Billy Bragg, rientra tra le mie più vecchie conoscenze musicali, ricordi di "Talkin with the taxman about poetry" (1986), quando tredicenne, ascoltavo questo cantautore inglese e la sua chitarra uscire dal vecchio mangiacassette. Certo, una eredità fraterna e tramandata che però ha fatto subito breccia su di me, ancora ignaro dei grandi significati che i suoi testi denunciavano ma che mi ha subito invogliato a stipulare un contratto di simpatia verso questo menestrello folk-punk.
Sono passati un bel pò di anni e finalmente quella voce imprigionata dentro a quella vecchia cassetta( chissà mai dove sarà) si è materializzata sul palco dello Spazio 211 di Torino e poco importa se i segni del tempo gridano vendetta sul mio e suo volto, la sua missione sembra sempre quella di allora. Un uomo, la sua arma a 6 corde e la verità questo quello che ho visto questa sera sul piccolo palco che sembrava, per una volta, immenso e circondare Billy e la sua ombra.
Bragg è forse uno dei pochi superstiti della canzone politica e di protesta , l'unico che in Inghilterra, negli anni ottanta sembrò controbattere lo strapotere della musica elettronica e del look a tutti i costi che in quegli anni imperavano, quando anche i Clash dell'amico Strummer si spegnevano con il loro dimenticato "Cut the Crap".
La staffetta lanciata da Guthrie e Dylan in america, sembrava aver trovato nuovamente una mano che impugnasse il testimone senza farlo cadere. Quel testimone a distanza di vent'anni è ancora saldo in quella mano e metaforicamente è una chitarra. Certo, la grezza attitudine di quegli anni si è modernizzata con il tempo e arricchita di nuovi suoni su disco ma la conferma di questa sera basta a rinsaldare il mio contratto con Billy Bragg, l'anello mancante tra il folk di Guthrie e il punk "intelligente"dei Clash.
Il suo ritorno a Torino dopo 24 anni è stato accolto da un pubblico numeroso e variegato di fedeli(magari presenti in quel 1987) ma anche curiosi venuti per ascoltare i suoi racconti in musica e parole, unici ingredienti fondamentali dei suoi show.
L'attacco è affidato a World Turned Upside Down e da lì in avanti sarà un susseguirsi di canzoni in grado di toccare tutte le corde dell'animo umano, solamente lui e le sue due chitarre, una elettrica ed una acustica, nulla di più, nulla di meno.Un uomo solo che per quasi due ore catalizza l'attenzione con la semplicità di racconti, gags e il forte impegno che ha caratterizato tutta la sua carriera con coerenza e grande spirito da combattente.
Come non rimanere impassibili davanti alle vecchie storie su un'Inghilterra in mano ai fascisti nella seconda guerra mondiale e un giovane Billy Bragg che cresceva a Barking, con un ben radicato odio, che caratterizzò il suo inizio carriera in compagnia degli amici Clash nella Londra di metà anni settanta. Partono allora The Battle of Barking (dal recente ep e spettacolo teatrale"Pressure Drop") e l'intramontabile All you fascists del maestro Woody Guthrie, da cui tirerà fuori anche Ingrid Bergman, inedito, musicato con i Wilco su disco a suo tempo e oggi riproposta con una divertente introduzione alla canzone giocata sullo humour dei doppi sensi e metafore.
Tra una esegesi sulla bontà e miracoli del thè caldo(e da un britannico non poteva essere diversamente) che il nostro sorseggia a più riprese, intervallandolo da
sorsate d'acqua gelata, tra un divertente siparietto sugli ossimori delle parole( guerra e intelligenza, football e Stati Uniti e "Bunga" insieme a "Bunga"), e una piacevole "disavventura" con l'insalata di mais avvenuta al ristorante dell'hotel, vanno in scena le sue canzoni To have to have not, Greetings to the new Brunette, Tomorrow's going to be a better day, NPWA, Sexuality., con la chitarra che diventa arma fendente ma anche dolce accompagnatrice di storie tra amore romantico e working class con I keep Faith, dall'ultimo album "Mr. Love & Justice" (2008) dedicata a tutti i presenti.
