giovedì 18 agosto 2011
RECENSIONE/Reportage: FLOGGING MOLLY+Street Dogs, Live@Carroponte, Sesto San Giovanni (MI), 17 Agosto 2011
In un mese come Agosto, sempre avaro di concerti in città, il festival del Carroponte a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, si propone come un'ottima occasione per smentire il tutto ed invertire la rotta.
Nessun palco a lato di un bancone da pub pieno di pinte di Guiness, nessun breve set inserito in qualche festival, ma un concerto da headliner per i Flogging Molly, stasera, sotto le ingombranti, bizzarre, coreografiche e anche nostalgiche strutture che una volta tenevano in piedi il lavoro e che lo stesso Dave King, voce e leader del gruppo statunitense ha elogiato durante il concerto.
Prendete una calda serata di questo strano agosto che sta riversando la sua parte più afosa nella seconda metà dei suoi giorni, prendete tutto il calore che si potrebbe respirare in un incandescente pub irlandese in una fredda giornata autunnale riscaldata dall'alcol che scorre velocemente nelle vene, in entrambi i casi i losangelini Flogging Molly promettono sudore e divertimento. La band del rosso, nativo irlandese, Dave King (emigrato giovanissimo negli States ed ex cantante di Fastway e Katmandu) approda al Carroponte di Sesto San Giovanni, una serata dopo l'avvento dei NOFX e fa incetta di consensi dopo il breve set offerto sempre a Milano in Giugno al Rock in Idrho.
Carroponte,un festival che ancora una volta si distingue, oltre per la location, per l'ottima organizzazione, sia nella parte prettamente musicale(orari rispettati al secondo) che per la parte più ludica e gastronomica, punti merchandise e cibo ottimamente disposti ed efficienti.
Con ancora gli effetti post-ferragostani nell'aria, l'atmosfera è di tutta rilassatezza e divertimento, già a partire dall'apertura affidata agli Street Dogs, band bostoniana capeggiata da Ian Mc Colgan, primo cantante dei Dropkick Murphys che nel 2002 ha messo in piedi una propria formazione con all'attivo già cinque album, con l'ultimo omonimo uscito l'anno scorso. Il set dura quasi un'ora, a colpi di street punk diretto ed anthemico con Mc Colgan che si prodiga nel coinvolgere il pubblico, facendosi apprezzare anche nei pezzi più lenti ed irish fino al finale di Fighter mischiata a Guns of Brixton, omaggio ai maestri Clash.
Puntuali, come da copione, i Flogging Molly, questa sera, hanno la possibilità di proporre una selezione più ampia della loro discografia, dopo l'aperitivo offerto al Rock in Idrho del Giugno scorso prima dei Foo Fighters. Come sempre Dave King, impeccabilmente vestito, è un trascinatore nato, non risparmiandosi in energie, parole e ringraziamenti( ne ha per tutti: la moglie Bridget Regan seria e concentrata
violinista al suo fianco, i NOFX di Fat Mike che hanno suonato la sera prima ma fermi a Milano e presenti nel backstage, a cui dedicano Revolution e Selfish Man, la mamma, " l'italiano " Trapattoni, ct della nazionale di calcio irlandese e naturalmente il pubblico presente). Con un occhio di riguardo per l'ultimo disco Speed of darkness, uscito in primavera(recensione:http://enzocurelli.blogspot.com/2011/05/recensione-flogging-molly-speed-of.html ) e proposto ampiamente(Speed of Darkness, Revolution, Don't shut em'down, Saint & Sinners, Oliver Boy), la scaletta pesca lungo la quindicennale carriera del gruppo di Los Angeles, che con il tempo si è guadagnato la fama mondiale tra i migliori gruppi irish-rock, soprattutto grazie alla carica naturale dei loro concerti ed a una maturazione artistica evidente a distanza di otto anni , quando li vidi per la prima volta sopra ad un palco.
Il loro sapiente amalgama di elettro ed acustico gioca tra la contrapposizione di momenti di totale assalto folk/punk come nelle più vecchie Swagger, Devil's dance floor, Salty Dog(dal primo album "Swagger",2000), Drunken Lullabies, Rebels of the Sacred Heart e l'inno What's left of flag dal loro piccolo capolavoro "Drunken Lullabies"(2002), Requiem for a dying song dal più
recente "Float"(2007) dove il pubblico si scatena in una bolgia quasi infernale e sognanti ballate come So Sail On, The worst day since yesterday e la country/folk Factory Girls(in studio cantata insieme a Lucinda Williams) con il violino, il banjo suonato da Robert Schmidt e la farfisa di Matthew Hensley che si impossessano della scena e fanno respirare.
Dave King si agita e accenna i tipici passi di danza irlandesi, brinda e regala lattine di Guiness, scherza con il pubblico, andando a scovare bandiere e le loro t-shirts tra cui quelle dei suoi amati Ac/Dc(non è un caso che prima dell'inizio del concerto venga sparata It's a Long Way to the Top), coaudiuvato dal bassista Nathen Maxwell, il chitarrista in "black" Dennis Casey e il prossimo papà George Schwindt alla batteria.
Il finale è tutto per Float, canzone del penultimo album ma entrata in pianta stabile tra i bis, molto amata da King, esortazione a rimanere a galla in periodi economicamente duri come questi, con il mondo in mano a pochi speculatori finanziari e la scatenata Seven Deadly Sins dal poco acclamato "Within a mile of Home"(2004 ) a cui spetta il compito di chiudere degnamente le danze, con il gruppo sentitamente colpito dall'accoglienza ricevuta in questa calda notte di metà estate.
A questo punto, con i NOFX, presenti e nascosti, la ciliegina sulla torta ad un concerto sentito e già straordinario di suo, poteva essere una jam tra i due gruppi che purtroppo non si è avverata. La serata è stata, per una volta, tutta per i Flogging Molly. Meritata.
SETLIST
1.The Likes of You Again 2.Swagger 3.Speed of Darkness 4.Requiem for a Dying Song 5.The Worst Day Since Yesterday 6.Revolution 7.Selfish Man 8.Saints & Sinners 9.Drunken Lullabies 10.So Sail On 11.Factory Girls 12.The Wanderlust 1 3.Oliver Boy (All of Our Boys)
14.Tobacco Island 15.Rebels of the Sacred Heart 16.Devil's Dance Floor 17.If I Ever Leave This World Alive 18.Don't Shut 'Em Down 19.Salty Dog 20.What's Left of the Flag 21.Float 22.The Seven Deadly Sins
Anche su impattosonoro.it con foto di Neluma Skull:
http://www.impattosonoro.it/2011/08/24/reportage/photo-reportage-flogging-molly-street-dogs-carroponte-sesto-san-giovanni-mi-17-agosto-2011/
mercoledì 17 agosto 2011
RECENSIONE: JEFF BRIDGES (Jeff Bridges)
JEFF BRIDGES Jeff Bridges ( Blue Note Records, 2011)
Jeff Bridges sembra non sbagliare un colpo, sia davanti alla camera da presa che con una chitarra in mano.
Crazy Heart, il film dove Jeff Bridges, interpreta il musicista country "Bad" Blake a fine carriera, un perdente in grado di risollevare le proprie sorti finite in disgrazia, ha dato una notevole spinta all'attore nel tentare la seconda carta in campo musicale. Già autore di un album Be Here Soon uscito nel 2000, questo omonimo riprende il discorso di Crazy Heart e riparte dagli oscar vinti dal film, uno come migliore attore e l'altro dalla canzone The weary kind di Ryan Bingham, che ne faceva da soundtrack.
Jeff Bridges possiede tutto quello che un musicista vorrebbe possedere, incarnando alla perfezione il personaggio creato nel romanzo inedito di Thomas Cobb , da cui fu tratto il film, una sovrapposizione di ruoli che a questo punto non lascia dubbi sulle effettive capacità musicali di Bridges. Introspezione e fascino escono prepotenti dal disco, grazie al lavoro in produzione di un pezzo da novanta come T-Bone Burnett e all'aiuto in fase di scrittura(Stephen Bruton, Greg Brown, Bo Ramsley, T-Bone Burnett e Jo Goodwin) e realizzazione dai grandi musicisti coinvolti tra cui quel Ryan Bingham, vincitore dell'oscar.
Un disco che gioca sui chiaro-scuri, con questi ultimi a prevalere grazie alla profonda vocalità di Bridges e ballate dal carattere prettamente greve che hanno la solitudine, il tempo e il suo scorrere come protagonisti. Affiancato da una band di tutto rispetto composta da Marc Ribot alle chitarre, Jay Bellerose alla batteria, Dennis Crouch al basso, Russ Pahl alla pedal steel e ospiti come Rosanne Cash e Ryan Bingham, il disco è un campionario di "americana" country music che scivola piacevolmente in modo suadente e rilassante (a volte anche troppo).
Eccezione per l'apertura What a ittle bit of Love can do, primo singolo, canzone che stacca dal resto del disco, grazie ad un appeal da song semi-elettrica "radiofonica", puntellata dai cori dell'ospite Bingham, subito bilanciata dalla tranquilla Falling Short che da il carattere al resto dell'abum.
Le restanti, sono canzoni, alcune risalenti a molto tempo fa, in cui Bridges(un artista predestinato: il suo esordio nel mondo artistico è da far risalire a quando aveva pochissimi mesi di età) mette in mostra l'amore per il folk/country malinconico e darkeggiante (Everything but love, Nothing Yet), spunti di jazz notturno affiorano in Tumbling Vine ed il blues con il pianoforte di Keefus Ciancia protagonista in Blue Car.
Bella l'accoppiata Maybe I missed the point, Slow boat, malinconia che porta lontano e Bridges che con la sua voce suadente completa il quadro.
Purtroppo il disco qualche difetto lo ha, peccando di dinamismo e le ultime tracce, Ether Way e The Quest , apprezzabili se prese singolarmente, nel complesso abbassano il tono di un disco che molto deve alla mano del produttore Burnett, che spesso affianca alla voce di Bridges, la voce femminile, cercando di ricalcare il buon lavoro fatto qualche anno fa con la coppia Plant-Krauss, senza raggiungerne però l'intensità e quei guizzi necessari per non far cadere il disco nel soporifero.
Insomma, quel che manca sono le canzoni che "restano", senza dimenticare, comunque, che il tutto veleggia al di sopra della sufficienza ed a sentire l'attore, questo disco omonimo , non è altro che un nuovo inizio della sua carriera musicale.
Jeff Bridges sembra non sbagliare un colpo, sia davanti alla camera da presa che con una chitarra in mano.
Crazy Heart, il film dove Jeff Bridges, interpreta il musicista country "Bad" Blake a fine carriera, un perdente in grado di risollevare le proprie sorti finite in disgrazia, ha dato una notevole spinta all'attore nel tentare la seconda carta in campo musicale. Già autore di un album Be Here Soon uscito nel 2000, questo omonimo riprende il discorso di Crazy Heart e riparte dagli oscar vinti dal film, uno come migliore attore e l'altro dalla canzone The weary kind di Ryan Bingham, che ne faceva da soundtrack.
Jeff Bridges possiede tutto quello che un musicista vorrebbe possedere, incarnando alla perfezione il personaggio creato nel romanzo inedito di Thomas Cobb , da cui fu tratto il film, una sovrapposizione di ruoli che a questo punto non lascia dubbi sulle effettive capacità musicali di Bridges. Introspezione e fascino escono prepotenti dal disco, grazie al lavoro in produzione di un pezzo da novanta come T-Bone Burnett e all'aiuto in fase di scrittura(Stephen Bruton, Greg Brown, Bo Ramsley, T-Bone Burnett e Jo Goodwin) e realizzazione dai grandi musicisti coinvolti tra cui quel Ryan Bingham, vincitore dell'oscar.
Un disco che gioca sui chiaro-scuri, con questi ultimi a prevalere grazie alla profonda vocalità di Bridges e ballate dal carattere prettamente greve che hanno la solitudine, il tempo e il suo scorrere come protagonisti. Affiancato da una band di tutto rispetto composta da Marc Ribot alle chitarre, Jay Bellerose alla batteria, Dennis Crouch al basso, Russ Pahl alla pedal steel e ospiti come Rosanne Cash e Ryan Bingham, il disco è un campionario di "americana" country music che scivola piacevolmente in modo suadente e rilassante (a volte anche troppo).
Eccezione per l'apertura What a ittle bit of Love can do, primo singolo, canzone che stacca dal resto del disco, grazie ad un appeal da song semi-elettrica "radiofonica", puntellata dai cori dell'ospite Bingham, subito bilanciata dalla tranquilla Falling Short che da il carattere al resto dell'abum.
Le restanti, sono canzoni, alcune risalenti a molto tempo fa, in cui Bridges(un artista predestinato: il suo esordio nel mondo artistico è da far risalire a quando aveva pochissimi mesi di età) mette in mostra l'amore per il folk/country malinconico e darkeggiante (Everything but love, Nothing Yet), spunti di jazz notturno affiorano in Tumbling Vine ed il blues con il pianoforte di Keefus Ciancia protagonista in Blue Car.
Bella l'accoppiata Maybe I missed the point, Slow boat, malinconia che porta lontano e Bridges che con la sua voce suadente completa il quadro.
Purtroppo il disco qualche difetto lo ha, peccando di dinamismo e le ultime tracce, Ether Way e The Quest , apprezzabili se prese singolarmente, nel complesso abbassano il tono di un disco che molto deve alla mano del produttore Burnett, che spesso affianca alla voce di Bridges, la voce femminile, cercando di ricalcare il buon lavoro fatto qualche anno fa con la coppia Plant-Krauss, senza raggiungerne però l'intensità e quei guizzi necessari per non far cadere il disco nel soporifero.
