Se nel 1978 avessi avuto quattordici anni mi sarei innamorato perdutamente di Nicolette Larson. Tutto sommato è quello che avvenne dieci anni dopo con Edie Brickell. Ho sempre pensato che si assomigliassero, fisicamente. Riguardandole oggi, però, non è poi così vero. Quando la Larson, nativa del Montana, incise q...uesto primo disco solista, alle spalle ha già alcune importanti esperienze in studio come corista in California (le più importanti con Commander Cody e Jesse Colin Young), ma la vera svolta per la sua vita artistica arriva per pura coincidenza quando la già affermatissima Emmylou Harris non si rende disponibile per le registrazioni di AMERICAN STARS ‘N BARS (1977) di Neil Young. L’amica cantante Linda Ronstadt suggerisce a Young il nome dell’allora venticinquenne Larson. La Larson non si fece pregare e raggiunse lo studio preparatissima. Sono così della coppia Rondstadt-Larson (le “Saddlebags”) i tanti cori che possiamo sentire in ‘Old Country Waltz, ‘Saddle Up the Palomino’, ‘Bite the Bullet’ e altre. Passa un anno e la Larson si prende ancora più spazio all’interno di un disco del canadese: è quel COMES A TIME che vuole recuperare le atmosfere country del grande successo HARVEST. Nicolette Larson arriva a duettare nel blues ‘Motorcycle Mama’, lasciando il suo personale graffio. Ma sarà la sua versione del perfetto pop country ‘Lotta Love’ di Neil Young, che praticamente esce in contemporanea con la versione ufficiale contenuta in COMES A TIME, a farla conoscere al grande pubblico, arrivando a toccare le vette delle classifiche. NICOLETTE è un album estremamente vario, fatto di cover e due nuove canzoni tra cui la bella ‘Give A Little’, in grado di mettere in mostra le sorprendenti sfumature della sua voce: intorno al tanto soft rock (‘Rhumba Girl’) spiccano numeri R&B (‘You Send Me ‘ di Sam Cooke) e qualche country (‘Come Early Mornin’ di Bob McDill). Tanti e importanti anche i musicisti coinvolti: alcuni membri di Little Feat e Doobie Brothers, l’amica Linda Rodstadt e perfino l’astro nascente della sei corde Eddie Van Halen, chitarra in ‘Can’t Get A Way From You’.
Nicolette Larson proseguirà la sua carriera solista senza mai più raggiungere le fortune di ‘Lotta Love’, unitamente a quella di corista (la sua voce la possiamo trovare in tantissimi dischi west coast degli anni settanta ma non solo), sposerà il batterista Russ Kunkel da cui avrà una figlia, fino alla prematura scomparsa avvenuta a soli quarantacinque anni per le complicazioni di un edema cerebrale. Ci sono pure due importanti apparizioni nella tv italiana: -Nel 1978 una emozionata Larson è ospite a Domenica In, presentata da Corrado così: "Nicolette Larson è la più giovane di quella famiglia americana che comprende superstar come Neil Young e Linda Rondstadt, cioè quella famiglia americana che ha portato quel nuovo suono americano al crocevia tra il rock e la tradizione". Vabbè aggiungo io. Poi Corrado tirò fuori un metro e le misurò la lunghezza dei capelli: 103! Naturamente cantò 'Lotta Love'." -Nel 1990 partecipò al Festival di Sanremo riproponendo la versione inglese (‘Me And My Father’) di ‘Io e Mio Padre’ di Grazia Di Michele, negli anni in cui al festival si decise di ritornare alla vecchia formula degli anni sessanta, quando ad ogni cantante italiano si accoppiava un interprete straniero.
Ci sono dischi che entrano in circolo subito, senza chiedere permesso. Che prendono fuoco all’istante. Bruciano. Rendono gli occhi luminosi. RUMINATIONS di Conor Oberst è uno di questi, nonostante l’ascolto preveda un buon impegno e la situazione adatta. La mia parentesi di vita è la situazione adatta. È stato scritto e registrato da Oberst in pochi giorni durante un auto esilio in pieno inverno (quello del 2015) rinchiuso nella sua casa ad Omaha in Nebraska. Rifugio sicuro per fuggire dal mondo e riprendersi dalle batoste della vita (dalle pesanti accuse di violenza carnale piombatigli addosso all’improvviso, poi smentite e ritirate, alla diagnosi di una ciste al cervello, ad una depressione sempre dietro l’angolo). Un disco nato per caso, durante le ore della notte, mentre la legna alimentava il fuoco e la neve faceva scomparire il paesaggio fuori, cancellando le ultime orme di vita prima del lungo letargo. Un pianoforte, una chitarra acustica, un’armonica e testi personalissimi che compongono un autoritratto crudo e sincero, a tratti persino disturbante. Minimale. Folk. In giro si leggono già paragoni pesanti e ingombranti: il Nebraska di Conor Oberst, il Blood On The Tracks di Conor Oberst. Semplicemente il Ruminations di Conor Oberst. Bellissimo (preso a piccole dosi durante la giornata).
