domenica 24 settembre 2023

RECENSIONE: RUDY MARRA & the M.O.B. ft. Dana Colley (Morfina)

RUDY MARRA & the M.O.B. ft. Dana Colley  Morfina (Viceversa Records, 2023)



effimera come la morfina

A più di trent'anni da quella sua apparizione al festival di Sanremo del 1991 dove venne subito eliminato nella categoria "esordienti" presentando la canzone Gaetano (ma vinse il premio della critica), Rudy Marra è tornato quest'anno con il suo quinto disco in carriera, l'ultimo fu Sono Un Genio Ma Non Lo Dimostro datato 2007.

In quel lontano Sanremo interruppe il presentatore con un "lasciami cantare che è meglio" mettendo subito in chiaro le cose. Dritto al punto.

Marra è uno che fa uscire dischi solamente quando ha veramente qualcosa da sputare fuori (quando non escono dischi scrive anche libri), non certo schiavo delle mode o della frenesia del mercato discografico o di quel che è rimasto per chiamarlo ancora così. Un cane sciolto che si aggira beffardo tra la musica d'autore italiana lasciando morsi, graffi e qualche acida pisciata disturbante al suo passaggio. Un cantautore per chi ha voglia di uscire dai soliti binari preconfezionati da case discografiche e mass media.

Morfina è  un concept album che rinsalda la sua collaborazione con Dana Colley e tutto l'amore per i Morphine, celebrati sia nel titolo dell'album (che in verità prende il nome dal romanzo di Bulgakov) sia con ben due cover (Thurday che diventa Corde e Let’s Take A Trip Together riadattata in Su e Giù) più una composizione che vede come protagonisti nel testo Mark Sandman, compianto leader dei Morphine e la sua compagna Sabine Herechdakian (Mark & Sabine).

Canzoni appuntate come pagine di un diario, dove male e bene, buono, cattivo, salute, malattia, sano e guasto  lottano eternamente per prevalere nel cammino della vita, quella lunga parentesi (a volte pure breve), imbastita su tante scelte giuste e molte sbagliate nel tentativo di catturare quella  felicità che lo stesso Marra sostiene "effimera come la morfina". Blues scarni e all'osso (l'ipnotica Amore Sexy, la più movimentata e di denuncia Voglio il Lavoro), carichi di beffarda ironia (Di Mercoledì), smussati negli spigoli dalla presenza del sax di Colley che serpeggia con disinvoltura tra le parole in canzoni che sfiorano  il jazz (Sto Perdendo Tempo), il funk (Oggi Sto Guasto) e con dediche al suo Salento (Filare De Tabbaccu). Tra le sedici canzoni spuntano anche altre due cover rifatte in modo personale: la strumentale Obscured By Clouds dei Pink Floyd e una Diesel, rallentata e fumosa, di Eugenio Finardi con lo stesso autore ospite.

Tra le migliori uscite italiane di questo 2023 ma pochi ancora lo sanno.






domenica 17 settembre 2023

RECENSIONE: JONATHAN WILSON (Eat The Worm)

JONATHAN WILSON  Eat The Worm (BMG, 2023)



alzare l'asticella

Ritorna Jonathan Wilson ma dove sia veramente diretto è sempre difficile capirlo. Lo avevamo lasciato nei pressi di Nashville con il precedente Dixie Blur (2020) quello che era il suo disco più roots e terreno della carriera. Sembrava aver piantato i piedi in terra. Invece... Intanto ha continuato la sua carriera di produttore (Father John Misty, Lana Del Rey) e musicista e la collaborazione con Roger Waters è il fiore all'occhiello che ripaga la sua bravura.

"Sono finalmente arrivato al punto in cui mi sento totalmente libero di correre dei rischi" e qui Wilson ne corre tanti. 

I piedi si alzano da terra e iniziano a librare in cielo, attraversando decenni di musica rock e dintorni. Un lungo ponte tra passato e futuro attraversato con spavalderia, coraggio, intuizione. Sì: corre tanti rischi. Il primo proprio quello di non essere capito e quindi subito accantonato dai più pigri. Ma pochi oggi riescono a unire così tanti puntini con occhi visionari e totale devozione alla musica come Wilson: sia che  passi da Harry Nilsson ('Marzipan' dove cita Jim Pembroke, cantautore britannico, frontman della band prog finlandese Wigwam che pare sia stato la maggior ispirazione di questo disco) alle strambe alchimie  Zappiane, dai sempre amati Pink Floyd alla West Coast californiana ('Hollywood Vape' con i suoi scatti rock), da arrangiamenti alla Bacharach ('Ridin In A Jag') al jazz, con pochi  battiti d'ala ma con una visione d'insieme magniloquente dove le canzoni prendono strade cangianti, a volte impreviste, a tratti languide e liquide ('Ol' Father Time', la malinconica 'Lo And Behold'), solari come succede in 'The Village Is Dead', la più movimentata con il suo forte e aspro sapore sixties.

Un pianoforte come guida ('Hey Love', 'East LA' battono i tasti di Randy Newman), arrangiamenti orchestrali di fiati e archi, sax improvvisi, synth, citazioni curiose e non (il bizzarro carnevale di 'Bonamossa', il soffuso R&B 'Charlie Parker' che si trasforma in prog pinkfloydiano, la bossa nova 'Wim Hof'), svolazzi sperimentali e percorsi tortuosi.

Pura psichedelia pop (in 'B.F.F.' traccia certi aspetti negativi dell'industria discografica) dove Wilson suona quasi tutto da solo, anche se un grande aiuto lo da Drew Erickson.

Ambizione e coraggio tarati a cento per chi vuole immergersi in qualcosa di poco rassicurante. Certo, a volte dalla musica vorremmo solo un abbraccio amico, poteva ripetete l'incredibile Fanfare a vita, Wilson invece ti prende per mano, ti invita a fantasticare nuovi mondi. E sognare è  ciò che ci fa rimanere ancora vivi. Wilson è un ottimo corroborante.





mercoledì 13 settembre 2023

RECENSIONE: THE HIVES (The Death Of Randy Fitzsimmons)

 

THE HIVES  The Death Of Randy Fitzsimmons (Disque Hives, 2023)






il disco rock'n' roll dell'estate che sta finendo

Gli svedesi The Hives nonostante i dodici anni di assenza discografica non sono per nulla cresciuti, la parola maturità  nel loro dizionario non è contemplata, il vocabolario dev'essere lo stesso usato in vita anche dal povero e saggio Lemmy Kilmister che soleva ripetere la stessa cosa.

"Il Rock’n’roll deve restare come  nel primo disco di Little Richard" dicono...

"Molta energia ma nessuna direzione – questo è il rock'n'roll!

Allora si invecchia con la stessa voglia di divertirsi che avevano venticinque anni fa quando uscirono a conquistare il mondo con dischi come Barely Legal (1997) e Veni Vidi Vicious (2000). E pensare che questo disco verte intorno alla scomparsa del loro mentore e fondatore, nonché autore di tutti i testi, Randy Fitzsimmons, che ha lasciato loro queste ultime dodici canzoni da suonare e portare in giro. Che poi il signor Fitzsimmons esista veramente o sia un'invenzione  della loro mente passa in secondo piano davanti alla solita centrifuga di rock’n’roll dove punk ('Bogus Operandi'), garage rock ('Countdown To Shutdown', 'Step Out The Way'), power pop ('Two Linds Of Trouble'), boogie ('The Way The Story Goes'), rockabilly ('Crash Into The Weekend') e una  leggera spruzzata di elettronica ('What Did I Ever Do To You?') adornano i loro testi irriverenti, pungenti e sarcastici e quei cori irresistibili e acchiappa like ('The Bomb'). Oltre a Fitzsimmons gli altri mentori (dalla certificata esistenza) sono tutti presenti: da Screamin' Jay Hawkins ('Stick Up') ai Cramps ('Rigor Mortis Radio') fino ai Ramones ('Smoke & Mirrors').

Poco più di mezz'ora inscatolati dentro a una copertina molto sixties e vestita di abiti sgargianti e una forte dose di divertimento, guidati da Howlin' Pelle Almquist sopra ai palchi di tutto il mondo.