Insomma, quel che manca sono le canzoni che "restano", senza dimenticare, comunque, che il tutto veleggia al di sopra della sufficienza ed a sentire l'attore, questo disco omonimo , non è altro che un nuovo inizio della sua carriera musicale.
martedì 16 agosto 2011
RECENSIONE: UFO (Chrysalis Years 1973-1979)
UFO The Chrysalis Years (1973-1979) (box 5 cd, Chrysalis EMI, 2011)
E' il 1973 quando un ragazzino di soli diciotto anni decise di lasciare la Germania dove con il fratello aveva appena messo in piedi un gruppo di nome Scorpions, per entrare in una band inglese con all'attivo tre album, e iniziare un'avventura che li farà entrare nella storia dell'hard rock. Quel ragazzino si chiamava Michael Schenker, la band inglese UFO e la loro avventura è racchiusa in gran parte (almeno la più importante e significativa), in questi 5 dischi (è bene sottolinearlo:in vendita al prezzo di uno!, praticamente) che la vecchia casa discografica di allora ha deciso di mettere sul mercato. 5 dischi che ripercorrono la carriera della band dal 1973 al 1979 ed includono integralmente i 6 album registrati in quei sette anni più parecchie b-sides mai apparse in cd, un concerto completamente inedito (Registrato ad Atlanta nel 1974) ed un libretto di 16 pagine con una intervista attuale a Phil Mogg e le liner notes basilari delle canzoni(mancano i testi).
L'avvento di Schenker in sostituzione di Mick Bolton, cambiò letteralmente la musica degli UFO, che nel frattempo, comunque, riuscirono a conquistare i mercati di Germania e Giappone, abbandonando lo space rock dei loro primi due dischi e indirizzandoli verso un scintillante Hard Rock che farà scuola successivamente, divenendo a tutti gli effetti precursori delll'ancora embrionale Heavy Metal.
L'impatto di un disco come Phenomenon(1974)***** è stupefacente ancora al giorno d'oggi, canzoni come Oh my, Doctor doctor e Rock Bottom sono in grado di travolgere grazie alla funanbolica chitarra hard del biondo tedesco e ai suoi riff , la straordinaria voce di Phil Mogg, un cantante dalla voce calda ed espressiva, spesso dimenticato ma dal valore assoluto e una sezione ritmica guidata dal basso di Pete Way e dalla batteria di Andy Parker. Accanto ad episodi heavy/hard rock ci sono episodi più melodici come Crystal Light e Space Child( con uno Schenker che impazza lungo tutta la traccia), la sognante ballad strumentale Lipstick Traces e blues chitarristici come Built For Comfort. Un piccolo capolavoro senza cedimenti con dieci piccoli classici.
In quegli anni non si perdeva tempo tra un disco e il successivo, ecco così un anno dopo: Force it(1975)***. Sempre prodotto da Leo Lyons (ex Ten years after), il disco farà da trampolino di lancio per la conquista del mercato americano. Compaiono per la prima volta le tastiere che negli anni si prenderanno sempre più spazio. L'iniziale Let it roll è una cavalcata hard che si apre nel mezzo lasciando a Schenker campo libero. Shoot shoot è un nuovo classico da suonare live, Mother Mary e Dance your life away sono due solide mid tempo songs mentre High Flyer è una ballad che esplora il lato melodico.
Da questo disco comincerà anche la collaborazioe artistica con Hipgnosis che ne curerà le splendide e bizzarre copertine.
Mentre in seno al gruppo iniziano a mettersi in mostra i caratteri autoritari dei due leader , il cantante Mogg e il chitarrista Schenker,
che spesso andranno a cozzare contro con i risultati che si vedranno in seguito, il tastierista Danny Peyronel inizia ad avere la sua importanza nella stesura dei pezzi in No Heavy Petting(1976)***. Anche qui comunque non mancano bordate hard come la terremotante e veloce Can You Roll her, Reasons Love, l'apertura hard rock'n'roll Natural thing e il boggie/roll, Highway Lady (composta da Peyronel). In questo disco a brillare di luce propria sono due lenti straordinari come Belladonna con i suoi arpeggi malinconici e la finale ed ipnotica Martian Landscape.
Intanto per tenere a bada l'istrionico e inaffidabile Schenker, gli viene affiancato-precauzionalmente- in sede live, il secondo chitarrista Paul Chapman (proveniente dagli Skid Row di Gary Moore). In Lights Out (1977)****, il tastierista Peyronel viene immediatamente sostituito da Paul Raymond(ex Savoy Brown), tenendo fede alla difficile coesione con un leader quasi dittatore come Mogg.
Lights Out viene considerato il picco artistico e compostivo degli Ufo, anche se io continuo a preferirgli la grezza attitudine di Phenomenon.
Mentre lo stile chitarristico di Schenker si affina sempre di più, anche le canzoni iniziano ad avere costruzioni ed arrangiamenti più complessi e ricercati, Love to love (quasi progressive nel suo incedere) o puntate nell'AOR rock come in Just another suicide. Anche se non mancano canzoni hard come Too hot to handle, Electric Phase o la title track.
A questo punto Schenker inizia la sua personale battaglia con la band a suon di misteriose scomparse alla vigilia di importanti tour e litigi con il resto della band. Droghe e manie personali di grandezza di tutti i membri fecero il resto.
C'è ancora tempo per Obsession(1978)***1/2, un disco ancora sopra la media ma che sposta le coordinate verso l'America. Buoni hard rock come Only you can rock me, Pack it up(And go) ,
Ain't no baby, You don't fool me con la buona prova di Schenker, richiami folk come la breve strumentale Arbory Hill, o ballad orchestrali come Lookin' Out for No1, poco possono fare per arginare la rottura in seno al gruppo.
A questo punto la rottura con Schenker è inevitabile ed il resto della storia degli Ufo verrà riscritta negli anni ottanta alle porte.
Un piccolo greatest hits della band in forma smagliante con Schenker strepitoso negli assoli e tutta la band in palla: potenza, melodia, tecnica, anthem, intensità, non manca nulla. Un album senza punti deboli e da tramandare alle future generazioni.
E' il 1973 quando un ragazzino di soli diciotto anni decise di lasciare la Germania dove con il fratello aveva appena messo in piedi un gruppo di nome Scorpions, per entrare in una band inglese con all'attivo tre album, e iniziare un'avventura che li farà entrare nella storia dell'hard rock. Quel ragazzino si chiamava Michael Schenker, la band inglese UFO e la loro avventura è racchiusa in gran parte (almeno la più importante e significativa), in questi 5 dischi (è bene sottolinearlo:in vendita al prezzo di uno!, praticamente) che la vecchia casa discografica di allora ha deciso di mettere sul mercato. 5 dischi che ripercorrono la carriera della band dal 1973 al 1979 ed includono integralmente i 6 album registrati in quei sette anni più parecchie b-sides mai apparse in cd, un concerto completamente inedito (Registrato ad Atlanta nel 1974) ed un libretto di 16 pagine con una intervista attuale a Phil Mogg e le liner notes basilari delle canzoni(mancano i testi).
L'avvento di Schenker in sostituzione di Mick Bolton, cambiò letteralmente la musica degli UFO, che nel frattempo, comunque, riuscirono a conquistare i mercati di Germania e Giappone, abbandonando lo space rock dei loro primi due dischi e indirizzandoli verso un scintillante Hard Rock che farà scuola successivamente, divenendo a tutti gli effetti precursori delll'ancora embrionale Heavy Metal.
L'impatto di un disco come Phenomenon(1974)***** è stupefacente ancora al giorno d'oggi, canzoni come Oh my, Doctor doctor e Rock Bottom sono in grado di travolgere grazie alla funanbolica chitarra hard del biondo tedesco e ai suoi riff , la straordinaria voce di Phil Mogg, un cantante dalla voce calda ed espressiva, spesso dimenticato ma dal valore assoluto e una sezione ritmica guidata dal basso di Pete Way e dalla batteria di Andy Parker. Accanto ad episodi heavy/hard rock ci sono episodi più melodici come Crystal Light e Space Child( con uno Schenker che impazza lungo tutta la traccia), la sognante ballad strumentale Lipstick Traces e blues chitarristici come Built For Comfort. Un piccolo capolavoro senza cedimenti con dieci piccoli classici.
In quegli anni non si perdeva tempo tra un disco e il successivo, ecco così un anno dopo: Force it(1975)***. Sempre prodotto da Leo Lyons (ex Ten years after), il disco farà da trampolino di lancio per la conquista del mercato americano. Compaiono per la prima volta le tastiere che negli anni si prenderanno sempre più spazio. L'iniziale Let it roll è una cavalcata hard che si apre nel mezzo lasciando a Schenker campo libero. Shoot shoot è un nuovo classico da suonare live, Mother Mary e Dance your life away sono due solide mid tempo songs mentre High Flyer è una ballad che esplora il lato melodico.
Da questo disco comincerà anche la collaborazioe artistica con Hipgnosis che ne curerà le splendide e bizzarre copertine.
Mentre in seno al gruppo iniziano a mettersi in mostra i caratteri autoritari dei due leader , il cantante Mogg e il chitarrista Schenker,
che spesso andranno a cozzare contro con i risultati che si vedranno in seguito, il tastierista Danny Peyronel inizia ad avere la sua importanza nella stesura dei pezzi in No Heavy Petting(1976)***. Anche qui comunque non mancano bordate hard come la terremotante e veloce Can You Roll her, Reasons Love, l'apertura hard rock'n'roll Natural thing e il boggie/roll, Highway Lady (composta da Peyronel). In questo disco a brillare di luce propria sono due lenti straordinari come Belladonna con i suoi arpeggi malinconici e la finale ed ipnotica Martian Landscape.
Intanto per tenere a bada l'istrionico e inaffidabile Schenker, gli viene affiancato-precauzionalmente- in sede live, il secondo chitarrista Paul Chapman (proveniente dagli Skid Row di Gary Moore). In Lights Out (1977)****, il tastierista Peyronel viene immediatamente sostituito da Paul Raymond(ex Savoy Brown), tenendo fede alla difficile coesione con un leader quasi dittatore come Mogg.
Lights Out viene considerato il picco artistico e compostivo degli Ufo, anche se io continuo a preferirgli la grezza attitudine di Phenomenon.
Mentre lo stile chitarristico di Schenker si affina sempre di più, anche le canzoni iniziano ad avere costruzioni ed arrangiamenti più complessi e ricercati, Love to love (quasi progressive nel suo incedere) o puntate nell'AOR rock come in Just another suicide. Anche se non mancano canzoni hard come Too hot to handle, Electric Phase o la title track.
A questo punto Schenker inizia la sua personale battaglia con la band a suon di misteriose scomparse alla vigilia di importanti tour e litigi con il resto della band. Droghe e manie personali di grandezza di tutti i membri fecero il resto.
C'è ancora tempo per Obsession(1978)***1/2, un disco ancora sopra la media ma che sposta le coordinate verso l'America. Buoni hard rock come Only you can rock me, Pack it up(And go) ,
Ain't no baby, You don't fool me con la buona prova di Schenker, richiami folk come la breve strumentale Arbory Hill, o ballad orchestrali come Lookin' Out for No1, poco possono fare per arginare la rottura in seno al gruppo.
A questo punto la rottura con Schenker è inevitabile ed il resto della storia degli Ufo verrà riscritta negli anni ottanta alle porte.
Nel 1979 uscirà ancora Strangers in the Night(1979)*****, un live registrato a Chicago in America e considerato ancora oggi il più grande testamento della migliore line-up( Mogg-voce, Schenker-chitarra, Raymond-tastiere, chitarra, Parker-batteria, Way-basso) degli UFO e a tutti gli effetti uno dei
migliori album live della storia del rock.Un piccolo greatest hits della band in forma smagliante con Schenker strepitoso negli assoli e tutta la band in palla: potenza, melodia, tecnica, anthem, intensità, non manca nulla. Un album senza punti deboli e da tramandare alle future generazioni.
giovedì 11 agosto 2011
RECENSIONE: E NEMMENO UN RIMPIANTO-Il segreto di CHET BAKER (romanzo di ROBERTO COTRONEO)
e nemmeno un rimpianto-il segreto di Chet Baker (Roberto Cotroneo, Mondadori, romanzo, pag. 180, 2011)
"...Nel silenzio c'è più musica di quanto tu possa soltanto immaginare..."
Chi non ha mai provato almeno nei sogni, anche ad occhi aperti, a mettersi sulle tracce del proprio idolo rock maledetto, quello che è scomparso in circostanze drammatiche ma ancora talmente avvolte dal mistero che i ben informati sostengono che sia ancora vivo, abbia cambiato identità e se la stia passando, o male che vada stia vivacchiando, in qualche luogo sperduto del mondo.
Chet Baker non era un rocker , ma la sua vita ha seguito quei binari che spesso affianchiamo alle vittime del rock'n'roll , scandita da quelle dipendenze che lo hanno reso schiavo, martorizzato nel fisico e spinto alla prematura e drammatica scomparsa, avvenuta ad Amsterdam il 13 Maggio del 1988, quando il suo corpo venne trovato sul marciapiede dell'hotel Prins Hendrik, dopo essere volato dalla finestra del secondo piano. Dove ora, se passate di lì, potrete trovarci una targa commemorativa.
Da qui parte il viaggio a ritroso ma proiettato nel futuro di Roberto Cotroneo, scrittore alessandrino, ma romano di adozione, grande appasionato di musica e musicista( lo si capisce immediatamente) che in un romanzo dove verità e finzione giocano e si incastrano, racconta il suo sogno: mettersi alla ricerca del proprio idolo jazzista.
Un romanzo che sa diventare inchiesta e saggio musicale, dove i protagonisti sono calati in un limbo sospeso tra realtà e finzione, passato, presente e futuro, dove la biografia si intreccia con il romanzo e i personaggi reali sembrano inventati mentre quelli immaginati sono troppo veri per esserlo. Dove anche i luoghi, tutti realmente esistenti sembrano appartenere a un mondo a sè.
E' bastato un piccolo foglio di carta ritrovato in un vecchio armadio di una vecchia abitazione per smuovere l'autore a ripercorrere le tappe della vita di Chet Baker, come in una caccia al tesoro che ha bisogno di tutti i tasselli che porteranno diritti a Chet Baker. In quel foglio , le partiture della canzone più famosa di Baker: My Funny Valentine. Cotroneo segue gli indizi che gli arrivano da chi in vita conobbe Baker, gran frequentatore dell'Italia, fino ad arrivare nel Salento a qui qualcosa succede veramente.Un collegamento tra le tante donne che lo conobbero che portano ad una sola verità.