Il GREATEST HITS uscito nel 1993 oltre a diventare, con il tempo, un campione di vendite, sancì la fine della collaborazione con l’etichetta MCA. Ma proprio nel fondo di quella raccolta brillavano due brani inediti (‘Mary Jane’s Last Dance’ e la cover ‘ Something In The Air’) che scrivevano il nuovo presente e il prossimo futuro di TOM PETTY & The HEARTBREAKERS: la collaborazione con il produttore Rick Rubin e il passaggio alla Warner Bros. La precedente, ricca e colorata produzione di Jeff Lynne viene accantonata, favorendo la semplicità (‘Only A Broken Heart’, i ’60 di ‘A Higher Place’, la stupenda’ It’s Good To Be King’), l’immediatezza folk (‘Wildflowers’, ‘To Find A Friend’ con Ringo Starr alla batteria),ma anche quella ruvidezza (‘Honey Bee’, ‘You Wreck Me’) che tanto spopola in quei primi anni novanta a Seattle e dintorni. Il risultato è immediato: WILDFLOWERS si gioca il podio della sua produzione con DAMN THE TORPEDOES. Un album solido e coeso pur mettendo in luce tutte le influenze musicali di una carriera, lo zenit assoluto di Petty che rincorre il tempo con ottimismo, raggiungendo la maturità assoluta al traguardo. Pur uscendo senza il monicker degli HEARTBREAKERS in copertina, i fidi compagni di sempre ci sono eccome e a Mike Campbell spetta il compito di collaborare anche in produzione. Tra i miei dischi fondamentali degli anni ’90 (e oltre). Aspettando All The Rest…ossia tutto quello che è
rimasto nei cassetti.
TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS- Echo (Warner Bros, 1999)
Spesso dimenticato, nonostante vendite rispettose e buone critiche, ECHO rimane uno dei dischi più personali, amari e sinceri di Tom Petty, anche se portato a termine in fretta e furia per rispettare alcuni impegni già presi. Un disco di cicatrici e adii. Il capolavoro nascosto che pure l’autore ha rinnegato per troppo tempo, salvo poi rivalutare quando le acque iniziarono a calmarsi, gli orizzonti ritornarono ad essere ben a fuoco e le cicatrici diventare dei brutti segni da guardare con rispetto. Troppo tardi per rimediare a certe cose (nessun video, nessun singolo traino, poche canzoni vennero eseguite nei tour in seguito), ma mai per apprezzarlo come merita. Certo: arrivare dopo un capolavoro come WILDFLOWERS (1994) (in mezzo la colonna sonora di SHE’S THE ONE), un’anonima, sfocata e triste copertina in bianco e nero, la separazione dalla moglie Jane Benyo dopo vent’anni di matrimonio (Petty attacca il disco con ‘Room At The Top’ dove recita “I wish I could feel you tonight, little one.You're so far away. I want to reach out and touch your heart. Yeah like they do in those things on TV, I love you. Please love me, I’m not so bad , And I love you so”, anche ‘Lonesome Sundown’, ‘Free Girl Now’, ‘Echo’ parlano di questo), le condizioni di salute del bassista Howie Epstein-nemmeno presente nello scatto di copertina- sempre più trascinato in basso dalla droga che lo portò nel baratro senza uscita dell’overdose nel 2003, non aiutarono la promozione del disco ma furono una buona fonte d’ispirazione per ben quindici canzoni (forse troppe? Ma tutte dannatamente buone), in bilico tra vero malessere e velata ironia, che lo stesso Petty non esiterà a definire le più oscure della sua carriera.
Tutte nate dopo un periodo di forte depressione: “ho preso dei duri colpi, mi sono ritirato dal mondo per vivere nella mia piccola capanna. Non ho visto gente per un sacco di tempo. Non ero felice, e non volevo farmi vedere. Anche quando ero in pubblico, non volevo essere lì. È una sensazione terribile. Mi ci è voluto un po' per ritrovare la voglia di tornare." Racconterà Petty a USA Today. Rick Rubin aiuta ancora in produzione, per la seconda e ultima volta. Un disco che si divide tra ballate e rock'n'roll con pochi fronzoli, eseguito con l’antico e ruvido piglio da garage band. Negli Heartbreakers c’è da segnalare l’entrata in pianta stabile del polistrumentista Scott Thurston (Iggy And The Stooges, Jackson Browne e tanti altri nel suo curriculum). Un buon giro in giostra per assaporare gli umori di ECHO potrebbe essere l’ascolto, a metà disco, dell’accoppiata ‘I Don’t Wanna Fight’ cantata, straordinariamente, da Mike Campbell (straordinario pure il suo lavoro chitarristico in tutto il disco) e ‘This One’s For Me’ dove escono tutte le inconfondibili influenze Byrdsiane di sempre.
It's Just Another Town Along The Road, tappa 1 (Firenze-Ravenna, distanza 190 km)
GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALSDirty Boulevard (Black Candy, 2016)
Si parte da Firenze, appuntamento sulle rive dell'Arno dove incontriamo i musicisti più esperti, forse anche più vecchi (scusate, quando ci vuole, ci vuole) di questa prima tappa: Iacopo "Jack" Meille, cantante con in piedi in mille attività, la più importante è sicuramente la sua presenza dietro il microfono degli inglesi Tygers Of Pan Tang (appena usciti sul mercato con il nuovo album), Alessandro Nutini, batterista con gran cervello dei Bandabardò, la chitarra che segna tutto il disco del generale Fabio Fabbri , il basso esperto di Richard Ursillo già nei Sensation Fix e Campo di Marte e Pacio al piano e organo.
La passione per l'hard rock/blues degli anni settanta tiene tutto insieme ancora una volta, ma spesso e volentieri le strade portano verso alcuni lidi americani più tranquilli, a volte stonati (è il caso di 'Thank You Bob', con la voce di Ursillo, e indovinate un po' chi è quell'amato Bob? Esatto!) Dirty Boulevard è il loro terzo disco e stanco di ripetermi posso affermare, ancora una volta, che la band toscana rimane una delle realtà classic rock più entusiasmanti che possiate trovare vagabondando tra le strade dell' Italia del rock. Ciò che brilla di più è quell'amore mai sopito per la musica che li spinge con estrema naturalezza a saltare da una sponda all'altra dell'oceano senza perdere colpi, risultando sempre credibili e genuini: ci troviamo così di fronte alle loro influenze british (Free, Uriah Heep) in brani come 'Built To Lust' e 'Going Down To Velvet Underground' e quelle americane ('Piece Of Mind', il rock'n'roll di 'All My Ride', il country folk di 'Starring At My Face', il soul 'A Matter Of Guts And Pride'). Ecco così che mi viene spontaneo rispolverare quella vecchia frase che usai per parlare del loro esordio nel 2011 e diceva più o meno questo: "quando la calda polvere americana del southern/country rock si sparge lungo le verdi vallate dell'hard rock/blues britannico finendo la sua corsa lungo gli argini dell'Arno nasce la musica di questi straordinari cinque musicisti.