E se siete di quelli che il rock’n’roll lo date per morto un giorno sì e quell'altro pure, ascoltate qua:"la tua band e la tua musica muoiono insieme ai tuoi fan. Una band che attrae nuovi fan vivrà per sempre. Devi avere una specie di ricrescita. Gli spettacoli e la folla sono sempre rinvigoriti dai fan più giovani. Se proiettiamo energia, loro reagiranno a questo”. Long live rock’n’roll.





giovedì 31 agosto 2023

RECENSIONE: ALICE COOPER (Road)

 

ALICE COOPER  Road (EDEL/Ear Music, 2023)

on the road again



C'è una scena in  Daliland, il film uscito quest'anno ma in verità poco preso in considerazione, che si concentra sull'anno (1974) trascorso da Salvador Dalì a New York visto con gli occhi di un giovane gallerista alle prime armi: durante uno dei tanti baccanali a base di sesso e cocaina organizzati per Dalì, Jeff Fenholt (cantante della versione teatrale di Jesus Christ Superstar in quel momento al top) e Alice Cooper si raccontano le loro esperienze musicali quando si presenta Gala, musa di Dalì, e si porta via il suo nuovo pupillo Fenholt: "lascia stare quello che è un fallito, con i suoi foschi spettacoli non farà molta strada". Sappiamo tutti com'è finita: Road, appena uscito, è il ventinovesimo disco di Alice Cooper e proprio di tutti quei chilometri macinati in più di cinquant'anni di carriera si nutre.

Ho seguito gli ultimi due tour italiani di Alice Cooper e devo confessare di essermi sempre divertito tantissimo: Alice Cooper mette ancora in scena uno spettacolo dove rock’n’roll e teatro non prevaricano uno sull'altro accontentando tutti, grandi e piccini, adepti e nuovi fan.

Road è l'ennesimo concept album di Vincent Furnier, dopo l'omaggio alla musica della città di Detroit del precedente disco Detroit Stories, questa volta ha deciso di dare spazio ai musicisti della band che lo accompagna in tour: i chitarristi Nita Strauss, Ryan Roxie e Tommy Henriksen, Chuck Garrick al basso e Glen Sobel alla batteria sono tutti coinvolti anche in fase di scrittura. Il vecchio e sodale Bob Ezrin è in produzione ancora una volta.

"Volevo mettere in mostra la band in tournée, quindi abbiamo scritto le canzoni, siamo andati in studio e ho detto: 'Ecco l'accordo su questo album: niente sovraincisioni'. Ho detto".

Un disco che non cambia di una virgola la sua carriera  ma continua a proiettarlo nel presente ancora da protagonista non cedendo di un millimetro: qui dentro c'è ancora tutto lo scibile rock di Alice Cooper. Autobiografia di un musicista continuamente on the road.

Anche quando i testi sembrano adagiarsi un po' troppo sulla retorica della band rock in tour, l'ironia prevale e riporta tutto a posto.

È la sua storia di viaggiatore del rock ('I'm Alice' canta nel brano di apertura come se ci fossero ancora bisogno di presentazioni) proiettata su tredici canzoni che recuperano i suoni di sempre: dai rock’n’roll di 'Welcome To The Show' (ennesimo benvenuto a un suo concerto), e di 'Go Away' ai  suoni più hard e heavy di 'Dead Don't Dance' con la vecchia conoscenza Kane Roberts alla chitarra (rientrò nella band per un breve periodo in sostituzione di Nita Strauss, fresca di un disco solista ma rientrata presto in formazione) di 'White Line Frankenstein' con l'ospitata di Tom Morello, qui autore di un assolo dei suoi ma con qualcosa di diverso e la più heavy del lotto 'The Big Goodbye'.

Passando dalle influenze soul black che ruotano intorno a 'All Over The World', a quelle più country della ballata 'Baby Please Don't Go' (tra gli autori Keith Nelson dei Buckcherry) fino agli episodi più leggeri e giocosi come 'Big Boots', rock’n’roll con il pianoforte saltellante tra i doppi sensi o al veloce e corale blues  'Rules Of The Road', vademecum per giovani rockstar in erba scritta insieme a Wayne Kramer (Mc5). Per chi ama l'Alice Cooper dalle atmosfere tetre e teatrali c'è spazio per la breve '100 More Miles'. Mentre 'Road Rats Forever', uno speciale tributo ai roadie sembra riprendere là dove finiva 'Road Rats' contenuta in Lace And Whiskey, album del 1977. Il viaggio si conclude con la cover di 'Magic Bus' degli Who a cui viene aggiunto un assolo di batteria di Glen Sobel.

Ma il messaggio sembra chiaro: c'è ancora tanta strada da percorrere e il buon Alice Cooper non ha nessuna intenzione di fermarsi, almeno finché i copertoni tengono così bene l'asfalto e credetemi, di settantacinquenni che fanno ancora rock’n’roll così ne sono rimasti pochi.






sabato 26 agosto 2023

RECENSIONE: RYAN BINGHAM (Watch Out For The Wolf)

 

RYAN BINGHAM  Watch Out For The Wolf  (Thirty Tigers, 2023)



parentesi

Messa in stand by la sua carriera d'attore arrivata al momentaneo culmine con la partecipazione nella serie di grande successo Yellowstone e nel pieno della sua nuova storia d'amore con Hassie Harrison, attrice conosciuta proprio sul set, Bingham ritorna alla musica a quattro anni dall'ultimo disco American Love Songs. Lo fa però in misura ridotta con un Ep di sette canzoni, poco più di venticinque minuti di musica, ma soprattutto mettendosi completamente in gioco come mai prima: Ryan Bingham scrive, canta, suona e produce. Un disco atipico, scarno fino all'osso, registrato in solitaria nel suo "rifugio" del Montana.

"Un microfono, una chitarra, una tastiera MIDI, una chitarra elettrica" questo è tutto quello di cui ha avuto bisogno.

La scrittura in solitudine era già stata sperimentata molto bene nell'album Fear & Saturday Night (2015), nato tra le montagne della California, per me uno dei suoi vertici dopo il debutto. Sette canzoni che forse servono più all'autore per mettere ordine alla sua carriera che a noi.

"Creare questo album in solitudine è stato ultraterreno, spirituale e talvolta semplicemente dannatamente terrificante" ha raccontato.

 Un ponte ,un passaggio, un bisogno di tornare alla musica, per far dire a se stesso  e ai fan "ci sono ancora". Inizia e finisce fischiettando Ryan Bingham in Where My Wild Things Are e nella conclusiva This Life. Nella prima si cala completamente nel paesaggio naturale che lo circoda: lui, la solitudine, la notte che cala e le stelle che illuminano la natura intorno, in This Life ci invita a vivere al meglio la vita. In mezzo ci si cala in canzoni dal forte impatto atmosferico (Automated), desertiche (Shivers), di blues ombroso e solitario (The Devil Stole My Style), ritmi quasi tribali tra l'acustico e l'elettrico nella strumentale Internal Intermission e il country tra mandolino e elettrica di River Of Love. Certo, la presenza di una batteria campionata sembra togliere un po' di calore a queste canzoni solitarie da falò nel bosco ma se le si prende per quello che sono riescono a disegnare il giusto quadro di dove sia oggi Ryan Bingham.

"Durante la realizzazione di questo album, ho attraversato una precisa evoluzione personale o trasformazione spirituale che non riesco davvero a spiegare".

Lo chiameremo disco di passaggio, aspettando qualcosa di più sostanzioso, sempre che non voglia rituffarsi dietro a una camera da presa, lasciando la sua musica agli spiriti del bosco e alle stelle.





mercoledì 16 agosto 2023

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Chrome Dreams)

NEIL YOUNG - Chrome Dreams (Reprise, 1977/2023)



la leggenda perduta

Si potrebbe fare un piccolo quanto inutile giochino: prendere matita e gomma, l'elenco dei dischi ufficiali di Neil Young usciti, l'elenco dei lost album lasciati nel cassetto durante gli anni e spuntare, cancellare, rimaneggiare i primi dando per buoni e non dimenticati i secondi. Poi fare la conta di cosa è rimasto. 

