Breve viaggio in mezzo al prolifico Rock bresciano. Anno particolarmente ricco di uscite questo 2018 per certe sonorità legate al rock americano, al blues, al rock'n'roll. Dopo Superdownhome, Andrea Van Cleef, Bonebreakers e Cek Franceschetti ecco altri tre nomi da seguire e conoscere (per i non bresciani sicuramente): Simone Grazioli, Staggerman e i Ducolis.
Iniziamo dal più giovane della lista (comunque fresco trentenne), anche se nella custodia della chitarra nasconde già una buona esperienza con gli Hell Spet, il suo gruppo principale dove suona il mandolino dentro all’indiavolato cow heavy country bluegrass, più tante altre robe ancora, proposto dalla band (imperdibili dal vivo) poi con i suoi tanti progetti paralleli tra cui i Quarry Brothers, duo bluegrass, tanto tradizionale quanto anomalo. SIMONE GRAZIOLI, polistrumentista a tutto tondo, per questo debutto LA FUGA sceglie di scappare in direzione della tortuosa strada cantautorale e della sempre complicata lingua italiana, tra storie di ordinaria follia costruite su quotidianità e sogni, bagnate da alcol che scorre impetuoso e appicicaticcio tra bar e locali, ma anche intrise d’amore e romanticismo, canzoni raccolte nel tempo e finalmente liberate dal cassetto dove erano rinchiuse, non mancando di calpestare i territori a lui più cari dell’hard blues, del country e del folk, strizzando pure l’occhio a certo indie rock italico. Un disco vario, difficile inquadrarlo ma penso che sia proprio quello che cercava il suo autore.
Pochi chilometri più a nord di Brescia, sulle sponde del lago d’Iseo troviamo STAGGERMAN, il progetto personale di Matteo Crema (già bassista con i monumentali The Union Freego) che arriva al traguardo del terzo disco, HOBOS AND GENTLEMEN, a sei anni dall’ultimo album inciso.
Accompagnato dagli Hobo’s Amen che questa volta si guadagnano il monicker in copertina, Staggerman continua il suo viaggio a passo d’uomo in territori che richiamano la profonda America di frontiera ma anche certi anfratti sonori cari a mister E e i suoi Eels. Un suono intimo e avvolgente con poche vere scosse, ma ricamato su ballate country rock innaffiate dalla calda presenza dei fiati, border Song illuminate dal sole a cui si aggiungono volentieri ombre e suggestioni più scure e nere. Disco da viaggio ideale. Addentrandosi nella sterminata Val Camonica ci DUCOLIS: nome, copertina e grafica sembrano parlare chiaro. Ma non è esattamente così. Non solo. L’aspetto ludico e goliardico dei Ramones è presente: i quattro componenti non sono fratelli di sangue ma hanno tutti lo stesso cognome, popolare dalle loro parti. Una gita fuori porta, ma nemmeno troppo, per il navigato cantautore Alessandro Ducoli che brandisce il microfono e all’urlo di “free your dog” detta i tempi, l’instancabile chitarra di Luke Duke (Thee Jones Bones) macina riff e la possente sezione ritmica formata da due Domenico Ducoli (eh sì, anche lo stesso nome) a tenere il tempo. Un disco costruito d’istinto in pochi giorni in sala prove da veterani con il rock stampato nel DNA (indiscrezioni raccontano di materiale già pronto per un altro album) dove blues, hard rock, rock’n’roll,Southern rock, garage e punk trovano la via comune. Senza fronzoli, vizioso e sporco il giusto anche quando si devia verso la disco e il reggae. Qui dentro ci si diverte dall’inizio alla fine.