In viaggio con i General Stratocuster And The Marshals
1) I km nel vostro disco. IL viaggio ha influenzato le vostre canzoni? Alessandro Nutini: per chi come noi si sente fortemente attratto dall'America e dai suoi spazi l'idea del viaggio è fondante. E anche se magari la nostra visione può essere edulcorata, non di prima mano, derivante da visioni altrui che artisti diversi - non solo musicisti ma anche scrittori, registi o quant'altro - ci hanno quasi inoculato...alla fine quella visione diventa nostra, ed inevitabilmente la nostra produzione artistica non può rimanere indifferente rispetto a ciò che siamo. Iacopo Meille: la musica è "un viaggio". Ricordo quando, adolescente, sono andato in Inghilterra. Prendendo il treno per Canterbury e guardando dal finestrino sono tornate in mente le note di "heavy horses" dei Jethro Tull e "Meet On The Ledge" dei Fairport Convention. Il viaggio mentale trovava conferma nei profumi, colori e paesaggi che stavo vedendo. I miei ricordi sono stati influenzati dai viaggi e così di conseguenza i testi delle canzoni che ho scritto.
2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove tornate spesso e volentieri? Alessandro Nutini: ho sempre avuto la fortuna di suonar molto dal vivo e, anche se adoro lavorare in studio, per me il viaggio è davvero parte integrante e fondamentale del divertimento. Non potrei davvero fare a meno dei concerti e di tutto quello che c'è intorno. Per questo anche in un paese come l'Italia, pieno di difficoltà e contraddizioni, gli aspetti positivi superano sempre quelli negativi in ragione di quel paio d'ore di gioia che provo quando suono dal vivo. Li passa tutto, anche le eventuali beghe organizzative o le sfighe varie che possono accadere, ad ogni livello tu faccia questo mestiere. Ed è bello, bellissimo tornare. Ogni volta, ovunque, tornare dove sei già stato e ritrovare le facce della volta prima, che tornano a sentirti. Iacopo Meille: Faccio musica per suonarla dal vivo. Non potrebbe essere altrimenti. La vita on the road è imprescindibile. Troppi i luoghi da ricordare, ma di sicuro il Velvet Underground di Castiglion Fiorentino, La Grange di Mondovì e La Piola di Borgiallo. Non me nè vogliano gli altri.
3) Radici o
vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita? Alessandro Nutini: Beh, questa è la più rapida...ho 46 anni, non sono sposato e non ho figli. Diciamo che ancora non mi sento pronto per certe cose, mi piace ancora l'idea di occuparmi solo di me stesso. Un'esistenza molto centrata sui miei bisogni, un po'egocentrica se vuoi, ma felice e sincera. Ancora però mi piace troppo non avere nessun tipo di vincolo, assaporo la libertà ogni giorno passato così. Iacopo Meille: Firenze è una bellissima città da cui fuggire di tanto in tanto per poi provare l'emozione quando ritorni. La vista dell'Arno e dei suoi ponti non ha eguali per me.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Alessandro Nutini: Avrei voluto vedere tanta di quella gente, suonarci poi. Da tempi della Chess Chicago fino ai Clash faccio fatica a scegliere, poi magari per i miei gusti diventa tutto un po' più semplice, nel senso che si entra nella modernità. Lo so, faccio ridere, ma i Clash per me sono un gruppo "nuovo" ahahahah Comunque per dirne uno, non mi sarebbe dispiaciuto salire sul palco con la Rolling Thunder Revue, ecco. Invio subito, così non cambio idea dieci volte al minuto.
Tra vent'anni spero di essere come adesso, in essenza...cioè di fare quello che avrò voglia di fare, sia quel che sia. Non posso vedere il futuro, neanche se ci sarà. Non ci penso troppo per la verità. Iacopo Meille: Mi sono tolto un bel po' di soddisfazioni negli anni ma credo che mi sarebbe piaciuto aprire per un qualsiasi tour di Robert Plant. Tra vent'anni continuerò a suonare e a scrivere musica. Acciacchi permettendo.
5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i vostri spostamenti.
Alessandro Nutini: negli ultimi anni quando viaggio - più che una canzone - ci sono alcuni album che non lascio mai. Sono gli American Recordings, specialmente il III. Li trovo adatti ad ogni viaggio e ad ogni momento, da quelli più limpidi fino agli invitabili istanti più crepuscolari, perché in viaggio ci sono anche quelli. La voce di Cash riesce ad essere adatta ad una miriade di stati mentali, o forse dovrei dire spirituali. È una calda coperta quando hai freddo, e una frusta quando devi saltare Icopo Meille: 'After the Gold Rush' - Neil Young
'Long Gone Before Daylight' - The Cardigans
'The Who Hits 50!' - The Who
Con il duo ravennate ci spostiamo a est di Firenze, fino a raggiungere la costa adriatica, seconda meta di questa prima tappa, mentre loro arrivano a bissare il primo disco HAPPY ISLAND, un lavoro che ha ottenuto buoni riscontri da parte di critica e pubblico, tanto da attirare l'attenzione dell'etichetta Route 61 di Ermanno Labianca, che ristampò quell'esordio e che prosegue la collaborazione con rinnovato entusiasmo. E di entusiasmo Luca "Hernandez" Damassa (voce e chitarre) e Mauro "Sampedro" Giorgi (chitarre e seconda voce) sembrano averne da vendere pur scegliendo di viaggiare nella corsia di mezzo tra i chiaro scuri della musica e dei sentimenti umani.
