ANTHRAX Worship Music (Megaforce Records,2011)
Stare dietro alla telenovela degli ultimi anni in casa Anthrax è impresa assai ardua. L'uscita di John Bush dal gruppo, scelta suicida, visto il gradino che la band seppe salire con l'ex Armored Saint negli anni novanta("Sound of White Noise" è uno dei migliori dischi metal in pieno periodo "grunge")non mi andò giù. Tra i Big Four del Thrash Metal(quantomai celebrati in questi anni, ma cosa sarebbe stato il tour negli anni d'oro?), i newyorchesi furono gli unici insieme agli Slayer ad uscire dalla crisi del genere senza aver fatto grandi danni nella loro discografia dove non troverete un "Risk" o un "Reload" ma piuttosto un tentativo di adattare la loro musica ad una voce versatile come quella di Bush e ai tempi che cambiavano.
Successe poi che per la smania di festeggiare anniversari e vecchi dischi, ci fu il ritorno all'ovile di Belladonna, l'allontanamento e il malcontento di Bush, il nuovo allontanamento di Belladonna, una volta finita la festa e l'arrivo di un tale Dan Nelson, lodato ed emerito sconosciuto e l'inizio dei lavori di questo "Worship Music". Canzoni ultimate e di Nelson non vi è più traccia. Beghe legali e audizioni su audizioni per cercare un nuovo cantante. A questo punto anche chi come me ha sempre amato gli Anthrax, viene sfinito. La fine degli Anthrax e della loro credibilità?
Macchè? Ci si riprova con Joey Belladonna e il miracolo a metà (non esageriamo) accade.
Tolto "Attack of the killer B's" , l'ultimo album registrato con Belladonna, rimane il lontano "Persistence of Time"(1990) ma ascoltando il nuovo disco sembra di tornare indietro a vent'anni fa. "Worship Music" è forse l'album che mancava per unire i due periodi della storia del gruppo. Old school Thrash che fa tesoro del suono moderno portato avanti con Bush, con Belladonna in forma smagliante, versatile come non mai e più in forma di quanto le uscite live lasciassero prevedere.
Canzoni che di fatto sono state scritte per un altro cantante, nel cassetto da alcuni anni, ma che grazie al lavoro del chitarrista Rob Caggiano in produzione, escono potenti e moderne, con la batteria di Charlie Benante e il basso di Frank Bello in tutta evidenza. I riff chitarristici di Scott Ian sono tanto riconoscibili quanto vittime nel cadere nel già sentito in alcuni momenti.
Earth on Hell e Judas Priest sono esemplificative del mix sonoro tra la velocità old school thrash e il groove che caratterizzò gli anni novanta. The devil you know, presenta un riff di chitarra pesante ma abusato, molto meglio Fightem'til you can't e qui il salto indietro nel tempo è definitivo con un chorus molto catchy e melodico che si spinge ai periodi di "Spreading the disease"(1985) e assoli presenti e ficcanti, sicuramente il pezzo più riuscito dell'intero lavoro.
I'm Alive è una cadenzata e quadrata thrash song con Belladonna ancora protagonista(...eh sì , è il suo disco), melodica ed epica nel cantato. Crawl è l'unica concessione alla ballad e si stacca notevolmente dal resto dei brani, mantenendo comunque un chorus elettrico e pesante e si oppone a The Giant, la più veloce e furiosa.
In the End è la canzone più particolare del disco, anticipata da un intro di viola( che riporta in mente l'inizio di Be All,End All), è stata scritta per gli amici Dimebag Darrell e R.J. Dio, sfiorando l'epic metal nel suo incedere. Revolution Screams in chiusura fa saltare mantenendo una linea melodica nel cantato fino a portare alla hidden track New Noise, cover dei Refused e nascosta dietro a cinque minuti di silenzio.
Se un appunto bisogna trovare è la costante ricerca della melodia nei chorus che se allargata a tutte le canzoni, non fa che uniformare troppo il disco.
Un lavoro comunque di transizione ma che riporta gli Anthrax in pole position. Pensavo potesse uscir fuori peggio, visto le movimentate vicende di line-up che a questo punto rimangono l'unico vero nemico per il futuro. Per ora :bentornati!
domenica 11 settembre 2011
venerdì 9 settembre 2011
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD (2120 South Michigan Avenue)
GEORGE THOROGOOD and THE DESTROYERS 2120 South Michigan Avenue (Capitol, 2011)
Con ancora negli occhi Cadillac Ranch, il film di Darnell Martin uscito nel 2008, che ricostruiva il grande periodo della storica etichetta Chess Records, fucina di talenti musicali come poche altre e mai più ripetibili, oggi mi ritrovo un altro omaggio alla casa discografica dei fratelli Leonard e Phil Chess. Questa volta l'omaggio è impresso su vinile(fa più vintage e la copertina mi da ragione...) e il suo autore è George Thorogood. Se nel film, ragioni di copione intrecciavano amori e musica, qualche volta facendo prevalere i primi, con Thorogood andiamo sul sicuro. Riprendendo la via di Chicago , dove nacque la storica etichetta, quella 2120 South Michigan Avenue che già gli Stones, tra i più fedeli discepoli del suono blues, omaggiarono nel lontano 1964, con un strumentale che recava proprio la via come titolo e registrata in quegli studi insieme alle altre quattro canzoni che componevano quell'Ep(Five to Five).
Oggi Thorogood, oltre a riprendere quel strumentale degli Stones e piazzarlo come titolo, aggiunge 2 composizioni di suo pugno e altre dieci scelte tra il vasto catalogo della Chess Records. Pur avendo solo l'imbarazzo della scelta, Thorogood si è orientato verso quegli artisti e canzoni più vicini al suo modo di intendere la musica, privilegiando quindi i tempi più sostenuti e rock'n'roll.
Thorogood ancora oggi a sessantanni è una forza della natura, soprattutto in sede live, proprio come nella seconda metà degli anni settanta, quando uscì allo scoperto rispolverando le grandi canzoni dei padri del blues nero, bagnandole con il suo sudore e arricchendole di forza selvaggia, ricevendo anche il benestare dei suoi amati Rolling Stones.
A distanza di anni, Thorogood continua ad omaggiare il blues, con uscite costanti di dischi, divisi tra sue composizioni e cover, sempre con al suo fianco i fedeli Destroyers(Bill Blough al basso, Buddy Leach al sassofono, Jeff Simon alla batteria e Jim Suhler alla seconda chitarra), sempre citati a suo fianco nel monicker di copertina.
L'amore di Thorogood per la Chess Records risale, come lui stesso racconta, a quando teenager lesse che Jagger e Richards scrissero all'etichetta, ricavando l'indirizzo da un vecchio vinile di Chuck Berry. Il giovane Thorogood per curiosità di emulazione, fece lo stesso e si fece spedire il catalogo completo della Chess. Da lì nacque il suo amore per il blues.
Le due canzoni scritte per il disco da Thorogood e Tom Hambridge(produttore) sono due sentiti omaggi al blues: l'opener Going Back ripercorre la storia della musica del Delta dalle origini alla svolta elettrica, soffermandosi su Chicago, con una chitarra che accompagna il viaggio in modo fedele. Willie Dixon's gone è invece un nostalgico e sentito omaggio al bassista e produttore che lasciò la sua firma su le più importanti produzioni del Blues di Chicago. Canzone veloce ed urgente quanto evocativa e nostalgica nel testo, una delle migliori del disco.
Vi sono poi le undici riletture, di 2120 South Michigan Avenue dei Rolling Stones ho già parlato, se non per aggiungere la presenza di Charlie Musselwhite all'armonica, così come in My Babe, composizione di Little Walter, che necessitava obbligatoriamente di questo intervento.Un classico.
Composizioni devote e sentite, che non stravolgono le originali se non per aggiungere la carica e la forza della sua chitarra che si può apprezzare nei tre pezzi più rock'n'roll della raccolta: Let it Rock del maestro Chuck Berry, Seventh Son di Willie Dixon e Mama Talk to your Daughter di J.B. Lenoir trasformata in una indiavolata rock'n'roll song.
L'altro illustre ospite è Buddy Guy che interviene in Hi-Heel Sneakers. Completano Spoonful di Howlin' Wolf, Chicago Bound, Help Me, Two Trains Running di Muddy Waters.
Canzoni che cambiarono la vita a Thorogood, forse difficilmente le sue riproposizioni cambieranno la nostra ma queste canzoni sono patrimonio mondiale e destinate all'immortalità.
Thorogood rilascia solo un divertente e sentito invito a riscoprirle.
Con ancora negli occhi Cadillac Ranch, il film di Darnell Martin uscito nel 2008, che ricostruiva il grande periodo della storica etichetta Chess Records, fucina di talenti musicali come poche altre e mai più ripetibili, oggi mi ritrovo un altro omaggio alla casa discografica dei fratelli Leonard e Phil Chess. Questa volta l'omaggio è impresso su vinile(fa più vintage e la copertina mi da ragione...) e il suo autore è George Thorogood. Se nel film, ragioni di copione intrecciavano amori e musica, qualche volta facendo prevalere i primi, con Thorogood andiamo sul sicuro. Riprendendo la via di Chicago , dove nacque la storica etichetta, quella 2120 South Michigan Avenue che già gli Stones, tra i più fedeli discepoli del suono blues, omaggiarono nel lontano 1964, con un strumentale che recava proprio la via come titolo e registrata in quegli studi insieme alle altre quattro canzoni che componevano quell'Ep(Five to Five).
Oggi Thorogood, oltre a riprendere quel strumentale degli Stones e piazzarlo come titolo, aggiunge 2 composizioni di suo pugno e altre dieci scelte tra il vasto catalogo della Chess Records. Pur avendo solo l'imbarazzo della scelta, Thorogood si è orientato verso quegli artisti e canzoni più vicini al suo modo di intendere la musica, privilegiando quindi i tempi più sostenuti e rock'n'roll.
Thorogood ancora oggi a sessantanni è una forza della natura, soprattutto in sede live, proprio come nella seconda metà degli anni settanta, quando uscì allo scoperto rispolverando le grandi canzoni dei padri del blues nero, bagnandole con il suo sudore e arricchendole di forza selvaggia, ricevendo anche il benestare dei suoi amati Rolling Stones.
A distanza di anni, Thorogood continua ad omaggiare il blues, con uscite costanti di dischi, divisi tra sue composizioni e cover, sempre con al suo fianco i fedeli Destroyers(Bill Blough al basso, Buddy Leach al sassofono, Jeff Simon alla batteria e Jim Suhler alla seconda chitarra), sempre citati a suo fianco nel monicker di copertina.
L'amore di Thorogood per la Chess Records risale, come lui stesso racconta, a quando teenager lesse che Jagger e Richards scrissero all'etichetta, ricavando l'indirizzo da un vecchio vinile di Chuck Berry. Il giovane Thorogood per curiosità di emulazione, fece lo stesso e si fece spedire il catalogo completo della Chess. Da lì nacque il suo amore per il blues.
Le due canzoni scritte per il disco da Thorogood e Tom Hambridge(produttore) sono due sentiti omaggi al blues: l'opener Going Back ripercorre la storia della musica del Delta dalle origini alla svolta elettrica, soffermandosi su Chicago, con una chitarra che accompagna il viaggio in modo fedele. Willie Dixon's gone è invece un nostalgico e sentito omaggio al bassista e produttore che lasciò la sua firma su le più importanti produzioni del Blues di Chicago. Canzone veloce ed urgente quanto evocativa e nostalgica nel testo, una delle migliori del disco.
Vi sono poi le undici riletture, di 2120 South Michigan Avenue dei Rolling Stones ho già parlato, se non per aggiungere la presenza di Charlie Musselwhite all'armonica, così come in My Babe, composizione di Little Walter, che necessitava obbligatoriamente di questo intervento.Un classico.
Composizioni devote e sentite, che non stravolgono le originali se non per aggiungere la carica e la forza della sua chitarra che si può apprezzare nei tre pezzi più rock'n'roll della raccolta: Let it Rock del maestro Chuck Berry, Seventh Son di Willie Dixon e Mama Talk to your Daughter di J.B. Lenoir trasformata in una indiavolata rock'n'roll song.
L'altro illustre ospite è Buddy Guy che interviene in Hi-Heel Sneakers. Completano Spoonful di Howlin' Wolf, Chicago Bound, Help Me, Two Trains Running di Muddy Waters.
Canzoni che cambiarono la vita a Thorogood, forse difficilmente le sue riproposizioni cambieranno la nostra ma queste canzoni sono patrimonio mondiale e destinate all'immortalità.
Thorogood rilascia solo un divertente e sentito invito a riscoprirle.
martedì 6 settembre 2011
RECENSIONE: TOM MORELLO the NIGHTWATCHMAN (World Wide Rebel Songs)
TOM MORELLO the NIGHTWATCHMAN World Wide Rebel Songs (NEW WEST, 2011)
Tom Morello sta dimostrando sempre più di essere stato, oltre che l'ascia imprevedibile, innovativa ed inimitabile dietro ai Rage Against the Machine, anche l'anima spirituale e barricadera dietro al progetto che rivoluzionò il rapporto rock/hip hop elevandolo a strumento di lotta contro il sistema capitalistico, assumendo, a tutti gli effetti, le connotazioni di band politica. Con il cantante Zack De la Rocha, da tempo un desaparecido chissà dove (ritornato alla ribalta solo per le estemporanee reunion live del gruppo), Morello ha continuato la sua battaglia su diversi fronti.
Lo abbiamo visto unire le forze con Chris Cornell, nel progetto Audioslave, durato tre album, lasciando un ricordo inferiore a quanto la somma dei componenti lasciasse presagire, abbandonando la lotta sociale fino al definitivo split con il bel Cornell tornato all'ovile del "giardino del suono grunge". La voglia di combattere, venuta meno negli Audioslave, si è rimpossessata di Morello, sotto forma di folk, all'inseguimento di chi la protesta la portò avanti con sola voce, slogan e chitarra, come un novello "antico" Woody Guthrie o "moderno" Billy Bragg, mettendo in piedi il progetto the Nightwatchman, che con questo "World Wide Rebel Songs" arriva al traguardo del terzo album. In mezzo e nel mentre, tanti altri progetti: sia musicali con i Street Sweeper Social Club in compagnia di Boots Riley (una sorta di RATM meno infervorati) e apparizioni a fianco di Bruce Springsteen, Robbie Robertson e Steve Earle , sia sociali, con la formazione di associazioni umanitarie no-profit come Axis of Justice in compagnia di Serj Tankian , cantante dei System of a Down.
"World Wide Rebel Songs", anticipato di qualche mese dall'ep "City Town", si differenzia dai due precedenti lavori per un ritorno alla full band e la ricomparsa della sua chitarra elettrica, libera di disturbare con i suoni da mago dell'effettistica. Non più solo folk per chitarra acustica ma un album di combat folk/rock che non disdegna puntate elettriche assumendo più sfumature e colori.
Black Spartacus Heart Attack Machine è un incalzante rock che apre il disco ma forse anche la canzone meno riuscita con quei chorus finali un po' imbarazzanti e forzati. Anthem e chorus saranno una presenza costante durante tutto il disco ma fortunatamente usati meglio. It Begings Tonight si candida ad essere la canzone che più si allaccia con il passato dei RATM, Morello rispolvera i riff e gli assoli che lo resero famoso e riconoscibile.