si imbatte invece nei
HOWLIN RAINThe Alligator Bride (Silver Current Records, 2018)
Ethan Miller (voce e chitarra) e i suoi HOWLIN RAIN (Daniel Cervantes all'altra chitarra, Jeff McElroy al basso e Justin Smith alla batteria) sembrano vivere ancora dentro quella grande bolla di sapone inesplosa che gravita leggera tra gli anni sessanta e i settanta, ogni tanto perdendo pure il passo trovandosi in certo soul targato Motown. Illuminata dall’accecante sole californiano come succede negli otto minuti di ‘The Wild Boys’ ("il mio omaggio al romanzo omonimo di William S. Burroughs" dice Miller), riflettente immagini distorte e psichedeliche care ai Grateful Dead, o più vicine all'altra band di Miller, il supergruppo Heron Oblivion, sporcandosi di blues tra le acque del bayou (‘Rainbow Trout’), allungata come i più lunghi feedback dei migliori Crazy Horse di Neil Young (ascoltate la title track), la bolla di Ethan Miller splende spesso più di altre ma pochi sembrano accorgersene. Forse perché troppo alta e imprendibile? The Alligator Bride è il quinto disco della band di San Francisco (Bay Area). Un vortice lungo, lisergico e ipnotico, trainato dai venti del sud, avventuroso e avvolgente che come sempre ripercorrere i migliori anni del rock con disinvoltura unica e libertà, tra intense atmosfere (‘’Speed’, ‘In The Evening’) e attacchi fumosi (‘Viking Down’). Musica da altre epoche. Fortunatamente conosciute. Non è forse quello che cerchiamo ancora?
Billy Joel confessò che era talmente sensibile che una recensione negativa avrebbe potuto distruggerlo. Il giornalista Greil Marcus con il famoso inizio di recensione “cos’è questa merda?” tagliò subito le gambe a SELF PORTRAIT di Bob Dylan sulle pagine di Rolling Stone. Lou Reed, invece, distrusse e uccise il suo disco SALLY CAN’T DANCE da solo, non risparmiando nulla: bocciò le canzoni (“sono venute malissimo, ma stavo cantando la peggior merda del mondo”), ma persino copertina e il suo nuovo look (“tingermi i capelli di biondo e tutte le altre stronzate. L’hanno voluto loro e io li ho accontentati”).
Un album che Lou Reed arrivò a autodefinire uno schifo, per poi ironizzare: “ è fantastico vedere quanto abbia venduto, nonostante il mio lavoro fosse limitato, la prossima volta per essere primo in classifica basterebbe non comparire affatto”. Lou Reed arriva alla pubblicazione di SALLY CAN’T DANCE nel 1974 dopo un fresco arresto e la pubblicazione del live ROCK’N’ROLL ANIMAL. Effettivamente trascorse più tempo a farsi di eroina nelle retrovie che in studio di registrazione. Nonostante tutto, piazza alcune canzoni che, se per lui rientrano nella routine, quelle scritte a occhi chiusi, per altri potrebbero essere quelle della vita: iniziando da ‘Kill Your Sons’ che analizza in modo fin troppo accurato le sedute di elettroshock subite nell’ospedale psichiatrico dove i genitori lo fecero rinchiudere per curare la sua presunta omosessualità. Un Lou Reed poco lucido raccontò qualcosa di questo disco a Nick Kent: “Kill Your Sons parla di genitori che mandano i i figli dagli psichiatri e gli fanno fare l’elettroshock. Tutte le canzoni si muovono improvvisamente da una considerazione generale ad un esempio concreto…”.
Fu il suo primo disco solista registrato a New York, città che influenzerà le liriche della title track e di ‘NY Stars’ che si scagliava contro i suoi tanti imitatori, o quella ’Billy’ ispirata da un compagno di scuola partito per la guerra del Vietnam e che vede la collaborazione del vecchio amico Doug Yule, ex Velvet Underground, al basso. Risultato: SALLY CAN’T DANCE è il disco più venduto della sua discografia. Un disco che a più di quarant'anni dall’uscita per certi aspetti rimane ancora affascinante, soprattutto conoscendo lo scazzo con cui fu portato a termine, con quelle soluzioni musicali abbastanza ardite e lontane da quanto fatto prima che trovarono la totale disapprovazione di Reed, e poi quella voce così diversa, svogliata, quasi strafatta che sembra spesso assente ma che è lì. Quanto pagheremo per avere delle schifezze così nelle tristi classifiche di vendita dei nostri giorni?