Durante la lettura, la biografia di Baker viene sviscerata in modo originale, devoto, sfiorando la poesia, raccontata da Cotroneo e dallo stesso Baker(vi ricordate delle famose interviste impossibili). Un romanzo dove le note biografiche dell'autore si intrecciano con quelle di Baker, il fan e il mito diventano protagonisti in egual misura rompendo quel muro che spesso creiamo davanti a personaggi irrangiungibili. Per una volta l'irrangiungibile è stato raggiunto attraverso una scrittura leggera ma nel contempo piena di nozioni e critiche musicali, il rapporto tra Baker e gli altri jazzisti, suoi contemporanei:
(...Chet era la vita quando diventa musica. Mentre Miles Davis era esattamente il contrario. la musica diventava vita... Io l'ho odiato Miles Davis.Sapessi quanto l'ho odiato.E non perchè era più bravo di me...Ma perchè la sua musica era un'arma contro tutti. Mentre per me era uno scudo, o anche peggio...),
il rapporto di Baker con le droghe e il suo approccio generale alla vita che porteranno il lettore, anche chi non aveva mai sentito il nome di Chet Baker prima, ad incuriosirsi e domandarsi spesso in quale punto finisce la finzione ed inizia la realtà ma soprattutto a conoscere uno dei più grandi musicisti del ventesimo secolo. Un romanzo che si legge tutto d'un fiato con la fantasia in continuo viaggio tra il bianco e nero dei ritratti d'epoca e i colori vivaci della Puglia di oggi.
"...Nel silenzio c'è più musica di quanto tu possa soltanto immaginare..."
Chi non ha mai provato almeno nei sogni, anche ad occhi aperti, a mettersi sulle tracce del proprio idolo rock maledetto, quello che è scomparso in circostanze drammatiche ma ancora talmente avvolte dal mistero che i ben informati sostengono che sia ancora vivo, abbia cambiato identità e se la stia passando, o male che vada stia vivacchiando, in qualche luogo sperduto del mondo.
Chet Baker non era un rocker , ma la sua vita ha seguito quei binari che spesso affianchiamo alle vittime del rock'n'roll , scandita da quelle dipendenze che lo hanno reso schiavo, martorizzato nel fisico e spinto alla prematura e drammatica scomparsa, avvenuta ad Amsterdam il 13 Maggio del 1988, quando il suo corpo venne trovato sul marciapiede dell'hotel Prins Hendrik, dopo essere volato dalla finestra del secondo piano. Dove ora, se passate di lì, potrete trovarci una targa commemorativa.
Da qui parte il viaggio a ritroso ma proiettato nel futuro di Roberto Cotroneo, scrittore alessandrino, ma romano di adozione, grande appasionato di musica e musicista( lo si capisce immediatamente) che in un romanzo dove verità e finzione giocano e si incastrano, racconta il suo sogno: mettersi alla ricerca del proprio idolo jazzista.
Un romanzo che sa diventare inchiesta e saggio musicale, dove i protagonisti sono calati in un limbo sospeso tra realtà e finzione, passato, presente e futuro, dove la biografia si intreccia con il romanzo e i personaggi reali sembrano inventati mentre quelli immaginati sono troppo veri per esserlo. Dove anche i luoghi, tutti realmente esistenti sembrano appartenere a un mondo a sè.
E' bastato un piccolo foglio di carta ritrovato in un vecchio armadio di una vecchia abitazione per smuovere l'autore a ripercorrere le tappe della vita di Chet Baker, come in una caccia al tesoro che ha bisogno di tutti i tasselli che porteranno diritti a Chet Baker. In quel foglio , le partiture della canzone più famosa di Baker: My Funny Valentine. Cotroneo segue gli indizi che gli arrivano da chi in vita conobbe Baker, gran frequentatore dell'Italia, fino ad arrivare nel Salento a qui qualcosa succede veramente.Un collegamento tra le tante donne che lo conobbero che portano ad una sola verità.
Durante la lettura, la biografia di Baker viene sviscerata in modo originale, devoto, sfiorando la poesia, raccontata da Cotroneo e dallo stesso Baker(vi ricordate delle famose interviste impossibili). Un romanzo dove le note biografiche dell'autore si intrecciano con quelle di Baker, il fan e il mito diventano protagonisti in egual misura rompendo quel muro che spesso creiamo davanti a personaggi irrangiungibili. Per una volta l'irrangiungibile è stato raggiunto attraverso una scrittura leggera ma nel contempo piena di nozioni e critiche musicali, il rapporto tra Baker e gli altri jazzisti, suoi contemporanei:
(...Chet era la vita quando diventa musica. Mentre Miles Davis era esattamente il contrario. la musica diventava vita... Io l'ho odiato Miles Davis.Sapessi quanto l'ho odiato.E non perchè era più bravo di me...Ma perchè la sua musica era un'arma contro tutti. Mentre per me era uno scudo, o anche peggio...),
il rapporto di Baker con le droghe e il suo approccio generale alla vita che porteranno il lettore, anche chi non aveva mai sentito il nome di Chet Baker prima, ad incuriosirsi e domandarsi spesso in quale punto finisce la finzione ed inizia la realtà ma soprattutto a conoscere uno dei più grandi musicisti del ventesimo secolo. Un romanzo che si legge tutto d'un fiato con la fantasia in continuo viaggio tra il bianco e nero dei ritratti d'epoca e i colori vivaci della Puglia di oggi.
lunedì 8 agosto 2011
RECENSIONE: STEEPWATER BAND ( Clava)
STEEPWATER BAND Clava ( Diamond Day Records, 2011)
Per chi fosse rimasto deluso (certamente non io) dalle ultime ed insistite puntate, almeno su disco, nel roots "americana" intinto di country-folk dei Black Crowes, gli Steepwater Band da Chicago, attivi dal 1998, sono un ottimo surrogato di adrenalinico southern rock a cui piace jammare in territori psichedelici tanto cari ai primi lavori della band dei fratelli Robinson.
Il nuovo disco Clava, il quinto della loro discografia, è stato registrato a Chicago sotto la regia della stessa band e l'aiuto di Colin Sipos.
Sotto una classica formazione trio, gli Steepwater Band, nascondono tutto l'amore per un suono rock tradizionalista, dove il riff di chitarra, la base ritmica e il volume delle casse al massimo sono ancora tutto quello che necessita per fare musica, legandosi fortemente ai grandi hardrock trio degli anni settanta. I loro show incendiari sono stati recentemente immortalati nel Live at the Double Door (2010) e sono un biglietto da visita di tutto rispetto che ne mette in mostra tutti i pregi.
La compattezza è il loro forte sia nei pezzi tirati che nei brani più cadenzati e d'atmosfera.
Se il precedente album in studio Grace and Melody (2008) prodotto da Marc Ford (ex Black Crowes) aveva ancora tra i suoi solchi le impronte dei primi dischi legati alle lunghe jam, mi viene in mente la lunga Waiting to be Offended, questa volta le composizioni si fanno più snelle e potenti, lasciando le improvvisazioni per i set live e abbracciando la varietà e una vena melodica più marcata.
L'apertura Remember the Taker è un cadenzato blues che emerge dai fumi psichedelici e fai il paio con Won't be Long for Now, dove una voce viziata, un tappeto di tastiere ma soprattutto la chitarra di Jeff Massey (anche voce) è protagonista.(Tod Bowers- basso e Joe Winters- batteria, gli altri componenti).
E proprio la chitarra di Massey è il fulcro della musica della band, presente e protagonista in tutti i pezzi dagli assoli fantasiosi come nel finale di Come on Down, rock dall'andamento funky o alle prese con la slide nel potente hard rock di High and Humble, canzone che emana forti e pesanti umori sudisti.
Tante anime popolano Clava, Out on Love è un velocissimo hard boogie che sfoggia un riff di chitarra al limite del metal (quello vero ed incominato dei primi anni ottanta), mentre Meet in the Aftermath è una canzone quasi radiofonica da airplay americano che fa coppia con Love Never Ends, leggera e debitrice del west coast californiano, ricordando tanto gli Eagles.
Ultima menzione per Bury my Burden Deep, che staccandosi dal resto delle canzoni, nasconde l' amore per certe melodie che sanno tanto di '60.
Musica pulsante e viscerale quella degli Steepwater Band, anche se viene a mancare una certa istintività presente nei precedenti lavori, qui addomesticata ma non così tanto da modificare tutta la loro genuinità e passione.
Per chi fosse rimasto deluso (certamente non io) dalle ultime ed insistite puntate, almeno su disco, nel roots "americana" intinto di country-folk dei Black Crowes, gli Steepwater Band da Chicago, attivi dal 1998, sono un ottimo surrogato di adrenalinico southern rock a cui piace jammare in territori psichedelici tanto cari ai primi lavori della band dei fratelli Robinson.
Il nuovo disco Clava, il quinto della loro discografia, è stato registrato a Chicago sotto la regia della stessa band e l'aiuto di Colin Sipos.
Sotto una classica formazione trio, gli Steepwater Band, nascondono tutto l'amore per un suono rock tradizionalista, dove il riff di chitarra, la base ritmica e il volume delle casse al massimo sono ancora tutto quello che necessita per fare musica, legandosi fortemente ai grandi hardrock trio degli anni settanta. I loro show incendiari sono stati recentemente immortalati nel Live at the Double Door (2010) e sono un biglietto da visita di tutto rispetto che ne mette in mostra tutti i pregi.
La compattezza è il loro forte sia nei pezzi tirati che nei brani più cadenzati e d'atmosfera.
Se il precedente album in studio Grace and Melody (2008) prodotto da Marc Ford (ex Black Crowes) aveva ancora tra i suoi solchi le impronte dei primi dischi legati alle lunghe jam, mi viene in mente la lunga Waiting to be Offended, questa volta le composizioni si fanno più snelle e potenti, lasciando le improvvisazioni per i set live e abbracciando la varietà e una vena melodica più marcata.
L'apertura Remember the Taker è un cadenzato blues che emerge dai fumi psichedelici e fai il paio con Won't be Long for Now, dove una voce viziata, un tappeto di tastiere ma soprattutto la chitarra di Jeff Massey (anche voce) è protagonista.(Tod Bowers- basso e Joe Winters- batteria, gli altri componenti).
E proprio la chitarra di Massey è il fulcro della musica della band, presente e protagonista in tutti i pezzi dagli assoli fantasiosi come nel finale di Come on Down, rock dall'andamento funky o alle prese con la slide nel potente hard rock di High and Humble, canzone che emana forti e pesanti umori sudisti.
Tante anime popolano Clava, Out on Love è un velocissimo hard boogie che sfoggia un riff di chitarra al limite del metal (quello vero ed incominato dei primi anni ottanta), mentre Meet in the Aftermath è una canzone quasi radiofonica da airplay americano che fa coppia con Love Never Ends, leggera e debitrice del west coast californiano, ricordando tanto gli Eagles.
Ultima menzione per Bury my Burden Deep, che staccandosi dal resto delle canzoni, nasconde l' amore per certe melodie che sanno tanto di '60.
Musica pulsante e viscerale quella degli Steepwater Band, anche se viene a mancare una certa istintività presente nei precedenti lavori, qui addomesticata ma non così tanto da modificare tutta la loro genuinità e passione.
giovedì 4 agosto 2011
RECENSIONE: BRUNORI SAS (Vol.2: Poveri Cristi)
BRUNORI SAS Vol.2: Poveri Cristi (Picicca, 2011)
Dario Brunori, dopo aver esaminato tutto se stesso nel primo album "Vol.Uno"(acclamato dalla critica e vincitore del premio Ciampi 2009), getta un'occhiata là fuori, attraverso l'oblò che comunica con il mondo. Un mondo piccolo ma aperto a tutti, fatto di gente comune e storie quotidiane quasi familiari e scopre che i suoi dubbi, le incertezze, le prospettive, le paure sono le stesse di Mario, di Bruno e tutte quelle altre persone che incontra ogni giorno, quando decide che i suoi occhi devono sbirciare, curiosi, fuori dall'oblò.
Escono così quadretti di ordinaria follia raccontati come un articolo di cronaca(rosa o nera a seconda dell'umore), nell'Italia di oggi e dell'altro ieri(quella della sua infanzia). Un moderno cantastorie, un narratore dei nostri tempi che guarda, omaggiandoli in alcuni casi, ai cantautori degli anni settanta, prendendone la semplicità musicale e la forte vena narrativa. Non è difficile quindi che ad ogni canzone si possa affiancare un grande cantautore italiano, ma questo Dario lo sa e ci mette pure alcuni indizi per arrivare a capirlo. E' il caso di dell'iniziale Il giovane Mario, che narra il vero e proprio calvario in tempo di crisi economica di Mario e la sua incapacità ad affrontare la vita arrivando anche ad essere incapace nel togliersela quella vita. La canzone rimanda al miglior Lucio Dalla e il testo ci indirizza proprio lì :"...ma ho tre biglietti della lotteria , amore credimi nell’anno che verrà, ci lasceremo dietro la miseria e la malinconia...".
In Lei, lui e Firenze, una melodia sibillina ci porta dalle parti del primo Luca Carboni e della sua Silvia, quasi un plagio d'autore. Voluto?
Ma anche se durante l'ascolto del disco verranno in mente il suo conterraneo Rino Gaetano (il singolo Rosa che sta popolando in questi giorni, non ha bisogno di commenti), Lucio Battisti e il primissimo Vasco Rossi(quello lontano dall'idea di pensionamento) che si interseca con l'attuale Bugo in Animali Colletti, Brunori Sas vive nel presente.
Autore di tutte le canzoni che con taglio ironico e pungente sono un brillante spaccato di cronaca nazionale, fatta di emigrati che scappano dal sud in direzione nord, per lavoro ma anche per amore in Rosa:
(...Rosa non piangere... dai anche io mi voglio sposare... è che senza un lavoro non si tira a campare... devo prendere il treno per andare a Milano a Torino a Bologna... insomma devo scappare... che qui in Calabria non c’è niente proprio niente da fare... c’è chi canta e chi conta e chi continua a pregare...) ,
il senso di perdita degli affetti (Bruno mio dove sei) e dei sentimenti (Tre capelli sul comò), la routine quotidiana e l'eterna lotta nell'accettarla in Una domenica notte e la tenera, fantasiosa filastrocca metaforica La mosca.