Con lo sguardo rivolto a Joe Strummer in The Dogs of Tijuana, nel canto di protesta anti guerra Stray Bullets e nella finale Union Town tra gospel e il combat/folk dei Clash e dello Springsteen più impegnato.
Ancora le ombre dell'amico del New Jersey fanno capolino nella seconda parte di Speak and make lightning: inizio da canzone folk che si trasforma in una sarabanda da big band sullo stile del progetto Seeger Sessions portato in scena qualche anno fa da Springsteen.
La title track è una chiamata alle armi che sfoggia un contagioso coro che dal vivo sarà protagonista. Più vicine ai due precedenti dischi il folk acustico di Branding Iron, la triste Whirlwind, la preghiera God Help Us All, oscura e vicina alle atmosfere delle American recordings dell'ultimo Cash e il duetto con voce femminile di The fifth Horseman of the Apocalypse con lo scambio chitarra /violino.
Discorso a parte merita Save the Hammer for the man, primo singolo dell'album, una folkie song, puntellata dall'hammond, che accarezza il soul grazie all'apporto di Ben Harper, coautore del pezzo. Un piccolo gioiello da conservare.
Morello prosegue semplicemente il discorso iniziato negli anni novanta con i RATM, cambia la forma ma non la sostanza. Coerenza di idee vestita di folk, più che mai attuale in questi mesi con il mondo a gambe all'aria.
vedi anche RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN- Wrecking Ball (2012)
Tom Morello sta dimostrando sempre più di essere stato, oltre che l'ascia imprevedibile, innovativa ed inimitabile dietro ai Rage Against the Machine, anche l'anima spirituale e barricadera dietro al progetto che rivoluzionò il rapporto rock/hip hop elevandolo a strumento di lotta contro il sistema capitalistico, assumendo, a tutti gli effetti, le connotazioni di band politica. Con il cantante Zack De la Rocha, da tempo un desaparecido chissà dove (ritornato alla ribalta solo per le estemporanee reunion live del gruppo), Morello ha continuato la sua battaglia su diversi fronti.
Lo abbiamo visto unire le forze con Chris Cornell, nel progetto Audioslave, durato tre album, lasciando un ricordo inferiore a quanto la somma dei componenti lasciasse presagire, abbandonando la lotta sociale fino al definitivo split con il bel Cornell tornato all'ovile del "giardino del suono grunge". La voglia di combattere, venuta meno negli Audioslave, si è rimpossessata di Morello, sotto forma di folk, all'inseguimento di chi la protesta la portò avanti con sola voce, slogan e chitarra, come un novello "antico" Woody Guthrie o "moderno" Billy Bragg, mettendo in piedi il progetto the Nightwatchman, che con questo "World Wide Rebel Songs" arriva al traguardo del terzo album. In mezzo e nel mentre, tanti altri progetti: sia musicali con i Street Sweeper Social Club in compagnia di Boots Riley (una sorta di RATM meno infervorati) e apparizioni a fianco di Bruce Springsteen, Robbie Robertson e Steve Earle , sia sociali, con la formazione di associazioni umanitarie no-profit come Axis of Justice in compagnia di Serj Tankian , cantante dei System of a Down.
"World Wide Rebel Songs", anticipato di qualche mese dall'ep "City Town", si differenzia dai due precedenti lavori per un ritorno alla full band e la ricomparsa della sua chitarra elettrica, libera di disturbare con i suoni da mago dell'effettistica. Non più solo folk per chitarra acustica ma un album di combat folk/rock che non disdegna puntate elettriche assumendo più sfumature e colori.
Black Spartacus Heart Attack Machine è un incalzante rock che apre il disco ma forse anche la canzone meno riuscita con quei chorus finali un po' imbarazzanti e forzati. Anthem e chorus saranno una presenza costante durante tutto il disco ma fortunatamente usati meglio. It Begings Tonight si candida ad essere la canzone che più si allaccia con il passato dei RATM, Morello rispolvera i riff e gli assoli che lo resero famoso e riconoscibile.
Con lo sguardo rivolto a Joe Strummer in The Dogs of Tijuana, nel canto di protesta anti guerra Stray Bullets e nella finale Union Town tra gospel e il combat/folk dei Clash e dello Springsteen più impegnato.
Ancora le ombre dell'amico del New Jersey fanno capolino nella seconda parte di Speak and make lightning: inizio da canzone folk che si trasforma in una sarabanda da big band sullo stile del progetto Seeger Sessions portato in scena qualche anno fa da Springsteen.
La title track è una chiamata alle armi che sfoggia un contagioso coro che dal vivo sarà protagonista. Più vicine ai due precedenti dischi il folk acustico di Branding Iron, la triste Whirlwind, la preghiera God Help Us All, oscura e vicina alle atmosfere delle American recordings dell'ultimo Cash e il duetto con voce femminile di The fifth Horseman of the Apocalypse con lo scambio chitarra /violino.
Discorso a parte merita Save the Hammer for the man, primo singolo dell'album, una folkie song, puntellata dall'hammond, che accarezza il soul grazie all'apporto di Ben Harper, coautore del pezzo. Un piccolo gioiello da conservare.
Morello prosegue semplicemente il discorso iniziato negli anni novanta con i RATM, cambia la forma ma non la sostanza. Coerenza di idee vestita di folk, più che mai attuale in questi mesi con il mondo a gambe all'aria.
vedi anche RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN- Wrecking Ball (2012)
sabato 3 settembre 2011
RECENSIONE: RED HOT CHILI PEPPERS (I'm With You)
RED HOT CHILI PEPPERS I'm With You ( Warner Bros Records, 2011)
"...Il rito finale prima di salire sul palco è il cerchio delle anime. E' divertente il modo in cui si è evoluto negli anni. Quando eravamo una band di spavalde teste di cavolo di Hollywood, ci mettevamo in cerchio e ci davamo delle sberle in faccia proprio prima di salire sul palco. Di sicuro questo faceva sgorgare energia. Ora formiamo un cerchio, ci teniamo le mani, facciamo qualche meditazione insieme..." dal libro "Scar Tissue" autobiografia di Anthony Kiedis
Suggerire di continuare/ritornare a prendersi a sberle è cattiveria, assodare che sono passati gli anni, è la verità. Difficile fare i Red Hot Chili Peppers nel 2011, così come da più di dieci anni, dall'uscita di "Californication"(1999) in avanti. By the way(2002) e Stadium Arcadium(2006) hanno mostrato la corda, adagiandosi sulla formula di Californication, vero punto di incontro tra la loro idea di funk/rock e la melodia pop. La perfezione in grado di accontentare gli orfani del loro capolavoro indiscusso della maturità rock "Blood Sugar Sex Magik"(1991) e chi aveva storto il naso dopo l'uscita di "One Hot Minute", un disco che con gli anni ha acquistato molti punti.
Questo I'm with you, nasce sotto gli stessi astri di quel One Hot Minute, tanto da farmi pensare che le ripetute uscite di Frusciante dal gruppo siano calcolate per dare nuovi stimoli alla band. Nel 1995 c'era da replicare un disco che con il tempo si è guadagnato un posticino tra i capolavori rock, nel 2011 c'è da replicare il successo commerciale del doppio Stadium Arcadium (4 Grammy Awards su 6), tanto lungo quanto povero di belle idee.
Ma se il disco composto con Dave Navarro, chitarra dei Jane's Addiction cercò nuove strade, qui siamo di fronte ad una ripetizione di formule già sentite negli ultimi dieci anni, con poche uscite da fuoriclasse ed un divertimento che sembra quasi forzato.
Avete presente la differenza che passa tra quelle belle serate divertenti con gli amici che nascono dal nulla senza aspettative, pretesto e programmi e le serate programmate nei minimi dettagli per divertirsi che alla fine ti lasciano l'insoddisfazione e l'amaro in bocca? I RHCP del 2011, dall'alto della quasi mezza età raggiunta hanno ancora voglia di divertirsi ma purtroppo sembra tutto troppo programmato.
Monarchy Roses che ha il compito di aprire il disco è un divertente disco-funk che però lascia pochino dietro di sè, stessa cosa per Factory of Faith, guidate dal basso di Flea, con quella ricerca spasmodica del chorus melodico, croce e delizia degli ultimi dischi. Brendan's Death's Song, ballata nobile nell'intento di ricordare lo scomparso Brendan Mullen, amico promoter scomparso poco prima dell'inizio delle registrazioni, ma che guarda dal basso in alto del ponte la sorella Under the Bridge che toccava le stesse corde emotive con ben altro pathos e coinvolgimento. Annie wants a baby, Ethiopia scivolano via che nemmeno te ne accorgi, Kiedis ha guadagnato bravura nel modo di cantare ma ha perso quell'elemento di imprevedibilità in grado di portare a casa le canzoni (ascoltate il ritorno al rap/funk di Look Around per capire). Se ci mettete un Rick Rubin che fa di tutto per appiattire le canzoni, il gioco è fatto, ma ne sono sicuro, dal vivo suoneranno certamente meglio e riacquisteranno vigore, grazie all'improvvisazione che manca nei dischi.
Allora tutto va meglio nella seconda parte del disco, quando il nuovo chitarrista Josh Klinghoffer (predestinato, da anni intorno al satellite RHCP) ha più voce in capitolo e i RHCP si avventurano veramente in qualcosa di diverso. Il nuovo chitarrista, quasi ventanni in meno dei compagni, svolge degnamente il suo compito: con la chitarra che ricorda vaganente My Sweet Lord di George Harrison in The Adventures of Rain Dance Maggie o le atmosfere quasi etniche di Did I let You Know con l'incursione di una tromba o l'unica prova di forza del disco, Goodbye Hooray , un hard funk dove anche Chad Smith si mette in mostra senza dover per forza aspettare di sfogare i suoi battiti rock fuori dal gruppo(Glenn Hughes e il super gruppo Chickenfoot, fra poco in uscita il loro"III")
Così come mi piacciono le divertenti ed originali per il gruppo, Happiness Loves Company e Even you, Brutus, quasi due Rag time con Flea al piano e i Beatles come ispirazione.
Di sangue, sesso, magia e zucchero, sembra rimasto solo quest'ultimo ingrediente e adesso che anche la California sembra più lontana, si sa, una dieta a base di soli zuccheri alla lunga è nociva e i nostri da qualche anno la seguono incuranti degli effetti.
"...Il rito finale prima di salire sul palco è il cerchio delle anime. E' divertente il modo in cui si è evoluto negli anni. Quando eravamo una band di spavalde teste di cavolo di Hollywood, ci mettevamo in cerchio e ci davamo delle sberle in faccia proprio prima di salire sul palco. Di sicuro questo faceva sgorgare energia. Ora formiamo un cerchio, ci teniamo le mani, facciamo qualche meditazione insieme..." dal libro "Scar Tissue" autobiografia di Anthony Kiedis
Suggerire di continuare/ritornare a prendersi a sberle è cattiveria, assodare che sono passati gli anni, è la verità. Difficile fare i Red Hot Chili Peppers nel 2011, così come da più di dieci anni, dall'uscita di "Californication"(1999) in avanti. By the way(2002) e Stadium Arcadium(2006) hanno mostrato la corda, adagiandosi sulla formula di Californication, vero punto di incontro tra la loro idea di funk/rock e la melodia pop. La perfezione in grado di accontentare gli orfani del loro capolavoro indiscusso della maturità rock "Blood Sugar Sex Magik"(1991) e chi aveva storto il naso dopo l'uscita di "One Hot Minute", un disco che con gli anni ha acquistato molti punti.
Questo I'm with you, nasce sotto gli stessi astri di quel One Hot Minute, tanto da farmi pensare che le ripetute uscite di Frusciante dal gruppo siano calcolate per dare nuovi stimoli alla band. Nel 1995 c'era da replicare un disco che con il tempo si è guadagnato un posticino tra i capolavori rock, nel 2011 c'è da replicare il successo commerciale del doppio Stadium Arcadium (4 Grammy Awards su 6), tanto lungo quanto povero di belle idee.
Ma se il disco composto con Dave Navarro, chitarra dei Jane's Addiction cercò nuove strade, qui siamo di fronte ad una ripetizione di formule già sentite negli ultimi dieci anni, con poche uscite da fuoriclasse ed un divertimento che sembra quasi forzato.
Avete presente la differenza che passa tra quelle belle serate divertenti con gli amici che nascono dal nulla senza aspettative, pretesto e programmi e le serate programmate nei minimi dettagli per divertirsi che alla fine ti lasciano l'insoddisfazione e l'amaro in bocca? I RHCP del 2011, dall'alto della quasi mezza età raggiunta hanno ancora voglia di divertirsi ma purtroppo sembra tutto troppo programmato.
Monarchy Roses che ha il compito di aprire il disco è un divertente disco-funk che però lascia pochino dietro di sè, stessa cosa per Factory of Faith, guidate dal basso di Flea, con quella ricerca spasmodica del chorus melodico, croce e delizia degli ultimi dischi. Brendan's Death's Song, ballata nobile nell'intento di ricordare lo scomparso Brendan Mullen, amico promoter scomparso poco prima dell'inizio delle registrazioni, ma che guarda dal basso in alto del ponte la sorella Under the Bridge che toccava le stesse corde emotive con ben altro pathos e coinvolgimento. Annie wants a baby, Ethiopia scivolano via che nemmeno te ne accorgi, Kiedis ha guadagnato bravura nel modo di cantare ma ha perso quell'elemento di imprevedibilità in grado di portare a casa le canzoni (ascoltate il ritorno al rap/funk di Look Around per capire). Se ci mettete un Rick Rubin che fa di tutto per appiattire le canzoni, il gioco è fatto, ma ne sono sicuro, dal vivo suoneranno certamente meglio e riacquisteranno vigore, grazie all'improvvisazione che manca nei dischi.
Allora tutto va meglio nella seconda parte del disco, quando il nuovo chitarrista Josh Klinghoffer (predestinato, da anni intorno al satellite RHCP) ha più voce in capitolo e i RHCP si avventurano veramente in qualcosa di diverso. Il nuovo chitarrista, quasi ventanni in meno dei compagni, svolge degnamente il suo compito: con la chitarra che ricorda vaganente My Sweet Lord di George Harrison in The Adventures of Rain Dance Maggie o le atmosfere quasi etniche di Did I let You Know con l'incursione di una tromba o l'unica prova di forza del disco, Goodbye Hooray , un hard funk dove anche Chad Smith si mette in mostra senza dover per forza aspettare di sfogare i suoi battiti rock fuori dal gruppo(Glenn Hughes e il super gruppo Chickenfoot, fra poco in uscita il loro"III")
Così come mi piacciono le divertenti ed originali per il gruppo, Happiness Loves Company e Even you, Brutus, quasi due Rag time con Flea al piano e i Beatles come ispirazione.