DUST è quello che potrebbero essere gli Screaming Trees ancora oggi. Lo sono stati per un disco, quello della maturità, degli arrangiamenti perfetti lontani dalla grezza psichedelia punk dei primissimi dischi (la produzione di George Drakoulias, uno che aveva già lavorato con Black Crowes e Jayhawks, lasciò il segno), della varietà musicale che permetteva loro di continuare a cimentarsi con un personale hard rock (‘Witness’), la psichedelia (‘Traveler’), aggiungere influenze orientali ad aprire e chiudere il disco (‘Halo Of Ashes’, ‘Gospel Plow’), parentesi sinfoniche, e avvicinarsi sempre più a un suono tradizionalmente americano legato al blues e al folk (‘Sworm And Broken’) più vicino a quello che Mark Lanegan stava sperimentando in quel periodo (Lanegan aveva già dato lo starter alla sua carriera solista con due album neri, profondi e meravigliosi), uscendone sempre credibili. Uscito nel 1996, a ben quattro anni dal precedente Sweet Oblivion, con la scena grunge in decisa fase calante se non già morta e tante tensioni interne miste a sostanze tossiche di vario genere a minare la sopravvivenza. Un disco perduto arrivò solo nel 2011 . Già, il ciclone grunge, tanto importante nel portare la band dei fratelli Van e Gary Lee Conner e di Mark Lanegan dalle stelle (nati prima di tutti anche se per popolarità e vendite non brillarono mai come altre) allo scioglimento di quattro anni dopo, a conclusione di un tour che toccò pure il famigerato Lollapalooza, cui si aggiunse un giovanissimo Josh Homme alla chitarra. Pur portato a termine in un tempo lunghissimo- tante furono le canzoni registrate-ci finirono dentro solo dieci tracce (alcune sono uscite nella versione rimasterizzata anni dopo) e un buon contributo in studio lo diede Benmont Tench degli Heartbreakers di Tom Petty presentissimo lungo tutto il disco con le sue tastiere (“avevo sempre voluto fare qualcosa di più di un disco rock bidimensionale e il fatto che su quel disco avesse suonato Tench fece una grande differenza” dirà Van Conner), aggiungiamo Mike McReady (Pearl Jam) che lascia il suo assolo di chitarra su ‘Dying Days’ e Dust si candida a diventare un disco importante. Kerrang lo premiò come disco dell’anno. “È probabilmente il mio disco preferito” dirà Van Conner. Non male per rappresentare un epitaffio di una band ai ferri corti.
Ho affrontato la vigilia del concerto con la tipica supponenza del vecchio nostalgico un po’ rincoglionito e spacca palle “sì però quando li vidi nel ‘98 a Biella eravamo quattro gatti e loro erano ancora grezzi e puri, fresca costola dei Kyuss...sì però nel 2002 all'Acatraz c’era ancora Nick Oliveri e pure Mark Lanegan come ospite, sì però l’ultimo album Villains non mi convince tanto…”. Ieri di tutto quel passato fissato nei miei ricordi è rimasto ben poco, i primi due dischi non sono pervenuti, come se la vera carriera fosse partita da Song For The Deaf, l’album più saccheggiato questo sera con quattro canzoni. Quindi avevo ragione? No. I Qotsa sono un altro gruppo, ma un altro grande gruppo, tra i migliori in circolazione in sede live: compatto, preciso e affiatato, una macchina potente e oliatissima che non ha perso un solo colpo durante un set breve formato festival (un’ora e venti, nessun bis) ma studiato e invalicabile come il più alto e resistente dei muri di pietra. Pure i