-Boston, Mass. (1985)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #60:BILLY JOEL-Cold Spring Harbor (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #61:GRAM PARSONS-G.P. (1973)
DISCHI DAISOLA AFFOLLATA # 62: LOVE/HATE-Wasted In America (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #63: SCREAMING TREES-Dust (1996)




mercoledì 27 giugno 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 63: SCREAMING TREES (Dust)

SCREAMING TREES  Dust  (1996)





DUST è quello che potrebbero essere gli Screaming Trees ancora oggi. Lo sono stati per un disco, quello della maturità, degli arrangiamenti perfetti lontani dalla grezza psichedelia punk dei primissimi dischi (la produzione di George Drakoulias, uno che aveva già lavorato con Black Crowes e Jayhawks, lasciò il segno), della varietà musicale che permetteva loro di continuare a cimentarsi con un personale hard rock (‘Witness’), la psichedelia (‘Traveler’), aggiungere influenze orientali ad aprire e chiudere il disco (‘Halo Of Ashes’, ‘Gospel Plow’), parentesi sinfoniche, e avvicinarsi sempre più a un suono tradizionalmente americano legato al blues e al folk (‘Sworm And Broken’) più vicino a quello che Mark Lanegan stava sperimentando in quel periodo (Lanegan aveva già dato lo starter alla sua carriera solista con due album neri, profondi e meravigliosi), uscendone sempre credibili. Uscito nel 1996, a ben quattro anni dal precedente Sweet Oblivion, con la scena grunge in decisa fase calante se non già morta e tante tensioni interne miste a sostanze tossiche di vario genere a minare la sopravvivenza. Un disco perduto arrivò solo nel 2011 . Già, il ciclone grunge, tanto importante nel portare la band dei fratelli Van e Gary Lee Conner e di Mark Lanegan dalle stelle (nati prima di tutti anche se per popolarità e vendite non brillarono mai come altre) allo scioglimento di quattro anni dopo, a conclusione di un tour che toccò pure il famigerato Lollapalooza, cui si aggiunse un giovanissimo Josh Homme alla chitarra. Pur portato a termine in un tempo lunghissimo- tante furono le canzoni registrate-ci finirono dentro solo dieci tracce (alcune sono uscite nella versione rimasterizzata anni dopo) e un buon contributo in studio lo diede Benmont Tench degli Heartbreakers di Tom Petty presentissimo lungo tutto il disco con le sue tastiere (“avevo sempre voluto fare qualcosa di più di un disco rock bidimensionale e il fatto che su quel disco avesse suonato Tench fece una grande differenza” dirà Van Conner), aggiungiamo Mike McReady (Pearl Jam) che lascia il suo assolo di chitarra su ‘Dying Days’ e Dust si candida a diventare un disco importante. Kerrang lo premiò come disco dell’anno. “È probabilmente il mio disco preferito” dirà Van Conner. Non male per rappresentare un epitaffio di una band ai ferri corti.


PUNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #45: JACKSON BROWNE-Running On Empty (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #46: THE ROLLING STONES-Emotional Rescue (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #47:TOM PETTY-Highway Companion (2006)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #48:STEVE FORBERT-Alive On Arrival (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #49:CRY OF LOVE -Brother (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #50:THE BLACK CROWES-By Your Side (1999 )
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #51: NEIL YOUNG-Re-Ac-Tor (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #52: DUST-Dust (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #53:THE GEORGIA SATELLITES-Open All Night (1988)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #54:LYNYRD SKYNYRD-1991/The Last Rebel (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #55:CHRIS WITLEY-Living With The Law (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #56:BOB DYLAN-Planet Waves (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #57:BOB DYLAN-Infidels (1983)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #58:GRINDERSWITCH-Honest To Goodness (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #59:THE DEL FUEGOS-Boston, Mass. (1985)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #60:BILLY JOEL-Cold Spring Harbor (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #61:GRAM PARSONS-G.P. (1973)
DISCHI DAISOLA AFFOLLATA # 62: LOVE/HATE-Wasted In America (1992)