Di sangue, sesso, magia e zucchero, sembra rimasto solo quest'ultimo ingrediente e adesso che anche la California sembra più lontana, si sa, una dieta a base di soli zuccheri alla lunga è nociva e i nostri da qualche anno la seguono incuranti degli effetti.
giovedì 1 settembre 2011
RECENSIONE: PRIMUS ( Green Naugahyde)
PRIMUS Green Naugahyde ( Prawn song/Goodfellas , 2011)
Il salto temporale che questo Settembre 2011 ci riserva sembra quasi pianificato da forze occulte, unite per riportare a galla la grande stagione del crossover americano(funk+metal, anche se le etichette in questo caso sono veramente superflue e limitative) che ha avuto il suo culmine tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. In questi giorni usciranno quasi in contemporanea, tre colonne portanti di un sound che ha fatto scuola, tre gruppi che partendo dagli stessi ideali, hanno percorso strade diverse e ottenuto successo diverso, ma a conti fatti, in un modo o nell'altro sono ancora in piedi: Red Hot Chili Peppers, Jane's Addiction e Primus. Chissà mai che spinti dall'onda emotiva si vadano a rispolverare i vecchi dischi di altri compagni di viaggio: Infectious Grooves, Faith No More, Living Colour, Fishbone, Scat Opera, White trash, Psychefunkapus(cercate il loro Skin), 24-7 Spyz, Scatterbrain, band che misero l'inventiva e la fantasia a capo del loro suono.
I Primus visti di recente nelle due tappe italiane(Roma e Vigevano) del loro tour in Giugno ritornano ad incidere dopo Antipop(1999), quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni e che marcarono in modo indelebile l'unicità dei Primus, un gruppo incatalogabile quanto inimitabile ed unico, dove la tecnica strumentale sposa alla perfezione l'ironia e il non-sense.
I timidi segnali di una rientrata si ebbero l'anno scorso, con l'uscita di un ep di 4 vecchie canzoni risuonate con il primo batterista della band Jay Lane(a tutti gli effetti mai apparso in nessun disco prima) ed è proprio lui la novità più grande di una formazione che gira intorno all'estro di Les Claypool(in questi anni protagonista di mille altri progetti , da solista ed in compagnia, alcuni da riscoprire) ed al suo mirabolante basso e alla chitarra spiazzante di Larry Lalonde, uno che non si fece troppi problemi a lasciare il proto-death metal degli sfortunati Possessed nel lontano 1989 per entrare alla corte di Claypool.
Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana.
Preceduta da una breve intro(Prelude to a Crawl), appena parte Heppenin Crawler si capisce perchè i Primus sono entrati di diritto tra i gruppi di culto del rock alternativo. Il basso e la voce di Claypool, qui meno bizzarra ed eccentrica del solito, segnano la canzone imprimendo il marchio. Sono sempre loro, si può continuare tranquilli.
Anche l'amore per lo sport della pesca di Claypool, ritorna nei sei minuti abbondanti di Last Salmon Man, una piccola summa del Primus-pensiero con un Lalonde protagonista e tante piccole sorprese al suo interno.
La grande tecnica dei tre componenti nei momenti psichedelici con la chitarra acida e il finale parossistico di Eyes of the Squirrel, i territori progressive cavalcati da Jilly's on Smack che si smarca dal resto con le sue atmosfere plumbee e liquide fino a Green Ranger, quasi un estratto "schizzato" da un disco dei Pink Floyd.
Tragedy's a' comin' lascia stupefatti per quanto la mostruosa tecnica strumentale possa sposarsi così bene con il funk ed il pop.
C'è poi il lato più grottesco e bizzarro di Eternal Consumption Engine, senza pagare il biglietto, veniamo catapultati in un grande tendone da circo con la triste solarità di un clown che da gli umori alla canzone. Lee Van Cleef riprende il discorso iniziato da Wynona's big brown beaver nel 1995 e qui il basso di Claypool è una meraviglia mentre in HOINFODAMAN possiamo ascoltare il riff di chitarra più pesante del disco e le linee vocali più grottesche tanto da sembrare appena uscite da un cartoon Disney.
Totalmente fuori controllo ed indecifrabili Moron TV e Extinction Burst, improvvisazioni, funambolismi zappiani, estro e tanti colpi di scena, tutte le prerogative che ci aspettavamo in questo atteso ritorno dei Primus. Il ritorno dell'anno.
Il salto temporale che questo Settembre 2011 ci riserva sembra quasi pianificato da forze occulte, unite per riportare a galla la grande stagione del crossover americano(funk+metal, anche se le etichette in questo caso sono veramente superflue e limitative) che ha avuto il suo culmine tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. In questi giorni usciranno quasi in contemporanea, tre colonne portanti di un sound che ha fatto scuola, tre gruppi che partendo dagli stessi ideali, hanno percorso strade diverse e ottenuto successo diverso, ma a conti fatti, in un modo o nell'altro sono ancora in piedi: Red Hot Chili Peppers, Jane's Addiction e Primus. Chissà mai che spinti dall'onda emotiva si vadano a rispolverare i vecchi dischi di altri compagni di viaggio: Infectious Grooves, Faith No More, Living Colour, Fishbone, Scat Opera, White trash, Psychefunkapus(cercate il loro Skin), 24-7 Spyz, Scatterbrain, band che misero l'inventiva e la fantasia a capo del loro suono.
I Primus visti di recente nelle due tappe italiane(Roma e Vigevano) del loro tour in Giugno ritornano ad incidere dopo Antipop(1999), quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni e che marcarono in modo indelebile l'unicità dei Primus, un gruppo incatalogabile quanto inimitabile ed unico, dove la tecnica strumentale sposa alla perfezione l'ironia e il non-sense.
I timidi segnali di una rientrata si ebbero l'anno scorso, con l'uscita di un ep di 4 vecchie canzoni risuonate con il primo batterista della band Jay Lane(a tutti gli effetti mai apparso in nessun disco prima) ed è proprio lui la novità più grande di una formazione che gira intorno all'estro di Les Claypool(in questi anni protagonista di mille altri progetti , da solista ed in compagnia, alcuni da riscoprire) ed al suo mirabolante basso e alla chitarra spiazzante di Larry Lalonde, uno che non si fece troppi problemi a lasciare il proto-death metal degli sfortunati Possessed nel lontano 1989 per entrare alla corte di Claypool.
Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana.
Preceduta da una breve intro(Prelude to a Crawl), appena parte Heppenin Crawler si capisce perchè i Primus sono entrati di diritto tra i gruppi di culto del rock alternativo. Il basso e la voce di Claypool, qui meno bizzarra ed eccentrica del solito, segnano la canzone imprimendo il marchio. Sono sempre loro, si può continuare tranquilli.
Anche l'amore per lo sport della pesca di Claypool, ritorna nei sei minuti abbondanti di Last Salmon Man, una piccola summa del Primus-pensiero con un Lalonde protagonista e tante piccole sorprese al suo interno.
La grande tecnica dei tre componenti nei momenti psichedelici con la chitarra acida e il finale parossistico di Eyes of the Squirrel, i territori progressive cavalcati da Jilly's on Smack che si smarca dal resto con le sue atmosfere plumbee e liquide fino a Green Ranger, quasi un estratto "schizzato" da un disco dei Pink Floyd.
Tragedy's a' comin' lascia stupefatti per quanto la mostruosa tecnica strumentale possa sposarsi così bene con il funk ed il pop.
C'è poi il lato più grottesco e bizzarro di Eternal Consumption Engine, senza pagare il biglietto, veniamo catapultati in un grande tendone da circo con la triste solarità di un clown che da gli umori alla canzone. Lee Van Cleef riprende il discorso iniziato da Wynona's big brown beaver nel 1995 e qui il basso di Claypool è una meraviglia mentre in HOINFODAMAN possiamo ascoltare il riff di chitarra più pesante del disco e le linee vocali più grottesche tanto da sembrare appena uscite da un cartoon Disney.
Totalmente fuori controllo ed indecifrabili Moron TV e Extinction Burst, improvvisazioni, funambolismi zappiani, estro e tanti colpi di scena, tutte le prerogative che ci aspettavamo in questo atteso ritorno dei Primus. Il ritorno dell'anno.
lunedì 29 agosto 2011
RECENSIONE: RY COODER (Pull up some dust and sit down)
RY COODER Pull up some dust and sit down (Nonesuch Records, 2011)
Anche se l'iconografia e le foto che accompagnano il lavoro, sembrano appena uscite dagli anni trenta e succedere di poco la grande depressione che colpì gli Stati Uniti nel 1929, Pull Up some dust and sit down è un ricettario della durata di un'ora , in cui Ry Cooder mette in fila i grandi problemi dell'impero USA(estendibili al mondo occidentale in generale), calandosi nella più vera e impietosa attualità e viste le ultimissime notizie provenienti dalle banche americane e Wall Street, anticipando un finale più nero di quanto ci si aspettava.
Da quando Ry Cooder è tornato ad incidere dischi alla vecchia maniera, la trilogia formata da Chàvez Ravine(2005), da il bello My name is Buddy(2007), passando per il meno riuscito I, Flathead(2008) e l'ultimissima collaborazione con i The Chieftains di Paddy Moloney per il riuscito connubio tra Irlanda e Messico, San Patricio(2010), ha inglobato nella sua musica migliore degli anni settanta tutte le infinite esperienze musicali degli anni ottanta e novanta, esperienze che lo hanno portato ad essere uno dei musicisti più completi, ricercati e straordinari del panorama musicale mondiale, senza steccati imposti dai generi.
L'etichetta Nonesuch è stata molto esplicita nel presentare il disco, definendolo come un insieme di strumenti(i testi delle canzoni), utili a noi liberi cittadini per uscire dal quel cerchio pieno di bugie e distrazioni in cui i potenti del mondo vogliono metterci per controllarci, elevando quasi Cooder a livello messianico. Senza eccedere in questo, Cooder, ha scritto un giornale di estrema attualità ma soprattutto di qualità, quei giornali che terminata la lettura quotidiana, non getti nella differenziata ma pieghi con cura, mettendoli da parte e che ti ritrovi a leggere dopo vent'anni, trovandoli ancora di estrema utilità nel loro spirito senza tempo.
Quattordici canzoni di protesta che non possono che rimandare ai grandi precursori come Pete Seeger e Woody Guthrie che si aprono con No Banker Left Behind, ispirata dal giornalista Robert Scheer, il cui titolo non lascia scampo, con i grandi ricchi da una parte e i "poveracci" dall'altra, suonata dal solo Cooder in compagnia del figlio Joachim alla batteria e continuare poi, rispolverando il bandito Jesse James nel walzerone messicano El torrido de Jesse James, con tanto di fiati e la partecipazione di Flaco Jimenez.
Se da una parte tutto ciò può rappresentare, tristemente, l'immobilità dell'essere umano, sempre poco avvezzo ad imparare dagli errori del passato, dall'altra rappresenta un merito ad un Ry Cooder, coraggioso nel'esporre in musica tutti i mali della società americana, mai così lontana dal vecchio e sempre più irrangiungibile American Dream. Quello stesso sogno che vivono ancora i messicani che lasciano la loro terra per intraprendere uno dei più pericolsi viaggi odierni in cerca della vita. Quick Sand è una rock song che parla di quei viaggi insidiosi e di tutti quegli uomini e donne alla ricerca della libertà e condizioni di vita migliori ma anche di chi cerca, con lo spargimento di sangue, di impedirglielo.
Chi non ha mai sperato o voluto che il proprio idolo musicale sedesse alla Casa Bianca? Ry Cooder prova a raccontarcelo in solitaria, in John Lee Hooker for President, un blues narrativo suonato alla Hooker(scomparso giusto dieci anni fa) e cantato come lo avrebbe fatto il bluesman in prima persona. Ancora blues: con forti accenni soul e gospel(forte della riuscita esperienza con Mavis Staples) nella preghiera Lord Tell me Why con la batteria di Jim Keltner e in I want my Crown, corta, ma la più elettrica e cattiva del disco che denuncia la sete di ricchezza con un cantato alla Tom Waits.
Giri la pagina del giornale e ci trovi gli orrori della guerra: giovani che tornano senza arti e con la faccia sfigurata, cervelli persi e rovinati in nome di soldi sperperati. Ma il Natale come ogni anno arriva ugualmente. Christmas Time this year è cinica e dura contro la politica guerrafondaia ma è costruita su ritmi da festa paesana e gioca molto su questo contrasto. Baby joined the Army, canta il trascorrere del tempo e l'attesa in guerra con sola voce e chitarra.
Le chitarre di Cooder come al solito sono protagoniste, sia nei tempi reggaeggianti di Humpty Dumpty World, in cui Cooder ci spiega perchè Dio(ma la compagnia è grande) odia la televisione e in If there's a God, sempre un reggae/rock elettrico che nei tempi più lenti e descrittivi di No Hard Feelings, oppure nelle più folkie ed etniche canzoni come Dreamer dove la fisarmonica di Jimenez disegna suggestive atmosfere d'altri tempi.
Tante cose, in questo disco, Cooder ci include tutto il suo bagaglio e passaporto musicale(partendo dalle roots americane arrivando al Messico, Cuba, gospel, Folk, blues e rock) ma soprattutto una lunga serie di imput e notizie dalla vecchia America poco confortanti, disegnando un quadro attuale poco roseo e felice ma che con la sua musica intorno, sembrano arrivare in modo meno catastrofico e più colorato di quanto potrebbe fare un qualsiasi giornale con i caratteri di stampa in bianco e nero. Un disco da mettere da parte al posto di quei giornali, per ricordarci i nostri punti più bassi ed imparare finalmente dai nostri errori.
Anche se l'iconografia e le foto che accompagnano il lavoro, sembrano appena uscite dagli anni trenta e succedere di poco la grande depressione che colpì gli Stati Uniti nel 1929, Pull Up some dust and sit down è un ricettario della durata di un'ora , in cui Ry Cooder mette in fila i grandi problemi dell'impero USA(estendibili al mondo occidentale in generale), calandosi nella più vera e impietosa attualità e viste le ultimissime notizie provenienti dalle banche americane e Wall Street, anticipando un finale più nero di quanto ci si aspettava.
Da quando Ry Cooder è tornato ad incidere dischi alla vecchia maniera, la trilogia formata da Chàvez Ravine(2005), da il bello My name is Buddy(2007), passando per il meno riuscito I, Flathead(2008) e l'ultimissima collaborazione con i The Chieftains di Paddy Moloney per il riuscito connubio tra Irlanda e Messico, San Patricio(2010), ha inglobato nella sua musica migliore degli anni settanta tutte le infinite esperienze musicali degli anni ottanta e novanta, esperienze che lo hanno portato ad essere uno dei musicisti più completi, ricercati e straordinari del panorama musicale mondiale, senza steccati imposti dai generi.
L'etichetta Nonesuch è stata molto esplicita nel presentare il disco, definendolo come un insieme di strumenti(i testi delle canzoni), utili a noi liberi cittadini per uscire dal quel cerchio pieno di bugie e distrazioni in cui i potenti del mondo vogliono metterci per controllarci, elevando quasi Cooder a livello messianico. Senza eccedere in questo, Cooder, ha scritto un giornale di estrema attualità ma soprattutto di qualità, quei giornali che terminata la lettura quotidiana, non getti nella differenziata ma pieghi con cura, mettendoli da parte e che ti ritrovi a leggere dopo vent'anni, trovandoli ancora di estrema utilità nel loro spirito senza tempo.