"Nel 1976 ero una furia è siccome avevo preso l'abitudine di scrivere diverse canzoni alla settimana, mi ritrovai ingolfato: avevo troppo materiale e poco tempo in studio. Registravo ovunque potessi farlo e mi muovevo velocissimo, finendo i miei dischi rapidamente. Per me non era tanto importante creare un disco perfetto, quanto piuttosto catturare su nastro le performance e il sentimento originale delle nuove canzoni. Che sia qualcun altro a fare il disco perfetto. Io dovevo prendermi cura delle canzoni". Così Neil Young spiegò quella bulimica vena artistica compresa tra 1972 e il 1977. Chrome Dreams esce con quasi cinquant'anni di ritardo per cercare di mettere ordine ai suoi infiniti archivi, farci spendere un po' di soldi (ma non è un obbligo) e permetterci di fare il gioco sopra proposto naturalmente. Scorrendo le canzoni nulla ci parla di sorprese e novità ma apre l'immaginazione dei "se e dei ma": cosa sarebbe cambiato se Chrome Dreams fosse uscito in quel 1977? Certamente American Stars 'N Bars sarebbe stato monco di tante canzoni straordinarie (e forse non sarebbe mai esistito) come 'Homegrown' (che in versione acustica doveva essere la title track di un altro lost album e invece qui compare nella versione Crazy Horse),  'Star of Bethlehem' (già apparsa anche su Homegrown), una 'Hold Back The Tears' qui in una versione embrionale, due canzoni amare sulla fine di un amore, o 'Will To Love' "una delle migliori robe che abbia mai fatto" racconterà Young di quella canzone composta davanti a un camino acceso da un uomo stonato, con la sua solitudine e il suono di una chitarra che si confondeva con lo scoppiettio dei ceppi sotto il fuoco. Un registratore a cassette Sony stava registrando tutto.  Nasce così un piccolo capolavoro di "scrittura libera" (mai suonato dal vivo) che lo ritrae nelle sembianze di un salmone che risale la corrente, oppure quella cavalcata carica di suggestioni con le chitarre elettriche in evidenza che è Like A Hurricane ("scrissi il testo di ‘Like a Hurricane’ su un pezzo di giornale sul retro della DeSoto Suburban del 1950 di Taylor Phelps, una sera verso la fine di Novembre del 1975"). Oppure Rust Never Sleeps non avrebbe mai avuto 

'Pocahontas', composta  nel 1976 e che sabbe dovuta finire prima ancora su Hitchhiker, 'Sedan Delivery' e 'Powderfinger' già promessa anche lei a Hitchhiker.

Su Freedom, disco che anticipava la rinascita degli anni novanta, non avremmo avuto 'Too Far Gone' che qui però compare nella sua prima stesura sempre con il mandolino di Poncho Sampedro in bella evidenza. Su Hawks & Doves non ci sarebbe stata 'Captain Kennedy' che però era già prevista sul lost album Hitchhiker. Una 'Stringman', ballata al pianoforte che comparirà per la prima volta nell'Unplugged per MTV solamente negli anni novanta, anche qui la versione è registrata live ma nel 1976. Una 'Look Out For My Love' che finì su Comes A Time.

Naturalmente anche questo Chrome Dreams sarebbe stato monco se avessimo applicato lo stesso criterio ma "lost album" contro "lost album". Perchè pare ci sia sempre un lost album prima di un lost album.

Sì insomma, un bel casino questo giochetto. Certo: un disco per completisti, per fan incalliti che già lo conoscevano attraverso i bootleg che circolavano dai primi anni novanta ma che ora possiamo ascoltare tutti proprio così come fu pensato. Apparentemente poco imparentato con Chrome Dreams II che uscì nel 2007 se non l'idea di assemblamento di canzoni provenienti da periodi diversi.

 Molte anche le leggende che ruotano intorno ad alcune canzoni pensate per questo album: 'Powderfinger', 'Captain Kennedy' e 'Sedan Delivery'  sarebbero state proposte ai Lynyrd Skynyrd del periodo Street Survivors, un ulteriore segnale di distensione tra Neil Young e il gruppo dopo le scaramucce post 'Alabama'. Infine la copertina: disegnata da Ronnie Wood.

Un fottuto capolavoro se fosse uscito con i tempi giusti. Oggi sembra un superbo greatest hits. E sono solo 12 canzoni.








sabato 5 agosto 2023

RECENSIONE: STEPHEN STILLS (Live At Berkeley 1971)

 

STEPHEN STILLS  Live At Barkeley 1971 (Iconic Artist Group, 2023




tesori nascosti


Sembra che David Crosby in quelle serate del 20 e 21 Agosto del 1971 al Berkeley Community Theater fosse tra il pubblico per assistere ai concerti del primo tour solista americano dell'amico STEPHEN STILLS. Una presenza significativa visto che da poco il supergruppo CSN & Y non esisteva più. Crosby fu chiamato sul palco a sorpresa, senza prove,  ma d'altronde l'intesa fu da sempre uno dei punti di forza del trio insieme a Nash che ci si vedeva a occhi chiusi. Pura magia.

Le due canzoni cantate insieme ('You Don't Have To Cry' e una superlativa 'The Lee Shore') sono solo la conferma e uno dei momenti più alti di queste registrazioni trovate recentemente dalla stesso Stills. 

"Stephen era un genio e aveva un groove stupefacente. Possedeva un senso del ritmo sovrannaturale, tutto suo, era un orologio con l'anima, non tirava nè arretrava mai" così scriveva Neil Young tra le pagine della sua autobiografia. Questo primo tour americano fu anche la conferma di quelle parole. Stills sentiva la necessità di uscire dai gruppi (Buffalo Springfield prima CSN&Y dopo) per esprimersi in tutte le sue potenzialità, forte di due album, i migliori della sua carriera, che mostravano un musicista perennemente curioso, caldo, verace, strabordante, capace di tirare fuori il meglio da ogni genere musicale con la naturalezza concessa a pochi fuoriclasse della musica. Concerti che partivano in acustico con Stills che faceva sfoggio del suo proverbiale fingerpicking all'acustica ('Love The One You're With', 'Black Queen'), e abilità pianistica (l'intima esecuzione di '49 Bye Bye/For What it's Worth'). Una menzione anche per Steve Fromholz, chitarra e voce (lo sentiamo in 'Jesus Gave Love Away For Free'), e vero braccio destro di Stills in quel tour.

Per poi esplodere nella seconda parte, straripante di soul, blues e rock latino grazie alla presenza dei Memphis Horns che daranno pure il nome al tour (The Memphis Horns Tour). Una sarabanda di suoni ('Ecology Song' è un carnevale) e colori ('Cherokee', 'Lean On Me' con le chitarre elettriche in pimo piano) che sembrava controbilanciare una vita privata disordinata e fosca dettata dall'uso di cocaina e barbiturici che lo portarono perfino ad un arresto a La Jolla in California.

"È stato il mio primo tour come artista solista e questi spettacoli erano rauchi e sfrenati , catturati qui in queste registrazioni."

Un live intenso, ipnotico e magico in più momenti. Peccato le due serate non siano state recuperate per intero, si è preferito fare un mix tra le due, dando anche più spazio alla prima parte acustica rispetto alla seconda elettrica. Da avere.








sabato 29 luglio 2023

RECENSIONE: NILS LOFGREN (Mountains)

 NILS LOFGREN  Mountains (Cattle Track Road Records, 2023)


gregario di lusso




"Queste canzoni nascono tutte da emozioni crude. Mi sono  permesso di condividere le mie paure e la mia rabbia, il mio amore e la mia speranza, di essere aperto su ciò che stavo vivendo senza analizzare eccessivamente o modificarne la vita" così Nils Lofgren racconta il suo nuovo disco di dieci canzoni, uscito un po' a sorpresa dopo il buon disco All Roads Lead Home con i restanti Crazy Horse Billy Talbot e Ralph Molina e a quattro anni dal precedente Blue With You dove a risaltare erano alcune canzoni scritte con Lou Reed nei fine anni settanta mai apparse prima.

Lofgren che vanta una carriera strabiliante all'ombra dei grandi, contribuendo alla fortuna di due delle più grandi rock band americane: i primi Crazy Horse e la seconda incarnazione della E Street Band, quella che iniziò a frequentare i grandi stadi. Entrato quasi per caso, è in pianta stabile nella E Street Band dal 1984, non ne è più uscito, ed ora ne è un senatore tanto quanto i "vecchi" Van Zandt, Tallent, Bittan e Weinberg.

Carriera decollata  appena diciassettenne (prima ancora ci furono i Grin) come pianista e chitarrista di Neil Young e lasciando i suoi contributi sugli imperdibili After the Goldrush(1970), Tonight's the Night(1975) e poi su Trans(1982). E recentemente quando è ritornato in sella al cavallo sostituendo Poncho Sampedro negli ultimi dischi usciti a nome Neil Young and Crazy Horse.

La carriera di Lofgren è anche piena di tantissimi dischi solisti, spesso dimenticati (alcuni nel cesto degli usati si trovano frequentemente, e i primi due sono sicuramente da avere) e questo Mountains ne conferma la bontà di strumentista, mentre la voce rimane il suo punto debole ma non così tanto da inficiare il risultato finale.

Un disco che mischia il politico e il privato: se con il rock  dell'iniziale 'Ain't The Truth Enough' (con la presenza di Ringo Starr alla batteria e Cindy Mizelle, corista della E Street Band) attacca direttamente la disinformazione e la demagogia su cui sembra basarsi la società moderna, nell'andamento country folk di 'Nothin' s Easy (For Amy)' che vede la partecipazione di Neil Young alla seconda voce sembra cementare definitivamente il suo lungo amore con la moglie Amy sbocciato nel New Jersey negli anni settanta.