suoni di Villains, che avevano un piede nel moderno, uno nel passato e le mani a pescare nel vecchio repertorio di Bowie, dal vivo diventano un blocco compatto e ben amalgamato con il resto della produzione.Un abbraccio totalitario al pianeta musica, pratica che Josh Homme pratica ormai da molti anni. Josh Homme è un rocker da alto testosterone, più umano (e più vero) di quanto ricordassi, che attira gli sguardi su di sé anche quando tira fuori il pettine dal taschino dei jeans per sistemare la chioma rossa o quando attira sorrisi con un paio di ben assestate bestemmie in italiano che lo rendono più simpatico (ha pur sempre quel calcio al fotografo da farsi perdonare), ma non mette assolutamente in ombra nessuno dei suoi compagni di band: il batterista John Theodore ha gli stessi livelli di Homme (di testosterone intendo), picchia e si prende la scena a metà di ‘No One Knows’ con un potente assolo, il chitarrista Troy Van Leeuwen lavora di slide e precisione con professionalità e eleganza, il bassista Michael Shuman scalcia e fa lo slalom tra i led luminosi verticali piantati nel palco, il tastierista Dean Fertita si porta a spasso le tastiere, aggiunge suoni nei pochi buchi vuoti e la chitarra all’occorrenza. Partenza al fulmicotone (‘Sick Sick Sick’ è potente e urgente), l' arrivo pure (‘Little Sister’ e ‘Song For The Dead’). Nessuna scena, poche pose da rockstar e solo granitico rock e un set luci, tanto semplice quanto efficace. Dopo ieri sera aggiungerò un altro piacevole e più fresco ricordo a quelli più antichi della mia memoria.
SETLIST
Go With the Flow
Sick, Sick, Sick
Feet Don't Fail Me
The Way You Used to Do
My God Is the Sun
The Evil Has Landed
You Think I Ain't Worth a Dollar, but I Feel Like a Millionaire
Forse basterebbe iniziare l’ascolto dalla fine, dai 58 secondi di ‘Milking Muther For Ya’ per dare ragione a BUDDY GUY e al titolo del suo nuovo disco: una registrazione breve, spartana, casalinga, solo voce e chitarra. La partita è già nelle sue mani e sì, il blues è vivo e sta bene finchè gli ultimi di una straordinaria generazione irreplicabile, come lui, saranno in questa forma “lo prometto fino al giorno della mia morte, terrò in vita il blues” declama in ‘The End Of The Line’ , anche se in ‘When My Day Comes’ sembra scendere a patti con la mortalità. Mantenendo fede a una promessa fatta a Muddy Waters sul punto di morte, BUDDY GUY, 81 anni, continua a tenere in vita il blues a suo modo (bello l’omaggio a Sonny Boy Williamson con ‘Nine Below Zero’) , uscendo periodicamente con dischi per nulla nostalgici, rispettosi, ma soprattutto mai fermi al passato, sempre ricchi di ospiti, a volte fin troppi, anche grazie alla preziosa collaborazione con l’inseparabile produttore Tom Hambridge che suona pure la batteria (completano la formazione: Rob McNelley alla chitarra, Kevin MdKendree alle tastiere e Willie Weeks al basso). In copertina: si mette in posa con l’inseparabile Fender cosparsa di pois in una foto che pare scattata negli anni della gioventù, sotto il cartello stradale della nativa Lettsworth in Louisiana. Le radici sono lì, sotto quella terra, anche se poi il successo andò a trovarselo a Chicago. “Muddy Waters mi disse: hey man, guarda che Chicago non è come la Louisiana. Lì non puoi dormire con le porte aperte”.
Quelle porte non le ha mai chiuse.