Quattordici canzoni di protesta che non possono che rimandare ai grandi precursori come Pete Seeger e Woody Guthrie che si aprono con No Banker Left Behind, ispirata dal giornalista Robert Scheer, il cui titolo non lascia scampo, con i grandi ricchi da una parte e i "poveracci" dall'altra, suonata dal solo Cooder in compagnia del figlio Joachim alla batteria e continuare poi, rispolverando il bandito Jesse James nel walzerone messicano El torrido de Jesse James, con tanto di fiati e la partecipazione di Flaco Jimenez.
Se da una parte tutto ciò può rappresentare, tristemente, l'immobilità dell'essere umano, sempre poco avvezzo ad imparare dagli errori del passato, dall'altra rappresenta un merito ad un Ry Cooder, coraggioso nel'esporre in musica tutti i mali della società americana, mai così lontana dal vecchio e sempre più irrangiungibile American Dream. Quello stesso sogno che vivono ancora i messicani che lasciano la loro terra per intraprendere uno dei più pericolsi viaggi odierni in cerca della vita. Quick Sand è una rock song che parla di quei viaggi insidiosi e di tutti quegli uomini e donne alla ricerca della libertà e condizioni di vita migliori ma anche di chi cerca, con lo spargimento di sangue, di impedirglielo.
Chi non ha mai sperato o voluto che il proprio idolo musicale sedesse alla Casa Bianca? Ry Cooder prova a raccontarcelo in solitaria, in John Lee Hooker for President, un blues narrativo suonato alla Hooker(scomparso giusto dieci anni fa) e cantato come lo avrebbe fatto il bluesman in prima persona. Ancora blues: con forti accenni soul e gospel(forte della riuscita esperienza con Mavis Staples) nella preghiera Lord Tell me Why con la batteria di Jim Keltner e in I want my Crown, corta, ma la più elettrica e cattiva del disco che denuncia la sete di ricchezza con un cantato alla Tom Waits.
Giri la pagina del giornale e ci trovi gli orrori della guerra: giovani che tornano senza arti e con la faccia sfigurata, cervelli persi e rovinati in nome di soldi sperperati. Ma il Natale come ogni anno arriva ugualmente. Christmas Time this year è cinica e dura contro la politica guerrafondaia ma è costruita su ritmi da festa paesana e gioca molto su questo contrasto. Baby joined the Army, canta il trascorrere del tempo e l'attesa in guerra con sola voce e chitarra.
Le chitarre di Cooder come al solito sono protagoniste, sia nei tempi reggaeggianti di Humpty Dumpty World, in cui Cooder ci spiega perchè Dio(ma la compagnia è grande) odia la televisione e in If there's a God, sempre un reggae/rock elettrico che nei tempi più lenti e descrittivi di No Hard Feelings, oppure nelle più folkie ed etniche canzoni come Dreamer dove la fisarmonica di Jimenez disegna suggestive atmosfere d'altri tempi.
Tante cose, in questo disco, Cooder ci include tutto il suo bagaglio e passaporto musicale(partendo dalle roots americane arrivando al Messico, Cuba, gospel, Folk, blues e rock) ma soprattutto una lunga serie di imput e notizie dalla vecchia America poco confortanti, disegnando un quadro attuale poco roseo e felice ma che con la sua musica intorno, sembrano arrivare in modo meno catastrofico e più colorato di quanto potrebbe fare un qualsiasi giornale con i caratteri di stampa in bianco e nero. Un disco da mettere da parte al posto di quei giornali, per ricordarci i nostri punti più bassi ed imparare finalmente dai nostri errori.
sabato 27 agosto 2011
TOM WAITS, nuovo singolo e nuovo album: "BAD AS ME", in uscita il 25 OTTOBRE 2011
E' un Tom Waits alquanto adirato e polemico, quello che compare ciondolante sulla sedia mentre risponde ad un telefono che squilla. Dalle casse disposte nella stanza escono alcune anticipazioni delle canzoni che comporranno il suo prossimo disco, in uscita il 25 Ottobre 2011 per etichetta ANTI.
Waits abbassa l'audio nella stanza con un telecomando e racconta l'origine della sua rabbia: il web(nome e cognome:Amazon), impiccione di natura e con le mani in pasta dappertutto è venuto in possesso di alcune informazioni private e segrete riguardanti il suo prossimo album in uscita, divulgandole, naturalmente, senza il suo consenso.
Il filmato si conclude con una piccola anticipazione del primo singolo Bad as Me, uscito da pochi giorni e con una divertente e sarcastica scenetta con alcuni fans invitati dallo stesso Waits (dopo preventiva perquisizione), ad ascoltare il singolo dall'autoradio di una vecchia macchina, seduti di fianco all'autore/autista. Il singolo, fino a pochi giorni fa, poteva essere ascoltato interamente su Youtube, salvo essere ritirato in fretta e furia. Che il vecchio Tom voglia riaprire una antica e ormai sorpassata polemica tra musica e internet?
Una parte di testo(Bad as me):
You’re the head on the spear
You’re the nail on the cross
You’re the fly in my beer
You’re the key that got lost
You’re the letter from Jesus on the bathroom wall
You’re mother superior in only a bra
You’re the same kind of bad as me
I’m the hat on the bed
I’m the coffee instead
The fish or cut bait
I’m the detective up late
I’m the blood on the floor
The thunder and the roar
The boat that won’t sink
I just won’t sleep a wink
You’re the same kind of bad as me
No good you say
Well that’s good enough for me
Bad as me, sarà anche il titolo dell'album, che succederà a: Real Gone(2004), ultimo album in studio, alla splendida raccolta di inediti in tre cd Orphans:brawlers,bawlers & bastards(2006) e l'uscita Live, Glitter and Doom del 2009.
Le ultime tracce di Waits sono da ricercare nelle sale cinematografiche , nelle sue partecipazioni a La tigre e la neve di Benigni e Parnassus di Terry Gilliam.
Quest'anno è stato introdotto alla Rock'n'roll Hall of Fame da un discorso di Neil Young ed ha partecipato come guest vocal in una canzone di Hank Williams III, da poco uscito sul mercato con un rischiosissimo poker di dischi in contemporanea.
TRACKLIST: Bad As Me ( ANTI records, 2011)
01. Chicago
02. Raised Right Men
03. Talking At The Same Time
04. Get Lost
05. Face To The Highway
06. Pay Me
07. Back In The Crowd
08. Bad As Me
09. Kiss Me
10. Satisfied
11. Last Leaf
12. Hell Broke Luce
13. New Year's Eve
RECENSIONE: http://enzocurelli.blogspot.com/2011/10/recensione-tom-waits-bad-as-me.html
giovedì 25 agosto 2011
RECENSIONE: STATUS QUO (Quid Pro Quo)
STATUS QUO Quid Pro Quo ( e-a-r Music, 2011)
Strana epopea quella degli Status Quo. Derisi, mal recensiti e poco considerati dalla stampa rock e dai critici, possono vantare una infinità di dischi venduti e primi posti in classifica in Inghilterra, negli anni settanta e ottanta,da far invidia alle più blasonate rockstar mondiali. Eppure, il loro nome al di fuori dei confini patrii è conosciuto per un unico brano, quella Whatever you want che con gli anni è diventato un tormentone da spot pubblicitario, conosciuto da tutti; quei tutti ignari, però, di chi fosse il gruppo ad interpretarla; tanto da relegare gli Status Quo ad un non edificante stato di meteora passeggera. La cosa straordinaria è che il grande successo in patria è stato costruito con il potere della sola musica: rock'n'roll boogie semplice e melodico, spesso ripetitivo nella forma, a volte robusto e tendente all'hard/blues, senza disdegnare punte heavy. Un gruppo che ha fatto della coerenza il suo punto di forza, senza vendersi (anche in anni dove il look contava e attirava) e mai cedendo agli eccessi, lasciando, casomai, che la musica, soprattutto in sede live, vincesse sull'aspetto visivo. In tempi in cui anche grandi nomi del rock cedevano alle mode del momento, negli anni settanta così come negli anni ottanta, loro rimasero fedeli al rock'n'roll e alla loro immagine tutta jeans e t-shirt.
Quando la critica li snobbava, sottolineando la semplicità delle loro composizioni, costruite su pochi accordi(e ancora oggi è così), rispetto al grandiosità imperante del prog rock negli anni settanta, loro hanno sempre risposto con il sudore e la simpatia, facendo del rock'n'roll una filosofia di vita che ancora oggi a quasi cinquant'anni dalla loro nascita (nacquero nel lontano 1962!), resiste e a conti fatti, fa la differenza.
Gli Status Quo sono ancora in pista, in barba a chi ha sempre creduto fossero un gruppo meteora, incuranti di tutto. Nel 2011 escono con il loro ventinovesimo album e un suono che incredibilmente li riporta indietro agli anni d'oro, dopo alcune prove sotto tono.
Attraversati indenni gli anni novanta e zero, si presentano con la coppia Francis Rossi/Rick Parfitt in grande forma.Completano la formazione l'altro veterano Andy Bown alle tastiere,John "Rhino" Edwards al basso e Matt Letley alla batteria. I loro duelli chitarristici, in questo album, tornano ad essere gli stessi che animavano dischi come Piledriver, Hello!, Blue for you, Rockin' all over the world, certamente meno grezzi ma sempre riconoscibili.
Anche se sembra di ascoltare la stessa canzone ripetutta per l'ennesima volta(Ac/Dc, Motorhead...fanno buona compagnia), il disco fila via piacevole e con una ritrovata verve, tra momenti più duri come l'opener Two Way Traffic, Movin'On, la Heavy e quasi epica Frozen Hero,
Hard/rock boogie trascinanti come Rock'n'roll'n'You, Let's rock, con i suoi fiati non così lontani da quanto proposto da gruppi southern rock come i Molly Hatchet, rock'n'roll semplici semplici come Any Way You Like it, trascinanti blues Reality Cheque.
Un suono con un trade mark riconoscibile, una longevità artistica con pochi eguali ed infuocati set live sono il loro biglietto da visita nel'anno 2011, così come lo era negli anni settanta.
Come bonus, il rifacimento di In The Army Now (cover dei Bolland & Bolland), successo già proposto nell'omonimo disco del 1986 ed ora reincisa per beneficienza ed un altro cd "Official Live Bootleg", dieci canzoni( tra cui le immancabili Whatever You Want e Rockin' all Over The World) live registrate ad Amsterdam e Melbourne durante il Tour 2010.
Strana epopea quella degli Status Quo. Derisi, mal recensiti e poco considerati dalla stampa rock e dai critici, possono vantare una infinità di dischi venduti e primi posti in classifica in Inghilterra, negli anni settanta e ottanta,da far invidia alle più blasonate rockstar mondiali. Eppure, il loro nome al di fuori dei confini patrii è conosciuto per un unico brano, quella Whatever you want che con gli anni è diventato un tormentone da spot pubblicitario, conosciuto da tutti; quei tutti ignari, però, di chi fosse il gruppo ad interpretarla; tanto da relegare gli Status Quo ad un non edificante stato di meteora passeggera. La cosa straordinaria è che il grande successo in patria è stato costruito con il potere della sola musica: rock'n'roll boogie semplice e melodico, spesso ripetitivo nella forma, a volte robusto e tendente all'hard/blues, senza disdegnare punte heavy. Un gruppo che ha fatto della coerenza il suo punto di forza, senza vendersi (anche in anni dove il look contava e attirava) e mai cedendo agli eccessi, lasciando, casomai, che la musica, soprattutto in sede live, vincesse sull'aspetto visivo. In tempi in cui anche grandi nomi del rock cedevano alle mode del momento, negli anni settanta così come negli anni ottanta, loro rimasero fedeli al rock'n'roll e alla loro immagine tutta jeans e t-shirt.
Quando la critica li snobbava, sottolineando la semplicità delle loro composizioni, costruite su pochi accordi(e ancora oggi è così), rispetto al grandiosità imperante del prog rock negli anni settanta, loro hanno sempre risposto con il sudore e la simpatia, facendo del rock'n'roll una filosofia di vita che ancora oggi a quasi cinquant'anni dalla loro nascita (nacquero nel lontano 1962!), resiste e a conti fatti, fa la differenza.
Gli Status Quo sono ancora in pista, in barba a chi ha sempre creduto fossero un gruppo meteora, incuranti di tutto. Nel 2011 escono con il loro ventinovesimo album e un suono che incredibilmente li riporta indietro agli anni d'oro, dopo alcune prove sotto tono.
Attraversati indenni gli anni novanta e zero, si presentano con la coppia Francis Rossi/Rick Parfitt in grande forma.Completano la formazione l'altro veterano Andy Bown alle tastiere,John "Rhino" Edwards al basso e Matt Letley alla batteria. I loro duelli chitarristici, in questo album, tornano ad essere gli stessi che animavano dischi come Piledriver, Hello!, Blue for you, Rockin' all over the world, certamente meno grezzi ma sempre riconoscibili.
Anche se sembra di ascoltare la stessa canzone ripetutta per l'ennesima volta(Ac/Dc, Motorhead...fanno buona compagnia), il disco fila via piacevole e con una ritrovata verve, tra momenti più duri come l'opener Two Way Traffic, Movin'On, la Heavy e quasi epica Frozen Hero,
Hard/rock boogie trascinanti come Rock'n'roll'n'You, Let's rock, con i suoi fiati non così lontani da quanto proposto da gruppi southern rock come i Molly Hatchet, rock'n'roll semplici semplici come Any Way You Like it, trascinanti blues Reality Cheque.
Un suono con un trade mark riconoscibile, una longevità artistica con pochi eguali ed infuocati set live sono il loro biglietto da visita nel'anno 2011, così come lo era negli anni settanta.
Come bonus, il rifacimento di In The Army Now (cover dei Bolland & Bolland), successo già proposto nell'omonimo disco del 1986 ed ora reincisa per beneficienza ed un altro cd "Official Live Bootleg", dieci canzoni( tra cui le immancabili Whatever You Want e Rockin' all Over The World) live registrate ad Amsterdam e Melbourne durante il Tour 2010.
domenica 21 agosto 2011
RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS Live@FESTIVAL CONTRO,Castagnole Delle Lanze(ASTI), 20 Agosto 2011
Castagnole Delle Lanze si erge strategicamente e democraticamente, esattamente in mezzo tra le Langhe e il Monferrato, terre piemontesi di vino(Barbera, Dolcetto,Moscato, Barolo, Nebbiolo), traendone estremo beneficio per quanto riguarda la produzione del prezioso frutto della vite e paesaggisticamente parlando, offrendo un balcone privilegiato sul cuore del Piemonte.
Quando sei immerso in questi luoghi, tra le pittoresche valli, non puoi uscirne senza macchiarti l'abito e il cervello ("quando bacco trionfa il pensier fugge") con il rosso e bianco nettare. Davide Van De Sfroos e la sua band non si sono sottratti alla benedizione in giornata e stasera, complici i fumi dell'alcol e il caldo di una afosa giornata di Agosto hanno offerto uno spettacolo divertente e festoso(alcune canzoni ne hanno beneficiato: l'esecuzione della ciondolante Setembra è venuta meglio del solito, ovviamente ), confermando quanto il cantautore di Mezzegra riesca a dare il meglio di sè, quando il contorno riesce ad offrire nuovi spunti per le sue canzoni e le sue storie, lasciando che l'improvvisazione abbia la sua parte nello spettacolo e i divertenti monologhi diventano anche strategici per tirare il fiato.