Fino a giungere all'apoteosi di canzoni, divenute veri e propri inni: The Milkman of Human Kindness, Levi Stubbs 'Tears e There is Power in a Union e il finale affidato a Tank Park Salute e alla tanto attesa New England, cantata all'unisono da tutto il pubblico e che lascia esterefatto un compiaciuto Bragg.
Serata da ricordare con un importante segnale, la chitarra di Bragg, stasera,ha dato dimostrazione di sparare ancora.
sabato 14 maggio 2011
mercoledì 11 maggio 2011
RECENSIONE: ORCHID ( Capricorn)
ORCHID Capricorn ( Church within Records,2011)
Dopo l'uscita di "Sabotage", ricco di nuovi spunti , i Black Sabbath in questo 1976 fanno uscire Capricorn che sembra riportarli sulla scia dei primi ed immortali dischi. No, non sono impazzito ma potrei fermarmi qui e chiunque capirebbe cosa suonano gli Orchid e dove va a parare il loro Capricorn. Ebbene sì, se aspettate la reunion della formazione originale di Birmingham lasciate per un attimo la fantasia o meglio convincetevi che tanto dai vecchi signori del doom difficilmente uscirà qualcosa che assomigli ai primi anni settanta. Meglio allora buttarsi, per una volta, su giovani adepti che in quegli anni nemmeno erano nati, ma che dai maestri sembrano aver eredidato tutto e di più.
Ogni decade ha avuto le sue band devote al "nero sabbath", gli anni ottanta sono stai gli anni di Candlemass e Trouble, gli anni novanta di Sleep e Cathedral , in questi avari anni zero si fanno avanti tra i tanti, gli Orchid da San Francisco. Dopo due Ep, arriva finalmente il full lenght e il salto indietro nel tempo è facile e indolore meglio della macchina dello scienziato "Doc" di Ritorno al futuro.
Quando si parla di band come gli Orchid è sempre facile cadere in una parola come plagio e sfortunatamente anche i titoli delle canzoni sembrano portare in un unica e sola direzione.
Ascoltando le canzoni, però, si intuisce di avere a che fare con un gruppo che sa il fatto suo: nove canzoni dalla durata media di sei minuti, dove i nostri riescono a costruire e mettere al loro interno rallentamenti ed accelerazioni, parti acustiche e progressive con un gusto della melodia che unisce il tutto e fa la differenza facendosi perdonare i tanti riferimenti ai Black Sabbath sparsi lungo tutta la durata del disco. Quello che fa la differenza tra gli Orchid e gli altri gruppi sono le canzoni, costruite con intelligenza e maestria con la voce del cantante Theo Mindell che pur rimanendo sui registri dell'Ozzy Osbourne anni '70 non ne scimmiotta la voce come già sentito in altre band, un basso pesante e presente fino a guidare la canzone, ascoltate la title-track Capricorn e capirete, e una chitarra in mano a Mark Thomas Baker che sforna riff come Toni Iommi non fa più da molto tempo.
L'iniziale Eyes behind the wall, non sarebbe la canzone che tutti i fans dei Black Sabbath vorrebbero sentire ancora dalla chitarra di Iommi? Cosmonaut of three, con tanto di video, potrebbe essere la doom-song perfetta. Black Funeral, omaggia fino ad essere la figlia perfetta di Hands of doom, He who walks alone rimanda ai conterranei Trouble, Electric Father è una sulfurea space/doom song, psichedelica e straniante come la chiusura affidata all'acustica, sognante e progressive Albatross, guidata dal moog, una specie di Planet Caravan pt.2.
Ci sarà sempre chi dirà: a questo punto continuo ad ascoltarmi gli originali primi cinque dischi dei Black Sabbath, ma attenzione perchè questi ragazzi hanno tutte le potenzialità per diventare importanti e il prossimo disco sarà una prova senza appelli. Ultima annotazione per l'artwork globale del cd, veramente cosa d'altri tempi, anche quello.