Ospiti alla voce, Dente nella battistiana ed ironica Il suo sorriso e Antonio DiMartino nella già citata Animali colletti:
(...che cosa me ne faccio di questi occhi?... la vita è tutta tua se non la tocchi... non ho una casa ...non ho una donna non ho un cane... non ho nemmeno quattro soldi per andarmene a puttane... che vita infame!...).
Tra minimalismo musicale, rincorse di chitarre acustiche e arrangiamenti di archi e fiati mai troppo invasivi, questo secondo lavoro si distingue dall'esordio anche sotto il profilo musicale, confermando la crescita del suo autore.
Vol.2:poveri Cristi è una fotografia divisa a metà, con una parte in bianco e nero che immortala con una certa vena nostalgica gli anni in cui Brunori è cresciuto e una parte che vorrebbe diventare a colori dove è impresso il presente, ma i colori faticano a splendere e rimangono ancora sbiaditi. Un disco piacevolissimo, dove l'amara ironia stempera quelle normali situazioni di vita che ballano tra il tragico e grottesco divenendo spesso delle montagne insormontabili, anche per il più scafato dei viveur.
Dario Brunori, dopo aver esaminato tutto se stesso nel primo album "Vol.Uno"(acclamato dalla critica e vincitore del premio Ciampi 2009), getta un'occhiata là fuori, attraverso l'oblò che comunica con il mondo. Un mondo piccolo ma aperto a tutti, fatto di gente comune e storie quotidiane quasi familiari e scopre che i suoi dubbi, le incertezze, le prospettive, le paure sono le stesse di Mario, di Bruno e tutte quelle altre persone che incontra ogni giorno, quando decide che i suoi occhi devono sbirciare, curiosi, fuori dall'oblò.
Escono così quadretti di ordinaria follia raccontati come un articolo di cronaca(rosa o nera a seconda dell'umore), nell'Italia di oggi e dell'altro ieri(quella della sua infanzia). Un moderno cantastorie, un narratore dei nostri tempi che guarda, omaggiandoli in alcuni casi, ai cantautori degli anni settanta, prendendone la semplicità musicale e la forte vena narrativa. Non è difficile quindi che ad ogni canzone si possa affiancare un grande cantautore italiano, ma questo Dario lo sa e ci mette pure alcuni indizi per arrivare a capirlo. E' il caso di dell'iniziale Il giovane Mario, che narra il vero e proprio calvario in tempo di crisi economica di Mario e la sua incapacità ad affrontare la vita arrivando anche ad essere incapace nel togliersela quella vita. La canzone rimanda al miglior Lucio Dalla e il testo ci indirizza proprio lì :"...ma ho tre biglietti della lotteria , amore credimi nell’anno che verrà, ci lasceremo dietro la miseria e la malinconia...".
In Lei, lui e Firenze, una melodia sibillina ci porta dalle parti del primo Luca Carboni e della sua Silvia, quasi un plagio d'autore. Voluto?
Ma anche se durante l'ascolto del disco verranno in mente il suo conterraneo Rino Gaetano (il singolo Rosa che sta popolando in questi giorni, non ha bisogno di commenti), Lucio Battisti e il primissimo Vasco Rossi(quello lontano dall'idea di pensionamento) che si interseca con l'attuale Bugo in Animali Colletti, Brunori Sas vive nel presente.
Autore di tutte le canzoni che con taglio ironico e pungente sono un brillante spaccato di cronaca nazionale, fatta di emigrati che scappano dal sud in direzione nord, per lavoro ma anche per amore in Rosa:
(...Rosa non piangere... dai anche io mi voglio sposare... è che senza un lavoro non si tira a campare... devo prendere il treno per andare a Milano a Torino a Bologna... insomma devo scappare... che qui in Calabria non c’è niente proprio niente da fare... c’è chi canta e chi conta e chi continua a pregare...) ,
il senso di perdita degli affetti (Bruno mio dove sei) e dei sentimenti (Tre capelli sul comò), la routine quotidiana e l'eterna lotta nell'accettarla in Una domenica notte e la tenera, fantasiosa filastrocca metaforica La mosca.
Ospiti alla voce, Dente nella battistiana ed ironica Il suo sorriso e Antonio DiMartino nella già citata Animali colletti:
(...che cosa me ne faccio di questi occhi?... la vita è tutta tua se non la tocchi... non ho una casa ...non ho una donna non ho un cane... non ho nemmeno quattro soldi per andarmene a puttane... che vita infame!...).
Tra minimalismo musicale, rincorse di chitarre acustiche e arrangiamenti di archi e fiati mai troppo invasivi, questo secondo lavoro si distingue dall'esordio anche sotto il profilo musicale, confermando la crescita del suo autore.
Vol.2:poveri Cristi è una fotografia divisa a metà, con una parte in bianco e nero che immortala con una certa vena nostalgica gli anni in cui Brunori è cresciuto e una parte che vorrebbe diventare a colori dove è impresso il presente, ma i colori faticano a splendere e rimangono ancora sbiaditi. Un disco piacevolissimo, dove l'amara ironia stempera quelle normali situazioni di vita che ballano tra il tragico e grottesco divenendo spesso delle montagne insormontabili, anche per il più scafato dei viveur.
lunedì 1 agosto 2011
RECENSIONE: AMERICA (Back Pages)
AMERICA Back Pages ( eOne Music, 2011)
Mi è estremamente difficile fare l'indifferente ad ogni uscita degli America. Confesso però,che sono più le volte che avrei voluto che l'indifferenza avesse avuto la meglio sulla mia curiosità. Quella stessa curiosità che spingeva un bambino con l'età di poco inferiore al numero delle dita delle sue mani, ad impugnare i vinili di Alibi(1980) e America(1971) perchè attratto da quella testa di bambolotto mozzata e dimenticata, chissà da chi e come, in un paesaggio texano e da tre capelloni sorridenti davanti ad una gigantografia con altrettanti indiani che di sorridere avevano pochissima voglia. La curiosità di quando non bastavano più 4 mani per indicare la mia età ed andare a riscoprire, dopo anni di dimenticatoio, gli album degli anni ottanta e novanta rimanendo profondamente deluso per poi tornare ad ascoltare Harbor(1976), Holiday(1974) e Home coming(1972).
In poche parole gli America me li porterò dietro sempre e alla domanda se sia un bene o un male, non so ancora rispondere, ma certamente fanno parte della mia crescita musicale e ciò mi piace e mi appaga. I loro vinili a scadenza regolare finiscono sul giradischi emanando sapori dimenticati ma sempre pronti a riemergere .
Il destino poi, ci ha messo del suo e proprio nei giorni in cui questo disco di cover esce, omaggiando alcuni brani con cui gli America sono cresciuti e che li avevano spinti ad imbracciare le chitarre, arriva anche la triste notizia della scomparsa di Dan Peek (deceduto il 24 Luglio 2011 all'età di 60 anni), il terzo America, fondatore della band ed esule dal 1977, quando lasciò il gruppo per una carriera solista , scoprendo l'attrazione per la musica cristiana.
Dewey Bunnell e Gerry Beckley proseguirono con alterni successi e ora per festeggiare i 40 anni di carriera mettono in fila 12 canzoni registrate a Nashville sotto la produzione di Fred Mollin che partono dagli anni sessanta e arrivano ai giorni nostri , continuando il discorso con le nuove generazioni iniziato con il poco brillante e alterno Here & Now(2008) che li vedeva collaborare con James Iha e Ryan Adams tra i tanti.
Back Pages: rubato il titolo e la canzone a Bob Dylan(carina la loro riproposizione con tanto di fisarmonica), le loro rivisitazioni toccano gli intoccabili come Dylan appunto, i Beach Boys di Caroline No, con un Brian Wilson che li elogia pubblicamente per la bella versione, ma pesca anche tra i non famosi contemporanei per non fossilizzare troppo il disco sul deja vu.
Una scelta di cover varia che riporta gli America a quei suoni anni settanta con le melodie country-pop che li resero famosi a rivestire queste canzoni, in alcuni casi con buoni risultati, in altri foderandole con una patina smaccatamente melodica e zuccherina(da sempre pregio e difetto del gruppo) che ne priva delle caratteristiche iniziali. E' il caso di Woodstock (Joni Mitchell, CSN) che perde tutta la sua urgenza e spessore generazionale per divenire una innocua canzone west coast o On the way home(Neil Young, Buffalo Springfield) che conferma quanto sia difficile coverizzare una canzone di Young.
Non vi è dubbio che gli America siano riusciti ad interpretare le canzoni alla loro maniera imprimendo il loro trademark ed il risultato è migliore e più apprezzabile con il resto delle canzoni: America (Simon & Garfunkel) e Sailing to Philadelphia (Mark Knopfler, ospite anche alla chitarra) con qualche piacevole sorpresa come in Time of season(The Zombies) o con le rivisitazioni di gruppi attuali come la riuscita A road song(Fountains of Wayne) e Someday we'll know(New Radicals).
La loro ricetta è la stessa e rimane invariata , il loro country educato, le voci, le chitarre acustiche ed il pianoforte, le armonie vocali sono sempre quelle che negli anni settanta facevano storcere il naso a chi li etichettava come una copia edulcorata di Crosby, Stills & Nash, fatalmente anche loro, da alcuni mesi, alle prese in sala di registrazione con un disco di cover con il produttore Rick Rubin ma per una volta battuti sul tempo dagli allievi. Se passate in California questa estate , il disco può fare da piacevole compagnia.
Mi è estremamente difficile fare l'indifferente ad ogni uscita degli America. Confesso però,che sono più le volte che avrei voluto che l'indifferenza avesse avuto la meglio sulla mia curiosità. Quella stessa curiosità che spingeva un bambino con l'età di poco inferiore al numero delle dita delle sue mani, ad impugnare i vinili di Alibi(1980) e America(1971) perchè attratto da quella testa di bambolotto mozzata e dimenticata, chissà da chi e come, in un paesaggio texano e da tre capelloni sorridenti davanti ad una gigantografia con altrettanti indiani che di sorridere avevano pochissima voglia. La curiosità di quando non bastavano più 4 mani per indicare la mia età ed andare a riscoprire, dopo anni di dimenticatoio, gli album degli anni ottanta e novanta rimanendo profondamente deluso per poi tornare ad ascoltare Harbor(1976), Holiday(1974) e Home coming(1972).
In poche parole gli America me li porterò dietro sempre e alla domanda se sia un bene o un male, non so ancora rispondere, ma certamente fanno parte della mia crescita musicale e ciò mi piace e mi appaga. I loro vinili a scadenza regolare finiscono sul giradischi emanando sapori dimenticati ma sempre pronti a riemergere .
Il destino poi, ci ha messo del suo e proprio nei giorni in cui questo disco di cover esce, omaggiando alcuni brani con cui gli America sono cresciuti e che li avevano spinti ad imbracciare le chitarre, arriva anche la triste notizia della scomparsa di Dan Peek (deceduto il 24 Luglio 2011 all'età di 60 anni), il terzo America, fondatore della band ed esule dal 1977, quando lasciò il gruppo per una carriera solista , scoprendo l'attrazione per la musica cristiana.
Dewey Bunnell e Gerry Beckley proseguirono con alterni successi e ora per festeggiare i 40 anni di carriera mettono in fila 12 canzoni registrate a Nashville sotto la produzione di Fred Mollin che partono dagli anni sessanta e arrivano ai giorni nostri , continuando il discorso con le nuove generazioni iniziato con il poco brillante e alterno Here & Now(2008) che li vedeva collaborare con James Iha e Ryan Adams tra i tanti.
Back Pages: rubato il titolo e la canzone a Bob Dylan(carina la loro riproposizione con tanto di fisarmonica), le loro rivisitazioni toccano gli intoccabili come Dylan appunto, i Beach Boys di Caroline No, con un Brian Wilson che li elogia pubblicamente per la bella versione, ma pesca anche tra i non famosi contemporanei per non fossilizzare troppo il disco sul deja vu.
Una scelta di cover varia che riporta gli America a quei suoni anni settanta con le melodie country-pop che li resero famosi a rivestire queste canzoni, in alcuni casi con buoni risultati, in altri foderandole con una patina smaccatamente melodica e zuccherina(da sempre pregio e difetto del gruppo) che ne priva delle caratteristiche iniziali. E' il caso di Woodstock (Joni Mitchell, CSN) che perde tutta la sua urgenza e spessore generazionale per divenire una innocua canzone west coast o On the way home(Neil Young, Buffalo Springfield) che conferma quanto sia difficile coverizzare una canzone di Young.
Non vi è dubbio che gli America siano riusciti ad interpretare le canzoni alla loro maniera imprimendo il loro trademark ed il risultato è migliore e più apprezzabile con il resto delle canzoni: America (Simon & Garfunkel) e Sailing to Philadelphia (Mark Knopfler, ospite anche alla chitarra) con qualche piacevole sorpresa come in Time of season(The Zombies) o con le rivisitazioni di gruppi attuali come la riuscita A road song(Fountains of Wayne) e Someday we'll know(New Radicals).
La loro ricetta è la stessa e rimane invariata , il loro country educato, le voci, le chitarre acustiche ed il pianoforte, le armonie vocali sono sempre quelle che negli anni settanta facevano storcere il naso a chi li etichettava come una copia edulcorata di Crosby, Stills & Nash, fatalmente anche loro, da alcuni mesi, alle prese in sala di registrazione con un disco di cover con il produttore Rick Rubin ma per una volta battuti sul tempo dagli allievi. Se passate in California questa estate , il disco può fare da piacevole compagnia.
venerdì 29 luglio 2011
RECENSIONE: JOHN HIATT ( Dirty Jeans and Mudslide Hymns)
JOHN HIATT Dirty Jeans and Mudslide Hymns (NEW WEST Records, 2011)
Il buon Hiatt sembra averci preso gusto e anche quest'anno ci delizia l'estate con una nuova uscita a breve distanza dai suoi due, ottimi ultimi dischi: Same Old Man(2008) e The Open Road(2010), confermando tuttavia una prolificità da primato in questo nuovo millenio.