Il Tour estivo di "Yanez" tocca il Festival Contro, festival della canzone d'impegno, nato per ricordare Augusto Daolio e Dante Pergreffi, membri dei Nomadi scomparsi troppo presto nel 1992 e che vede tra gli organizzatori proprio Beppe Carletti, fondatore e tastierista storico del gruppo emiliano.
La piazza San Bartolomeo di Castagnole si trova nella parte bassa del paese e si riempie molto lentamente, complice il caldo della giornata che ha depositato la sua lenta stanchezza nelle ore serali di un sabato, anticipatore degli imminenti rientri estivi.
Per chi segue Van De Sfroos da anni, impossibile non notare quanto il suo pubblico, dopo l'apparizione al Festival di Sanremo, si sia in parte diversificato, inglobando nuove categorie di persone che lo hanno scoperto dopo la kermesse ligure ma questo non è un male, anzi. Lui, invece, è rimasto lo stesso e questo tour estivo è l'ennesima conferma di quanto sia grande la sua abilità nel costruire sempre spettacoli diversi e nel dare ogni volta, ad ogni tour, arrangiamenti alle canzoni sempre nuovi e fantasiosi. In questo tour, la novità più rilevante si chiama Roberta Carrieri, un'artista che da anni lavora nel sottobosco(meritando sicuramente più esposizione), ponendosi in mezzo tra la musicista e la performer teatrale(bella e sensuale l'idea delle due mele rosse durante la vecchia reggaeggiante e "piccante" La poma). Già vista negli ultimi Fiamma Fiumana, Roberta Carrieri con un disco solista all'attivo( "Dico a tutti così"del 2009) stasera riesce a rubare un pò di scena a Van De Sfroos o per lo meno a catalizzare gli sguardi dei maschietti
presenti in modo molto malizioso ed elegante ma soprattutto grazie ad una strabordante personalità e alla sua bella e particolare voce che potete ascoltare anche su Dove non basta il mare, canzone contenuta nell'ultimo "Yanez" e suonata anche stasera.
A parte le nuove canzoni estratte dall'ultimo album "Yanez"(i mariachi del lago di Como El Carnevaal de Schignan e Yanez, la nostalgica La machina del ziu Toni e le due già citate), è il momento di tirare fuori quei vecchi cavalli di battaglia che hanno permesso a Van De Sfroos di arrivare dove è ora. Kapitan Kurlash, il blues di Trenu Trenu, la poetica di ...e sem partii, da "...e sem partii"(2001 ) sono particolarmente gradite ai vecchi fans e suonate con una band ormai collaudata con la chitarra"blues" del buon Maurizio Gnola, l'inseparabile violino del fido Angapiemage Galiano Persico, la fisarmonica, le tastiere e la tromba di un allegro e burlone Davide Brambilla e la sezione ritmica formata da Marcello"bread" Schena alla batteria e Paolo Legramandi al basso.
L'apertura affidata a Lo sciamano, La ballata del cimino da "Pica!"(2008), il sempre divertente, danzereccio e veloce country di Nona Lucia da "Akuaduulza"(2005 ) e le vecchie Pulenta e galena fregia, Ninna nanna del contrabbandiere arrivano prima del gran finale ma soprattutto prima che il vino, altro gran protagonista del concerto non irrompa ancora sul palco, anche se in compagnia di "pessimi" ma necessari integratori salini.
Van De sfroos viene premiato con una targa alla carriera dagli organizzatori del festival e tra i regali riceve l'attestato di adozione di un filare di viti, iniziativa del comune(http://www.lanze.it/adotta-un-filare )che non manca di essere spunto per un divertente monologo su cosa gastronomicamente parlando potrebbero dare in affidamento in Germania(wurstel e boccali di birra?).
Il premio alla carriera diventa subito premio alla "curiera" e il finale è tutto per La Curiera e La balera , suonate , in modo molto più blando e lento del solito, evidentemente il vino stasera voleva essere protagonista assoluto.
In una atmosfera ideale per Van De Sfroos, questo è il suo suo lato estivo e bonaccione che si contrappone a quello più serioso e cantautorale da teatro e club, il concerto si chiude con gli inchini dei musicisti sotto le note di (Ghost) Riders in the sky di Johnny Cash.
" ‘Na bôna ‘mberiacura tre dì a dura "
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/03/recensione-davide-van-de-sfroos-yanez.html
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
giovedì 18 agosto 2011
RECENSIONE/Reportage: FLOGGING MOLLY+Street Dogs, Live@Carroponte, Sesto San Giovanni (MI), 17 Agosto 2011
In un mese come Agosto, sempre avaro di concerti in città, il festival del Carroponte a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, si propone come un'ottima occasione per smentire il tutto ed invertire la rotta.
Nessun palco a lato di un bancone da pub pieno di pinte di Guiness, nessun breve set inserito in qualche festival, ma un concerto da headliner per i Flogging Molly, stasera, sotto le ingombranti, bizzarre, coreografiche e anche nostalgiche strutture che una volta tenevano in piedi il lavoro e che lo stesso Dave King, voce e leader del gruppo statunitense ha elogiato durante il concerto.
Prendete una calda serata di questo strano agosto che sta riversando la sua parte più afosa nella seconda metà dei suoi giorni, prendete tutto il calore che si potrebbe respirare in un incandescente pub irlandese in una fredda giornata autunnale riscaldata dall'alcol che scorre velocemente nelle vene, in entrambi i casi i losangelini Flogging Molly promettono sudore e divertimento. La band del rosso, nativo irlandese, Dave King (emigrato giovanissimo negli States ed ex cantante di Fastway e Katmandu) approda al Carroponte di Sesto San Giovanni, una serata dopo l'avvento dei NOFX e fa incetta di consensi dopo il breve set offerto sempre a Milano in Giugno al Rock in Idrho.
Carroponte,un festival che ancora una volta si distingue, oltre per la location, per l'ottima organizzazione, sia nella parte prettamente musicale(orari rispettati al secondo) che per la parte più ludica e gastronomica, punti merchandise e cibo ottimamente disposti ed efficienti.
Con ancora gli effetti post-ferragostani nell'aria, l'atmosfera è di tutta rilassatezza e divertimento, già a partire dall'apertura affidata agli Street Dogs, band bostoniana capeggiata da Ian Mc Colgan, primo cantante dei Dropkick Murphys che nel 2002 ha messo in piedi una propria formazione con all'attivo già cinque album, con l'ultimo omonimo uscito l'anno scorso. Il set dura quasi un'ora, a colpi di street punk diretto ed anthemico con Mc Colgan che si prodiga nel coinvolgere il pubblico, facendosi apprezzare anche nei pezzi più lenti ed irish fino al finale di Fighter mischiata a Guns of Brixton, omaggio ai maestri Clash.
Puntuali, come da copione, i Flogging Molly, questa sera, hanno la possibilità di proporre una selezione più ampia della loro discografia, dopo l'aperitivo offerto al Rock in Idrho del Giugno scorso prima dei Foo Fighters. Come sempre Dave King, impeccabilmente vestito, è un trascinatore nato, non risparmiandosi in energie, parole e ringraziamenti( ne ha per tutti: la moglie Bridget Regan seria e concentrata
violinista al suo fianco, i NOFX di Fat Mike che hanno suonato la sera prima ma fermi a Milano e presenti nel backstage, a cui dedicano Revolution e Selfish Man, la mamma, " l'italiano " Trapattoni, ct della nazionale di calcio irlandese e naturalmente il pubblico presente). Con un occhio di riguardo per l'ultimo disco Speed of darkness, uscito in primavera(recensione:http://enzocurelli.blogspot.com/2011/05/recensione-flogging-molly-speed-of.html ) e proposto ampiamente(Speed of Darkness, Revolution, Don't shut em'down, Saint & Sinners, Oliver Boy), la scaletta pesca lungo la quindicennale carriera del gruppo di Los Angeles, che con il tempo si è guadagnato la fama mondiale tra i migliori gruppi irish-rock, soprattutto grazie alla carica naturale dei loro concerti ed a una maturazione artistica evidente a distanza di otto anni , quando li vidi per la prima volta sopra ad un palco.
Il loro sapiente amalgama di elettro ed acustico gioca tra la contrapposizione di momenti di totale assalto folk/punk come nelle più vecchie Swagger, Devil's dance floor, Salty Dog(dal primo album "Swagger",2000), Drunken Lullabies, Rebels of the Sacred Heart e l'inno What's left of flag dal loro piccolo capolavoro "Drunken Lullabies"(2002), Requiem for a dying song dal più
recente "Float"(2007) dove il pubblico si scatena in una bolgia quasi infernale e sognanti ballate come So Sail On, The worst day since yesterday e la country/folk Factory Girls(in studio cantata insieme a Lucinda Williams) con il violino, il banjo suonato da Robert Schmidt e la farfisa di Matthew Hensley che si impossessano della scena e fanno respirare.
Dave King si agita e accenna i tipici passi di danza irlandesi, brinda e regala lattine di Guiness, scherza con il pubblico, andando a scovare bandiere e le loro t-shirts tra cui quelle dei suoi amati Ac/Dc(non è un caso che prima dell'inizio del concerto venga sparata It's a Long Way to the Top), coaudiuvato dal bassista Nathen Maxwell, il chitarrista in "black" Dennis Casey e il prossimo papà George Schwindt alla batteria.
Il finale è tutto per Float, canzone del penultimo album ma entrata in pianta stabile tra i bis, molto amata da King, esortazione a rimanere a galla in periodi economicamente duri come questi, con il mondo in mano a pochi speculatori finanziari e la scatenata Seven Deadly Sins dal poco acclamato "Within a mile of Home"(2004 ) a cui spetta il compito di chiudere degnamente le danze, con il gruppo sentitamente colpito dall'accoglienza ricevuta in questa calda notte di metà estate.
A questo punto, con i NOFX, presenti e nascosti, la ciliegina sulla torta ad un concerto sentito e già straordinario di suo, poteva essere una jam tra i due gruppi che purtroppo non si è avverata. La serata è stata, per una volta, tutta per i Flogging Molly. Meritata.
SETLIST
1.The Likes of You Again 2.Swagger 3.Speed of Darkness 4.Requiem for a Dying Song 5.The Worst Day Since Yesterday 6.Revolution 7.Selfish Man 8.Saints & Sinners 9.Drunken Lullabies 10.So Sail On 11.Factory Girls 12.The Wanderlust 1 3.Oliver Boy (All of Our Boys)
14.Tobacco Island 15.Rebels of the Sacred Heart 16.Devil's Dance Floor 17.If I Ever Leave This World Alive 18.Don't Shut 'Em Down 19.Salty Dog 20.What's Left of the Flag 21.Float 22.The Seven Deadly Sins
Anche su impattosonoro.it con foto di Neluma Skull:
http://www.impattosonoro.it/2011/08/24/reportage/photo-reportage-flogging-molly-street-dogs-carroponte-sesto-san-giovanni-mi-17-agosto-2011/
mercoledì 17 agosto 2011
RECENSIONE: JEFF BRIDGES (Jeff Bridges)
JEFF BRIDGES Jeff Bridges ( Blue Note Records, 2011)
Jeff Bridges sembra non sbagliare un colpo, sia davanti alla camera da presa che con una chitarra in mano.
Crazy Heart, il film dove Jeff Bridges, interpreta il musicista country "Bad" Blake a fine carriera, un perdente in grado di risollevare le proprie sorti finite in disgrazia, ha dato una notevole spinta all'attore nel tentare la seconda carta in campo musicale. Già autore di un album Be Here Soon uscito nel 2000, questo omonimo riprende il discorso di Crazy Heart e riparte dagli oscar vinti dal film, uno come migliore attore e l'altro dalla canzone The weary kind di Ryan Bingham, che ne faceva da soundtrack.
Jeff Bridges possiede tutto quello che un musicista vorrebbe possedere, incarnando alla perfezione il personaggio creato nel romanzo inedito di Thomas Cobb , da cui fu tratto il film, una sovrapposizione di ruoli che a questo punto non lascia dubbi sulle effettive capacità musicali di Bridges. Introspezione e fascino escono prepotenti dal disco, grazie al lavoro in produzione di un pezzo da novanta come T-Bone Burnett e all'aiuto in fase di scrittura(Stephen Bruton, Greg Brown, Bo Ramsley, T-Bone Burnett e Jo Goodwin) e realizzazione dai grandi musicisti coinvolti tra cui quel Ryan Bingham, vincitore dell'oscar.
Un disco che gioca sui chiaro-scuri, con questi ultimi a prevalere grazie alla profonda vocalità di Bridges e ballate dal carattere prettamente greve che hanno la solitudine, il tempo e il suo scorrere come protagonisti. Affiancato da una band di tutto rispetto composta da Marc Ribot alle chitarre, Jay Bellerose alla batteria, Dennis Crouch al basso, Russ Pahl alla pedal steel e ospiti come Rosanne Cash e Ryan Bingham, il disco è un campionario di "americana" country music che scivola piacevolmente in modo suadente e rilassante (a volte anche troppo).
Eccezione per l'apertura What a ittle bit of Love can do, primo singolo, canzone che stacca dal resto del disco, grazie ad un appeal da song semi-elettrica "radiofonica", puntellata dai cori dell'ospite Bingham, subito bilanciata dalla tranquilla Falling Short che da il carattere al resto dell'abum.
Le restanti, sono canzoni, alcune risalenti a molto tempo fa, in cui Bridges(un artista predestinato: il suo esordio nel mondo artistico è da far risalire a quando aveva pochissimi mesi di età) mette in mostra l'amore per il folk/country malinconico e darkeggiante (Everything but love, Nothing Yet), spunti di jazz notturno affiorano in Tumbling Vine ed il blues con il pianoforte di Keefus Ciancia protagonista in Blue Car.
Bella l'accoppiata Maybe I missed the point, Slow boat, malinconia che porta lontano e Bridges che con la sua voce suadente completa il quadro.
Purtroppo il disco qualche difetto lo ha, peccando di dinamismo e le ultime tracce, Ether Way e The Quest , apprezzabili se prese singolarmente, nel complesso abbassano il tono di un disco che molto deve alla mano del produttore Burnett, che spesso affianca alla voce di Bridges, la voce femminile, cercando di ricalcare il buon lavoro fatto qualche anno fa con la coppia Plant-Krauss, senza raggiungerne però l'intensità e quei guizzi necessari per non far cadere il disco nel soporifero.
Insomma, quel che manca sono le canzoni che "restano", senza dimenticare, comunque, che il tutto veleggia al di sopra della sufficienza ed a sentire l'attore, questo disco omonimo , non è altro che un nuovo inizio della sua carriera musicale.
Jeff Bridges sembra non sbagliare un colpo, sia davanti alla camera da presa che con una chitarra in mano.