Dopo l'uscita di "Sabotage", ricco di nuovi spunti , i Black Sabbath in questo 1976 fanno uscire Capricorn che sembra riportarli sulla scia dei primi ed immortali dischi. No, non sono impazzito ma potrei fermarmi qui e chiunque capirebbe cosa suonano gli Orchid e dove va a parare il loro Capricorn. Ebbene sì, se aspettate la reunion della formazione originale di Birmingham lasciate per un attimo la fantasia o meglio convincetevi che tanto dai vecchi signori del doom difficilmente uscirà qualcosa che assomigli ai primi anni settanta. Meglio allora buttarsi, per una volta, su giovani adepti che in quegli anni nemmeno erano nati, ma che dai maestri sembrano aver eredidato tutto e di più.
Ogni decade ha avuto le sue band devote al "nero sabbath", gli anni ottanta sono stai gli anni di Candlemass e Trouble, gli anni novanta di Sleep e Cathedral , in questi avari anni zero si fanno avanti tra i tanti, gli Orchid da San Francisco. Dopo due Ep, arriva finalmente il full lenght e il salto indietro nel tempo è facile e indolore meglio della macchina dello scienziato "Doc" di Ritorno al futuro.
Quando si parla di band come gli Orchid è sempre facile cadere in una parola come plagio e sfortunatamente anche i titoli delle canzoni sembrano portare in un unica e sola direzione.
Ascoltando le canzoni, però, si intuisce di avere a che fare con un gruppo che sa il fatto suo: nove canzoni dalla durata media di sei minuti, dove i nostri riescono a costruire e mettere al loro interno rallentamenti ed accelerazioni, parti acustiche e progressive con un gusto della melodia che unisce il tutto e fa la differenza facendosi perdonare i tanti riferimenti ai Black Sabbath sparsi lungo tutta la durata del disco. Quello che fa la differenza tra gli Orchid e gli altri gruppi sono le canzoni, costruite con intelligenza e maestria con la voce del cantante Theo Mindell che pur rimanendo sui registri dell'Ozzy Osbourne anni '70 non ne scimmiotta la voce come già sentito in altre band, un basso pesante e presente fino a guidare la canzone, ascoltate la title-track Capricorn e capirete, e una chitarra in mano a Mark Thomas Baker che sforna riff come Toni Iommi non fa più da molto tempo.
L'iniziale Eyes behind the wall, non sarebbe la canzone che tutti i fans dei Black Sabbath vorrebbero sentire ancora dalla chitarra di Iommi? Cosmonaut of three, con tanto di video, potrebbe essere la doom-song perfetta. Black Funeral, omaggia fino ad essere la figlia perfetta di Hands of doom, He who walks alone rimanda ai conterranei Trouble, Electric Father è una sulfurea space/doom song, psichedelica e straniante come la chiusura affidata all'acustica, sognante e progressive Albatross, guidata dal moog, una specie di Planet Caravan pt.2.
Ci sarà sempre chi dirà: a questo punto continuo ad ascoltarmi gli originali primi cinque dischi dei Black Sabbath, ma attenzione perchè questi ragazzi hanno tutte le potenzialità per diventare importanti e il prossimo disco sarà una prova senza appelli. Ultima annotazione per l'artwork globale del cd, veramente cosa d'altri tempi, anche quello.
lunedì 9 maggio 2011
RECENSIONE: VOIVOD live (7 Maggio 2011,Rock'n'roll Arena, Romagnano Sesia-NO)
Il "Voivod" è ancora in piedi, un guerriero duro a morire, spopravvissuto a mille battaglie, hanno provato ad abbatterlo in tutti i modi, ma lui, esattamente a trent'anni dalla sua nascita è ancora fiero e combattivo e si appresta a voltare nuovamente pagina per rinascere come una fenice.
Mancava solo Denis "Piggy" D'Amour, stasera e la festa poteva essere completa. Il chitarrista scomparso nel 2005 è stato comunque presente grazie al ricordo del numeroso pubblico che a più riprese, durante la serata, ha scandito il suo nome e dallo stesso gruppo che nel finale ha dedicato lui , Astronomy Domine cover dei primi Pink Floyd ormai degna conclusione di ogni loro concerto e all'epoca fortemente voluta da Piggy stesso. Bisogna comunque dire che il sostituto Daniel Mongrain in arte Chewy, si è confermato più che degno, non che affiatatissimo con il resto del gruppo e pronto a dare inizio ad una nuova era che inizierà presto con la pubblicazione di un nuovo live ed un nuovo lavoro di studio.