lunedì 25 giugno 2018

QUEENS OF THE STONE AGE live@ I-Days, Milano, 24 Giugno 2018



Ho affrontato la vigilia del concerto con la tipica supponenza del vecchio nostalgico un po’ rincoglionito e spacca palle “sì però quando li vidi nel ‘98 a Biella eravamo quattro gatti e loro erano ancora grezzi e puri, fresca costola dei Kyuss...sì però nel 2002 all'Acatraz c’era ancora Nick Oliveri e pure Mark Lanegan come ospite, sì però l’ultimo album Villains non mi convince tanto…”. Ieri di tutto quel passato fissato nei miei ricordi è rimasto ben poco, i primi due dischi non sono pervenuti, come se la vera carriera fosse partita da Song For The Deaf, l’album più saccheggiato questo sera con quattro canzoni. Quindi avevo ragione? No. I Qotsa sono un altro gruppo, ma un altro grande gruppo, tra i migliori in circolazione in sede live: compatto, preciso e affiatato, una macchina potente e oliatissima che non ha perso un solo colpo durante un set breve formato festival (un’ora e venti, nessun bis) ma studiato e invalicabile come il più alto e resistente dei muri di pietra. Pure i suoni di Villains, che avevano un piede nel moderno, uno nel passato e le mani a pescare nel vecchio repertorio di Bowie, dal vivo diventano un blocco compatto e ben amalgamato con il resto della produzione. Un abbraccio totalitario  al pianeta musica, pratica che Josh Homme pratica ormai da molti anni. Josh Homme è un rocker da alto testosterone, più umano (e più vero) di quanto ricordassi, che attira gli sguardi su di sé anche quando tira fuori il pettine dal taschino dei jeans per sistemare la chioma rossa o quando attira sorrisi con un paio di ben assestate bestemmie in italiano che lo rendono più simpatico (ha pur sempre quel calcio al fotografo da farsi perdonare),  ma non mette assolutamente in ombra nessuno dei suoi compagni di band: il batterista John Theodore ha gli stessi livelli di Homme (di testosterone intendo), picchia e si prende la scena a metà di ‘No One Knows’ con un potente assolo, il chitarrista Troy Van Leeuwen lavora di slide e precisione con professionalità e eleganza, il bassista Michael Shuman scalcia e fa lo slalom tra i led luminosi verticali piantati nel palco, il tastierista Dean Fertita si porta a spasso le tastiere, aggiunge suoni nei pochi buchi vuoti e la chitarra all’occorrenza. Partenza al fulmicotone (‘Sick Sick Sick’ è potente e urgente), l' arrivo pure (‘Little Sister’ e ‘Song For The Dead’). Nessuna scena, poche pose da rockstar e solo granitico rock e un set luci, tanto semplice quanto efficace. Dopo ieri sera aggiungerò un altro piacevole e più fresco ricordo a quelli più antichi della mia memoria.





SETLIST
  1. Go With the Flow 
  2. Sick, Sick, Sick 
  3. Feet Don't Fail Me
  4. The Way You Used to Do
  5. My God Is the Sun
  6. The Evil Has Landed
  7. You Think I Ain't Worth a Dollar, but I Feel Like a Millionaire
  8. No One Knows
  9. Little Sister
  10. Burn the Witch
  11. If I Had a Tail
  12. Domesticated Animals
  13. Make It Wit Chu
  14. A Song for the Dead
 
 

lunedì 18 giugno 2018

RECENSIONE: BUDDY GUY (The Blues Is Alive And Well)

BUDDY GUY   The Blues Is Alive And Well (RCA, 2018)




Forse basterebbe iniziare l’ascolto dalla fine, dai 58 secondi di ‘Milking Muther For Ya’ per dare ragione a BUDDY GUY e al titolo del suo nuovo disco: una registrazione breve, spartana, casalinga, solo voce e chitarra. La partita è già nelle sue mani e sì, il blues è vivo e sta bene finchè gli ultimi di una straordinaria generazione irreplicabile, come lui, saranno in questa forma “lo prometto fino al giorno della mia morte, terrò in vita il blues” declama in ‘The End Of The Line’ , anche se in ‘When My Day Comes’ sembra scendere a patti con la mortalità. Mantenendo fede a una promessa fatta a Muddy Waters sul punto di morte, BUDDY GUY, 81 anni, continua a tenere in vita il blues a suo modo (bello l’omaggio a Sonny Boy Williamson con ‘Nine Below Zero’) , uscendo periodicamente con dischi per nulla nostalgici, rispettosi, ma soprattutto mai fermi al passato, sempre ricchi di ospiti, a volte fin troppi, anche grazie alla preziosa collaborazione con l’inseparabile produttore Tom Hambridge che suona pure la batteria (completano la formazione: Rob McNelley alla chitarra, Kevin MdKendree alle tastiere e Willie Weeks al basso). In copertina: si mette in posa con l’inseparabile Fender cosparsa di pois in una foto che pare scattata negli anni della gioventù, sotto il cartello stradale della nativa Lettsworth in Louisiana. Le radici sono lì, sotto quella terra, anche se poi il successo andò a trovarselo a Chicago. “Muddy Waters mi disse: hey man, guarda che Chicago non è come la Louisiana. Lì non puoi dormire con le porte aperte”.
Quelle porte non le ha mai chiuse.
Ma poi: tra scatenati boogie (‘Old Daddy’), la corposa sezione fiati The Muscle Shoals Horns presente in almeno tre canzoni tra cui la title track, i passi lenti e notturni di ‘A Few Good Years’, ecco sfilare gli ospiti di questo disco: il giovane James Bay nella crepuscolare ‘Blue No More’, Mick Jagger all’ armonica nella jazzata ‘You Did The Crime’. Fino ad arrivare ai sei minuti dell'esplosiva ‘Cognac’. Tra le tracce migliori del disco. Buddy Guy canta: “If the late Muddy Waters was here drinking with us, that bottle would be ten times gone"…"Can't drink with me no more Muddy, but I got Keith Richards". Un pensiero all’amico Muddy Waters...ed ecco che si unisce la chitarra di Keith Richards. “How about you Beck? C'mon in here now”, è il turno di Jeff Beck. Una vecchia amicizia, quella tra Buddy Guy e i Rolling Stones, che Guy racconta così tra le pagine di Rolling Stone “mi hanno incontrato che non erano ancora famosi. La prima volta ero in studio, era il 1961 o 1962, stavo registrando un disco chiamato My Time After A While e loro vennero alla Chess Records a registrare un demo”. Poi sì, arrivano veramente i 58 secondi della finale ‘Milking Muther For Ya’ e mettendo una mano sul cuore del blues si può sentire un battito ancora forte e sano…bastano pochi secondi per fare una buona diagnosi.