Registrato a Nashville, il suo ventesimo disco in carriera si può senza dubbio considerare il fratello del precedente, anche se alcune sostanziali differenze ne danno una lettura diversa. A partire dalla produzione affidata, questa volta ad un esterno, Kevin Shirley, produttore sudafricano noto soprattutto per i suoi lavori con gruppi di area heavy/hard rock.
Piace la tesa apertura affidata al primo singolo Damn this Town, una rock/ballad irrequieta e chitarristica, oscura ed affilata dove la sua band The Combo (Kenneth Blevins-batteria, Doug Lancio-chitarre, Patrick O'Hearn-basso) si mette in mostra accompagnando un testo che fa affiorare storie di vita in tempi duri da vivere per tutti.
Apertura di disco fuorviante, comunque, perchè il resto delle canzoni si adagia in tutta rilassatezza su un suono americana e roots che tocca l'elettrico ma poche volte si lascia andare al rock mantenendo comunque un suo carattere fortemente malinconico ed oscuro.
Un disco sempre in bilico tra la vita e l'amore, anche quando quest'ultimo sentimento è rivolto ad una macchina. E' il caso di Detroit Made dove Hiatt proclama tutto il suo amore per la Buick Electra 225, classico macchinone "vintage" americano soprannominato "Deuce and a quarter", con un divertente rock'n'roll "on the road". Ancora viaggi, questa volta cambiando mezzo di trasporto, in Train to Birmingham, un country/folk da viaggio tutto americano (...I been ridin' on this train, Drinkin' whiskey for the pain, just another good ol' boy goin home).
Le canzoni del cantautore dell'Indiana continuano la riscoperta della tradizione avvenuta ormai da alcuni dischi a questa parte, senza perdere di vista la varietà musicale che lo porta ad eseguire canzoni che toccano il rock come nell'opener, il blues, così come il country/folk, esempio ne sono le pedal steel che disegnano spazi dilatati nella celebrazione dell'amore in 'Til get my lovin'back.
Down Around My place è una delle due gemme del disco secondo il mio punto di vista, poetica e malinconica ballad che si apre in acustico fino a quando la chitarra elettrica di Doug Lancio irrompe per poi spegnersi così come era iniziata, l'altra è Hold on for your love, una dark ballad che nasconde un'anima soul con la voce di Hiatt e gli assoli di chitarra dilatati che fanno il resto. Bellissima.
La splendida e nera voce di Hiatt risalta anche nel blues di All the way Under.
Sprazzi di malinconici raggi di un tramonto west coast illuminano Adios to California, un'altra ballad fortemente evocativa (...Living in the canyon then Hangdown Hanna and Whiskey Jim, Dirty jeans and mudslide hymns, That all began with soon...) mentre un'orchestra fa capolino in Don't wanna leave you now , Hiatt canta la paura della perdita che accompagna un quasi sessantenne.
I love that Girl è divertita e leggera tanto quanto When New York had her heart broke è una lenta, triste e commossa dedica a chi esattamente l'11 Settembre di dieci anni fa piangeva i suoi cari nel cuore di New York.
Prendendo come metro di paragone gli ultimi dischi di Hiatt, quindi lasciando fuori i suoi capolavori Bring the family(1987) e Slow turning(1988), questo è quello che a pochi giorni dall'ascolto mi ha colpito di più, grazie ad un carattere uniforme e quasi darkeggiante negli umori, un disco sentito che conferma lo splendido stato di grazia del suo autore che continua un periodo di alta prolificità senza perderne in qualità. Buona e rara dote.
Il buon Hiatt sembra averci preso gusto e anche quest'anno ci delizia l'estate con una nuova uscita a breve distanza dai suoi due, ottimi ultimi dischi: Same Old Man(2008) e The Open Road(2010), confermando tuttavia una prolificità da primato in questo nuovo millenio.
Registrato a Nashville, il suo ventesimo disco in carriera si può senza dubbio considerare il fratello del precedente, anche se alcune sostanziali differenze ne danno una lettura diversa. A partire dalla produzione affidata, questa volta ad un esterno, Kevin Shirley, produttore sudafricano noto soprattutto per i suoi lavori con gruppi di area heavy/hard rock.
Piace la tesa apertura affidata al primo singolo Damn this Town, una rock/ballad irrequieta e chitarristica, oscura ed affilata dove la sua band The Combo (Kenneth Blevins-batteria, Doug Lancio-chitarre, Patrick O'Hearn-basso) si mette in mostra accompagnando un testo che fa affiorare storie di vita in tempi duri da vivere per tutti.
Apertura di disco fuorviante, comunque, perchè il resto delle canzoni si adagia in tutta rilassatezza su un suono americana e roots che tocca l'elettrico ma poche volte si lascia andare al rock mantenendo comunque un suo carattere fortemente malinconico ed oscuro.
Un disco sempre in bilico tra la vita e l'amore, anche quando quest'ultimo sentimento è rivolto ad una macchina. E' il caso di Detroit Made dove Hiatt proclama tutto il suo amore per la Buick Electra 225, classico macchinone "vintage" americano soprannominato "Deuce and a quarter", con un divertente rock'n'roll "on the road". Ancora viaggi, questa volta cambiando mezzo di trasporto, in Train to Birmingham, un country/folk da viaggio tutto americano (...I been ridin' on this train, Drinkin' whiskey for the pain, just another good ol' boy goin home).
Le canzoni del cantautore dell'Indiana continuano la riscoperta della tradizione avvenuta ormai da alcuni dischi a questa parte, senza perdere di vista la varietà musicale che lo porta ad eseguire canzoni che toccano il rock come nell'opener, il blues, così come il country/folk, esempio ne sono le pedal steel che disegnano spazi dilatati nella celebrazione dell'amore in 'Til get my lovin'back.
Down Around My place è una delle due gemme del disco secondo il mio punto di vista, poetica e malinconica ballad che si apre in acustico fino a quando la chitarra elettrica di Doug Lancio irrompe per poi spegnersi così come era iniziata, l'altra è Hold on for your love, una dark ballad che nasconde un'anima soul con la voce di Hiatt e gli assoli di chitarra dilatati che fanno il resto. Bellissima.
La splendida e nera voce di Hiatt risalta anche nel blues di All the way Under.
Sprazzi di malinconici raggi di un tramonto west coast illuminano Adios to California, un'altra ballad fortemente evocativa (...Living in the canyon then Hangdown Hanna and Whiskey Jim, Dirty jeans and mudslide hymns, That all began with soon...) mentre un'orchestra fa capolino in Don't wanna leave you now , Hiatt canta la paura della perdita che accompagna un quasi sessantenne.
I love that Girl è divertita e leggera tanto quanto When New York had her heart broke è una lenta, triste e commossa dedica a chi esattamente l'11 Settembre di dieci anni fa piangeva i suoi cari nel cuore di New York.
Prendendo come metro di paragone gli ultimi dischi di Hiatt, quindi lasciando fuori i suoi capolavori Bring the family(1987) e Slow turning(1988), questo è quello che a pochi giorni dall'ascolto mi ha colpito di più, grazie ad un carattere uniforme e quasi darkeggiante negli umori, un disco sentito che conferma lo splendido stato di grazia del suo autore che continua un periodo di alta prolificità senza perderne in qualità. Buona e rara dote.
martedì 26 luglio 2011
BOB DYLAN & MARK KNOPFLER, unTOUR insieme a NOVEMBRE 2011: un rapporto di amore/odio lungo trent'anni...
L'annuncio del tour autunnale,che toccherà anche l'Italia, fa riemergere antichi ricordi di amore e odio tra Bob Dylan e Mark Knopfler. L'americano e l'inglese incrociarono le loro strade per la prima volta nel lontano 1979. Dylan stava entrando dentro il tunnel della sua conversione religiosa che lo porterà ad incidere un trittico fortemente influenzato dalla fede, Knopfler aveva appena pubblicato il primo e fortunato album dei suoi Dire Straits ed era in procinto di uscire con il seguito Communiqué, con il suo nome che inizia a girare nello star system, proiettandolo tra le nuove stelle del rock mondiale.
Dylan dopo aver assistito a Los Angeles ad uno show dei Dire Straits, rimase talmente folgorato dalla loro musica che attraverso l'intermissione di Jerry Wexler, produttore che aveva appena finito di collaborare con i Dire Straits per la stesura del loro secondo album Communiquè, avvicinò Knopfler proponendogli la collaborazione.
Tra i due fu subito uno scambio di complimenti"...sono un fan di Dylan da quando avevo undici anni..." e "Mark mi imita meglio di chiunque altro" parlano da soli.
Il risultato fu la stesura di Slow train coming che uscì nel 1979. Un disco che all'epoca stupì ma con il senno di poi si può considerare tra le cose migliori di Dylan. E se i testi non lasciano dubbi sulla scelta di Dylan, ebreo che aderisce ad una setta cristiana ( lo stesso Mark Knopfler fu stupito e incredulo quando ne venne a conoscenza e ascoltò i testi) a livello musicale è l'album più smaccatamente soul e "black" di Dylan.
Knopfler che si portò dietro il batterista Pick Withers lascia la sua riconoscibile impronta chitarristica in rock blues come Gotta serve somebody, Slow Train, Gonna change my way of thinking, nella ballad Precoius Angel ed in episodi particolari come la "reggaeggiante" Man gave names to all the animals.
Bisognerà aspettare il 1983 per vedere la coppia nuovamente al lavoro insieme in studio. Nel frattempo le situazioni si erano ribaltate. I Dire Straits erano nell'olimpo del rock, i loro concerti riempivano gli stadi, i loro album, Making Movies (1980) su tutti, vendevano benissimo e Mark Knopfler era un guitar-hero apprezzato. Dylan per contro, pagò la sua conversione, in termini di popolarità (a molti vecchi fans non andò giù questa svolta) e anche in termini artistici, Saved(1980) e Shot of love(1981) sono abbastanza controversi a livello testuale e pasticciati nella produzione, senza lasciare ricordo di canzoni memorabili.
Accortosi della deriva che la sua musica stava prendendo, Dylan cercò di rimediare andando a ricercare Knopfler, ma questa volta lo volle come produttore e non solamente come semplice esecutore finale. Infidels(1983) a conti fatti è uno dei
migliori lavori di Dylan ma poteva essere ancora meglio. Abbandonati in parte i testi da predicatore religioso, Dylan si ributta anche sul sociale (Union Sundown) e nel politico(Neighborhood Bully) e grazie all'apporto dello stesso Knopfler alla chitarra, dell'altro Dire Straits, Alan Clark alle tastiere, di Mick Taylor(ex Rolling Stones) alla chitarra e della sezione ritmica dei giamaicani Dumbar-Shakespeare confeziona un album fresco e in linea con i tempi. Jokerman diventerà un buon successo(il video passò anche nella allora nascente MTV). C'è però un episodio che scalfisce l'amicizia tra Dylan e Knopfler.
Durante la fase di registrazione, il chitarrista inglese dovette assentarsi per impegni live presi dai Dire Straits. Durante la sua assenza, Dylan, smanioso di
portare a termire il lavoro in tempi rapidi(uno dei grandi difetti di Dylan), mise mano alle canzoni in fase di produzione, rivoluzionandone l'aspetto e togliendo inspiegabilmente dalla scaletta finale del disco alcune perle che riappariranno in seguito( Blind Willie McTell su tutte). Naturale che a Knopfler, finito il tour con i Dire Straits, le scelte di Dylan non andarono a genio e la loro amicizia si interruppe bruscamente, tanto che i due non si parleranno più per alcuni anni.
Tracce di Knopfler su dischi di Dylan si troveranno ancora su Death is not the end, canzone inclusa su Down in the groove(1988) , ma risalente al periodo di Infidels.
Ora, anno 2011, le strade dei due si incontrano nuovamente per questo tour che celebrerà i 70 anni di Dylan, ognuno con la sua band, in uno show che molto probabilmente si dividerà in tre parti con la terza che li vedrà insieme sul palco(almeno la logica fa pensare a questo, anche se con Dylan, la logica, a volte, non serve). Sulla natura di questo tour si è già detto di tutto, rimpatriata tra vecchi amici, una mera mossa commerciale atta a far cassa, l'inizio di una nuova collaborazione. Vedremo. Di seguito le date del tour italiano:
09/11/2011, Palasport Arcella di Padova
11/11/2011, Nelson Mandela Forum di Firenze
12/11/2011, Palalottomatica di Roma
14/11/2011, Mediolanum Forum di Assago (Milano
RECENSIONE concerto DYLAN/KNOPFLER del 14/11/2011 Forum di Assago:
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/11/recensionereportage-bob-dylanmark.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+Enzocurelli+%28enzo.curelli%29
lunedì 25 luglio 2011
RECENSIONE: GENTLEMANS PISTOLS (At Her Majesty's Pleasure)
GENTLEMANS PISTOLS At Her Majesty's Pleasure (Rise Above, 2011)
Seconda prova per il gruppo britannico, nato nel 2003 a Leeds,con una rilevante e determinante novità in organico che ne fa compiere un bel passo in avanti in qualità e uno indietro nel tempo, rispetto al pur buon esordio omonimo del 2007.
La novità ha un nome e cognome, Bill Steer e un curriculum da veterano della scena metal estrema britannica da metà anni ottanta ad oggi. Dopo aver gettato le coordinate del grind metal in seno a Napalm Death e Carcass, da alcuni anni Steer ha messo in piedi il suo progetto Firebird (anche loro freschi di uscita con il pregevole Double Diamond ), gruppo dedito ad una rivisitazione dei grandi anni settanta di matrice hard rock/blues (consigliato il loro "Hot Wings"-2006-). Non stupisce quindi il suo nuovo ruolo di chitarrista nei Gentlemans Pistols.
Guidati dal cantante James Atkinson, anche produttore , il gruppo si fa portabandiera di una rinascita del hard rock blues in terra d'albione, lontano dai proclami a prima colonna dei grandi magazine inglesi, ma vicini ad una attitudine sporca e senza compromessi che lascia comunque spazio alla melodia.