I Voivod hanno sempre avuto uno strano destino, quasi maledetto, che però è sempre stato combattuto, avendone in cambio l'assoluta certezza di essere uno dei gruppi più inimitabili della scena rock. I Voivod hanno avuto il merito artistico di elevare il metal, portarlo in un altra dimensione, a volte troppo avanti ed "intelligenti"per essere capiti ma alla fine dei conti irrangiungibili ed inimitabili.
Il tour che ha toccato l'Italia vuole essere l'anticipo dell'imminente disco live " Warriors of Ice" che uscirà il 21 Giugno e la scaletta del concerto ne ricalca la trackslist quasi fedelmente.
Ad aprire "l'old school" thrash dei milanesi Hellstorm, gruppo con un repertorio che scava negli eighties, il primo ed originale black metal di Venom e Bathory incrocia il thrash metal teutonico e il primo death americano in una proposta molto vintage ma estremamente convincente.
The Unknown Knows da "Nothingface"(1989), alla fine l'album più saccheggiato durante la serata, apre un concerto che ripercorre tutte le tappe dell'evoluzione sonora dei canadesi, altalenandosi tra i vari periodi che hanno scandito la loro impeccabile carriera, dagli inizi e il loro "terroristico" thrash, in canzoni micidiali come Voivod e Nuclear War, piazzate come bis, a The Prow da Angel Rat(1991) , disco visionario e psichedelico, poco capito all'epoca ma uno dei loro picchi discografici.
L'istrionico Denis Belanger (Snake) sa come tenere il palco e a più riprese apre simpatici siparietti come nella presentazione ed esecuzione di Forlorn, tratta da "Phobos"(1998), unica canzone del periodo "Forrest" presente in scaletta.
Positivo anche il ritorno di Jean-Yves "Blacky" Thèriault al basso. Scanzonato e in vena di scherzi e battute lo storico bassista è sembrato in piena forma così come la sempre professionale prestazione di un impeccabile Away alla batteria, vero artista a tempo pieno e figura portante del progetto "Voivod" in tutte le sue forme.
Tra le storiche Ripping Headaches, Revenous Medicine, Tribal Convinctions, Nothingface, Missing Sequences e una terremotante Tornado, c' è il tempo per la più recente Global Warning dall'ultimo "Infini", album, come il predecessore "Katorz", costruito dopo la morte di Piggy, usando l'infinità di riff chitarristici lasciati in eredità e per una nuova composizione Kaleidos, che con tutta probabilità farà parte del nuovo disco in cantiere.
La buona affluenza di pubblico all'interno del Rockn'roll Arena e l'affetto dimostrato sprona i Voivod a rientrare in scena per un ultimo saluto, confermando l'assoluta grandezza di un gruppo che ha saputo cavalcare e anticipare sempre i tempi. Perchè nelle discografie che contano, spazio per qualche loro disco ci sarà sempre e stasera lo hanno ribadito senza eccessi di protagonismo, come loro consuetudine, ma facendo della professionalità e onestà il loro punto forte. Lunga vita al "VOIVOD".
venerdì 6 maggio 2011
martedì 3 maggio 2011
RECENSIONE: NAZARETH (Big Dogz)
NAZARETH Big Dogz ( Ear music, 2011)
I Nazareth ci riprovano. Dopo il buon "The Newz" uscito nel 2008, gli scozzesi sembrano vivere una seconda giovinezza , anche grazie alla freschezza compositiva portata dai due nuovi membri, il batterista figliol prodigo Lee Agnew e il chitarrista Jimmy Murrison, ormai ben inseriti nelle trame hard-blues della band.
I Nazareth del nuovo millennio sono ancora un gruppo con un loro perchè. Ascoltate la voce di Dan McCafferty, non è il cantante che farebbe comodo ai miliardari Ac/Dc? La sua voce non ha perso nulla, catrame e melodia come fosse il 1974. Da sempre una delle voci più particolari dell'intero circuito rock e oggi superati i sessantacinquei anni, un vero valore aggiunto. Eppure i Nazareth hanno sempre dovuto combattere per rimanere a galla, i loro tre capolavori degli anni settanta Razamanaz (1973), Loud'n'Proud (1974) e Hair of the dog (1975) vanno annoverati tra le cose più semplici, genuine e dirette uscite in quegli anni, saccheggiati in futuro da molte bands.