Crazy Heart, il film dove Jeff Bridges, interpreta il musicista country "Bad" Blake a fine carriera, un perdente in grado di risollevare le proprie sorti finite in disgrazia, ha dato una notevole spinta all'attore nel tentare la seconda carta in campo musicale. Già autore di un album Be Here Soon uscito nel 2000, questo omonimo riprende il discorso di Crazy Heart e riparte dagli oscar vinti dal film, uno come migliore attore e l'altro dalla canzone The weary kind di Ryan Bingham, che ne faceva da soundtrack.
Jeff Bridges possiede tutto quello che un musicista vorrebbe possedere, incarnando alla perfezione il personaggio creato nel romanzo inedito di Thomas Cobb , da cui fu tratto il film, una sovrapposizione di ruoli che a questo punto non lascia dubbi sulle effettive capacità musicali di Bridges. Introspezione e fascino escono prepotenti dal disco, grazie al lavoro in produzione di un pezzo da novanta come T-Bone Burnett e all'aiuto in fase di scrittura(Stephen Bruton, Greg Brown, Bo Ramsley, T-Bone Burnett e Jo Goodwin) e realizzazione dai grandi musicisti coinvolti tra cui quel Ryan Bingham, vincitore dell'oscar.
Un disco che gioca sui chiaro-scuri, con questi ultimi a prevalere grazie alla profonda vocalità di Bridges e ballate dal carattere prettamente greve che hanno la solitudine, il tempo e il suo scorrere come protagonisti. Affiancato da una band di tutto rispetto composta da Marc Ribot alle chitarre, Jay Bellerose alla batteria, Dennis Crouch al basso, Russ Pahl alla pedal steel e ospiti come Rosanne Cash e Ryan Bingham, il disco è un campionario di "americana" country music che scivola piacevolmente in modo suadente e rilassante (a volte anche troppo).
Eccezione per l'apertura What a ittle bit of Love can do, primo singolo, canzone che stacca dal resto del disco, grazie ad un appeal da song semi-elettrica "radiofonica", puntellata dai cori dell'ospite Bingham, subito bilanciata dalla tranquilla Falling Short che da il carattere al resto dell'abum.
Le restanti, sono canzoni, alcune risalenti a molto tempo fa, in cui Bridges(un artista predestinato: il suo esordio nel mondo artistico è da far risalire a quando aveva pochissimi mesi di età) mette in mostra l'amore per il folk/country malinconico e darkeggiante (Everything but love, Nothing Yet), spunti di jazz notturno affiorano in Tumbling Vine ed il blues con il pianoforte di Keefus Ciancia protagonista in Blue Car.
Bella l'accoppiata Maybe I missed the point, Slow boat, malinconia che porta lontano e Bridges che con la sua voce suadente completa il quadro.
Purtroppo il disco qualche difetto lo ha, peccando di dinamismo e le ultime tracce, Ether Way e The Quest , apprezzabili se prese singolarmente, nel complesso abbassano il tono di un disco che molto deve alla mano del produttore Burnett, che spesso affianca alla voce di Bridges, la voce femminile, cercando di ricalcare il buon lavoro fatto qualche anno fa con la coppia Plant-Krauss, senza raggiungerne però l'intensità e quei guizzi necessari per non far cadere il disco nel soporifero.
Insomma, quel che manca sono le canzoni che "restano", senza dimenticare, comunque, che il tutto veleggia al di sopra della sufficienza ed a sentire l'attore, questo disco omonimo , non è altro che un nuovo inizio della sua carriera musicale.
martedì 16 agosto 2011
RECENSIONE: UFO (Chrysalis Years 1973-1979)
UFO The Chrysalis Years (1973-1979) (box 5 cd, Chrysalis EMI, 2011)
E' il 1973 quando un ragazzino di soli diciotto anni decise di lasciare la Germania dove con il fratello aveva appena messo in piedi un gruppo di nome Scorpions, per entrare in una band inglese con all'attivo tre album, e iniziare un'avventura che li farà entrare nella storia dell'hard rock. Quel ragazzino si chiamava Michael Schenker, la band inglese UFO e la loro avventura è racchiusa in gran parte (almeno la più importante e significativa), in questi 5 dischi (è bene sottolinearlo:in vendita al prezzo di uno!, praticamente) che la vecchia casa discografica di allora ha deciso di mettere sul mercato. 5 dischi che ripercorrono la carriera della band dal 1973 al 1979 ed includono integralmente i 6 album registrati in quei sette anni più parecchie b-sides mai apparse in cd, un concerto completamente inedito (Registrato ad Atlanta nel 1974) ed un libretto di 16 pagine con una intervista attuale a Phil Mogg e le liner notes basilari delle canzoni(mancano i testi).
L'avvento di Schenker in sostituzione di Mick Bolton, cambiò letteralmente la musica degli UFO, che nel frattempo, comunque, riuscirono a conquistare i mercati di Germania e Giappone, abbandonando lo space rock dei loro primi due dischi e indirizzandoli verso un scintillante Hard Rock che farà scuola successivamente, divenendo a tutti gli effetti precursori delll'ancora embrionale Heavy Metal.
L'impatto di un disco come Phenomenon(1974)***** è stupefacente ancora al giorno d'oggi, canzoni come Oh my, Doctor doctor e Rock Bottom sono in grado di travolgere grazie alla funanbolica chitarra hard del biondo tedesco e ai suoi riff , la straordinaria voce di Phil Mogg, un cantante dalla voce calda ed espressiva, spesso dimenticato ma dal valore assoluto e una sezione ritmica guidata dal basso di Pete Way e dalla batteria di Andy Parker. Accanto ad episodi heavy/hard rock ci sono episodi più melodici come Crystal Light e Space Child( con uno Schenker che impazza lungo tutta la traccia), la sognante ballad strumentale Lipstick Traces e blues chitarristici come Built For Comfort. Un piccolo capolavoro senza cedimenti con dieci piccoli classici.
In quegli anni non si perdeva tempo tra un disco e il successivo, ecco così un anno dopo: Force it(1975)***. Sempre prodotto da Leo Lyons (ex Ten years after), il disco farà da trampolino di lancio per la conquista del mercato americano. Compaiono per la prima volta le tastiere che negli anni si prenderanno sempre più spazio. L'iniziale Let it roll è una cavalcata hard che si apre nel mezzo lasciando a Schenker campo libero. Shoot shoot è un nuovo classico da suonare live, Mother Mary e Dance your life away sono due solide mid tempo songs mentre High Flyer è una ballad che esplora il lato melodico.
Da questo disco comincerà anche la collaborazioe artistica con Hipgnosis che ne curerà le splendide e bizzarre copertine.
Mentre in seno al gruppo iniziano a mettersi in mostra i caratteri autoritari dei due leader , il cantante Mogg e il chitarrista Schenker,
che spesso andranno a cozzare contro con i risultati che si vedranno in seguito, il tastierista Danny Peyronel inizia ad avere la sua importanza nella stesura dei pezzi in No Heavy Petting(1976)***. Anche qui comunque non mancano bordate hard come la terremotante e veloce Can You Roll her, Reasons Love, l'apertura hard rock'n'roll Natural thing e il boggie/roll, Highway Lady (composta da Peyronel). In questo disco a brillare di luce propria sono due lenti straordinari come Belladonna con i suoi arpeggi malinconici e la finale ed ipnotica Martian Landscape.
Intanto per tenere a bada l'istrionico e inaffidabile Schenker, gli viene affiancato-precauzionalmente- in sede live, il secondo chitarrista Paul Chapman (proveniente dagli Skid Row di Gary Moore). In Lights Out (1977)****, il tastierista Peyronel viene immediatamente sostituito da Paul Raymond(ex Savoy Brown), tenendo fede alla difficile coesione con un leader quasi dittatore come Mogg.
Lights Out viene considerato il picco artistico e compostivo degli Ufo, anche se io continuo a preferirgli la grezza attitudine di Phenomenon.
Mentre lo stile chitarristico di Schenker si affina sempre di più, anche le canzoni iniziano ad avere costruzioni ed arrangiamenti più complessi e ricercati, Love to love (quasi progressive nel suo incedere) o puntate nell'AOR rock come in Just another suicide. Anche se non mancano canzoni hard come Too hot to handle, Electric Phase o la title track.
A questo punto Schenker inizia la sua personale battaglia con la band a suon di misteriose scomparse alla vigilia di importanti tour e litigi con il resto della band. Droghe e manie personali di grandezza di tutti i membri fecero il resto.
C'è ancora tempo per Obsession(1978)***1/2, un disco ancora sopra la media ma che sposta le coordinate verso l'America. Buoni hard rock come Only you can rock me, Pack it up(And go) ,
Ain't no baby, You don't fool me con la buona prova di Schenker, richiami folk come la breve strumentale Arbory Hill, o ballad orchestrali come Lookin' Out for No1, poco possono fare per arginare la rottura in seno al gruppo.
A questo punto la rottura con Schenker è inevitabile ed il resto della storia degli Ufo verrà riscritta negli anni ottanta alle porte.
Un piccolo greatest hits della band in forma smagliante con Schenker strepitoso negli assoli e tutta la band in palla: potenza, melodia, tecnica, anthem, intensità, non manca nulla. Un album senza punti deboli e da tramandare alle future generazioni.
E' il 1973 quando un ragazzino di soli diciotto anni decise di lasciare la Germania dove con il fratello aveva appena messo in piedi un gruppo di nome Scorpions, per entrare in una band inglese con all'attivo tre album, e iniziare un'avventura che li farà entrare nella storia dell'hard rock. Quel ragazzino si chiamava Michael Schenker, la band inglese UFO e la loro avventura è racchiusa in gran parte (almeno la più importante e significativa), in questi 5 dischi (è bene sottolinearlo:in vendita al prezzo di uno!, praticamente) che la vecchia casa discografica di allora ha deciso di mettere sul mercato. 5 dischi che ripercorrono la carriera della band dal 1973 al 1979 ed includono integralmente i 6 album registrati in quei sette anni più parecchie b-sides mai apparse in cd, un concerto completamente inedito (Registrato ad Atlanta nel 1974) ed un libretto di 16 pagine con una intervista attuale a Phil Mogg e le liner notes basilari delle canzoni(mancano i testi).
L'avvento di Schenker in sostituzione di Mick Bolton, cambiò letteralmente la musica degli UFO, che nel frattempo, comunque, riuscirono a conquistare i mercati di Germania e Giappone, abbandonando lo space rock dei loro primi due dischi e indirizzandoli verso un scintillante Hard Rock che farà scuola successivamente, divenendo a tutti gli effetti precursori delll'ancora embrionale Heavy Metal.
L'impatto di un disco come Phenomenon(1974)***** è stupefacente ancora al giorno d'oggi, canzoni come Oh my, Doctor doctor e Rock Bottom sono in grado di travolgere grazie alla funanbolica chitarra hard del biondo tedesco e ai suoi riff , la straordinaria voce di Phil Mogg, un cantante dalla voce calda ed espressiva, spesso dimenticato ma dal valore assoluto e una sezione ritmica guidata dal basso di Pete Way e dalla batteria di Andy Parker. Accanto ad episodi heavy/hard rock ci sono episodi più melodici come Crystal Light e Space Child( con uno Schenker che impazza lungo tutta la traccia), la sognante ballad strumentale Lipstick Traces e blues chitarristici come Built For Comfort. Un piccolo capolavoro senza cedimenti con dieci piccoli classici.
In quegli anni non si perdeva tempo tra un disco e il successivo, ecco così un anno dopo: Force it(1975)***. Sempre prodotto da Leo Lyons (ex Ten years after), il disco farà da trampolino di lancio per la conquista del mercato americano. Compaiono per la prima volta le tastiere che negli anni si prenderanno sempre più spazio. L'iniziale Let it roll è una cavalcata hard che si apre nel mezzo lasciando a Schenker campo libero. Shoot shoot è un nuovo classico da suonare live, Mother Mary e Dance your life away sono due solide mid tempo songs mentre High Flyer è una ballad che esplora il lato melodico.
Da questo disco comincerà anche la collaborazioe artistica con Hipgnosis che ne curerà le splendide e bizzarre copertine.
Mentre in seno al gruppo iniziano a mettersi in mostra i caratteri autoritari dei due leader , il cantante Mogg e il chitarrista Schenker,
che spesso andranno a cozzare contro con i risultati che si vedranno in seguito, il tastierista Danny Peyronel inizia ad avere la sua importanza nella stesura dei pezzi in No Heavy Petting(1976)***. Anche qui comunque non mancano bordate hard come la terremotante e veloce Can You Roll her, Reasons Love, l'apertura hard rock'n'roll Natural thing e il boggie/roll, Highway Lady (composta da Peyronel). In questo disco a brillare di luce propria sono due lenti straordinari come Belladonna con i suoi arpeggi malinconici e la finale ed ipnotica Martian Landscape.
Intanto per tenere a bada l'istrionico e inaffidabile Schenker, gli viene affiancato-precauzionalmente- in sede live, il secondo chitarrista Paul Chapman (proveniente dagli Skid Row di Gary Moore). In Lights Out (1977)****, il tastierista Peyronel viene immediatamente sostituito da Paul Raymond(ex Savoy Brown), tenendo fede alla difficile coesione con un leader quasi dittatore come Mogg.
Lights Out viene considerato il picco artistico e compostivo degli Ufo, anche se io continuo a preferirgli la grezza attitudine di Phenomenon.
Mentre lo stile chitarristico di Schenker si affina sempre di più, anche le canzoni iniziano ad avere costruzioni ed arrangiamenti più complessi e ricercati, Love to love (quasi progressive nel suo incedere) o puntate nell'AOR rock come in Just another suicide. Anche se non mancano canzoni hard come Too hot to handle, Electric Phase o la title track.
A questo punto Schenker inizia la sua personale battaglia con la band a suon di misteriose scomparse alla vigilia di importanti tour e litigi con il resto della band. Droghe e manie personali di grandezza di tutti i membri fecero il resto.
C'è ancora tempo per Obsession(1978)***1/2, un disco ancora sopra la media ma che sposta le coordinate verso l'America. Buoni hard rock come Only you can rock me, Pack it up(And go) ,
Ain't no baby, You don't fool me con la buona prova di Schenker, richiami folk come la breve strumentale Arbory Hill, o ballad orchestrali come Lookin' Out for No1, poco possono fare per arginare la rottura in seno al gruppo.
A questo punto la rottura con Schenker è inevitabile ed il resto della storia degli Ufo verrà riscritta negli anni ottanta alle porte.
Nel 1979 uscirà ancora Strangers in the Night(1979)*****, un live registrato a Chicago in America e considerato ancora oggi il più grande testamento della migliore line-up( Mogg-voce, Schenker-chitarra, Raymond-tastiere, chitarra, Parker-batteria, Way-basso) degli UFO e a tutti gli effetti uno dei
migliori album live della storia del rock.Un piccolo greatest hits della band in forma smagliante con Schenker strepitoso negli assoli e tutta la band in palla: potenza, melodia, tecnica, anthem, intensità, non manca nulla. Un album senza punti deboli e da tramandare alle future generazioni.
giovedì 11 agosto 2011
RECENSIONE: E NEMMENO UN RIMPIANTO-Il segreto di CHET BAKER (romanzo di ROBERTO COTRONEO)
e nemmeno un rimpianto-il segreto di Chet Baker (Roberto Cotroneo, Mondadori, romanzo, pag. 180, 2011)
"...Nel silenzio c'è più musica di quanto tu possa soltanto immaginare..."