Steer porta una componente metal debitrice del primissimo proto metal inglese di fine anni settanta, Comfortably Crazy potrebbe benissimo essere una outtake del primo omonimo album degli Iron Maiden mentre Your Majesty strizza l'occhio ai Thin Lizzy di Phil Lynott . Riff chitarristici caldi e pastosi e una sezione ritmica (Stuart Dobbins alla batteria e Douglas McLaughlan al basso) incalzante e senza cedimenti. Il repertorio dei Gentlemans Pistols è vario e attento a toccare tutte le espressioni del rock seventies, Midnight Crawler e Into the Haze si presentano più pesanti e sulfuree lambendo il doom, l'iniziale Living in Sin again e I Wouldn't let you sono due rock'n'roll songs tirate e divertenti. Some girls don't know what's good è un hard/blues al fulmicotone con un break acustico che sa tanto di dirigibile.
Pur essendo il disco di durata abbastanza limitata, nel finale si perde, senza comunque che questo scalfisca la passione e la dedizione dei musicisti coinvolti. Un ascolto più che piacevole dove la parola vintage è usata ancora in modo creativo.
Seconda prova per il gruppo britannico, nato nel 2003 a Leeds,con una rilevante e determinante novità in organico che ne fa compiere un bel passo in avanti in qualità e uno indietro nel tempo, rispetto al pur buon esordio omonimo del 2007.
La novità ha un nome e cognome, Bill Steer e un curriculum da veterano della scena metal estrema britannica da metà anni ottanta ad oggi. Dopo aver gettato le coordinate del grind metal in seno a Napalm Death e Carcass, da alcuni anni Steer ha messo in piedi il suo progetto Firebird (anche loro freschi di uscita con il pregevole Double Diamond ), gruppo dedito ad una rivisitazione dei grandi anni settanta di matrice hard rock/blues (consigliato il loro "Hot Wings"-2006-). Non stupisce quindi il suo nuovo ruolo di chitarrista nei Gentlemans Pistols.
Guidati dal cantante James Atkinson, anche produttore , il gruppo si fa portabandiera di una rinascita del hard rock blues in terra d'albione, lontano dai proclami a prima colonna dei grandi magazine inglesi, ma vicini ad una attitudine sporca e senza compromessi che lascia comunque spazio alla melodia.
Steer porta una componente metal debitrice del primissimo proto metal inglese di fine anni settanta, Comfortably Crazy potrebbe benissimo essere una outtake del primo omonimo album degli Iron Maiden mentre Your Majesty strizza l'occhio ai Thin Lizzy di Phil Lynott . Riff chitarristici caldi e pastosi e una sezione ritmica (Stuart Dobbins alla batteria e Douglas McLaughlan al basso) incalzante e senza cedimenti. Il repertorio dei Gentlemans Pistols è vario e attento a toccare tutte le espressioni del rock seventies, Midnight Crawler e Into the Haze si presentano più pesanti e sulfuree lambendo il doom, l'iniziale Living in Sin again e I Wouldn't let you sono due rock'n'roll songs tirate e divertenti. Some girls don't know what's good è un hard/blues al fulmicotone con un break acustico che sa tanto di dirigibile.
Pur essendo il disco di durata abbastanza limitata, nel finale si perde, senza comunque che questo scalfisca la passione e la dedizione dei musicisti coinvolti. Un ascolto più che piacevole dove la parola vintage è usata ancora in modo creativo.
sabato 23 luglio 2011
RECENSIONE e INTERVISTA: VERILY SO (Verily So)
VERILY SO Verily So (Inconsapevole Records, 2011)
Lo sguardo che si perde nella polvere alzata dai piccoli tornado di vento che scompigliano la tranquillità di quelle tipiche ghost town americane, dove vecchie case di legno dormono abbandonate nascondendo chissà quali storie e vite passate, l’udito è sordo ed incapace di cogliere rumori. I livornesi di Cecina, Verily So con le canzoni del loro debutto saprebbero infrangere quel silenzio creando un connubio musica-luogo perfetto.
I Verily So nascono nel 2009 ma solamente nel 2010 diventano un trio in pianta stabile. Già con un ep all’attivo “Just a Demo”(2010) la band è composta da tre polistrumentisti: Maria Laura Specchia, Simone Stefanini, Luca Dalpiaz che si dividono anche le vocals con risultati straordinari.
Gli spazi dilatati che emergono dal “dark” folk di canzoni come l’ipnotizzante Ordinary Minds, con la straordinaria voce femminile a disegnare malinconia nell’aria, come nell’apertura Wax Mask...
continua su Impatto Sonoro...
INTERVISTA
La prima cosa che mi preme sottolineare è quanto, quasi tutte le recensioni che ho letto su di voi , sottolineassero il fatto o meglio si domandassero se la vostra provenienza fosse proprio l’Italia. Ora ho la possibilità di chiedervelo di persona…siete italiani(o alieni?)?
Siamo italiani di provincia.
Appurato che siete italiani(…di provincia), riuscite a collocarvi in qualche modo e da qualche parte, nella scena musicale italiana?
Ai margini, come tutte le band medio piccole a cui vengono proposti concerti in ristoranti e pub. In Italia vanno, se non si fosse capito, i raccomandati, le cover band e le vecchie glorie.
Ho notato come anche in Italia, in questi anni, vi sia una riscoperta del folk di matrice americana(anche se le vostre influenze sono più ampie e varie), come vi spiegate questo fenomeno?
Secondo me è l’ultimo straccio di sogno americano, quello senza glitter, quello della gente di strada che canta. E’ lo spiritual contemporaneo, di quelli cresciuti con l’elettricità.
E’ semplice e possono farlo tutti. E’ il folk del dopo bomba, anche se la bomba come la immaginavamo non c’è stata, ce n’è stata una diversa, subdola.
continua su Impatto Sonoro...
Qui sotto l'intero album in streaming:
Lo sguardo che si perde nella polvere alzata dai piccoli tornado di vento che scompigliano la tranquillità di quelle tipiche ghost town americane, dove vecchie case di legno dormono abbandonate nascondendo chissà quali storie e vite passate, l’udito è sordo ed incapace di cogliere rumori. I livornesi di Cecina, Verily So con le canzoni del loro debutto saprebbero infrangere quel silenzio creando un connubio musica-luogo perfetto.
I Verily So nascono nel 2009 ma solamente nel 2010 diventano un trio in pianta stabile. Già con un ep all’attivo “Just a Demo”(2010) la band è composta da tre polistrumentisti: Maria Laura Specchia, Simone Stefanini, Luca Dalpiaz che si dividono anche le vocals con risultati straordinari.
Gli spazi dilatati che emergono dal “dark” folk di canzoni come l’ipnotizzante Ordinary Minds, con la straordinaria voce femminile a disegnare malinconia nell’aria, come nell’apertura Wax Mask...
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INTERVISTA
La prima cosa che mi preme sottolineare è quanto, quasi tutte le recensioni che ho letto su di voi , sottolineassero il fatto o meglio si domandassero se la vostra provenienza fosse proprio l’Italia. Ora ho la possibilità di chiedervelo di persona…siete italiani(o alieni?)?
Siamo italiani di provincia.
Appurato che siete italiani(…di provincia), riuscite a collocarvi in qualche modo e da qualche parte, nella scena musicale italiana?
Ai margini, come tutte le band medio piccole a cui vengono proposti concerti in ristoranti e pub. In Italia vanno, se non si fosse capito, i raccomandati, le cover band e le vecchie glorie.
Ho notato come anche in Italia, in questi anni, vi sia una riscoperta del folk di matrice americana(anche se le vostre influenze sono più ampie e varie), come vi spiegate questo fenomeno?
Secondo me è l’ultimo straccio di sogno americano, quello senza glitter, quello della gente di strada che canta. E’ lo spiritual contemporaneo, di quelli cresciuti con l’elettricità.
E’ semplice e possono farlo tutti. E’ il folk del dopo bomba, anche se la bomba come la immaginavamo non c’è stata, ce n’è stata una diversa, subdola.
continua su Impatto Sonoro...
Qui sotto l'intero album in streaming:
giovedì 21 luglio 2011
RECENSIONE: WILLIAM ELLIOTH WHITMORE ( Field Songs)
WILLIAM ELLIOTH WHITMORE Field Songs (ANTI, 2011)
C'è qualcosa in più negli occhi di chi ha lavorato la terra per anni , staccando lo sguardo dal terreno solo per vedere il colore del cielo e i raggi accecanti del sole, vero padrone del raccolto annuale. Sole che brucia la pelle, la invecchia prima del tempo ma che sa anche colorare quegli occhi che parlano più di tante bocche aperte dentro ad un mercato di città. William Ellioth Withmore è cresciuto in quei campi nello Iowa e la semplicità di quella vita l'ha trasformata nella sua musica. Forse lui quei campi non li ha mai arati alla vecchia e faticosa maniera dei suoi avi e il richiamo della città è stato fatale e inevitabile come tutti quelli della sua generazione, ma ascoltandolo si capisce come quel mondo rurale faccia parte del suo DNA.
Dopo una gioventù passata intorno al punk rock, il richiamo della semplicità ha prevalso anche nella sua scelta artistica e del suo passato sono rimasti i tatuaggi che gli coprono gran parte del corpo. Field Songs è il suo ottavo album dal 2003 e come gli altri e più degli altri è ancora più spoglio: chitarra, banjo, qualche battito di piede e la sua incredibile voce. Mezz'ora di musica dove i rumori della campagna ci accompagnano in sottofondo dall'inizio alla fine. Una passeggiata con uccelli cinguettanti, galli, vento che sbuffa e rumori di zappa in lontananza che tradiscono subito il legame di Whitmore con la terra e la natura.
La voce di Whitmore è straordinaria, profonda e vissuta e non potrebbe essere voce migliore a raccontare la dura vita del lavoro di campagna( Field Song) , come se i fantasmi dei vecchi cantanti gospel-blues si fossero impossessati delle sue corde vocali e facessero cantare a lui quello che cantavano prima che le loro preghiere in musica venissero adottate e trasformate dall'uomo bianco. Whitmore (classe 1978) fa da portavoce e ponte tra i suoi avi, nonni e bisnonni, e la società di oggi.
La sua vita di campagna non è però colorata di verde e azzurro ma scava nella sofferenza di una esistenza condotta a stenti e sacrifici e molto deriva dalla sua esperienza, che lo ha visto molto presto privo di entrambi i genitori. Il senso di perdita è riscontrabile e presente come un marchio a fuoco, nelle sue liriche.
Le scarne partiture di canzoni folk , ti entrano dentro e il gioco di immedesimazione è forte e stupefacente. Se l'ultimo disco "Animals in the dark"(2008), lasciava un minimo spazio ad altri strumenti qui tutto è ridotto all'osso e graffia animo e corpo. L'unica concessione è il ritmo percussivo tenuto dal piede in alcune canzoni (Not feeling any pain, Don't need it). Una semplicità che stordisce, quanto è potente il messaggio. Difficile rimanere indifferenti e non amare ballate per voce e chitarra (Everithing gets gone) che disegnano paesaggi che sembrano lontani nel tempo ma che ancora oggi, sopravvivono in posti non così sperduti come il consumismo vuole farci credere e Whitmore è qui a testimoniarcelo. I ricordi della povertà, Let's do something impossible, lungo i campi del Mississippi in tempi di guerra possono essere gli stessi di chi ha vissuto il grande esodo dalle campagne in città, alla ricerca della fortuna nel dopoguerra italiano.
Whitmore si conferma come il più giovane dei "vecchi", un cantastorie d'altri tempi, con una straordinaria voce che fa trasparire tutta la passione e la devozione, dando una seconda vita alle sue antiche, nuove storie.
C'è qualcosa in più negli occhi di chi ha lavorato la terra per anni , staccando lo sguardo dal terreno solo per vedere il colore del cielo e i raggi accecanti del sole, vero padrone del raccolto annuale. Sole che brucia la pelle, la invecchia prima del tempo ma che sa anche colorare quegli occhi che parlano più di tante bocche aperte dentro ad un mercato di città. William Ellioth Withmore è cresciuto in quei campi nello Iowa e la semplicità di quella vita l'ha trasformata nella sua musica. Forse lui quei campi non li ha mai arati alla vecchia e faticosa maniera dei suoi avi e il richiamo della città è stato fatale e inevitabile come tutti quelli della sua generazione, ma ascoltandolo si capisce come quel mondo rurale faccia parte del suo DNA.
Dopo una gioventù passata intorno al punk rock, il richiamo della semplicità ha prevalso anche nella sua scelta artistica e del suo passato sono rimasti i tatuaggi che gli coprono gran parte del corpo. Field Songs è il suo ottavo album dal 2003 e come gli altri e più degli altri è ancora più spoglio: chitarra, banjo, qualche battito di piede e la sua incredibile voce. Mezz'ora di musica dove i rumori della campagna ci accompagnano in sottofondo dall'inizio alla fine. Una passeggiata con uccelli cinguettanti, galli, vento che sbuffa e rumori di zappa in lontananza che tradiscono subito il legame di Whitmore con la terra e la natura.
La voce di Whitmore è straordinaria, profonda e vissuta e non potrebbe essere voce migliore a raccontare la dura vita del lavoro di campagna( Field Song) , come se i fantasmi dei vecchi cantanti gospel-blues si fossero impossessati delle sue corde vocali e facessero cantare a lui quello che cantavano prima che le loro preghiere in musica venissero adottate e trasformate dall'uomo bianco. Whitmore (classe 1978) fa da portavoce e ponte tra i suoi avi, nonni e bisnonni, e la società di oggi.
La sua vita di campagna non è però colorata di verde e azzurro ma scava nella sofferenza di una esistenza condotta a stenti e sacrifici e molto deriva dalla sua esperienza, che lo ha visto molto presto privo di entrambi i genitori. Il senso di perdita è riscontrabile e presente come un marchio a fuoco, nelle sue liriche.
