martedì 3 luglio 2018

RECENSIONE: HOWLIN RAIN (The Alligator Bride)

HOWLIN RAIN   The Alligator Bride (Silver Current Records, 2018)






Ethan Miller  (voce e chitarra) e i suoi HOWLIN RAIN (Daniel Cervantes all'altra chitarra, Jeff McElroy al basso e Justin Smith alla batteria) sembrano vivere ancora dentro quella grande bolla di sapone inesplosa che gravita leggera tra gli anni sessanta e i settanta, ogni tanto perdendo pure il passo trovandosi in certo soul targato Motown. Illuminata dall’accecante sole californiano come succede negli otto minuti di ‘The Wild Boys’ ("il mio omaggio al romanzo omonimo di William S. Burroughs" dice Miller), riflettente immagini distorte e psichedeliche care ai Grateful Dead, o più vicine all'altra band di Miller, il supergruppo Heron Oblivion, sporcandosi di blues tra le acque del bayou (‘Rainbow Trout’), allungata come i più lunghi feedback dei migliori Crazy Horse di Neil Young (ascoltate la title track), la bolla di Ethan Miller splende spesso più di altre ma pochi sembrano accorgersene. Forse perché troppo alta e imprendibile?
The Alligator Bride è il quinto disco della band di San Francisco (Bay Area). Un vortice lungo, lisergico e ipnotico, trainato dai venti del sud, avventuroso e avvolgente che come sempre ripercorrere i migliori anni del rock con disinvoltura unica e libertà, tra intense atmosfere (‘’Speed’, ‘In The Evening’) e attacchi fumosi (‘Viking Down’). Musica da altre epoche. Fortunatamente conosciute. Non è forse quello che cerchiamo ancora?





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