Rispetto all'esordio, la sostanza musicale cambia comunque poco, se non per la scelta di creare una sorta di personale Rust Never Sleeps in salsa romagnola a stelle e strisce, dividendo le canzoni in due lati ben definiti. Da una parte (Acoustic Side) cinque canzoni acustiche, dall'altra (Electric Side) cinque canzoni dal taglio rock ed elettrico (ricordando il passato stoner grunge), tenendo sempre fede al filo conduttore che tiene unito tutte le canzoni: la dicotomia. Un disco di contrasti dunque: di tematiche e di suoni. Le loro strade a differenza dei sopracitati General Stratocuster And The Marshals portano tutte verso la musica americana: impasti vocali alla CSNY, Byrds, America ('Rainbow'), la velata nostalgia country in stile Harvest di Neil Young ('Time To Go'), l'elettricità da garage rock dei Crazy Horse ('Hate & Love', 'Rise Up'), il western strumentale ('Morricone'), e gli amati REM sono sempre i punti di riferimento più marcati. Da segnalare la presenza in 'Everywhere In The World' (Acoustic Side) della cantautrice americana Mary Cutrufello e la sua inconfondibile voce che segna il finale della canzone. Autrice di un buonissimo ritorno discografico uscito l'anno scorso, e che ha diviso il palco con il duo durante l'ultimo tour italiano. Da qui l'amicizia e la collaborazione.
In viaggio con Hernandez & Sampedro
1) I km nel vostro disco. Il viaggio ha influenzato le vostre canzoni? Luca Hernandez: il viaggio è la vita del musicista. Si percorrono km e km ascoltando musica ( sempre più spesso il luogo in cui si ascoltano i cd è proprio l'auto) in attesa di arrivare sul luogo del concerto e in attesa di tornare a casa.
Durante il viaggio nascono gli spunti per nuove idee, si incontrano persone nuove, si ascoltano racconti. Sicuramente il viaggio ha influenzato in parte questo disco. 2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove tornate spesso e volentieri? Luca Hernandez: il tour è la parte più bella di un disco, è il momento in cui ti confronti sia con te stesso che col pubblico è adrenalina, sudore e soddisfazione. In Italia è sempre più difficile, ma penso come nel resto del mondo. Purtroppo c'è sempre meno interesse, attenzione e curiosità verso l'arte in generale. Noi ci riteniamo molto fortunati perchè abbiamo un pubblico davvero caloroso che ci segue durante i nostri "viaggi".
I luoghi dove abbiamo riscosso maggior calore sono sicuramente La Romagna (giochiamo in casa) ma anche Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Anche nel nostro primo minitour in Germania abbiamo trovato un pubblico speciale. 3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita? Luca Hernandez: nella mia vita hanno sempre prevalso le radici, ma ho sempre sognato e a volte provato il vagabondaggio.. chissà se un giorno il vagabondaggio avrà la meglio?! 4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni? Luca Hernandez: beh gli artisti sono davvero molti...sicuramente Sampedro avrebbe voluto aprire Neil Young, suo idolo da sempre. Io avrei voluto aprire i Pearl Jam ( magari un giorno duettare con Eddie Vedder) oppure Bowie. Fra vent'anni vorrei essere proprio come il mio socio Sampedro (abbiamo esattamente vent'anni di differenza), vorrei credere ancora in ciò che faccio, vorrei avere ancora passione per la musica, per la mia musica, vorrei guardarmi alle spalle e vedere si errori, ma sapere di non essermi mai svenduto. Vorrei essere credibile, coerente e ancora felice.. 5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i vostri spostamenti. Luca Hernandez: sulla macchina di Sampedro non manca mai Neil Young, la mia è molto più variabile, ma sicuramente un live dei Pearl Jam, un album di Bowie ( molto probabilmente Ziggy Stardust) oppure Social Distortion o Rem...come canzone che mette d'accordo entrambi potremmo essere una a caso di Bruce Springsteen da Born to Run a Born in the Usa.
GRANT-LEE PHILLIPS The Narrows (yepROC Records, 2016)
☆☆☆☆☆
Arrivo un po' in ritardo, ma credo fosse giusto segnalare quello che per me rimane uno dei dischi più ispirati usciti quest'anno in ambito Americana, unitamente a THE WESTERNER di John Doe. I tempi dei Grant Lee Buffalo e dei loro dischi più rappresentativi FUZZY (1993) e MIGHTY JOE MOON (1994) sembrano un lontano ricordo da raccontare a figli e nipoti. La carriera solista, giunta all’ottavo disco, si è invece trascinata tra alti e bassi per troppo tempo ma questa volta Grant-LeePhillips decide di spingersi ancora più indietro per rinascere artisticamente: riparte da Nashville, lì ha scelto di vivere dopo anni trascorsi a L.A., per ritrovare il suo passato e quello remoto dei suoi antenati pellerossa Cherokee. Ne esce uno dei migliori dischi in carriera dove gli ultimi diventano i primi, dove si riflette in modo amaro sulla morte (il disco è dedicato al padre scomparso tre anni fa) e sull’importanza di luoghi (‘Tennesse Rain’) e radici (‘Mocassin Creek’). Le ballate acustiche lente, ipnotiche, nostalgiche e bagnate da lacrime e polvere (la bella ‘Cry, Cry’) fanno più rumore di tante chitarre, che però ogni tanto sembrano ripresentarsi con forti accenti southern (‘Rolling Pin’) o per galoppare sul vecchio cavallo sellato a rockabilly (‘Loaded Gun’). Ad accompagnarlo solo la batteria di Jerry Roe e il basso di Lex Price. Un ritratto estremamente personale e veritierio impresso su disco. Tra le storie che hanno girato di più nel mio stereo in questi primi dieci mesi dell'anno.