L'altra dedica del disco esce dal blues 'Won't Cry No More' indirizzata a Charlie Watts. Un disco che sembra vagare libero tra i generi, passando dal rock graffiante di 'Only Ticket Out' con un bel lavoro alla  chitarra solista, al gospel soul di 'Back In Your Arms', scritta da Bruce Springsteen, con la partecipazione del Howard Gospel Choir, una 'Dream Killer' dai vaghi sapori eighties, la jazzata 'Only Your Smile' con il basso ospite di Rong Carter, nella vivace e funky 'I Remember Her Name' ospita David Crosby in quella che potrebbe essere una delle sue ultime registrazioni in studio, fino alla ballata finale 'Angel Blues' costruita sul pianoforte.

"È stato così liberatorio lavorare senza alcuna restrizione, scrivere semplicemente quello che è venuto fuori, e si è trasformato in uno dei lavori più ispirati che penso di aver mai realizzato".

Un disco piacevole che non cambierà la storia del rock ma che in qualche modo farà storia: l'ultimo su cui si potranno ascoltare Neil Young e David Crosby cantare sullo stesso disco.






martedì 18 luglio 2023

RECENSIONE: DUANE BETTS (Wild & Precious Life)

 

DUANE BETTS   Wild & Precious Life (Royal Potato Family, 2023)






come una volta

Il primo strumento che suo padre Dickey gli fece imparare fu la batteria ma sembrò chiaro fin da subito che con quel nome e quel cognome l'arrivo di una chitarra tra le sue mani fosse solo questione di poco tempo. Dai tredici anni ad oggi che ne ha quarantacinque, Duane Betts non l'ha più mollata, continuando la tradizione di famiglia, suonando ed esplorando anche altri terreni musicali, vedi l'esperienza  con i Dawes.

Messo temporaneamente in un angolo anche il progetto con l'altro figlio della grande famiglia (sto parlando di Devon Allman naturalmente e la loro Allman Betts Band), liberatosi dai pesanti fardelli delle dipendenze che lo hanno imbrigliato per un buon numero di anni, Wild & Precious Life è il primo disco solista a suo nome che si candida fin da subito a diventare il disco southern rock dell'annata in corso. 

Il perché è presto detto. Qui dentro c'è tutto quello che ci deve essere: grandiose chitarre ("questo è un disco che i chitarristi adoreranno, ma in fondo è davvero un disco di canzoni. È un album su chi sono, da dove vengo e in cosa credo") che ricamano grandi spazi incontaminati richiamando gli Allman Brothers di Brothers And Sisters ('Waiting On A Song', 'Forrest Lane'), chitarre più possenti (l'iniziale 'Evergreen' con l'incursione di una bella tromba, 'Saints And Sinners', 'Sacred Ground'), due ospiti di peso come Marcus King nel blues 'Cold Dark World' e Derek Trucks in 'Stare At Sun' un chiaro omaggio di Duane al padre Dickey, passaggi in territori country ('Colors Fade' con la presenza di Nicki Bluhm) e jazzati (la strumentale 'Under The Bali Moon') e ballate dal sapore agreste come la finale 'Circles In The Stars'. Si respira quell'aria di libertà, natura e "vecchio vinile"  dall'inizio alla fine come nelle intenzioni del suo autore: "ho voluto fare un disco che catturasse davvero l'atmosfera della vecchia scuola della Florida". 

Anche la copertina non lascia dubbi sui  territori dove si sta così bene viaggiando: registrato allo Swamp Raga Studio di Dereck e Susan Tededchi a Jacksonville cercando di preservare il più possibile il suono live senza troppe sovraincisioni con la sua band formata dal chitarrista Johnny Stachela, il bassista Berry Duane Oakley, il tastierista John Ginty e il batterista Tyler Greenwell. 

"L'atmosfera e la natura circostante, i boschi, e la possibilità di camminare attraverso questo tipo di palude fino a quel fiume. Un ambiente davvero ideale per registrare un disco ed essere vicino alla natura".

In soli cinquanta minuti si può andare molto lontano.






sabato 15 luglio 2023

RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE (Bits & Pieces)

MALCOLM HOLCOMBE  Bits & Pieces (Proper Music, 2023)


suonane ancora Malcolm


Già solo la notizia di un nuovo disco di Malcolm Holcombe è una bella notizia. Bella notizia che in verità si ripete dopo ogni disco ma questa volta di più. Holcombe arrivato alla musica che conta solo dopo i quarant'anni è uno dei pochi che possa indossare gli abiti del vero loser con fierezza e orgoglio da vincitore. Dopo una vita a combattere alcolismo e depressione questa volta sembra riuscito a mostrare il dito medio pure al cancro che minaccioso gli ha presentato il conto due anni fa. Holcombe saputo della malattia si è chiuso in studio insieme alla sua chitarra e al fido Jared Tyler che qui suona praticamente tutto il resto (dobro, lap steel, chitarra elettrica, basso, batteria, mandolini e banjo) per regalarci tredici nuove canzoni che non rivoluzioneranno il mondo musicale ma regaleranno ancora purezza e sincerità, quello di cui c'è veramente bisogno.

Tecnica chitarristica fingerpicking unica, voce consumata, profonda e vissuta e testi che sbirciano l'America dalla porta secondaria dove entrano disperati e reietti, dove regna l'odio e l'ingiustizia e i truffatori sono dietro ogni angolo. Dove tutto sembra più sporco di quanto ci raccontano.

Sarà pure il suo solito folk blues ('Bits And Pieces', 'Happy Wonderland'), oscuro e solitario ('Bring To Fly'), suonato ('Fill Those Shoes') ma qui ancora più grezzo, che ogni tanto sconfina nel country ('Hard Lucky City', 'Rubbin' Elbows'), registrato con pura urgenza rincorrendo il tempo che scappa ma porca miseria ti fa venire sempre un groppo in gola. Vero, urticante, viscerale. Il suo fisico provato parla per lui, le sue canzoni arrivano a noi con la stessa forza che avevano quelle di Townes Van Zandt .






domenica 9 luglio 2023

DIRTY HONEY live@Spazio 211 Open Air, Torino, 8 Luglio 2023

Gli attestati di stima che da Los Angeles hanno attraversato l'oceano in pochi mesi con lunghe e ampie falcate, i piccoli record (il primo gruppo senza un contratto discografico a raggiungere la prima posizione nella classifica rock di Billboard con una canzone), l'ascesa irrefrenabile che dai piccoli palchi li hanno portati ad aprire per colossi come The Who, Kiss, Black Crowes e Guns 'N Roses, sono tutti indizi che mi hanno condotto qui questa sera per verificare con i miei occhi ciò che altri  hanno ben raccontato, l'alternativa sarebbe stata Edoardo Bennato poco distante da qui (mi perdonerà Bennato a cui voglio tanto bene): i Dirty Honey sono una delle migliori realtà di hard street rock'n'roll degli ultimi anni, eredi di quella musica tanto sporca quanto melodica che partendo dal blues ha aggiunto kw di chitarre elettriche, attitudine stradaiola e voglia di divertirsi. Perché sì, dopo tutto ci vuole ancora la voglia di divertirsi.

A fare gli onori di casa i torinesi Dobermann con il loro glam metal d'assalto guidati dal veterano Paul Del Bello, voce e basso e dalla chitarra e presenza scenica di Valerio “Ritchie” Mohicano. Alla batteria siede Antonio Burzotta. Set corto il loro ma abbastanza per scaldare e "sparare" il loro hard metal intransigente su un pubblico chiassoso ma che per la verità mi aspettavo ben più numeroso.


La carriera dei Dirty Honey è lunga solamente 54 minuti, tanto è la durata complessiva dell'ep d'esordio e del seguente album del 2021 a cui si aggiungono i tre minuti e quarantasei secondi del nuovo singolo dal contagioso groove 'Won't Take Me Alive' uscito proprio in questi giorni e che anticipa un nuovo album che arriverà. Naturalmente il pezzo è già stato testato sul palco. E funziona.