Ma poi: tra scatenati boogie (‘Old Daddy’), la corposa sezione fiati The Muscle Shoals Horns presente in almeno tre canzoni tra cui la title track, i passi lenti e notturni di ‘A Few Good Years’, ecco sfilare gli ospiti di questo disco: il giovane James Bay nella crepuscolare ‘Blue No More’, Mick Jagger all’ armonica nella jazzata ‘You Did The Crime’. Fino ad arrivare ai sei minuti dell'esplosiva ‘Cognac’. Tra le tracce migliori del disco. Buddy Guy canta: “If the late Muddy Waters was here drinking with us, that bottle would be ten times gone"…"Can't drink with me no more Muddy, but I got Keith Richards". Un pensiero all’amico Muddy Waters...ed ecco che si unisce la chitarra di Keith Richards. “How about you Beck? C'mon in here now”, è il turno di Jeff Beck. Una vecchia amicizia, quella tra Buddy Guy e i Rolling Stones, che Guy racconta così tra le pagine di Rolling Stone “mi hanno incontrato che non erano ancora famosi. La prima volta ero in studio, era il 1961 o 1962, stavo registrando un disco chiamato My Time After A While e loro vennero alla Chess Records a registrare un demo”. Poi sì, arrivano veramente i 58 secondi della finale ‘Milking Muther For Ya’ e mettendo una mano sul cuore del blues si può sentire un battito ancora forte e sano…bastano pochi secondi per fare una buona diagnosi.
datemi una Y... “Mamma mamma c’è Gesù Cristo crocefisso lassù”. Forse più di una persona, non solo bambini, quel giorno indicò con il dito quella lettera Y posta così in alto. Qualche mamma spaventata ci avrà pure creduto ma se avessero saputo chi era l’uomo in croce lo stupore (lo spavento) sarebbe stato certamente più grande. Sopra il Mount Lee che domina Los Angeles c’è la lettera Y, è una delle nove lettere che compongono la grande scritta HOLLYWOOD. Il debutto dei LOVE/HATE , BLACK OUT IN THE RED ROOM uscì nel 1990, un disco spaventosamente brutale dove lo street metal losangelino incontrava la rabbia dei reietti del Sunset Strip e lo sporco del vero punk innaffiato da puro Jack Daniels. Un disco epocale degno di stare tra le migliori uscite rock di quel periodo. Il sontuoso contratto con la Columbia doveva essere nuovamente onorato con qualcosa di importante. Almeno della stessa grandezza. Skid, bassista e mente ci mette il disegno di copertina “ è un’immagine impressionistica di una scena avvenuta di fronte al Circus Maximum di New York, dove la polizia ha massacrato di botte un nero” e i testi sempre graffianti e anticonformisti (‘Wasted In America’ si scaglia contro la generazione cresciuta a pane e Tv, ‘Don’t Fuck With Me’ è un inno per l’integrazione razziale sotto forma di ballata, ‘Spit’ è un’allusione sessuale schizzata e senza troppi veli e peli sulla…), il chitarrista Jon E. Love e il batterista Joey Gold si mettono d’impegno per dare una nuova svolta al suono, ora più contaminato (‘Yucca Man’, ‘Time’s Up’) e al passo con i tempi senza rinunciare alla violenza sonora (‘Tranquilizer’) ma pure alla melodia (‘Miss America’) . Il cantante Jizzy Pearl ci mette faccia e voce, la ribellione di chi è cresciuto con dei genitori alcolisti e il marketing pubblicitario: sopra a quella croce posizionata sulla Y di Hollywood c’era proprio lui. Un gesto pubblicitario folle, unico, che finì su tutti i telegiornali americani dell’epoca. Il risultato più immediato furono gli elicotteri della polizia che gli ronzavano intorno come mosche sugli escrementi. Poi l’arresto. I risultati a breve termine furono altalenanti: dopo i tour con AC/DC e Ozzy Osbourne ci fu la rottura con la Columbia e l’uscita di scena del chitarrista Jon E. Love, dentro fino al collo nei suoi loschi affari di droga. Per i Love/Hate ci fu il ritorno all’underground (altri dischi, spesso dimenticati) e alle lotte interne tra Skid e Jizzy Pearl che posero fine a tutto. Ogni tanto qualcuno punta l’occhio verso il Mont Lee, squadra le lettere della scritta Hollywood senza nessun risultato. Allora meglio guardare le vetrine dei negozi di dischi: è appena uscito il nuovo album di Jizzy Pearl (ALL YOU NEED IS SOUL, anno 2018) che pare riagganciarsi a quel debutto da cui partì tutto.