E' difficile descrivere a parole quel misto di eterea nostalgia e ribelle provocazione che l'ascolto dei testi di IVAN GRAZIANI mi hanno sempre provocato. Più di qualunque altro cantautore italiano, nonostante l'ascolto delle sue canzoni sia più saltuario rispetto a tanti altri (De Gregori, De André, Fossati, Rino Gaetano). La sua grazia ribelle, ma allo stesso tempo nostalgica e fortemente radicata nel quotidiano, il suo romanticismo delicato quanto, a volte, sanamente sboccato, la sua autoironia mi hanno sempre lasciato qualcosa dentro, qualcosa di assolutamente inspiegabile.Ho provato a capirci qualcosa qualche anno fa a Barolo (CN), quando suo figlio Filippo Graziani, che ha fortemente voluto il disco tributo, si è presentato sul palco prima di un colosso come Patti Smith e ha cantato le canzoni del papà. I risultati furono solo piccole (grandi) scosse di brividi ascoltando 'Firenze', 'Pigro' e 'Lugano Addio'. Mi feci bastare queste vibrazioni e lasciai da parte le domande.O come quel Sanremo del 1985, a cui partecipò con poca convinzione. Quando i suoi grossi e caratteristici occhiali colorati, la sua amata chitarra elettrica (qualcuno avrà un occhio di riguardo per lei, ora?) e il testo di quella fuga d'amore assolutamente in linea con la tradizione rock'n'roll tra ricordi, speranze, murales, ferrovie, vagoni, polizia e un padre incazzato nero nel pop di 'Franca, Ti Amo' mi avevano fatto capire che Graziani era fuori dal comune, e sperare. Sperare che la sua canzone potesse arrivare a vincere quel Festival. Avevo dodici anni e sognavo il rock and roll.
Foto: Cesare Monti
Che delusione vederlo al diciassettesimo posto, poco più in alto di Eugenio Finardi, Mimmo Locasciulli, New Trolls, Zucchero e Garbo. Solo anni dopo capii che gli ultimi di quella classifica sarebbero diventati i primi nella mia. Questa è l'Italia delle canzonette. A Sanremo ci tornò nel 1994 con 'Maledette Malelingue'. Andò meglio.Quando nell'adolescenza i tuoi gusti musicali cambiano come le stagioni, la voce e i vestiti, scopri che dentro l'audiocassetta di IVANGARAGE (1989), comperata per quel titolo così rock, dedica una canzone ai metallari ('I Metallari)', giocando, a suo modo, con i soliti luoghi comuni e tu sei appena tornato a casa con la tua nuova copia di NO PRAYER FOR THE DYING degli Iron Maiden. Un nuovo mito da idolatrare che cantava: "I metallari, condannati a ricucirsi da soli". Quando scopri il sesso e capisci che la sua ostentata, e mai nascosta, ossessione per il corpo femminile con le sue colline bianche e solchi misteriosi, un poco, è anche la tua e quella di tutti i maschietti come te. "Le scarpe da tennis bianche e blu, seni pesanti e labbra rosse ..." da 'Lugano Addio'. "E se tu le vuoi incontrare, uguali come gocce d'acqua Dada la grande e Ivette senza tette, le due cugine strette" da 'Dada'. Il titolo del suo album SENI E COSENI (1981). E poi l'apoteosi finale in 'Poppe, Poppe, Poppe' da MALEDETTE MALELINGUE (1994), il suo ultimo testamento di studio...Oggi, 6 Ottobre 2016, avrebbe compiuto i suoi 71 anni.
Qualche settimana fa, assistendo allo spettacolo teatrale Waterface, dedicato alla “ditch trilogy” di Neil Young (acchiappatelo se vi capita a tiro), mentre passava ‘I Don’t Want To Talk About It’ mi sono domandato: “ma quanto è bella questa canzone?”. Non che avessi bisogno di ulteriori conferme. Esistono cover in grande quantità per capirlo. Dalla prima volta che la ascoltai fino ad oggi, la considero una delle mie canzoni della vita, oppure chiamatela struggente ballata (della vita!) come fa Rod Stewart. Rod Stewart durante il suo primo lungo passo che attraversava l’Atlantico, ne fece una versione che stazionò pure in classifica. “Nel Giugno del 1977 avevo fuori un singolo con due lati A: ‘I Don’t Want To Talk About It’ insieme a ‘The First Cut Is The Deepest’. Due ballate se volete. Il singolo si piazzò al primo posto delle classifiche britanniche per tutto il mese di giugno 1977. E il singolo che restava al secondo posto era ‘God Save The Queen’ dei Sex Pistols. Colpito e affondato”. Così racconta Stewart nell’ autobiografia uscita qualche anno fa. ‘I Don’t Want To Talk About It’ fu scritta da Danny Whitten, un fuoriclasse del rock, ruolo fantasista, che ci ha lasciato troppo presto e con pochi goal nel pallottoliere. Sono proprio le composizioni di Whitten (la straniante e psichedelica ’Look At All The Things’, la galoppante ‘Downtown’ scritta insieme a Neil Young e che poi finirà su TONIGHT’S THE NIGHT, l’oscuro incedere blues di ‘Dirty, Dirty’, la byrdsiana ‘I’ll get You’) a fare da colonna portante a questa prima uscita solista del cavallo pazzo. La forte personalità di Whitten aleggia in tutte le undici tracce pur se complessivamente frutto di un lavoro collettivo . I Crazy Horse, prima Danny And The Memories, poi Rockets (incisero anche un disco nel 1968 con questo nome), avevano già accompagnato Neil Young in EVERYBODY KNOWS THIS IS NOWHERE (1969) e AFTER THE GOLDRUSH (1970) , ma è in questa prima uscita varia e dinamica tra le infinite praterie del rock, e con questa insuperabile formazione, che dimostrarono un potenziale altissimo, e un futuro che sembrava già scritto: diventare uno dei gruppi guida del country rock degli anni settanta. Oltre a Whitten c’erano Billy Talbot al basso, Ralph Molina alla batteria (sua la voce nel contagioso country bluegrass ‘Dance, Dance, Dance’ scritta da Neil Young e che arriverà poi alle orecchie del nostro Roberto Vecchioni, che si prese la musica per la nota ‘Samarcanda’), l’allora giovanissimo Nils Lofgren alle chitarre e firma in 'Nobody' e del rock ‘Beggars Day’ dove canta, il già esperto Jack Nitzsche, produttore, pianista e autore (l’iniziale e roboante ‘Gone Dead Train’-quanto Tom Petty in questa canzone!-e il finale honk tonk ‘Crow Jane Lady’ a cui presta pure la voce). Infine, l’importante chitarra slide di Ry Cooder e il violino di Gib Gilbeau come ospiti.