Sì ok. Ma allora? I Dirty Honey meritano tutta,questa esposizione? Basterebbero la prova del cantante e del chitarrista per rispondere di sì. Marc LabelleJohn Notto sembrano impersonare ancora così bene quelle coppie indissolubili che hanno segnato la storia del rock'n'roll: nel loro DNA ci sono Robert Plant e Jimmy Page, Steven Tyler e Joe Perry, Axl Rose e Slash, David Lee Roth e Eddie Van Halen, Paul Rodgers e Paul Kossoff, i fratelli Robinson dei Black Crowes. Labelle sa come intrattenere il pubblico, spesso cerca il contatto, gioca con l'asta del microfono, ha movenze che mi ricordano Chris Robinson che mi ricorda Rod Stewart e la sua voce ha la giusta sfumatura soul blues per graffiare le anime, Notto è un chitarrista straordinario, solido nei suoi riff e tanto straripante quanto contenuto nei suoi assoli, guardandolo ho rivisto un mix tra Eddie Van Halen e Gary Moore.



Ma sarebbe un grande torto per la visione d' insieme della band non citare lo straordinario lavoro del bassista Justin Smolian e del  batterista Corey Coverstone forse l'uomo più in ombra stasera ma solo per esigenze di palco.

I Dirty Honey sono una grande band che rivisitando la storia dell'hard rock’n’roll sta cercando di mettere la propria impronta con canzoni mai troppo lunghe ma che sanno lasciare il segno: California Dreamin, Gypsy, Heartbreaker, When I'M Gone, Rolling 7s, Scars, Tied Up, The Wire, Another Last Time, l'unica concessione al lento, sembrano già dei piccoli  classici. A cui aggiungono una Let's Go Crazy di Prince. Hard blues, qualche bella tirata funky rock e alcune concessioni southern sono il loro biglietto da visita. I primi Aereosmith il punto di riferimento principale.

Attitudine giusta e movenze sul palco forse già viste ai tempi d'oro della musica ma necessarie per dare quel ricambio generazionale a band storiche che certe cose non riescono più a farle per raggiunti limiti d'età. Sì insomma, negli anni novanta band così erano numerose, forse troppe, oggi teniamociele strette.  Hanno tanta strada davanti e canzoni da scrivere ma sono certo che ne sentiremo parlare ancora e bene perché non hanno trucchi: una chitarra, una voce, un basso e una batteria resteranno per sempre e dovrebbero convincere chi va ancora in giro a dire che il rock è morto. Ho visto tanti giovanissimi stasera davanti alle transenne. Qualcosa vorrà pur dire...




sabato 8 luglio 2023

JASON ISBELL and the 400 UNIT (Weathervanes)

 

JASON ISBELL and the 400 UNIT  Weathervanes (Southeastern, 2023)



direzioni

A Settembre uscirà una nuova versione di Southeastern, il disco crocevia della sua carriera uscito dieci anni fa. Un disco bellissimo, uno dei migliori di questi anni duemila, salvifico, di autoanalisi, che lo proiettò verso una nuova carriera, dopo la parentesi dentro ai Drive-By Truckers, che non ha conosciuto soste se non quella imposta dalla pandemia. Fu il disco della ritrovata sobrietà dopo una parentesi di vita che lo mandò allo sbando. In mezzo Jason Isbell ha continuato a incidere dischi come solista e con i suoi 400 Unit (Derry deBorja, Chad Gamble, Jimbo Hart e Sadler Vaden) portandosi a casa una valanga di Grammy e quell'attestato di stima di David Crosby  "Jason è tra i migliori songwriters di questi tempi" che oggi dopo la dipartita del buon Croz sembra assumere ancor più valore.

A conferma questo nuovo Weathervanes, un disco pieno di belle canzoni che sanno guardare in faccia i tanti problemi della sua America (in 'Save The World' volge lo sguardo a una piaga sempre d'attualità come le sparatorie nelle scuole americane), in 'Death Wish' e  'Middle Of The Morning' affronta senza remore il peso delle malattie mentali, delle dipendenze ('King Of Oklahoma') e in generale scava ancora dentro se stesso e fruga tra le pieghe dei sentimenti con una scrittura sempre brillante e mai banale. L'aborto di 'White Beretta' lo tocca da vicino (" è una canzone molto personale, e ho usato molti dettagli personali. Tra le altre cose, parla di interrompere una gravidanza").

 Sostanzialmente un disco di ballate, ariose, con la brezza del sud a spingere, prodotto da lui stesso dopo il lungo sodalizio con Dave Cobb, dove il violino della moglie Amanda Shires è spesso presente a cucire dolenti note ('King Of Oklahoma', 'If You Insist'). Ci sono alcune concessioni alla solitudine da folk singer (la bella 'Strawberry Woman', 'Cast Iron Skillet') e al country in 'Vestavia Hills' con una slide evocativa, ci sono gli archi che arricchiscono 'Volunteer', e poi qualche scatto più elettrico come succede in 'When We Were Close' e nell'accoppiata finale composta da 'This Ain't It' e dai sette minuti di 'Miles', una cavalcata che sembra avere Neil Young e i Crazy Horse voce mentori, evocativa quanto basta per misurare tutti quei kilometri che spesso ci separano dagli affetti più cari."È una specie di viaggio epico  quella canzone. Mentre eravamo in studio, l'ho chiamata Neil Young e Wings".

Nella canzone  che apre il disco Isbell canta: "tutti muoiono ma devi trovare un motivo per andare avanti", credo che questo disco potrebbe essere quel motivo, prenotandosi già da ora un posto tra le migliori uscite americane dell'anno.





venerdì 30 giugno 2023

RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS (Stories From A Rock’n’Roll Heart)

LUCINDA WILLIAMS  Stories From A Rock’n’Roll Heart (Highway 20 Records, 2023)



cuore da combattente

Ho un fotogramma che penso mi porterò dietro per sempre: Lucinda Williams che entra in scena  durante il suo concerto dello scorso 10 Gennaio al Teatro Gaber di Milano, i musicisti che attaccano 'Blessed' e lei dopo poche strofe si ferma, sofferente. Un buco di memoria che unito ai lasciti dell'ictus (precaria deambulazione e l'impossibilità di imbracciare una chitarra) le hanno fatto passare almeno quindici minuti di calata negli inferi. Poi un miracolo sembrò impossessarsi della scena, la sua voce tornò quella di sempre, profonda e graffiante e il concerto finì quasi in gloria con Lucinda che lasciò il palco mentre con le dita faceva la "v" di vittoria. Il trionfo della vita e della perseveranza. Uno dei concerti più surreali e toccanti che abbia mai visto.

Questo nuovo disco che fa seguito ad una sfilza di dischi di cover, tanto inutili per la sua carriera quanto utili per tenerla in vita e all'uscita della recente autobiografia Don’t Tell Anybody the Secrets I Told You, è un po' la testimonianza di questa vittoria e di quelle dita alzate: un disco che l'ha vista rimettersi in gioco rivedendo completamente il suo modo di scrivere  e di approcciarsi alle canzoni. Si è fatta aiutare molto nella stesura dei pezzi: dal marito  Tom Overby, da  Travis Stephens e dall'amico Jesse Malin, la cui sorte proprio in questi giorni sembra aver giocato un brutto scherzo pure a lui (forza Jesse!).

"La malattia mi ha aperto alla collaborazione con altre persone, il che è stato piuttosto divertente per me. Non lo  avevo mai fatto così assiduamente prima".

Un disco, prodotto da una vecchia conoscenza come Ray Kennedy (già in Car Wheels on a Gravel Road) che trascina con sé i sentimenti, che viaggia tra i luoghi della memoria, della gioventù, che guarda in faccia i momenti bui che gli ultimi anni hanno affievolito la sua luce ma che guarda anche al futuro che resta da combattente come sembra rivendicare nel bel blues 'Let's Get the Band Back Together', in 'Never Gonna Fade Away' e nella ballata 'Where The Song Will Find Me' con la presenza degli archi. Di rock&roll c'è n'è tanto, anche nelle storie raccontate.

'Hum' s Liquor' è una dedica a Bob Stinson (tutto.il disco è a lui dedicato) a cui partecipa il fratello Tommy, una storia raccolta dal marito Tom Overby che quando abitava a Minneapolis era solito vedere Bob Stinson, chitarrista dei Replacements fare incetta di alcolici giù nel negozio di liquori.

'Stolen Moments' è una dedica on the road a Tom Petty ("amo le sue canzoni") che la portò in tour con sé quando era ancora una sconosciuta, e  la presenza alla batteria di Steve Ferrone, ultimo batterista degli Heartbreakers chiude il cerchio.

Lucinda si circonda anche di tanti amici: nei suoni urbani del classic rock 'New York Come Back' e in 'Rock'n'roll Heart' partecipano Bruce Springsteen e Patti Scialfa ("da anni sognavo di collaborare con loro" dice Lucinda), Margo Price canta in altri due brani tra cui la corale 'This Is Not My Town' e Angel Olsen partecipa nel country di 'Jukebox', un' ode a ai luoghi che l'hanno vista crescere.