Proprio quella semplicità di esecuzione, hanno ricercato i Nazareth targati 2011. Registrato a Praga, praticamente in presa diretta, in poche settimane, per raccogliere tutta la spontaneità e il l'immediatezza che il loro rock richiede, un mix tra l'antico hard rock/blues caro ai due superstiti originali McCafferty e il bassista Pete Agnew e la nuova pesantezza sonora portata degli altri due più giovani componenti.
Big Dog's gonna howl, Claimed e Lifeboat sono pesanti mid-tempo dal tiro hard rock con la voce strepitosa di McCafferty che si erge subito protagonista per diventare ineguagliabile in No Mean Monster. Tra i richiami al passato in When Jesus comes to save the world again, un lento ed ammagliante blues che, come ricordano gli stessi autori, potrebbe essere la continuazione della loro storica Vigilante man( cover di Woody Guthrie), scanzonati rock'n'roll boogie come The toast e canonici ma pesanti episodi blues come Watch your back, c'è il tempo per una radio friendly, è proprio il caso di dirlo, Radio, un omaggio alle vecchie stazioni radio di una volta avvolta in una melodia facile ed orecchiabile.
C'è ancora tempo per la ballata guidata dal piano, Butterfly, segno che i vecchi rockers di una volta , quando vogliono sfiorarti il cuore, riescono anche a penetrarlo e per la finale Sleeptalker, partenza rock'n'roll e finale con il chitarrista Murrison protagonista.
Un disco piacevole dall'inizio alla fine e per un gruppo con 40 anni di storia sul gruppone è già un risultato straordinario. Gli scozzesi, hanno sempre lavorato duro e con umiltà in campo rock, raccogliendo, purtroppo, solo tanta stima dagli addetti ai lavori e a chi parla ora di loro, definendoli dei dinosauri del rock, rispondo: a me i dinosauri sono sempre piaciuti.
I Nazareth ci riprovano. Dopo il buon "The Newz" uscito nel 2008, gli scozzesi sembrano vivere una seconda giovinezza , anche grazie alla freschezza compositiva portata dai due nuovi membri, il batterista figliol prodigo Lee Agnew e il chitarrista Jimmy Murrison, ormai ben inseriti nelle trame hard-blues della band.
I Nazareth del nuovo millennio sono ancora un gruppo con un loro perchè. Ascoltate la voce di Dan McCafferty, non è il cantante che farebbe comodo ai miliardari Ac/Dc? La sua voce non ha perso nulla, catrame e melodia come fosse il 1974. Da sempre una delle voci più particolari dell'intero circuito rock e oggi superati i sessantacinquei anni, un vero valore aggiunto. Eppure i Nazareth hanno sempre dovuto combattere per rimanere a galla, i loro tre capolavori degli anni settanta Razamanaz (1973), Loud'n'Proud (1974) e Hair of the dog (1975) vanno annoverati tra le cose più semplici, genuine e dirette uscite in quegli anni, saccheggiati in futuro da molte bands.
Proprio quella semplicità di esecuzione, hanno ricercato i Nazareth targati 2011. Registrato a Praga, praticamente in presa diretta, in poche settimane, per raccogliere tutta la spontaneità e il l'immediatezza che il loro rock richiede, un mix tra l'antico hard rock/blues caro ai due superstiti originali McCafferty e il bassista Pete Agnew e la nuova pesantezza sonora portata degli altri due più giovani componenti.
Big Dog's gonna howl, Claimed e Lifeboat sono pesanti mid-tempo dal tiro hard rock con la voce strepitosa di McCafferty che si erge subito protagonista per diventare ineguagliabile in No Mean Monster. Tra i richiami al passato in When Jesus comes to save the world again, un lento ed ammagliante blues che, come ricordano gli stessi autori, potrebbe essere la continuazione della loro storica Vigilante man( cover di Woody Guthrie), scanzonati rock'n'roll boogie come The toast e canonici ma pesanti episodi blues come Watch your back, c'è il tempo per una radio friendly, è proprio il caso di dirlo, Radio, un omaggio alle vecchie stazioni radio di una volta avvolta in una melodia facile ed orecchiabile.