Nel Novembre del 1972 l’eroina ben travestita da overdose di alcol e valium portò a termine il suo sporco gioco ai danni del ventinovenne Whitten (che nel frattempo, prima del tour di TIME FADES AWAY, fu cacciato dalla band dallo stesso Young con un biglietto da 50 dollari in regalo, destinazione Los Angeles), i Crazy Horse continueranno e incideranno altro ma per tutti rimarranno solo e per sempre il gruppo di Neil Young. “I Crazy Horse stanno a Neil Young come The Band stanno a Bob Dylan” dirà Jack Nitzsche. Il resto della storia la conosciamo: dai qui in avanti tutto giocò, cinicamente, a favore dell’ispirazione di Neil Young (tornando alla “Ditch Trilogy” iniziale) che però… Nella sua autobiografia ‘Il Sogno Di Un Hippie’ chiude il cerchio e cerca di rimarginare una ferita che sembra ancora bruciare intensamente: “All’epoca pensavo che Danny fosse un grande chitarrista e cantante. Ma non avevo idea di quanto fosse grande. Ero troppo pieno di me per capirlo. Oggi lo capisco chiaramente. Vorrei tanto poter fare tutto di nuovo, così ci sarebbero più cose di Danny”. Un disco spesso sottovalutato, schiacciato tra AFTER THE GOLDRUSH, HARVEST e la forte personalità di Neil Young.
IAN HUNTER & THE RANT BAND Fingers Crossed (2016)
☆☆☆☆
La mia marcia di avvicinamento verso il fine settimana dedicato a David Bowie (sabato ero a Bologna per una mostra che ha messo a dura prova occhi e udito), inizia da questi versi:
“Something is happening Mr. Jones
My brother says you're better than The Beatles or The Stones
Saturday night, Sunday morning
You turned us into heroes
Can you hear the heroes sing?”
che aprono ‘Dandy’, la canzone che Ian Hunter dedica a Bowie, cantata e arrangiata proprio come avrebbe fatto Bowie nel 72 insieme all’altro compianto amico Mick Ronson, la chiusura di un cerchio, il sentito ringraziamento per quella ‘All The Young Dudes’ che il Duca Bianco regalò ai Mott The Hoople nel 1972, rilanciandone di fatto la carriera.
Anche se questa volta nasconde i famosi ricci sotto un cappello (sullo sfondo, in copertina, c’è un’altra foto a ricordarli) a settantasette anni, Hunter conferma lo stato di grazia che lo ha accompagnato negli ultimi dischi usciti dal 2001 a oggi (ricordo Rant, Shrunken Heads, Man Overboard, When I’m President). Dieci canzoni piacevolissime, registrater e prodotte nel New Jersey insieme a Andy York (presente anche con la sua chitarra), sempre in bilico tra lo sfrenato rock’n’roll glitterato british (‘That’s when The Trouble Starts’) e le profonde ballate: ‘Fingers Crossed’ si spinge indietro fino al 1700 per raccontare storie di mare e marinai, l’antica Grecia viene riesumata in ‘Morpheus’. Un continuo alternarsi di vecchie storie e presente.
L’America è dietro l’angolo come sempre, tra gli spiriti dell’amato Dylan (‘White House’,’Bow Street Runners’ che narra la storia dei fratelli Fielding in una Londra del’700), e i Sun Studios a Memphis che hanno ispirato ‘Ghosts’. C’è l’honkytonk di ‘Long Time’, perfino un accenno reggae in ‘You Can’t Live In The Past’. Metà capo banda e metà cantautore, Ian Hunter non delude, dando ancora una lezione di classe rock’n’roll, songwriting lucido e mai banale. Una lezione per i giovani e per qualche vecchietto, più giovane di lui, che vive sugli allori del passato.
Nel precedente disco chiudeva con una canzone intitolata ‘Life’ che recitava così: “Easy come-easy go-just another rock'n'roll show,hope you had a great night/when you get home and climb into bed-just remember what I said/laugh because it's only life".
Rimane ancora il migliore augurio per se stesso e per chi ha ancora voglia di ascoltarlo.
Se poi volete esagerare: è uscito anche un cofanetto (Stranded In Reality) con 30 cd che ripercorre l’intera carriera. Ma oltre alla voglia di esagerare bisogna avere anche tanti soldi da parte.