Stories From A Rock’n’Roll Heart è un disco importante, salvifico, non tanto per quello che aggiungerà alla sua carriera quanto per il segnale ben chiaro: Lucinda Williams è ancora qui con noi, forte, combattiva, senza paura di guardare in faccia il dolore e la morte e con tante canzoni ancora da scrivere. Lei stessa dice di averne già da parte per un prossimo album. Alziamo tutti le dita a V.





giovedì 29 giugno 2023

RECENSIONE: GOV'T MULE (Peace...Like A River)

GOV'T MULE   Peace...Like A River (Fantasy Records, 2023)


un fiume in piena 

Ricordate la strofa "si era sempre fatto uno per volta, ah? E allora... e allora a me mi piace due per volta” dentro alla canzone ‘Allora, Avete Capito o No?’ contenuta nel disco  

Uffà!Uffà di Edoardo Bennato? Una frase sibillina che anticipava l'uscita di un altro disco quasi in contemporanea con il primo, sarà  poi Sono Solo Canzonette. Uno scherzo di Bennato: due dischi completamente diversi ma con canzoni registrate nelle stesse sedute di registrazione.

Il nuovo disco dei Gov't Mule sembra seguire la stessa logica, le dodici canzoni (che diventano diciassette nella versione deluxe) sono state registrate al  Power Station New England a Waterford nel Connecticut durante gli stessi giorni che hanno portato al precedente Heavy Load Blues uscito nel 2021. 

"Ma se facessimo due dischi contemporaneamente?". Non è  più Bennato, ma questa è la richiesta di Warren Haynes ai suoi compagni di band (nel frattempo il basso è passato dalle mani di Jorgen Carsson a quelle di Kevin Scott) quando si accorse che la lunga pausa dovuta alla pandemia gli aveva fatto accumulare una valanga di nuove canzoni. Se Heavy Load Blues era il disco blues, costruito metà con cover e metà con originali registrato durante le ore notturne, Peace...Like A River è un disco di soli originali che ripercorre un po' i suoni di tutta la loro carriera e che guarda impetuoso ai seventies.

"Quando abbiamo trovato lo studio Power Station New England, ci siamo preparati per Peace...Like a River nella stanza grande e per Heavy Load Blues nella stanza piccola. Andavamo tutti i giorni verso mezzogiorno e lavoravamo alle canzoni di Peace…Like a River fino alle 21:00 circa, quindi facevamo una pausa per la cena e poi suonavamo blues per il resto della notte nella piccola stanza accanto. Questo è quello che abbiamo fatto per diverse settimane, questo era il nostro programma ed è stato un ottimo modo per combattere il blocco" racconta oggi Haynes.

Un disco vario, ambizioso come sempre, che sa abbracciare e a suo modo ampliare la carriera: dalle variazioni acustiche elettriche dell'apertura 'Same As It Ever Was' ("un pezzo espansivo. Va in tante direzioni diverse" spiega Haynes) al torrido blues di 'Shake Our Way Out' con la presenza di Billy Gibbons alla voce, si aprono alle lunghe jam sempre di casa in 'Made My Peace' la più lunga con i suoi nove minuti dove la band si immerge in cangianti atmosfere progressive dai toni pinkfloydiani (amore mai nascosto), il southern rock di 'Head Full Of Thunder' e della finale ballata 'Gone Too Long' dove si ricongiungono idealmente alla Allman Brothers Band, il dichiarato amore per le sonorità dub reggae nella liquida e sfuggente 'The River  Only Flows One Way con la voce di Billy Bob Thornton. Mettono sul piatto tutta la loto bravura in canzoni come 'After The Storm' che resuscita lo spirito dei Doors e Jim Morrison e nel  soul di 'Just Across The River' accentuato dalla voce di Celisse. 

Abbracciano il viaggio spirituale, le perdite ('Made My Peace' è dedicata al padre di Haynes), citano Martin Luther King e il suo sogno con le atmosfere funky jazzate di 'Dreaming Out Loud' con la presenza di Ivan Neville e Ruthie Foster alle voci, intercettato la politica, il difficile abisso delle dipendenze nella straziante 'Your Only Friend' condotta in acustico con l'aggiunta di un arrangiamento d'archi, una delle migliori canzoni del disco.

Ho letto un po' di tutto su questo album: chi dice sia sempre la stessa solfa, che ormai non hanno più nulla da dire, io invece lo trovo uno dei più eclettici e vari della loro carriera, uno dei più divertenti certamente, con canzoni che sanno arrivare con più facilità nonostante arrangiamenti complessi e i minutaggi spesso elevati. C'è libertà di scrittura e quella insana e sempre presente voglia di oltrepassare gli steccati dei generi musicali. Se Heavy Load Blues era la notte, questo rappresenta il pieno giorno.Sono comunque e sempre i Gov't Mule, un nome una garanzia.





domenica 25 giugno 2023

RECENSIONE: THERAPY? (Hard Cold Fire)

 

THERAPY?  Hard Cold Fire (Marshall Records, 2023)



gli alternativi all'alternativo

Ricordo ancora la prima volta che ascoltai i Therapy?: Screamager ("il luogo in cui i Metallica incontrano gli Undertones" come la definisce Andy Cairns) usciva fiera e baldanzosa dalle casse,  in filodiffusione al Forum di Assago durante il pre concerto dei Megadeth periodo Youthanasia. "Questi potrebbero piacermi" pensai e subito chiesi a qualche essere umano lì presente di chi fosse quella canzone. Oggi potrebbe bastare un clic con Shazam. Conosciuti di nome, fino a quel momento i Therapy? per me erano degli sconosciuti di fatto anche se prima del grande ed effimero successo commerciale di Troublegum (1994) e del successivo Infernal Love (1995) avevano già all'attivo tre album. Da lì in avanti non li abbandonai più e mi spiace che oggi a trentacinque anni dalla loro nascita ci sia qualcuno che non si ricordi più di loro o peggio ancora pensi non esistano più da tempo.E allora mi spiace ancor di più che non ci sia qualcuno a chiedermi "chi sono questi?" come io feci all'epoca. Ma forse  usano Shazam e non ce n'è bisogno, giustamente. Sono ottimista.

Andy Cairns e soci, il compagno di mille avventure Michael McKeegan (basso) e il batterista Neil Cooper (nella band da ormai vent'anni) sono tra noi, continuano a pubblicare dischi, girano in tour e lottano con la stessa perseveranza e coerenza che hanno messo nei precedenti quindici dischi. 

Hard Cold Fire, prodotto da Chris Sheldon, lo stesso di Troublegum, non fa difetto riproponendo tutto il loro immaginario musicale costruito su noise rock, punk, melodia pop, metal. È sempre stato difficile inquadrarli, catalogarli sotto qualche genere musicale. Alternativi come si usava nei novanta può andare sempre bene? Quando capisci che entrano bene dentro a un genere con una canzone dopo fuggono da un'altra parte. "Non riesco a pensare a niente di peggio che essere bloccato in un'epoca o in un genere" spiega Cairns in una recente intervista.

La melodia di 'Poundland Of Hope And Glory' e della finale 'Days Kollaps', la pesantezza di 'To Disappear', una 'Two Wounded Animals' che mischia bene melodie e riff.

Il carattere ibrido della loro proposta è  stato la loro sfortuna ma anche la loro salvezza. Tanti compagni di viaggio degli anni novanta sono spariti, loro sono ancora qui, credono a quel che fanno e dopo il successo commerciale si sono tuffati a sperimentare qualunque cosa facesse loro piacere. Suicide Pact-You First (1999) e Never Apologise Never Explain (2004) sono dischi complessi e coraggiosi per nulla accomodanti, Shameless (2001) e High Anxiety (2003) erano delle bombe melodiche: tutti insieme sono passati inosservati.

I testi di Cairns cavalcano il presente e si addentrano ancora bene dentro all'animo umano, alle sue paure, alle speranze (il singolo 'Joy' cita l'autore irlandese Samuel Beckett) all'ottimismo di andare avanti, nonostante tutto. In fondo le canzoni hanno preso vita durante il lockdown.

Loro sono pronti, voi seguiteli. Peccato per la copertina che non è il massimo mentre il titolo lo è certamente, preso da una citazione del poeta irlandese Louis MacNeice che descrive la psiche delle persone del nord dell'Irlanda, all'interno si legge: "il fuoco duro e freddo del nordico - congelato nel suo sangue dal fuoco nel suo Basalto - brilla da dietro il Mica degli occhi". Avanti così.




domenica 18 giugno 2023

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (Orpheus Descending)

 

JOHN MELLENCAMP  Orpheus Descending (Republic Records / Universal Music, 2023)



un'altra sigaretta

Autodichiarandosi un eterno outsider in una recente intervista  John Mellencamp continua a smarcarsi da un certo mainstream e sembra prolungare all'infinito la sua corsa ai margini. Lo fa con un nuovo disco che esce a poco più di un anno dal precedente Strictly A One-Eyed Jack che vedeva l'amico Bruce Springsteen presente in tre canzoni. 