Le scarne partiture di canzoni folk , ti entrano dentro e il gioco di immedesimazione è forte e stupefacente. Se l'ultimo disco "Animals in the dark"(2008), lasciava un minimo spazio ad altri strumenti qui tutto è ridotto all'osso e graffia animo e corpo. L'unica concessione è il ritmo percussivo tenuto dal piede in alcune canzoni (Not feeling any pain, Don't need it). Una semplicità che stordisce, quanto è potente il messaggio. Difficile rimanere indifferenti e non amare ballate per voce e chitarra (Everithing gets gone) che disegnano paesaggi che sembrano lontani nel tempo ma che ancora oggi, sopravvivono in posti non così sperduti come il consumismo vuole farci credere e Whitmore è qui a testimoniarcelo. I ricordi della povertà, Let's do something impossible, lungo i campi del Mississippi in tempi di guerra possono essere gli stessi di chi ha vissuto il grande esodo dalle campagne in città, alla ricerca della fortuna nel dopoguerra italiano.
Whitmore si conferma come il più giovane dei "vecchi", un cantastorie d'altri tempi, con una straordinaria voce che fa trasparire tutta la passione e la devozione, dando una seconda vita alle sue antiche, nuove storie.
lunedì 18 luglio 2011
RECENSIONE: PAUL SIMON Live@Mjf Arena Civica, Milano 17 Luglio 2011
La prima magia della serata arriva pochi minuti prima dell'inizio del concerto. La pioggia che sembrava dovesse rovinare questa unica data italiana di Paul Simon, improvvisamente smette di scendere ed il minaccioso cielo nero sopra Milano, fortunatamente, non mantiene le promesse e si acquieta per tutto lo show. Tutti contenti, soprattutto i venditori dei famosi k-way (usa e getta) colorati di nylon, che hanno fatto il loro dovere pre-concerto e possono andare a casa con un cospicuo bottino.
Per le altre magie bisogna aspettare il piccolo uomo del New Jersey, che alle 21 precise sale sul palco e attacca con The Boy in the bubble presa dal multipremiato "Graceland" del 1986. La cornice del Milano Jazzin' Festival(non sarebbe ora di cambiare nome al festival? Visto che di jazz in cartellone ce n'è veramente poco) è la solita vecchia Arena Civica , che per il sottoscritto si presenta ancora una volta totalmente inadeguata per ospitare concerti o meglio potrebbe essere usata diversamente eliminando tribune(veramente lontanissime dal palco) e sedie (puntualmente a metà concerto ci si alza tutti in piedi e ci si avvicina al palco, quindi i posti numerati rimangono solo dei numeri sopra ad una sedia senza padrone).
Ma è meglio tornare alle magie e al mondo di Paul Simon che non conosce confini e steccati. Un musicista che avrebbe potuto vivere di rendita per tutta la vita con le sole canzoni cantate con il vecchio compare Art Garfunkel ed invece ha continuato a sperimentare e divertirsi con la musica raccolta in giro lungo tutti i continenti.
Stasera si presenta con una strepitosa "big" band ( tra cui i chitarristi Mark Stewart, e Vincent Nguini, il pianista Mick Rossi e il polistrumentista Tony Cedras), di otto strumentisti, multirazziale e perfettamente oliata, dai suoni brillanti e caldi. C'è da promuovere il nuovo disco (So Beautiful os So What) uscito questa primavera e bisogna dire che le canzoni estrapolate(...tante) si inseriscono alla perfezione con il vecchio materiale facendo dimenticare in fretta il mezzo passo falso di un lavoro come "Surprise" ,esperimento insieme a Brian Eno che non entusiasmò.
Le nuove: Dazzing Blue, So beatiful or so what(la canzone),The Afterlife, Rewrite e Questions for the Angels(cantata in solitaria) sono belle canzoni che continuano la personale ricetta di world music iniziata con Graceland, ancora a oggi, il suo bestseller anche durante i live. Dalla atmosfera di festa che sprigiona That was your mother, a Crazy Love vol II a Diamonds on the Soles of Her Shoes, "Graceland", rimane una delle opere musicali più coraggiose e riuscite di musica totale, in bilico tra America e Africa.
Simon non è di tantissime parole ma il suo modo di porsi, molto ossequioso verso il pubblico, che ringrazia spesso, lo rendono umile e assolutamente alla mano.
Nonostante possa attingere ad un vasto catalogo di canzoni autografe, Simon stasera inserisce anche alcune cover in scaletta, sottolineando la sua forte devozione musicale. Il reggae di Vietnam di Jimmy Cliff, a cui attacca la sua Mother and Child Reunion dal suo primo disco solista del 1972, scritta sempre con Cliff, il blues Mistery Train di Junior Parker, la country Wheels di Chet Atkins ed una stupenda versione di Here comes the sun ( Beatles).
Certo chi era venuto a vedere Simon sperando di sentire un buon numero di canzoni della coppia Simon & Garfunkel potrebbe tornare a casa deluso, ma fortunatamente quando si ha in mano un asso come The Sound of Silence, gli si perdona tutto. Eseguita con sola voce e chitarra, assolutamente folk, The Sound of Silence è una di quelle canzoni che anche se già ascoltata migliaia di volte, lascia il segno. Pubblico silenziosamente in piedi ed ipnotizzato, brividi ed ovazione finale. Serata portata a casa. Per la cronaca l'altra canzone del duo eseguita è stata The Only living boy in New York e non è stata da meno, con la voce di Simon che ha mantenuto intatta la magia di 40 e più anni fa.
Ci sono poi i classici da solista come Hearts and Bones(molto bella), la sempre scatenata e primordiale The Obvious Child, con le sue percussioni, Gone at last, Kodachrome, Slip slidin' away e Still crazy after all these years , eseguita nell'ultimo bis prima di concludere in festa con You can call me Al.
Un tripudio finale con Simon che presenta uno ad uno, dopo due ore e dieci minuti di concerto, i suoi bravi musicisti e lascia la scena con un piacevolissimo ricordo e uno scia di magia nell'aria.
SETLIST: Boy in the bubble, Dazzing blue, 50 ways to leave your lover, So beautiful or so what, Vietnam/ Mother and child reunion, That was your mother, Hearts and bones, Mistery train/Wheels, Slip slidin' away, Rewrite, Peace like a river, The obvious child, The only living boy in New York, The afterlife, Questions for the angels, Diamonds on the soles of her shoes, Gumboots, The sound of silence, Kodachrome, Gone at last, Here comes the sun, Crazy love vol II, Late in the evening, Still crazy after all these years, You can call me Al
sabato 16 luglio 2011
RECENSIONE: GENERAL STRATOCUSTER and THE MARSHALS
GENERAL STRATOCUSTER and the MARSHALS ( Rock Over Horus Records , 2011)
Prima di lasciare che l'affascinante fruscio della puntina appoggiata al vinile si trasformi in musica e ci travolga , è bene sottolineare quanto il debutto del supergruppo italiano General Stratocuster and the Marshals (ebbene sì anche in Italia abbiamo il nostro supergruppo di "vintage" rock)sia tra le più genuine uscite di puro e semplice rock uscito dai nostri confini negli ultimi anni, in compagnia dei friulani W.I.N.D.
Alla larga pseudo alternativi e viziati cantastorie salottieri in libera uscita, i General Stratocuster & the Marshals sono quanto di meglio si possa chiedere ad una band che suona rock'n'roll e non date retta a chi, invidioso, vi dice che sono derivativi, l'intera storia del rock lo è. Punto e a capo.
Nati come semplice svago da parte di esperti musicisti, vogliosi di jammare insieme nei tempi liberi in giro per gli scantinati di Firenze, il progetto ha preso forma e coraggio con la partecipazione a Pistoia blues 2010(esperienza replicata anche quest'anno) fino ad arrivare alla stesura dei dieci pezzi (più una cover) di questo debutto.
Un vero e proprio atto d'amore verso gli anni in cui al rock bastavano una chitarra ed un amplificatore(da qui l'originale nome) per dire tutto e far sognare. Dietro al monicker si nascondono l'esperienza del chitarrista Fabio Fabbri (Mr.General Stratocuster), il cantante Jacopo Meille (attuale vocalist dei britannici Tygers of Pan Tang, tra i primi esponenti della NWOBHM sul finire degli anni settanta, insieme a Iron Maiden e Saxon) , l'italo-americano Richard Ursillo al basso(ex componente di vari gruppi progressive degli anni settanta tra cui i Campo di Marte) e il batterista dei Bandabardò, Alessandro "Nuto" Nutini.
Quando la calda polvere americana del southern/country rock si sparge lungo le verdi vallate dell'hard rock/blues britannico finendo la sua corsa lungo gli argini dell'Arno. Una corsa verso la libertà musicale e di vita nel manifesto di Highway, con la voce di Meille che si staglia sopra tutto come il miglior Plant, il pianto blues di Little Miss Sunshine o della bella Great Ol' Times Blues, canto da saloon tra slide e pianoforte, il trascinante rock'n'roll di All Because of you con uno splendido riff di chitarra stoniano e la quadrata apertura affidata al rock di Gift & Gold.
Tra polvere di sabbia, whiskey e ruote bollenti sull'asfalto, una sosta, sdraiandosi nell'immensa distesa verde a contemplare il cielo è necessaria, cullandosi con Who's to blame e Today & Tomorrow ballate acustice, melodiche e sognanti , per poi ripartire all'ora del rosso tramonto sulle note southern, degne dei migliori Black Crowes, di Sweet Candy e della cover Fortunate son dei Creedence Clearwater Revival di John Fogerty, riletta in modo originale e divertente.
La giornata è terminata, il disco pure, domani è un altro giorno da vivere e il fruscio della puntina può ripartire ancora una volta...Grande passione.
Prima di lasciare che l'affascinante fruscio della puntina appoggiata al vinile si trasformi in musica e ci travolga , è bene sottolineare quanto il debutto del supergruppo italiano General Stratocuster and the Marshals (ebbene sì anche in Italia abbiamo il nostro supergruppo di "vintage" rock)sia tra le più genuine uscite di puro e semplice rock uscito dai nostri confini negli ultimi anni, in compagnia dei friulani W.I.N.D.
Alla larga pseudo alternativi e viziati cantastorie salottieri in libera uscita, i General Stratocuster & the Marshals sono quanto di meglio si possa chiedere ad una band che suona rock'n'roll e non date retta a chi, invidioso, vi dice che sono derivativi, l'intera storia del rock lo è. Punto e a capo.
Nati come semplice svago da parte di esperti musicisti, vogliosi di jammare insieme nei tempi liberi in giro per gli scantinati di Firenze, il progetto ha preso forma e coraggio con la partecipazione a Pistoia blues 2010(esperienza replicata anche quest'anno) fino ad arrivare alla stesura dei dieci pezzi (più una cover) di questo debutto.
Un vero e proprio atto d'amore verso gli anni in cui al rock bastavano una chitarra ed un amplificatore(da qui l'originale nome) per dire tutto e far sognare. Dietro al monicker si nascondono l'esperienza del chitarrista Fabio Fabbri (Mr.General Stratocuster), il cantante Jacopo Meille (attuale vocalist dei britannici Tygers of Pan Tang, tra i primi esponenti della NWOBHM sul finire degli anni settanta, insieme a Iron Maiden e Saxon) , l'italo-americano Richard Ursillo al basso(ex componente di vari gruppi progressive degli anni settanta tra cui i Campo di Marte) e il batterista dei Bandabardò, Alessandro "Nuto" Nutini.
Quando la calda polvere americana del southern/country rock si sparge lungo le verdi vallate dell'hard rock/blues britannico finendo la sua corsa lungo gli argini dell'Arno. Una corsa verso la libertà musicale e di vita nel manifesto di Highway, con la voce di Meille che si staglia sopra tutto come il miglior Plant, il pianto blues di Little Miss Sunshine o della bella Great Ol' Times Blues, canto da saloon tra slide e pianoforte, il trascinante rock'n'roll di All Because of you con uno splendido riff di chitarra stoniano e la quadrata apertura affidata al rock di Gift & Gold.
Tra polvere di sabbia, whiskey e ruote bollenti sull'asfalto, una sosta, sdraiandosi nell'immensa distesa verde a contemplare il cielo è necessaria, cullandosi con Who's to blame e Today & Tomorrow ballate acustice, melodiche e sognanti , per poi ripartire all'ora del rosso tramonto sulle note southern, degne dei migliori Black Crowes, di Sweet Candy e della cover Fortunate son dei Creedence Clearwater Revival di John Fogerty, riletta in modo originale e divertente.
La giornata è terminata, il disco pure, domani è un altro giorno da vivere e il fruscio della puntina può ripartire ancora una volta...Grande passione.
giovedì 14 luglio 2011
RECENSIONE: BLACK COUNTRY COMMUNION (2)
BLACK COUNTRY COMMUNION 2 (J/R Adventures-Mascot, 2011)
A Glenn Hughes, è tornata la voglia di cantare e suonare in una band e tutto nonostante i suoi ultimi tre album solisti siano veramente ottimi. L'uscita del secondo lavoro del supergruppo Black Country Communion ad un solo anno dal debutto è significativo, ma quello che più sembra importante , è la conferma della durabilità e bontà artististica del progetto ribadita a fuoco con il tour che ha toccato l'Italia nella tappa del 28 Giugno a Vigevano in compagnia di John Mayall..
Come tutti i supergruppi, nato come svago da tempi morti, i Black Country Communion sembra vogliano fare sul serio, spingendosi ancora oltre quanto fatto nel già buon esordio. Hughes ha trovato nel blues guitar hero Joe Bonamassa una spalla ideale su cui appoggiarsi per tornare all'hard rock, come ai vecchi tempi dei Deep Purple(mark III) negli anni settanta e Bonamassa a sua volta , con questa band, riesce a dare sfogo a certi riff pesanti, che nelle sue prove soliste sono solo abbozzati. Al tutto si aggiungono un Jason Bonham mai così in stato di grazia( e il padre da lassù osserva orgoglioso) e un Derek Sherinian alquanto prezioso con sue tastiere mai invasive ma fondamentali per ricreare un suono seventies.
Con questo secondo disco , i BCC estremizzano le canzoni, toccando punte hard che il primo disco solo sfiorava e momenti di pura melodia. Lo si capisce immediatamente dalle due canzoni d'apertura. The Outsider è una mazzata in pieno viso con Hughes che gioca a fare il verso a Chris Cornell ( o meglio sarebbe dire il contrario). Canzone pesante, immediatamente doppiata da Man in the middle, che sfodera il riff di chitarra miù moderno dell'intero disco, incisiva e immediatamente memorizzabile da sembrare già un piccolo classico.