GERRY BECKLEY Carousel (Blue Elan Records, 2016) ☆☆☆1/2
Gli America non sono mai andati troppo di moda tra quelli che si professavano rocker veri e puri. Peccato. Figuriamoci se può far notizia nel 2016 il disco solista di uno di loro. Se poi il protagonista è il gentile e melodico tocco musicale di Gerry Beckley (voce sempre giovanile e polistrumentista in parecchie canzoni), che da sempre assomiglia al tranquillo impiegato di banca con occhialini a cui affideresti tutti i tuoi risparmi senza porre troppe domande…Io gli ho sempre affidato tanta fiducia ripagata con alcuni dei miei migliori ricordi musicali in adolescenza (il primo e sempre dimenticato disco degli America con indiani in copertina, Holiday, Homecoming, Alibi). Qui, poi, di America (quella musicale) c'è meno del solito. Beckley recupera la metà delle sue origini british, lui nato in Texas da un papà militare dell'aereonautica e madre inglese, cresciuto poi a Londra ma con il successo che lo aspettava nuovamente negli States; e il disco è più nebbiosamente beatlesiano (dalla parte di Paul McCartney) che lucentemente californiano, anche se l’ombra al sole dei più malinconici Beach Boys si materializza spesso, e pure le passate produzioni di George Martin per gli America hanno lasciato qualche segno indelebile e ben rintracciabile. "Ogni progetto è un'istantanea del tempo. Il materiale su CAROUSEL è venuto da un ampio ambito di ispirazione". Racconta Beckley. Trainato dall'ottimo singolo 'Tokyo', anche le tre cover scelte profumano di antico: ‘'To Each And Everyone' di Gerry Rafferty, 'Don't Let the Sun Catch You Crying' di Gerry And The Pacemakers e ‘Nature’s Way’ degli Spirit. Tutto onesto, niente di clamoroso, anzi. Mi piace. L’ho sempre saputo di non essere alla moda. Fin da ragazzino.
BOB DYLAN è appena sceso dalle scale dei suoi personali Rundown Studios a Santa Monica in California. Sembra aver finito le sedute di registrazione programmate in quella giornata. È Aprile, fa caldo e tiene il giubbotto di pelle nero in mano, le maniche della camicia sono arrotolate, ma una sciarpa pende dal collo. Con la testa scruta alla sua sinistra, sembra aspettare qualcuno che lo riporti a casa. Oppure è terribilmente indeciso sul da farsi: da una parte c’è il recente passato (il fiasco del suo film Ronaldo e Clara, il divorzio da Sara), dall’altra c’è l’invisibile soffio del vento musicale che in quel momento sembra tirare da tutt’altra parte. Furono sedute di registrazione velocissime che durarono pochi giorni nel bel mezzo di un tour mondiale, tanto che lo stesso Dylan affermò: “ non riuscivamo a trovare il produttore adatto, così utilizzammo lo studio mobile, e scegliemmo sonorità live”.“Per realizzare STREET LEGAL ci ho impiegato una settimana. L’abbiamo missato nella settimana successiva, e dopo un’altra ancora è stato pubblicato. Se non avessimo fatto tutto così in fretta, non avremmo realizzato proprio un bel niente, poiché eravamo già pieni di impegni on the road”.Quando STREET LEGAL uscì, il 15 Giugno 1978 non fu accolto benissimo dalla stampa: Greil Marcus di Rolling Stone lo definì un album “terribilmente falso”. Lo stesso Dylan non fu soddisfatto dei suoni e del mix che vennero migliorati solamente dopo l’uscita del disco in CD, molti anni dopo. Eppure a quasi quarant’anni dalla sua uscita, si conferma, oltre che uno degli album più sottovalutati della sua discografia, anche uno dei più affascinanti. Almeno per me che lo adoro. Nove canzoni in bilico tra la ballata rock e la black music, con strumenti a fiato, percussioni, cori femminili e la sua voce che cambia, ancora una volta; canzoni cariche di metafore ma che non dimenticano neppure il recente divorzio “misi su il nuovo disco di Bob e ‘Changing Of The Guards’ era la prima canzone…mi commossi fino alle lacrime. Non capirò mai di cosa parlino le sue canzoni, ma sono una mescolanza di tarocchi e simbolismo alla Giovanna D’Arco” dirà Patti Smith, con almeno quattro capolavori come ‘Baby Stop Cryin’, ‘Is Your Love In Vain’, ‘Where Are You Tonight’ e la meravigliosa ‘Senor’ , sporcata dalla polvere di frontiera, che con le sue visioni apocalittiche segnava il primo vero passo verso l’imminente conversione religiosa.
Dirà Dylan: “La critica ha trattato STREET LEGAL in maniera infame. Ho letto una recensione nella quale si affermava che io stavo marciando verso Las Vegas e che stavo copiando Bruce Springsteen perché avevo utilizzato il sassofonista Steve Douglas. Per quanto mi riguarda il paragone con Vegas, beh, credo che quel tizio non sia mai neppure andato a Las Vegas, e la questione del sassofono era proprio tirata per i capelli, anche perché io non copio mai dai tizi che stanno al di sotto dei cinquant’anni. Non avevo nessuna famigliarità con i lavori di Bruce, e il suo sassofonista di certo non parlava la stessa lingua di Steve Douglas: Douglas ha suonato con Duane Eddy, e in tutti i dischi di Phil Spector…”Nella mia Top 5 di Dylan un posto per STREET LEGAL c’è sempre.