La voce porta con sé tutti i segni del tempo e delle tante sigarette fumate ("ho iniziato a dieci anni" dice) ma forse sta proprio lì anche in quella voce catramosa che da ancora più peso alle storie il segreto di una longevità artistica livellata nei piani alti del rock americano con veramente poche cadute di stile in carriera.

Ma mentre l'amico del New Jersey in questo periodo della sua vita sembra concentrato su se stesso mettendo a nudo tutta la fragilità degli anni che passano, John Mellencamp (71, due anni in meno) a suo modo continua a gettare l'occhio fuori dalla finestra di casa e dal finestrino dell'automobile anche se non mancano canzoni intimiste e autoconfessionali come la finale 'Backbone' dove canta " così cercherò di essere migliore con il tempo che mi rimane" e quella spina dorsale sembra far riferimento all'operazione alla spina bifida con il quale è nato e alla delicata operazione a cui è stato sottoposto da bambino, erano in quattro con quel problema, tre sono morti, lui è ancora qui "sono il ragazzo più fortunato del mondo" ha detto.

Quel che vede  lo piazza subito a inizio disco con un uno-due micidiale: 'Hey God', un folk blues con una bella slide National (presente spesso nell'album e quasi protagonista) che si concentra sulle tante stragi avvenute nelle scuole americane per mano di armi da fuoco mentre in  'The Eyes Of Portland' si ricorda dei tanti figli dimenticati della sua terra costretti a un'esistenza da senzatetto.

Un disco prevalentemente acustico, dai tonicupi e grevi di belle chitarre, violino e ricami d'Hammond: in 'The So-Called Free' fa capolino una certa disillusione in lontananza, in 'The Kindness Of Lovers' dove il teso violino di Lisa Germano, un bel ritorno in un disco che richiama le atmosfere di Big Daddy) ricama su un dialogo tra amanti mentre dio  interviene a dire la sua: "mettere l'opinione di un uomo contro quella di un altro è solo uno scherzo, E guarda il casino che avete combinato qui. Un giorno ho paura che perderai la speranza".

Se dopo una vita passata a fare quello che hanno deciso altri hai un asso nella manica giocalo all'ultimo suggerisce in 'One More Trick', così  come in 'Lightning And Luck'  canta "quindi usa quello che hai, per ottenere quello che vuoi" cercando di dare speranza perché un mondo perfetto da qualche parte esiste ancora ('Perfect World').

Tre canzoni sembrano smarcarsi musicalmente  dal resto del disco: 'Amen', un esercizio waitsiano al pianoforte, con la presenza di una delle poche chitarre elettriche, dove con velata rassegnazione ha veramente poco da dire: "puoi dare la colpa al tempo, O semplicemente al giorno, I tempi difficili sono qui per restare...Amen è tutto ciò che abbiamo da dire", e 'Orpheus Descending' un latin funky che sembra uscito dalla penna di Stephen Stills e dove si scappa in cerca di salvezza, sarà troppo tardi o siamo ancora in tempo? "L' oscurità ci ha trovato, con il sangue fino alle nostre ginocchia".

"Il giorno del giudizio" segna anche le liriche di 'Understand Reverence' altro numero alla Tom Waits, solo pianoforte e violino, atmosfere notturne che la elevano tra i picchi di un disco, personale ma sociale, registrato e prodotto da lui stesso nel suo Belmont Mall Studio nell'Indiana con l'aiuto dei fidati Andy York, Lisa Germano, Dan Clark, Troye Kinnett.

Pochi, veramente pochi come lui: una integrità artistica da invidiare e insegnare.





domenica 11 giugno 2023

RECENSIONE: BEN HARPER (Wide Open Light)

BEN HARPER  Wide Open Light (Chrysalis Records, 2023)



pensieri in solitaria

Era un bel disco Bloodline Maintenance, quasi ostico, tanto personale (dedicato al padre e alla ancora fresca ferita per la perdita dell'amico Juan Nelson) quanto combattivo in alcune stoccate inflitte alla politica USA. A un solo anno di distanza, a confermare un'ispirazione alta e prolifica , Ben Harper ne confeziona un fratello per certi versi ancora più sorprendente. Un fratello completamente acustico, spogliato di quasi tutti gli strumenti presenti nel precedente: ci rimangono Ben Harper uomo, le sue storie molto intime e personali raccolte nel tempo e legate l'una con l'altra, una chitarra acustica, qualche amico ospite (Jack Johnson in 'Yard Sale', Piers Faccini a ricamare di chitarra nella title track, Shelby Lynne ai cori in '8 Minutes') e due strumentali ('Heart And Crown' e 'Thank You Pat Brayer') ad aprire e chiudere il discorso.

Folk ridotto all'essenziale con una lap steel protagonista a rievocare quei fantasmi che ci accompagnano per tutta la vita, in  'Giving Ghosts', registrata live in Australia, dove canta "ogni giorno assomiglio un po' di più a mio padre e ogni giorno assomiglio meno a me", acquerelli soffici come un abbraccio che invitano a vivere il presente ( 'Masterpiece' cantata con una sensibilità cara a Cat Stevens). 

Wide Open Light cammina con delicatezza sui generi, ci parla di amore in 'Love After Love' (canzone più ricca di strumenti) dove l'amore è  visto "come l'ultima risorsa rinnovabile" ma anche di abbandoni (in 'Yard Sale' si chiede se è troppo tardi per il "sesso d'addio"), del tempo come prezioso alleato (il valzer folkie che sfocia nel gospel 'One More Change'), sembra pure citare Bob Dylan periodo New Morning in 'Growing Growing Gone', e poi ci sorprende con una jazzata 'Trying Not To Fall In Love With You' condotta in solitaria al pianoforte, canzone folle da piano a tarda notte quando i freni inibitori sono completamente fuori uso, tra Tom Waits e Randy Newman. 

Un riflessivo ritorno alla semplicità  delle origini, un dialogo soffuso e intimo con se stessi, : "c'è stato un tempo in cui gli album non avevano bisogno di una storia o di una favola. Quando bastavano le canzoni". E qui dentro di canzoni ce ne sono di buone. 





sabato 3 giugno 2023

RECENSIONE: RIVAL SONS (Darkfighter)

RIVAL SONS  Darkfighter (A Low Country Sound/Atlantic, 2023)



conferme, senza bisogno

Tra le tante band devote all'hard rock revival dei seventies apparse sulla scena negli ultimi quindici anni i californiani Rival Sons non li ho mai messi in discussione. Li ho adottati fin dal primo disco e ora che sono arrivati al traguardo del settimo posso dire con tutta tranquillità che non hanno mai sbagliato un colpo. La conferma mi era già arrivata durante un loro concerto, uno degli ultimi visti prima che il lockdown chiudesse le porte in faccia a tutti  per un po'. Ma è proprio la pandemia ad aver dato lo spunto al tema che lega le nuove otto tracce di questo Darkfighter. Perché per quanto oggi ci sembrino lontani, quei giorni continuano a lasciare strascichi, ricordi e purtroppo anche malanni ben camuffati.

"Getta un'ombra, parla di tutta la divisione che abbiamo attraversato negli ultimi anni, è emozionante, molto personale" hanno raccontato del disco.

Un disco dalla tematiche scure legate all'isolamento che anticipa di pochi mesi una seconda uscita dall'umore più disteso e positivo: si intitolerà Lightbringer.

Ecco cosa ha detto recentemente il chitarrista Scott Holiday in un' intervista:" ci piace fare album, non singoli, e penso che questo ci renda un po' diversi – nel genere in cui ci troviamo, siamo una delle poche band che vogliono fare album. È il modo della vecchia scuola. Metti il ​​disco, siediti, prendi il vinile, sali sulla giostra. Al giorno d'oggi è troppo facile scegliere semplicemente le canzoni e inserirle in una playlist".

Il pregio che distingue i Rival Sons da tanti altri gruppi che indirizzano lo sguardo al passato è la capacità di tenere l'altro piede nel presente con piccole ma importanti impronte e arrangiamenti perfetti, basti ascoltare l'iniziale 'Mirrors', un concentrato di vecchio blues nero, Led Zeppelin e Free ma con il timbro 2023 impresso sopra.