Save me rimanda immediatamente a Kashmir dei Led Zeppelin. Una citazione più che voluta che comunque nella sua lunghezza si trasforma diventando una suite dove le tastiere dal sapore orientale suonate da Sherinian prendono il sopravvento. Canzone proposta da Bohaman e scritta durante la sua permanenza nella reunion dei Led Zeppelin e si sente.
Su Little Secret, un classico blues scritto da Hughes, Joe Bonamassa va a nozze mentre Crossfire alterna ottimi chorus melodici a riff pesanti e cadenzati. The battle for Hadrian's wall cantata da Bonamassa (sua la voce anche su An Ordinary son) parte acustica raggiungendo quel phatos e grandiosità che rievocano certe composizioni care ad un gruppo come gli Uriah Heep, mantenendo l'assetto acustico dei migliori Led Zeppelin "bucolici".
Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.
A Glenn Hughes, è tornata la voglia di cantare e suonare in una band e tutto nonostante i suoi ultimi tre album solisti siano veramente ottimi. L'uscita del secondo lavoro del supergruppo Black Country Communion ad un solo anno dal debutto è significativo, ma quello che più sembra importante , è la conferma della durabilità e bontà artististica del progetto ribadita a fuoco con il tour che ha toccato l'Italia nella tappa del 28 Giugno a Vigevano in compagnia di John Mayall..
Come tutti i supergruppi, nato come svago da tempi morti, i Black Country Communion sembra vogliano fare sul serio, spingendosi ancora oltre quanto fatto nel già buon esordio. Hughes ha trovato nel blues guitar hero Joe Bonamassa una spalla ideale su cui appoggiarsi per tornare all'hard rock, come ai vecchi tempi dei Deep Purple(mark III) negli anni settanta e Bonamassa a sua volta , con questa band, riesce a dare sfogo a certi riff pesanti, che nelle sue prove soliste sono solo abbozzati. Al tutto si aggiungono un Jason Bonham mai così in stato di grazia( e il padre da lassù osserva orgoglioso) e un Derek Sherinian alquanto prezioso con sue tastiere mai invasive ma fondamentali per ricreare un suono seventies.
Con questo secondo disco , i BCC estremizzano le canzoni, toccando punte hard che il primo disco solo sfiorava e momenti di pura melodia. Lo si capisce immediatamente dalle due canzoni d'apertura. The Outsider è una mazzata in pieno viso con Hughes che gioca a fare il verso a Chris Cornell ( o meglio sarebbe dire il contrario). Canzone pesante, immediatamente doppiata da Man in the middle, che sfodera il riff di chitarra miù moderno dell'intero disco, incisiva e immediatamente memorizzabile da sembrare già un piccolo classico.
Save me rimanda immediatamente a Kashmir dei Led Zeppelin. Una citazione più che voluta che comunque nella sua lunghezza si trasforma diventando una suite dove le tastiere dal sapore orientale suonate da Sherinian prendono il sopravvento. Canzone proposta da Bohaman e scritta durante la sua permanenza nella reunion dei Led Zeppelin e si sente.
Su Little Secret, un classico blues scritto da Hughes, Joe Bonamassa va a nozze mentre Crossfire alterna ottimi chorus melodici a riff pesanti e cadenzati. The battle for Hadrian's wall cantata da Bonamassa (sua la voce anche su An Ordinary son) parte acustica raggiungendo quel phatos e grandiosità che rievocano certe composizioni care ad un gruppo come gli Uriah Heep, mantenendo l'assetto acustico dei migliori Led Zeppelin "bucolici".
Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.
domenica 10 luglio 2011
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP Live@Vigevano 9 Luglio 2011
Tante luci e qualche ombra per la prima di John Mellencamp in Italia. Assente da diciannove anni dai palchi europei, quest'anno il sessantenne giaguaro dell'Indiana fa le cose in grande e si ferma addirittura per tre tappe in Italia, paese che non aveva mai toccato durante i suoi 35 anni di carriera. L'attesa era più che legittima e giustificata.
Dopo lo straordinario No better than this(http://enzocurelli.blogspot.com/2010/08/john-mellencamp-un-vecchio-microfono.html), vero e proprio viaggio nelle radici della musica americana che partendo dalla stanza di Hotel a San Antonio dove ancora aleggia lo spirito blues di Robert Johnson, passava a Menphis negli Sun studio, luogo imprescindibile per il rock'n roll, finendo con il battesimo nella prima Chiesa Battista nera del Nord America, Mellencamp porta in giro per l'Europa uno spettacolo che ricalca in parte la ricerca musicale alla base di quel disco.
Nella splendida piazza del castello di Vigevano, il Festival "Dieci giorni suonati" quest'anno ha proposto grandi concerti e tante anteprime a partire dai Primus, John Mayall, Jeff Beck, Black Country Communion, Brian Setzer e Black Crowes e non ultimo un'altro battesimo per Mellencamp, quello davanti ai suoi fans italiani.
L'attesa per l'inizio del concerto viene ingannata con la proiezione del film/documentario "It's About You" che testimonia la nascita di questo suo ultimo disco prodotto da T-Bone Burnett con immagini rubate in studio, commenti dell'autore e spezzoni di musica live. Gli ultimi anni di musica di Mellencanp( fresco di coppia con l'attrice Meg Ryan, ma questo c'entra poco stasera) che si intrecciano con l'America rurale e di provincia da lui amata. Un documento di per sè interessante, che perde il suo fascino se proiettato prima di un concerto con i fans in attesa e qualcuno che sembra non gradire la scelta, disturbando senza un reale motivo.
Quando lo schermo scompare, sale sempre di più l'impazienza che finalmente viene interrotta dalla voce di Johnny Cash e la sua God's gonna cut you down, scelta come base di introduzione. Alle 22 e 25 Mellencamp e la sua band salgono sul palco per un concerto che durerà un'ora e mezza e sarà sostanzialmente diviso in tre parti.
La prima parte, se da un lato è la più affascinante musicalmente, rimane a fine serata la più fredda sotto l'aspetto emotivo e di coinvolgimento. Il salto indietro nel tempo che Mellencamp e band ci vogliono far compiere è tangibile e segue la scia degli ultimi due lavori in studio sotto la regia di Burnett. L'America delle radici folk, country-blues e rockabilly di un set semi-acustico, il contrabbasso suonato da Jon E.Gee, regalano a Authority song, No one Cares about you, Death Letter un fascino antico ed impolverato che sa di vecchi vinili e immagini in bianco e nero. Piace Check it out tratta da "The Lonesome Jubilee", dove la sinuosa figura della brava violinista Miriam Sturm si erge a protagonista.
Nella parte centrale del concerto Mellencamp mette sul piatto la sua vena da folk singer solitario, la chitarra acustica e la sua voce conquistano. Save some time to dream, apertura del suo ultimo disco, Jackie Brown (splendida), Jack and Diane, Small Town, il ricordo dell'amata nonna prima di Longest days( con la fisarmonica di Troye Kinnett) e anche qualche problema "di testa"(come dice lui, scusandosi) prima di attaccare a "cappella" Cherry Bomb iniziano a scaldare la serata, mentre qualche timida goccia di pioggia cade.
Con Rain on the scarecrow si apre la terza parte del concerto, che fino ad ora non ha concesso pause. Dane Clark alla batteria, Andy York e il fidato Michael Wanchic alle chitarre iniziano a fare sul serio aprendo un set rock fiammeggiante e potente, ora il pubblico è entrato definitivamente nella parte. Forse troppo tardi. Perchè Cramblin' Down, If i Die Sudden e Pink Houses sembrano scorrere via veloci e fiere più del previsto, tanto che R.O.C.K. in the USA sembra arrivare anche troppo presto. Mellencamp fa salire un fan sul palco a scandire il chorus, divertimento che purtroppo si interrompe qui.
Le richieste e la vana attesa di un bis scemano con l'illuminazione intorno al palco che si accende e le ombre che accennavo all'inizio che calano a infastidire la festa. Partendo dal pressuposto che avere Mellencamp in Italia è già un valore che mette in secondo piano tutto, le fantomatiche ombre che si possono scorgere sono: una setlist che poteva essere arricchita con una manciata di minuti e di canzoni in più, un Mellencamp un pò rigido nel cercare di coinvolgere il pubblico (insomma non è Springsteen e forse lo si sapeva già) e l'impressione di voler concedere troppo poco all' improvvisazione seguendo una scaletta standard. Qualche regalino ai fans italiani poteva essere concesso.
E' comunque un pezzo di storia musicale americana che sbarca in Italia per la prima e forse unica volta. Chi c'era potrà raccontare orgoglioso tutte le luci e anche le "ombre" della serata.
SETLIST: Authority song, No one cares about me, Death letter, John Cockers, Walk tall, The West End, Check it out, Save some time to dream, Cherry bomb, Jack and Diane, Jackie Brown, Longest days, Small town, Rain on the scarecrow, Crumblin’ down, If I die sudden, Pink houses, R.O.C.K. in the U.S.A.
Un grazie a Gabriella Ascari per le foto:2,4,5(quelle belle!)
Dopo lo straordinario No better than this(http://enzocurelli.blogspot.com/2010/08/john-mellencamp-un-vecchio-microfono.html), vero e proprio viaggio nelle radici della musica americana che partendo dalla stanza di Hotel a San Antonio dove ancora aleggia lo spirito blues di Robert Johnson, passava a Menphis negli Sun studio, luogo imprescindibile per il rock'n roll, finendo con il battesimo nella prima Chiesa Battista nera del Nord America, Mellencamp porta in giro per l'Europa uno spettacolo che ricalca in parte la ricerca musicale alla base di quel disco.
Nella splendida piazza del castello di Vigevano, il Festival "Dieci giorni suonati" quest'anno ha proposto grandi concerti e tante anteprime a partire dai Primus, John Mayall, Jeff Beck, Black Country Communion, Brian Setzer e Black Crowes e non ultimo un'altro battesimo per Mellencamp, quello davanti ai suoi fans italiani.
L'attesa per l'inizio del concerto viene ingannata con la proiezione del film/documentario "It's About You" che testimonia la nascita di questo suo ultimo disco prodotto da T-Bone Burnett con immagini rubate in studio, commenti dell'autore e spezzoni di musica live. Gli ultimi anni di musica di Mellencanp( fresco di coppia con l'attrice Meg Ryan, ma questo c'entra poco stasera) che si intrecciano con l'America rurale e di provincia da lui amata. Un documento di per sè interessante, che perde il suo fascino se proiettato prima di un concerto con i fans in attesa e qualcuno che sembra non gradire la scelta, disturbando senza un reale motivo.
Quando lo schermo scompare, sale sempre di più l'impazienza che finalmente viene interrotta dalla voce di Johnny Cash e la sua God's gonna cut you down, scelta come base di introduzione. Alle 22 e 25 Mellencamp e la sua band salgono sul palco per un concerto che durerà un'ora e mezza e sarà sostanzialmente diviso in tre parti.
La prima parte, se da un lato è la più affascinante musicalmente, rimane a fine serata la più fredda sotto l'aspetto emotivo e di coinvolgimento. Il salto indietro nel tempo che Mellencamp e band ci vogliono far compiere è tangibile e segue la scia degli ultimi due lavori in studio sotto la regia di Burnett. L'America delle radici folk, country-blues e rockabilly di un set semi-acustico, il contrabbasso suonato da Jon E.Gee, regalano a Authority song, No one Cares about you, Death Letter un fascino antico ed impolverato che sa di vecchi vinili e immagini in bianco e nero. Piace Check it out tratta da "The Lonesome Jubilee", dove la sinuosa figura della brava violinista Miriam Sturm si erge a protagonista.
Nella parte centrale del concerto Mellencamp mette sul piatto la sua vena da folk singer solitario, la chitarra acustica e la sua voce conquistano. Save some time to dream, apertura del suo ultimo disco, Jackie Brown (splendida), Jack and Diane, Small Town, il ricordo dell'amata nonna prima di Longest days( con la fisarmonica di Troye Kinnett) e anche qualche problema "di testa"(come dice lui, scusandosi) prima di attaccare a "cappella" Cherry Bomb iniziano a scaldare la serata, mentre qualche timida goccia di pioggia cade.
Con Rain on the scarecrow si apre la terza parte del concerto, che fino ad ora non ha concesso pause. Dane Clark alla batteria, Andy York e il fidato Michael Wanchic alle chitarre iniziano a fare sul serio aprendo un set rock fiammeggiante e potente, ora il pubblico è entrato definitivamente nella parte. Forse troppo tardi. Perchè Cramblin' Down, If i Die Sudden e Pink Houses sembrano scorrere via veloci e fiere più del previsto, tanto che R.O.C.K. in the USA sembra arrivare anche troppo presto. Mellencamp fa salire un fan sul palco a scandire il chorus, divertimento che purtroppo si interrompe qui.
Le richieste e la vana attesa di un bis scemano con l'illuminazione intorno al palco che si accende e le ombre che accennavo all'inizio che calano a infastidire la festa. Partendo dal pressuposto che avere Mellencamp in Italia è già un valore che mette in secondo piano tutto, le fantomatiche ombre che si possono scorgere sono: una setlist che poteva essere arricchita con una manciata di minuti e di canzoni in più, un Mellencamp un pò rigido nel cercare di coinvolgere il pubblico (insomma non è Springsteen e forse lo si sapeva già) e l'impressione di voler concedere troppo poco all' improvvisazione seguendo una scaletta standard. Qualche regalino ai fans italiani poteva essere concesso.
E' comunque un pezzo di storia musicale americana che sbarca in Italia per la prima e forse unica volta. Chi c'era potrà raccontare orgoglioso tutte le luci e anche le "ombre" della serata.
SETLIST: Authority song, No one cares about me, Death letter, John Cockers, Walk tall, The West End, Check it out, Save some time to dream, Cherry bomb, Jack and Diane, Jackie Brown, Longest days, Small town, Rain on the scarecrow, Crumblin’ down, If I die sudden, Pink houses, R.O.C.K. in the U.S.A.
Un grazie a Gabriella Ascari per le foto:2,4,5(quelle belle!)
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