Chi non ha mai provato almeno nei sogni, anche ad occhi aperti, a mettersi sulle tracce del proprio idolo rock maledetto, quello che è scomparso in circostanze drammatiche ma ancora talmente avvolte dal mistero che i ben informati sostengono che sia ancora vivo, abbia cambiato identità e se la stia passando, o male che vada stia vivacchiando, in qualche luogo sperduto del mondo.
Chet Baker non era un rocker , ma la sua vita ha seguito quei binari che spesso affianchiamo alle vittime del rock'n'roll , scandita da quelle dipendenze che lo hanno reso schiavo, martorizzato nel fisico e spinto alla prematura e drammatica scomparsa, avvenuta ad Amsterdam il 13 Maggio del 1988, quando il suo corpo venne trovato sul marciapiede dell'hotel Prins Hendrik, dopo essere volato dalla finestra del secondo piano. Dove ora, se passate di lì, potrete trovarci una targa commemorativa.
Da qui parte il viaggio a ritroso ma proiettato nel futuro di Roberto Cotroneo, scrittore alessandrino, ma romano di adozione, grande appasionato di musica e musicista( lo si capisce immediatamente) che in un romanzo dove verità e finzione giocano e si incastrano, racconta il suo sogno: mettersi alla ricerca del proprio idolo jazzista.
Un romanzo che sa diventare inchiesta e saggio musicale, dove i protagonisti sono calati in un limbo sospeso tra realtà e finzione, passato, presente e futuro, dove la biografia si intreccia con il romanzo e i personaggi reali sembrano inventati mentre quelli immaginati sono troppo veri per esserlo. Dove anche i luoghi, tutti realmente esistenti sembrano appartenere a un mondo a sè.
E' bastato un piccolo foglio di carta ritrovato in un vecchio armadio di una vecchia abitazione per smuovere l'autore a ripercorrere le tappe della vita di Chet Baker, come in una caccia al tesoro che ha bisogno di tutti i tasselli che porteranno diritti a Chet Baker. In quel foglio , le partiture della canzone più famosa di Baker: My Funny Valentine. Cotroneo segue gli indizi che gli arrivano da chi in vita conobbe Baker, gran frequentatore dell'Italia, fino ad arrivare nel Salento a qui qualcosa succede veramente.Un collegamento tra le tante donne che lo conobbero che portano ad una sola verità.
Durante la lettura, la biografia di Baker viene sviscerata in modo originale, devoto, sfiorando la poesia, raccontata da Cotroneo e dallo stesso Baker(vi ricordate delle famose interviste impossibili). Un romanzo dove le note biografiche dell'autore si intrecciano con quelle di Baker, il fan e il mito diventano protagonisti in egual misura rompendo quel muro che spesso creiamo davanti a personaggi irrangiungibili. Per una volta l'irrangiungibile è stato raggiunto attraverso una scrittura leggera ma nel contempo piena di nozioni e critiche musicali, il rapporto tra Baker e gli altri jazzisti, suoi contemporanei:
(...Chet era la vita quando diventa musica. Mentre Miles Davis era esattamente il contrario. la musica diventava vita... Io l'ho odiato Miles Davis.Sapessi quanto l'ho odiato.E non perchè era più bravo di me...Ma perchè la sua musica era un'arma contro tutti. Mentre per me era uno scudo, o anche peggio...),
il rapporto di Baker con le droghe e il suo approccio generale alla vita che porteranno il lettore, anche chi non aveva mai sentito il nome di Chet Baker prima, ad incuriosirsi e domandarsi spesso in quale punto finisce la finzione ed inizia la realtà ma soprattutto a conoscere uno dei più grandi musicisti del ventesimo secolo. Un romanzo che si legge tutto d'un fiato con la fantasia in continuo viaggio tra il bianco e nero dei ritratti d'epoca e i colori vivaci della Puglia di oggi.
"...Nel silenzio c'è più musica di quanto tu possa soltanto immaginare..."
Chi non ha mai provato almeno nei sogni, anche ad occhi aperti, a mettersi sulle tracce del proprio idolo rock maledetto, quello che è scomparso in circostanze drammatiche ma ancora talmente avvolte dal mistero che i ben informati sostengono che sia ancora vivo, abbia cambiato identità e se la stia passando, o male che vada stia vivacchiando, in qualche luogo sperduto del mondo.
Chet Baker non era un rocker , ma la sua vita ha seguito quei binari che spesso affianchiamo alle vittime del rock'n'roll , scandita da quelle dipendenze che lo hanno reso schiavo, martorizzato nel fisico e spinto alla prematura e drammatica scomparsa, avvenuta ad Amsterdam il 13 Maggio del 1988, quando il suo corpo venne trovato sul marciapiede dell'hotel Prins Hendrik, dopo essere volato dalla finestra del secondo piano. Dove ora, se passate di lì, potrete trovarci una targa commemorativa.
Da qui parte il viaggio a ritroso ma proiettato nel futuro di Roberto Cotroneo, scrittore alessandrino, ma romano di adozione, grande appasionato di musica e musicista( lo si capisce immediatamente) che in un romanzo dove verità e finzione giocano e si incastrano, racconta il suo sogno: mettersi alla ricerca del proprio idolo jazzista.
Un romanzo che sa diventare inchiesta e saggio musicale, dove i protagonisti sono calati in un limbo sospeso tra realtà e finzione, passato, presente e futuro, dove la biografia si intreccia con il romanzo e i personaggi reali sembrano inventati mentre quelli immaginati sono troppo veri per esserlo. Dove anche i luoghi, tutti realmente esistenti sembrano appartenere a un mondo a sè.
E' bastato un piccolo foglio di carta ritrovato in un vecchio armadio di una vecchia abitazione per smuovere l'autore a ripercorrere le tappe della vita di Chet Baker, come in una caccia al tesoro che ha bisogno di tutti i tasselli che porteranno diritti a Chet Baker. In quel foglio , le partiture della canzone più famosa di Baker: My Funny Valentine. Cotroneo segue gli indizi che gli arrivano da chi in vita conobbe Baker, gran frequentatore dell'Italia, fino ad arrivare nel Salento a qui qualcosa succede veramente.Un collegamento tra le tante donne che lo conobbero che portano ad una sola verità.
Durante la lettura, la biografia di Baker viene sviscerata in modo originale, devoto, sfiorando la poesia, raccontata da Cotroneo e dallo stesso Baker(vi ricordate delle famose interviste impossibili). Un romanzo dove le note biografiche dell'autore si intrecciano con quelle di Baker, il fan e il mito diventano protagonisti in egual misura rompendo quel muro che spesso creiamo davanti a personaggi irrangiungibili. Per una volta l'irrangiungibile è stato raggiunto attraverso una scrittura leggera ma nel contempo piena di nozioni e critiche musicali, il rapporto tra Baker e gli altri jazzisti, suoi contemporanei:
(...Chet era la vita quando diventa musica. Mentre Miles Davis era esattamente il contrario. la musica diventava vita... Io l'ho odiato Miles Davis.Sapessi quanto l'ho odiato.E non perchè era più bravo di me...Ma perchè la sua musica era un'arma contro tutti. Mentre per me era uno scudo, o anche peggio...),
il rapporto di Baker con le droghe e il suo approccio generale alla vita che porteranno il lettore, anche chi non aveva mai sentito il nome di Chet Baker prima, ad incuriosirsi e domandarsi spesso in quale punto finisce la finzione ed inizia la realtà ma soprattutto a conoscere uno dei più grandi musicisti del ventesimo secolo. Un romanzo che si legge tutto d'un fiato con la fantasia in continuo viaggio tra il bianco e nero dei ritratti d'epoca e i colori vivaci della Puglia di oggi.
lunedì 8 agosto 2011
RECENSIONE: STEEPWATER BAND ( Clava)
STEEPWATER BAND Clava ( Diamond Day Records, 2011)
Per chi fosse rimasto deluso (certamente non io) dalle ultime ed insistite puntate, almeno su disco, nel roots "americana" intinto di country-folk dei Black Crowes, gli Steepwater Band da Chicago, attivi dal 1998, sono un ottimo surrogato di adrenalinico southern rock a cui piace jammare in territori psichedelici tanto cari ai primi lavori della band dei fratelli Robinson.
Il nuovo disco Clava, il quinto della loro discografia, è stato registrato a Chicago sotto la regia della stessa band e l'aiuto di Colin Sipos.
Sotto una classica formazione trio, gli Steepwater Band, nascondono tutto l'amore per un suono rock tradizionalista, dove il riff di chitarra, la base ritmica e il volume delle casse al massimo sono ancora tutto quello che necessita per fare musica, legandosi fortemente ai grandi hardrock trio degli anni settanta. I loro show incendiari sono stati recentemente immortalati nel Live at the Double Door (2010) e sono un biglietto da visita di tutto rispetto che ne mette in mostra tutti i pregi.
La compattezza è il loro forte sia nei pezzi tirati che nei brani più cadenzati e d'atmosfera.
Se il precedente album in studio Grace and Melody (2008) prodotto da Marc Ford (ex Black Crowes) aveva ancora tra i suoi solchi le impronte dei primi dischi legati alle lunghe jam, mi viene in mente la lunga Waiting to be Offended, questa volta le composizioni si fanno più snelle e potenti, lasciando le improvvisazioni per i set live e abbracciando la varietà e una vena melodica più marcata.
L'apertura Remember the Taker è un cadenzato blues che emerge dai fumi psichedelici e fai il paio con Won't be Long for Now, dove una voce viziata, un tappeto di tastiere ma soprattutto la chitarra di Jeff Massey (anche voce) è protagonista.(Tod Bowers- basso e Joe Winters- batteria, gli altri componenti).
E proprio la chitarra di Massey è il fulcro della musica della band, presente e protagonista in tutti i pezzi dagli assoli fantasiosi come nel finale di Come on Down, rock dall'andamento funky o alle prese con la slide nel potente hard rock di High and Humble, canzone che emana forti e pesanti umori sudisti.
Tante anime popolano Clava, Out on Love è un velocissimo hard boogie che sfoggia un riff di chitarra al limite del metal (quello vero ed incominato dei primi anni ottanta), mentre Meet in the Aftermath è una canzone quasi radiofonica da airplay americano che fa coppia con Love Never Ends, leggera e debitrice del west coast californiano, ricordando tanto gli Eagles.
Ultima menzione per Bury my Burden Deep, che staccandosi dal resto delle canzoni, nasconde l' amore per certe melodie che sanno tanto di '60.
Musica pulsante e viscerale quella degli Steepwater Band, anche se viene a mancare una certa istintività presente nei precedenti lavori, qui addomesticata ma non così tanto da modificare tutta la loro genuinità e passione.
Per chi fosse rimasto deluso (certamente non io) dalle ultime ed insistite puntate, almeno su disco, nel roots "americana" intinto di country-folk dei Black Crowes, gli Steepwater Band da Chicago, attivi dal 1998, sono un ottimo surrogato di adrenalinico southern rock a cui piace jammare in territori psichedelici tanto cari ai primi lavori della band dei fratelli Robinson.
Il nuovo disco Clava, il quinto della loro discografia, è stato registrato a Chicago sotto la regia della stessa band e l'aiuto di Colin Sipos.
Sotto una classica formazione trio, gli Steepwater Band, nascondono tutto l'amore per un suono rock tradizionalista, dove il riff di chitarra, la base ritmica e il volume delle casse al massimo sono ancora tutto quello che necessita per fare musica, legandosi fortemente ai grandi hardrock trio degli anni settanta. I loro show incendiari sono stati recentemente immortalati nel Live at the Double Door (2010) e sono un biglietto da visita di tutto rispetto che ne mette in mostra tutti i pregi.
La compattezza è il loro forte sia nei pezzi tirati che nei brani più cadenzati e d'atmosfera.
Se il precedente album in studio Grace and Melody (2008) prodotto da Marc Ford (ex Black Crowes) aveva ancora tra i suoi solchi le impronte dei primi dischi legati alle lunghe jam, mi viene in mente la lunga Waiting to be Offended, questa volta le composizioni si fanno più snelle e potenti, lasciando le improvvisazioni per i set live e abbracciando la varietà e una vena melodica più marcata.
L'apertura Remember the Taker è un cadenzato blues che emerge dai fumi psichedelici e fai il paio con Won't be Long for Now, dove una voce viziata, un tappeto di tastiere ma soprattutto la chitarra di Jeff Massey (anche voce) è protagonista.(Tod Bowers- basso e Joe Winters- batteria, gli altri componenti).
E proprio la chitarra di Massey è il fulcro della musica della band, presente e protagonista in tutti i pezzi dagli assoli fantasiosi come nel finale di Come on Down, rock dall'andamento funky o alle prese con la slide nel potente hard rock di High and Humble, canzone che emana forti e pesanti umori sudisti.
Tante anime popolano Clava, Out on Love è un velocissimo hard boogie che sfoggia un riff di chitarra al limite del metal (quello vero ed incominato dei primi anni ottanta), mentre Meet in the Aftermath è una canzone quasi radiofonica da airplay americano che fa coppia con Love Never Ends, leggera e debitrice del west coast californiano, ricordando tanto gli Eagles.
Ultima menzione per Bury my Burden Deep, che staccandosi dal resto delle canzoni, nasconde l' amore per certe melodie che sanno tanto di '60.
Musica pulsante e viscerale quella degli Steepwater Band, anche se viene a mancare una certa istintività presente nei precedenti lavori, qui addomesticata ma non così tanto da modificare tutta la loro genuinità e passione.
giovedì 4 agosto 2011
RECENSIONE: BRUNORI SAS (Vol.2: Poveri Cristi)
BRUNORI SAS Vol.2: Poveri Cristi (Picicca, 2011)
Dario Brunori, dopo aver esaminato tutto se stesso nel primo album "Vol.Uno"(acclamato dalla critica e vincitore del premio Ciampi 2009), getta un'occhiata là fuori, attraverso l'oblò che comunica con il mondo. Un mondo piccolo ma aperto a tutti, fatto di gente comune e storie quotidiane quasi familiari e scopre che i suoi dubbi, le incertezze, le prospettive, le paure sono le stesse di Mario, di Bruno e tutte quelle altre persone che incontra ogni giorno, quando decide che i suoi occhi devono sbirciare, curiosi, fuori dall'oblò.
Escono così quadretti di ordinaria follia raccontati come un articolo di cronaca(rosa o nera a seconda dell'umore), nell'Italia di oggi e dell'altro ieri(quella della sua infanzia). Un moderno cantastorie, un narratore dei nostri tempi che guarda, omaggiandoli in alcuni casi, ai cantautori degli anni settanta, prendendone la semplicità musicale e la forte vena narrativa. Non è difficile quindi che ad ogni canzone si possa affiancare un grande cantautore italiano, ma questo Dario lo sa e ci mette pure alcuni indizi per arrivare a capirlo. E' il caso di dell'iniziale Il giovane Mario, che narra il vero e proprio calvario in tempo di crisi economica di Mario e la sua incapacità ad affrontare la vita arrivando anche ad essere incapace nel togliersela quella vita. La canzone rimanda al miglior Lucio Dalla e il testo ci indirizza proprio lì :"...ma ho tre biglietti della lotteria , amore credimi nell’anno che verrà, ci lasceremo dietro la miseria e la malinconia...".