Prodotto ancora una volta da Dave Cobb, Darkfighter presenta una freschezza tutto sommato invariata rispetto agli altri dischi: 'Nobody Wants To Die', la più rock’n’roll in scaletta, ha tutte le caratteristiche di quei brani epici capaci di cavalcare le epoche. E il bel video che la accompagna fa il resto.

Jay Buchanan poi è uno di quei cantanti che non ha troppo bisogno di sforzarsi per arrivare là dove i grandi vocalist degli anni settanta arrivavano. Non scimmiotta nessun ed è carismatico il giusto per lasciare sempre un segno del suo passaggio così come la chitarra di Scott Holiday che si destreggia tra hard, blues e acustica, moderno e passato.

Se 'Bird In The Hand' si distingue e pare più di un omaggio ai Queens Of The Stone Age con i quali hanno condiviso il palco in passato, con quel riff circolare che pare uscire dalla chitarra di Josh Homme e 'Bright Light' è un lampo di freschezza da sterminati spazi aperti, quello che si nota maggiormente nelle restanti canzoni è quella voglia di costruire composizioni cangianti ('Rapture', 'Guillotine', 'Horses Breath', 'Darkside') dove elettricità e acustico, scosse e calma apparente si susseguono creando crescendo emozionali che sanno tenerti incollato al disco almeno fino all'uscita quasi imminente del prossimo. Una grande band.





domenica 28 maggio 2023

RECENSIONE: THE COLD STARES (Voices)

THE COLD STARES  Voices (Mascot Records, 2023)



sopra ogni ostacolo

Abbandonata per strada la pesantezza che aveva  segnato il precedente Heavy Shoes (2021), la band dell'Indiana si catapulta in una nuova avventura musicale con rinnovato entusiasmo, una nuova formazione a tre e un suono a tratti più melodico e morbido ma sempre coerente con la loro storia lunga sei album. Ciò che rendeva "pesante" la vita del cantante e chitarrista Chris Tapp sembra lasciato alle spalle una volta per tutte: se non bastava la difficile infanzia che segnò i primi duri anni di vita, Tapp ha recentemente vinto la sua lotta con un tumore che invece ne ha minato gli ultimi anni anche se ispirato i testi.

"Una volta che hai vissuto l'esperienza di guardare la morte, sai che il tappeto può essere strappato da sotto i tuoi piedi in qualsiasi momento. Inizi davvero a trattare ogni spettacolo come se potesse essere l'ultimo" ha raccontato recentemente. Voices vede l'entrata in formazione del bassista Bryce Klueh che si va così  unire ai veterani Tapp e Brian Mullins (batterista) dando al suono più profondità, meno spigolosità heavy e una maggiore ricerca melodica  nonostante i temi affrontati oscillino sempre tra i lati della vita meno baciati dal sole.

Se l'hard blues iniziale 'Nothing But The Blues', la "fuzzosa" 'Voices', il funky di 'Light Out', le influenze hendrixiane che segnano canzoni come 'It's Heavy' e 'Come For Me', l'amore per i Cream dichiarato in  'Got No Right', li tengano ancora uniti al passato, le aperture melodiche di 'The Joy', della notturna 'Sorry I Was Late', dell'acustica 'The Ghost', della psichedelica 'Sinnerman' e della scura 'Waiting On The Rain', tratteggiano nuove strade che rendono la loro proposta più varia e meno monolitica. Registrato in due soli giorni con il produttore Mark Needhan per preservare tutta l'autenticità riversata sopra ai palchi durante i live, i Cold Stares rimangono una delle realtà hard blues più convincenti dell'attuale panorama musicale. Senza fronzoli, senza alzare troppo la voce ma con tanto sudore, dedizione e vita da raccontare. Fino a ieri erano un duo che aveva il suono e l'attitudine dei migliori power trio, da oggi lo sono a tutti gli effetti.





domenica 21 maggio 2023

RECENSIONE: GRAHAM NASH (Now)

GRAHAM NASH  Now (BMG, 2023)


vivete! Ora!

Leggendo l'autobiografia Wild Tales di Graham Nash uscita qualche anno fa, due personaggi, musicisti e amici occupano tante pagine: uno è David Crosby naturalmente, l'altro è Allan Clarke, primo compagno di banco alla Ordsall Board Secondary Modern a Manchester, primo amico di  ascolti musicali, primo compagno di band negli Hollies. "Un giorno, a scuola, la mia vita musicale cambiò per sempre" scrive Nash. La musica la scoprirono insieme, in diretta, giorno dopo giorno con i dischi di Elvis, Gene Vincent, i Crickets, Everly Brothers, Buddy Holly. Insieme, appena quindicenni, videro pure il primo concerto rock'n'roll, Bill Haley all'Odeon Theatre di Manchester nel Febbraio del 1957. 

E insieme li ritroviamo oggi, in una canzone nel nuovo disco di Graham Nash, uscito a distanza di sette anni dal precedente This Path Tonight che ne sanciva una nuova rinascita dopo la separazione dalla moglie Susan Sennett (38 gli anni di matrimonio) e l'incontro con la nuova e giovane fiamma Amy Grantham. 'Buddy's Back' ritorna indietro ai tempi delle prime scoperte musicali nel testo e guarda agli Hollies nella musica. E la collaborazione tra i due è proseguita nel nuovo album solista di Clarke (I'll Never Forget) dove Nash ha lasciato la sua impronta in molti brani.

"Siamo amici da quando avevamo 6 anni. Allan ha perso la voce e dopo un po' ha dovuto lasciare gli Hollies. L'ha recuperato e mi ha chiamato un giorno di recente e ha detto: 'ho trovato la mia voce. Voglio fare questo disco da solista' "  e l'hanno fatto.

È un bel disco Now. Un concentrato di carriera tra passato e presente,  privato e pubblico, di ballate e qualche scatto rock. Nash ha tagliato il traguardo degli 81 anni ma mantiene l'aria giovanile e lo sguardo disincantato ma sempre maturo che negli anni d'oro gli hanno permesso di fare da collante tra le varie personalità degli artisti con i quali ha condiviso tempo, musica, sogni e utopie. Su 'I Watched It All Come Down', composizione segnata dalla presenza degli archi, pare guardare proprio agli anni trascorsi con David Crosby, Stephen Stills e Neil Young.

"Credo sia l'album più personale mai realizzato prima d'ora. A questo punto della mia vita, ho qualcosa da dire" ha lasciato detto presentando il disco. E gli si può credere ascoltando canzoni come la confessionale 'Right Now' che apre il disco ("sto vivendo la mia vita, ora" canta), o l'amore cantato in 'Love Of Mine', delicato canto per armonica e Wurlitzer suonato dal fidato Todd Caldwell anche co produttore del disco insieme a Nash, 'In A Dream' composizione arrangiata per archi, 'It Feels Like Home' ballata chitarra e armonica che inevitabilmente rimanda a 'Our House', nella delicata 'Follow Your Heart' e in 'When It Comes To You'. In 'A Better Life' sembra riprendere un classico tema che non ha mai abbandonato. Che mondo lasceremo alle future generazioni?

Ma se Nash non hai smesso di amare non ha nemmeno mai smesso di lottare, di guardare il mondo che lo circonda, osservarne le stranezze e le incongruenze. Là dove c'erano canzoni come 'Chicago' e 'Military Madness', oggi ci sono canzoni come la graffiante 'Stand Up', un inno di resistenza con le chitarre di Shane Fontayne in bella evidenza, 'Golden Idols' e 'Stars and Stripes', travestita come una carezzevole ballata ma dichiaratamente contro Donald Trump e il suo slogan Maga. 

Ascoltando il disco vengono in superficie numerosi e inevitabili rimandi a dischi come Songs For Beginners e Wild Tales, a volte voluti, anche casuali ma che sembrano, cinquant'anni dopo, confermare quanto Graham Nash non ci abbia mai fregato ma piuttosto insegnato che si può arrivare al punto anche senza alzare mai la voce, facendo buon uso di raffinatezza e gentilezza. "Voleva cambiare il mondo", qualcosa gli è riuscito, qualcosa no e questo disco ne è la testimonianza più diretta. 

Ha vissuto una vita intensa Nash tra musica, arte e fotografia e oggi a 81 anni non sembra aver perso nulla rispetto a quel ragazzo inglese che nel 1966 lasciò i grigi sobborghi di Manchester per volare a L.A. e scrivere un pezzo di storia della musica americana ancora lontana dalla parola "fine". 

Perché  sta vivendo ancora la sua vita, ora! E il monito sembra proprio quello: vivete giorno dopo giorno, anche a 80 anni ci sono cose belle da raccontare.