"I'd like to dedicate this album to all the people who enjoy my kind of blues and especially to Muddy Waters for giving me the inspiration to do it and for giving the world a lifetime of great blues", scrive Winter nelle note di retrocopertina, mettendoci la firma. Disco importante che segna il ritorno al blues dei primissimi anni, dopo un paio di muscolosi episodi rock insieme a Rick Derringer, che porteranno Winter a dire: “ho suonato più rock di quanto avessi voluto fare veramente”. Mettiamoci dentro un giretto tra le droghe e il gioco (vizioso) è completo. Gran merito di questo ritorno al blues va al lavoro di produzione fatto su HARD AGAIN del suo maestro Muddy Waters, qui presente nella traccia finale 'Walking Thru The Park', l’unica non scritta dal chitarrista albino più nero di tutti. Muddy Waters: “Johnny mi ama, perché ha imparato un sacco di cose ascoltando la mia musica. Gli piaccio personalmente, come amico. Così quando ha sentito che volevamo fargli produrre il mio nuovo disco, beh era tutto quello che lui voleva. Abbiamo formato una piccola famiglia”. La fiamma si riaccende e brucerà perpetua. Winter arriverà a considerare, a ragione, NOTHIN’ BUT THE BLUES uno dei suoi migliori dischi di sempre, quello perfetto, senza fronzoli. Altro merito va alla band, la stessa che accompagna Waters, presente al gran completo: James Cotton (armonica), Bob Margolin (chitarre), Charles Calmese (basso), Willie "Big Eyes" Smith (batteria), "Pine Top" Perkins (piano). Tutto da ricordare. Tra elettrica, Slide e Resonator, Winter non si risparmia: dai momenti acustici (‘TV Mama’) a quelli più elettrici ( 'Everybody’s Blues’, ‘Mad Blues’). E poi chi non avrebbe voluto, ai tempi, passare una serata in sua compagnia : “sono stato fuori ieri notte, baby, stasera vado a farmi una birra” canta in ‘Drinkin’ Blues’. Buona divertimento! "I know what a guitarist should be. He should be just like Johnny Winter. His Slide playing is like a Picasso painting! You know it is Johnny, The Picasso of Blues Guitar!"dice bene Leslie West (Mountain).
Dopo aver ascoltato l’ultimo, buono, dei Blackberry Smoke (in uscita a Ottobre), in mezzo il meno buono dei Cadillac Three (delusione), arriva anche MUD, quarto disco per la band di Palestine, Texas. Mi viene inevitabile il confronto tra le due band che in questi ultimi anni stanno tenendo in alto la bandiera del southern rock americano. A grande sorpresa devo constatare che i WHISKEY MYERS fanno un grande passo in avanti in virtù di un gran cantante con i controcoglioni come Cody Cannon (quello che manca ai Blackberry Smoke, secondo me) che consente loro maggior versatilità nel songwriting e varietà nelle soluzioni musicali. Prodotto in modo perfetto da Dave Cobb, un’altra sicurezza già dietro a Chris Stapleton e Jason Isbell, a colpire oltre ad un immancabile inno sudista (‘Deep Down In The South’) e alle tracce più marcatamente rock ed elettriche come l’epica avanzata della title track e di ‘Frogman’ scritta insieme a Rich Robinson (Black Crowes), sono l’uso di un violino nell’infuocata apertura ‘On The River’, dei fiati che spuntano in ‘Lightning Bugs And Rain’, dei cori femminili presenti in abbondanza (nel soul ‘Some Of Your Love’) , del rispetto verso il passato nell’omaggio ‘Hank’ (sì, Hank Williams), del pianoforte che conduce la bella ballata con finale elettrico ‘Stone’, delle atmosfere folk (‘Trailer We Call Home’) e bluegrass della finale, corale e alticcia ‘Good Ole Days’. Dal fango emergono buone cose. Un piccolo manuale di southern rock, senza virgole fuori posto, che potrà dare molte soddisfazioni alla band e ideale conferma dopo il precedente EARLY MORNING SHAKES (2014) che già diede parecchie soddisfazioni.
“Riporteranno il il southern rock sulla retta via”. Così l’illustre Gregg Allman lanciava il gruppo di Atlanta in tempi non sospetti. Il minimo che la band guidata dal cantante e chitarrista Charlie Starr potesse fare era invitare il vecchio Gregg (che fortunatamente sembra essersi ripreso anche da alcuni malanni) a duettare in una loro traccia. Avviene in ‘Free On The Wing’ che chiude LIKE AN ARROW, quinto album che esce (il 14 Ottobre) a solo un anno dal precedente HOLDING ALL THE ROSES, un disco che non mi aveva convinto, complice la pessima, o anche troppo perfetta, produzione di Brendan O’Brien che pompava e addomesticava il suono allo stesso tempo, riuscendo però nell’intento di portare il nome sulla bocca di più rocker possibili sparsi in giro per il mondo, Italia compresa. Notevole successo anche per le loro due date milanesi e quella romana.
Questo volta i Blackberry Smoke fanno tutto da soli al Quarry Recording Studio a Kennesaw in Georgia, registrando dodici tracce che ritornano ad essere coperte di vecchia e sporca polvere, la stessa che si adagiava sull'album THE WHIPPOORWILL (2012): dai momenti più ariosamente country di ‘The Good Life’, ‘Running Through Time’ e ‘Sunrise In Texas’, alle grintose chitarre in prima linea di ‘Waiting For The Thunder’ ‘Workin’ For A Workin Man’ e ’Like An Arrow’, dal blues di ‘What Comes Naturally’, al trascinante boogie di ‘Let It Burn’ fino a chiudere con il funk di ‘Believe You Me’ che ricorda gli ancora innavicinabili Black Crowes. Sotto il sole del sud le barbe continuano a crescere, piano piano imbiancano pure e i Blackberry Smoke sono ormai un punto fermo del nuovo southern rock. "Questo album autoprodotto è il nostro culmine, dopo 15 anni in cui proviamo a piantare la nostra bandiera nel panorama musicale. Non potremmo essere più orgogliosi di esso" parole di Charlie Starr.