In Lei, lui e Firenze, una melodia sibillina ci porta dalle parti del primo Luca Carboni e della sua Silvia, quasi un plagio d'autore. Voluto?
Ma anche se durante l'ascolto del disco verranno in mente il suo conterraneo Rino Gaetano (il singolo Rosa che sta popolando in questi giorni, non ha bisogno di commenti), Lucio Battisti e il primissimo Vasco Rossi(quello lontano dall'idea di pensionamento) che si interseca con l'attuale Bugo in Animali Colletti, Brunori Sas vive nel presente.
Autore di tutte le canzoni che con taglio ironico e pungente sono un brillante spaccato di cronaca nazionale, fatta di emigrati che scappano dal sud in direzione nord, per lavoro ma anche per amore in Rosa:
(...Rosa non piangere... dai anche io mi voglio sposare... è che senza un lavoro non si tira a campare... devo prendere il treno per andare a Milano a Torino a Bologna... insomma devo scappare... che qui in Calabria non c’è niente proprio niente da fare... c’è chi canta e chi conta e chi continua a pregare...) ,
il senso di perdita degli affetti (Bruno mio dove sei) e dei sentimenti (Tre capelli sul comò), la routine quotidiana e l'eterna lotta nell'accettarla in Una domenica notte e la tenera, fantasiosa filastrocca metaforica La mosca.
Ospiti alla voce, Dente nella battistiana ed ironica Il suo sorriso e Antonio DiMartino nella già citata Animali colletti:
(...che cosa me ne faccio di questi occhi?... la vita è tutta tua se non la tocchi... non ho una casa ...non ho una donna non ho un cane... non ho nemmeno quattro soldi per andarmene a puttane... che vita infame!...).
Tra minimalismo musicale, rincorse di chitarre acustiche e arrangiamenti di archi e fiati mai troppo invasivi, questo secondo lavoro si distingue dall'esordio anche sotto il profilo musicale, confermando la crescita del suo autore.
Vol.2:poveri Cristi è una fotografia divisa a metà, con una parte in bianco e nero che immortala con una certa vena nostalgica gli anni in cui Brunori è cresciuto e una parte che vorrebbe diventare a colori dove è impresso il presente, ma i colori faticano a splendere e rimangono ancora sbiaditi. Un disco piacevolissimo, dove l'amara ironia stempera quelle normali situazioni di vita che ballano tra il tragico e grottesco divenendo spesso delle montagne insormontabili, anche per il più scafato dei viveur.
Dario Brunori, dopo aver esaminato tutto se stesso nel primo album "Vol.Uno"(acclamato dalla critica e vincitore del premio Ciampi 2009), getta un'occhiata là fuori, attraverso l'oblò che comunica con il mondo. Un mondo piccolo ma aperto a tutti, fatto di gente comune e storie quotidiane quasi familiari e scopre che i suoi dubbi, le incertezze, le prospettive, le paure sono le stesse di Mario, di Bruno e tutte quelle altre persone che incontra ogni giorno, quando decide che i suoi occhi devono sbirciare, curiosi, fuori dall'oblò.
Escono così quadretti di ordinaria follia raccontati come un articolo di cronaca(rosa o nera a seconda dell'umore), nell'Italia di oggi e dell'altro ieri(quella della sua infanzia). Un moderno cantastorie, un narratore dei nostri tempi che guarda, omaggiandoli in alcuni casi, ai cantautori degli anni settanta, prendendone la semplicità musicale e la forte vena narrativa. Non è difficile quindi che ad ogni canzone si possa affiancare un grande cantautore italiano, ma questo Dario lo sa e ci mette pure alcuni indizi per arrivare a capirlo. E' il caso di dell'iniziale Il giovane Mario, che narra il vero e proprio calvario in tempo di crisi economica di Mario e la sua incapacità ad affrontare la vita arrivando anche ad essere incapace nel togliersela quella vita. La canzone rimanda al miglior Lucio Dalla e il testo ci indirizza proprio lì :"...ma ho tre biglietti della lotteria , amore credimi nell’anno che verrà, ci lasceremo dietro la miseria e la malinconia...".
In Lei, lui e Firenze, una melodia sibillina ci porta dalle parti del primo Luca Carboni e della sua Silvia, quasi un plagio d'autore. Voluto?
Ma anche se durante l'ascolto del disco verranno in mente il suo conterraneo Rino Gaetano (il singolo Rosa che sta popolando in questi giorni, non ha bisogno di commenti), Lucio Battisti e il primissimo Vasco Rossi(quello lontano dall'idea di pensionamento) che si interseca con l'attuale Bugo in Animali Colletti, Brunori Sas vive nel presente.
Autore di tutte le canzoni che con taglio ironico e pungente sono un brillante spaccato di cronaca nazionale, fatta di emigrati che scappano dal sud in direzione nord, per lavoro ma anche per amore in Rosa:
(...Rosa non piangere... dai anche io mi voglio sposare... è che senza un lavoro non si tira a campare... devo prendere il treno per andare a Milano a Torino a Bologna... insomma devo scappare... che qui in Calabria non c’è niente proprio niente da fare... c’è chi canta e chi conta e chi continua a pregare...) ,
il senso di perdita degli affetti (Bruno mio dove sei) e dei sentimenti (Tre capelli sul comò), la routine quotidiana e l'eterna lotta nell'accettarla in Una domenica notte e la tenera, fantasiosa filastrocca metaforica La mosca.
Ospiti alla voce, Dente nella battistiana ed ironica Il suo sorriso e Antonio DiMartino nella già citata Animali colletti:
(...che cosa me ne faccio di questi occhi?... la vita è tutta tua se non la tocchi... non ho una casa ...non ho una donna non ho un cane... non ho nemmeno quattro soldi per andarmene a puttane... che vita infame!...).
Tra minimalismo musicale, rincorse di chitarre acustiche e arrangiamenti di archi e fiati mai troppo invasivi, questo secondo lavoro si distingue dall'esordio anche sotto il profilo musicale, confermando la crescita del suo autore.
Vol.2:poveri Cristi è una fotografia divisa a metà, con una parte in bianco e nero che immortala con una certa vena nostalgica gli anni in cui Brunori è cresciuto e una parte che vorrebbe diventare a colori dove è impresso il presente, ma i colori faticano a splendere e rimangono ancora sbiaditi. Un disco piacevolissimo, dove l'amara ironia stempera quelle normali situazioni di vita che ballano tra il tragico e grottesco divenendo spesso delle montagne insormontabili, anche per il più scafato dei viveur.
lunedì 1 agosto 2011
RECENSIONE: AMERICA (Back Pages)
AMERICA Back Pages ( eOne Music, 2011)
Mi è estremamente difficile fare l'indifferente ad ogni uscita degli America. Confesso però,che sono più le volte che avrei voluto che l'indifferenza avesse avuto la meglio sulla mia curiosità. Quella stessa curiosità che spingeva un bambino con l'età di poco inferiore al numero delle dita delle sue mani, ad impugnare i vinili di Alibi(1980) e America(1971) perchè attratto da quella testa di bambolotto mozzata e dimenticata, chissà da chi e come, in un paesaggio texano e da tre capelloni sorridenti davanti ad una gigantografia con altrettanti indiani che di sorridere avevano pochissima voglia. La curiosità di quando non bastavano più 4 mani per indicare la mia età ed andare a riscoprire, dopo anni di dimenticatoio, gli album degli anni ottanta e novanta rimanendo profondamente deluso per poi tornare ad ascoltare Harbor(1976), Holiday(1974) e Home coming(1972).
In poche parole gli America me li porterò dietro sempre e alla domanda se sia un bene o un male, non so ancora rispondere, ma certamente fanno parte della mia crescita musicale e ciò mi piace e mi appaga. I loro vinili a scadenza regolare finiscono sul giradischi emanando sapori dimenticati ma sempre pronti a riemergere .
Il destino poi, ci ha messo del suo e proprio nei giorni in cui questo disco di cover esce, omaggiando alcuni brani con cui gli America sono cresciuti e che li avevano spinti ad imbracciare le chitarre, arriva anche la triste notizia della scomparsa di Dan Peek (deceduto il 24 Luglio 2011 all'età di 60 anni), il terzo America, fondatore della band ed esule dal 1977, quando lasciò il gruppo per una carriera solista , scoprendo l'attrazione per la musica cristiana.
Dewey Bunnell e Gerry Beckley proseguirono con alterni successi e ora per festeggiare i 40 anni di carriera mettono in fila 12 canzoni registrate a Nashville sotto la produzione di Fred Mollin che partono dagli anni sessanta e arrivano ai giorni nostri , continuando il discorso con le nuove generazioni iniziato con il poco brillante e alterno Here & Now(2008) che li vedeva collaborare con James Iha e Ryan Adams tra i tanti.
Back Pages: rubato il titolo e la canzone a Bob Dylan(carina la loro riproposizione con tanto di fisarmonica), le loro rivisitazioni toccano gli intoccabili come Dylan appunto, i Beach Boys di Caroline No, con un Brian Wilson che li elogia pubblicamente per la bella versione, ma pesca anche tra i non famosi contemporanei per non fossilizzare troppo il disco sul deja vu.
Una scelta di cover varia che riporta gli America a quei suoni anni settanta con le melodie country-pop che li resero famosi a rivestire queste canzoni, in alcuni casi con buoni risultati, in altri foderandole con una patina smaccatamente melodica e zuccherina(da sempre pregio e difetto del gruppo) che ne priva delle caratteristiche iniziali. E' il caso di Woodstock (Joni Mitchell, CSN) che perde tutta la sua urgenza e spessore generazionale per divenire una innocua canzone west coast o On the way home(Neil Young, Buffalo Springfield) che conferma quanto sia difficile coverizzare una canzone di Young.
Non vi è dubbio che gli America siano riusciti ad interpretare le canzoni alla loro maniera imprimendo il loro trademark ed il risultato è migliore e più apprezzabile con il resto delle canzoni: America (Simon & Garfunkel) e Sailing to Philadelphia (Mark Knopfler, ospite anche alla chitarra) con qualche piacevole sorpresa come in Time of season(The Zombies) o con le rivisitazioni di gruppi attuali come la riuscita A road song(Fountains of Wayne) e Someday we'll know(New Radicals).
La loro ricetta è la stessa e rimane invariata , il loro country educato, le voci, le chitarre acustiche ed il pianoforte, le armonie vocali sono sempre quelle che negli anni settanta facevano storcere il naso a chi li etichettava come una copia edulcorata di Crosby, Stills & Nash, fatalmente anche loro, da alcuni mesi, alle prese in sala di registrazione con un disco di cover con il produttore Rick Rubin ma per una volta battuti sul tempo dagli allievi. Se passate in California questa estate , il disco può fare da piacevole compagnia.
Mi è estremamente difficile fare l'indifferente ad ogni uscita degli America. Confesso però,che sono più le volte che avrei voluto che l'indifferenza avesse avuto la meglio sulla mia curiosità. Quella stessa curiosità che spingeva un bambino con l'età di poco inferiore al numero delle dita delle sue mani, ad impugnare i vinili di Alibi(1980) e America(1971) perchè attratto da quella testa di bambolotto mozzata e dimenticata, chissà da chi e come, in un paesaggio texano e da tre capelloni sorridenti davanti ad una gigantografia con altrettanti indiani che di sorridere avevano pochissima voglia. La curiosità di quando non bastavano più 4 mani per indicare la mia età ed andare a riscoprire, dopo anni di dimenticatoio, gli album degli anni ottanta e novanta rimanendo profondamente deluso per poi tornare ad ascoltare Harbor(1976), Holiday(1974) e Home coming(1972).
In poche parole gli America me li porterò dietro sempre e alla domanda se sia un bene o un male, non so ancora rispondere, ma certamente fanno parte della mia crescita musicale e ciò mi piace e mi appaga. I loro vinili a scadenza regolare finiscono sul giradischi emanando sapori dimenticati ma sempre pronti a riemergere .
Il destino poi, ci ha messo del suo e proprio nei giorni in cui questo disco di cover esce, omaggiando alcuni brani con cui gli America sono cresciuti e che li avevano spinti ad imbracciare le chitarre, arriva anche la triste notizia della scomparsa di Dan Peek (deceduto il 24 Luglio 2011 all'età di 60 anni), il terzo America, fondatore della band ed esule dal 1977, quando lasciò il gruppo per una carriera solista , scoprendo l'attrazione per la musica cristiana.
Dewey Bunnell e Gerry Beckley proseguirono con alterni successi e ora per festeggiare i 40 anni di carriera mettono in fila 12 canzoni registrate a Nashville sotto la produzione di Fred Mollin che partono dagli anni sessanta e arrivano ai giorni nostri , continuando il discorso con le nuove generazioni iniziato con il poco brillante e alterno Here & Now(2008) che li vedeva collaborare con James Iha e Ryan Adams tra i tanti.
Back Pages: rubato il titolo e la canzone a Bob Dylan(carina la loro riproposizione con tanto di fisarmonica), le loro rivisitazioni toccano gli intoccabili come Dylan appunto, i Beach Boys di Caroline No, con un Brian Wilson che li elogia pubblicamente per la bella versione, ma pesca anche tra i non famosi contemporanei per non fossilizzare troppo il disco sul deja vu.
Una scelta di cover varia che riporta gli America a quei suoni anni settanta con le melodie country-pop che li resero famosi a rivestire queste canzoni, in alcuni casi con buoni risultati, in altri foderandole con una patina smaccatamente melodica e zuccherina(da sempre pregio e difetto del gruppo) che ne priva delle caratteristiche iniziali. E' il caso di Woodstock (Joni Mitchell, CSN) che perde tutta la sua urgenza e spessore generazionale per divenire una innocua canzone west coast o On the way home(Neil Young, Buffalo Springfield) che conferma quanto sia difficile coverizzare una canzone di Young.
Non vi è dubbio che gli America siano riusciti ad interpretare le canzoni alla loro maniera imprimendo il loro trademark ed il risultato è migliore e più apprezzabile con il resto delle canzoni: America (Simon & Garfunkel) e Sailing to Philadelphia (Mark Knopfler, ospite anche alla chitarra) con qualche piacevole sorpresa come in Time of season(The Zombies) o con le rivisitazioni di gruppi attuali come la riuscita A road song(Fountains of Wayne) e Someday we'll know(New Radicals).
La loro ricetta è la stessa e rimane invariata , il loro country educato, le voci, le chitarre acustiche ed il pianoforte, le armonie vocali sono sempre quelle che negli anni settanta facevano storcere il naso a chi li etichettava come una copia edulcorata di Crosby, Stills & Nash, fatalmente anche loro, da alcuni mesi, alle prese in sala di registrazione con un disco di cover con il produttore Rick Rubin ma per una volta battuti sul tempo dagli allievi. Se passate in California questa estate , il disco può fare da piacevole compagnia.
Iscriviti a:
Post (Atom)