Xavier Rudd vide il suo primo concerto a dieci anni d'età. Fu Paul Simon durante il tour del meraviglioso Graceland. Rimase folgorato. Come dargli torto? Non vi è dubbio che il piccolo cantautore di New York fu più che un faro guida per l'inizio della sua carriera. L'australiano ha però avuto un grande vantaggio/fortuna: quello di vivere la music...a etnica e la natura incontaminata da un posto privilegiato rispetto a chi è costretto ad andare a cercare il tutto fuori da casa propria ( agli americani Jack Johnson e Ben Harper ad esempio-grandi amici e appassionati di surf come lui- a cui spesso è associato, manca questo retroterra sociale/culturale più estremo e selvaggio). Cresciuto a piedi scalzi tra la sabbia delle spiagge del Torquay (angolo suggestivo per tutti i surfisti), ma anche tra gli alberi delle foreste e a strettissimo contatto con le popolazione aborigene dell'Australia di cui è estremo difensore (lui nato da padre aborigeno e mamma europea) che ne hanno segnato fortemente la scrittura, sviluppando oltre ad un fortissimo legame con la natura (salutista e vegetariano, difensore dell’ambiente), anche un grande amore per i tantissimi ed inusuali strumenti tradizionali. “La musica è la mia chiesa, la cultura aborigena la mia religione “ dice. Bellissimo vederlo all'opera da solo durante i suoi live-set circondato e sovrastato dagli strumenti. One man band eccezionale.Con questo nuovo STORM BOY, nono disco in carriera, riprende il discorso lasciato in sospeso con Spirit Bird uscito nel 2012. In mezzo ci fu Nanna (2015) la parentesi fortemente influenzata dal reggae, un disco di squadra con The United National come lo fu il più riuscito Koonyum Sun uscito nel 2010. Ritorna quindi a predominare l’anima più ottimista e profonda ben rappresentata dal singolo ‘Walk Away’, un piccolo inno che vuole invogliare a lasciare le vecchie strade alla ricerca del nuovo. Tutto quello che c’era già in ‘Follow The Sun’ , il suo più grande successo commerciale. Sì, insomma non cercate troppe novità qui dentro: ottimismo, amore incondizionato per la vita, forte spiritualità e natura incontaminata a palate, e una produzione, purtroppo, pulita pulita, opera di Chris Bond e Tim Palner. Tra folk leggeri come l’aria fresca del mattino (‘Storm Boy’, ‘Before I Go’), semplici chitarra e armonica (‘True To Yourself’, ‘Times Like These’) qualche fuga elettrica su un tappeto reggae, solo due in verità (‘Keep It Simple’, ‘Feet In The Ground’), un occhio al folk melodico più moderno che cattura sempre le ultime generazioni (‘Honeymoon Bay’) e canzoni più complesse, strutturate ma sempre leggere e ariose (‘True Love’), il disco scorre pigro e rilassato (a volte fin troppo) come la migliore, o la peggiore dipende dai punti di vista, giornata estiva sotto il caldo sole. Meglio se in una spiaggia deserta o in alta montagna. Il consiglio rimane sempre quello di non perderlo dal vivo, se vi manca, almeno una volta va visto.
