giovedì 21 luglio 2011

RECENSIONE: WILLIAM ELLIOTH WHITMORE ( Field Songs)

WILLIAM ELLIOTH WHITMORE Field Songs (ANTI, 2011)



C'è qualcosa in più negli occhi di chi ha lavorato la terra per anni , staccando lo sguardo dal terreno solo per vedere il colore del cielo e i raggi accecanti del sole, vero padrone del raccolto annuale. Sole che brucia la pelle, la invecchia prima del tempo ma che sa anche colorare quegli occhi che parlano più di tante bocche aperte dentro ad un mercato di città. William Ellioth Withmore è cresciuto in quei campi nello Iowa e la semplicità di quella vita l'ha trasformata nella sua musica. Forse lui quei campi non li ha mai arati alla vecchia e faticosa maniera dei suoi avi e il richiamo della città è stato fatale e inevitabile come tutti quelli della sua generazione, ma ascoltandolo si capisce come quel mondo rurale faccia parte del suo DNA.

Dopo una gioventù passata intorno al punk rock, il richiamo della semplicità ha prevalso anche nella sua scelta artistica e del suo passato sono rimasti i tatuaggi che gli coprono gran parte del corpo. Field Songs è il suo ottavo album dal 2003 e come gli altri e più degli altri è ancora più spoglio: chitarra, banjo, qualche battito di piede e la sua incredibile voce. Mezz'ora di musica dove i rumori della campagna ci accompagnano in sottofondo dall'inizio alla fine. Una passeggiata con uccelli cinguettanti, galli, vento che sbuffa e rumori di zappa in lontananza che tradiscono subito il legame di Whitmore con la terra e la natura.
La voce di Whitmore è straordinaria, profonda e vissuta e non potrebbe essere voce migliore a raccontare la dura vita del lavoro di campagna( Field Song) , come se i fantasmi dei vecchi cantanti gospel-blues si fossero impossessati delle sue corde vocali e facessero cantare a lui quello che cantavano prima che le loro preghiere in musica venissero adottate e trasformate dall'uomo bianco. Whitmore (classe 1978) fa da portavoce e ponte tra i suoi avi, nonni e bisnonni, e la società di oggi.
La sua vita di campagna non è però colorata di verde e azzurro ma scava nella sofferenza di una esistenza condotta a stenti e sacrifici e molto deriva dalla sua esperienza, che lo ha visto molto presto privo di entrambi i genitori. Il senso di perdita è riscontrabile e presente come un marchio a fuoco, nelle sue liriche.

Le scarne partiture di canzoni folk , ti entrano dentro e il gioco di immedesimazione è forte e stupefacente. Se l'ultimo disco "Animals in the dark"(2008), lasciava un minimo spazio ad altri strumenti qui tutto è ridotto all'osso e graffia animo e corpo. L'unica concessione è il ritmo percussivo tenuto dal piede in alcune canzoni (Not feeling any pain, Don't need it). Una semplicità che stordisce, quanto è potente il messaggio. Difficile rimanere indifferenti e non amare ballate per voce e chitarra (Everithing gets gone) che disegnano paesaggi che sembrano lontani nel tempo ma che ancora oggi, sopravvivono in posti non così sperduti come il consumismo vuole farci credere e Whitmore è qui a testimoniarcelo. I ricordi della povertà, Let's do something impossible, lungo i campi del Mississippi in tempi di guerra possono essere gli stessi di chi ha vissuto il grande esodo dalle campagne in città, alla ricerca della fortuna nel dopoguerra italiano.

Whitmore si conferma come il più giovane dei "vecchi", un cantastorie d'altri tempi, con una straordinaria voce che fa trasparire tutta la passione e la devozione, dando una seconda vita alle sue antiche, nuove storie.

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