ROGER DALTREYAs Long As I Have You (Polydor Records, 2018)
Le ricette semplici sono sempre le più ardue da portare a termine con buon gusto e la giusta efficacia che le faccia brillare in mezzo a tante altre portate. Lo sa bene Roger Daltrey che con questo disco vuole fare un po’ di passi indietro “un ritorno agli inizi” dice lui, quando a dominare la sua vita erano il soul e il R&B, quello cantato dalle belle voci. La naturale prosecuzione del precedente disco GOING BACK HOME uscito quattro anni fa insieme a Wilko Johnson (in arrivo anche il suo disco) ma con meno peperoncino e un pizzico di zucchero in più. Sarebbe bastato raccogliere dei vecchi brani degli anni 50 e 60 e reinterpretati. Qui c’è qualcosa in più. Con lui il fedele amico di sempre Pete Townshend che gioca di fino e qualche volta affonda con la chitarra in sette canzoni su dodici (“non c’era bisogno di essere un lampo né un genio per suonare R&B con chitarra. Era necessario disporsi ad un ascolto attento, fino a sentirsi la musica dentro” scriveva Townshend nella sua autobiografia), Sean Genockey (chitarra) e poi Mike Talbot al pianoforte. Compone solo due canzoni di proprio pugno ‘Certified Rose’ e la finale ‘Always Heading Home’, e poi pesca a piene mani nella musica, dimostrando curiosità e buon gusto. Ruba ‘Into My Arms’ a Nick Cave che rimane la straordinaria ballata pianistica di sempre, fa sue la graffiante ‘You Haven’t Done Nothing’ di Stevie Wonder con fiati e cori, ‘The Love You Save’ di Joe Tex e ‘How Far’ di Stephen Stills, apre con una portentosa ‘As Long Ad I Have You’ di Garnet Mimms, trascina con il funk gospel di ‘Get On Out Of The Rain’ dei Parliament. Un disco che mostra, a 74 anni, l’intatta voglia di mettersi in gioco e alla prova, dimostrando ancora fisico ma soprattutto voce. Una prova di vitalità vinta. Un disco che serve più a lui che a noi. Piacevole.
DAVE ALVIN and JIMMIE DALE GILMORE Downey To Lubbock (YepRoc Records, 2018)
In mezzo tra Dave Alvin proveniente da Downey, California, e Jimmie Dale Gilmore da Lubbock, Texas, c’è la grande America “centinaia di miglia, deserti, montagne e fiumi” come dice Dave Alvin, in profondità, giù radicate, le radici musicali comuni, quelle che si sviluppano verso il vecchio blues, il folk, il R&B di New Orleans, la country music, le border songs e il rock’n’roll dei ‘50. Seppur con qualche anno di differenza, esattamente dieci, anni di stima reciproca hanno trovato sfogo in alcune date live suonate insieme lo scorso anno. Da lì a incidere il disco, il passo è stato veramente corto, veloce e senza sforzo alcuno. Eccolo qua. Due passati importanti da ricordare, uno nei Blasters, l’altro con i Flatlanders, entrambi vecchi frequentatori del folk club The Ash Grove a Los Angeles, entrambi con le stesse canzoni nel cuore. Dieci sono le cover scelte tra cui 'Deportee (Plane Wreck at Los Gatos)' scritta da Woody Guthrie sul mistero dell'aereo caduto a Los Gatos, Canyon, il 28 Gennaio 1948 ( i quattro americani membri dell'equipaggio vennero subito riconosciuti, i ventitré braccianti messicani no), ‘Silverlake’ di Steve Young, il traditional ‘K.C. Moan’, 'Get Together' degli Youngbloods, 'Lawdy Miss Clawdy' di Lloyd Price, 'Buddy Brown's Blues' di Lightnin' Hopkins e ‘Walk On’ di Brownie e Ruth McGee che chiude il disco alla grande.
In più aggiungono due canzoni nuove scritte per l’occasione: il manifesto di strada che apre l'album ‘Downey To Lubbock’ e ‘Billy The Kid And Geronimo’ che dice tutto nel titolo, un dialogo a due voci tra il fuorilegge e l’apache. Due figure per certi versi simili. La fusione tra le due voci, tonalità bassa per Alvin, più alta per Dale Gilmore, la chitarra elettrica dell’ex Blasters e un buon gruppo dietro fanno il resto. Non ci rimane altro che viaggiare attraversando i tanti e colorati fondali elettro acustici che i due musicisti hanno costruito con mestiere e tanto cuore (si sente). Buon viaggio.