C'è ancora tempo per la ballata guidata dal piano, Butterfly, segno che i vecchi rockers di una volta , quando vogliono sfiorarti il cuore, riescono anche a penetrarlo e per la finale Sleeptalker, partenza rock'n'roll e finale con il chitarrista Murrison protagonista.
Un disco piacevole dall'inizio alla fine e per un gruppo con 40 anni di storia sul gruppone è già un risultato straordinario. Gli scozzesi, hanno sempre lavorato duro e con umiltà in campo rock, raccogliendo, purtroppo, solo tanta stima dagli addetti ai lavori e a chi parla ora di loro, definendoli dei dinosauri del rock, rispondo: a me i dinosauri sono sempre piaciuti.
venerdì 29 aprile 2011
RECENSIONE: VINICIO CAPOSSELA ( Marinai, profeti e balene)
VINICIO CAPOSSELA Marinai, Profeti e Balene (La Cùpa, 2011)
Sempre uguale a se stesso, nei secoli dei secoli, il mare non è mai mutato, i suoi rumori e i suoi dolci e spettrali silenzi, il sali/scendi delle onde, i suoi odori di vita e di morte sembrano materializzarsi in un disco enciclopedico che ci racconta leggende, miti e altre storie appoggiandosi spesso e volentieri su testi "alti" della grande letteratura che hanno l'acqua salata come protagonista. Se gli ultimi bollettini ci parlano di un mare rivoltoso ed assassino (Tsunami) o di un mare "autostrada" e ugualmente assassino per disperati alla ricerca di lidi felici, il mare di Vinicio è tutto questo e molto di più. Le sue acque diventano anche la nostra vita compiendo un gioco di parallelismi e metafore.
Capossela ha compiuto un impresa d'altri tempi, riuscendo a riunire 19 canzoni monotematiche in due dischi che suonano d' antico e hanno il colore mutevole dell'acqua e le sue tante sfumature, dal verde melmoso all'azzurro più limpido.
Un primo segnale lo aveva lanciato nel 2008 quando in fondo a Carried to dust, disco degli americani Calexico, vi era come bonus track la canzone Polpo, suonata in compagnia del gruppo di Tucson. Quella canzone è diventata Polpo d'amor. Vi è poi stato il tour sempre del 2008 in cui interpretò in mezzo al mare sopra ad una imbarcazione canzoni a tema marinaresco e infine la geniale intuizione che il mare nella sua oceanica vastità poteva diventare ispiratore di mille storie da appiccicare sopra alla vita di ognuno di noi. Registrato in più luoghi, prevalentemente sul mare, prodotto insieme a Taketo Gohara.
Tutto sembra grande in questo disco a partire dall'autore, passando per la innumerevole quantità di strumenti usati, anche quelli improvvisati, gli ospiti, i cori, gli stili. Capossela si veste da bucaniere e ci indirizza verso un mondo pieno di misteri che solo quando toccano terra sembrano diventare realtà. Due dischi come due parti di un solo racconto, con un solo protagonista, ma ben distinti l'uno dall'altro. La prima parte biblica e letteraria, la seconda più Omerica e terrena .
Può sembrare estremamente difficile entrare dentro al disco, come districarsi ed uscire vivi dalla stiva di una grossa nave piratesca, piena di cunicoli, botole e nascondigli. Si può partire dall'inizio e prendersi un'ora e mezza di tempo seguendolo cronologicamente così come è stato concepito oppure andare a zonzo cercando tra i bizzarri titoli delle canzoni, quelle che più ci attraggono alla prima lettura. Il consiglio è di fare l'una e l'altra cosa.
Si parte dal romanzo "Moby Dick" di Melville, quello con le traduzioni fatte da Pavese, nelle iniziali Il grande Leviatano e L'oceano Oilalà, la prima, una inquiteante e abissale overture tra romanzo e citazioni bibliche, la seconda un mix tra ballata medioevale e canto piratesco che si chiude con il più classico coro dei marinai" Date un bicchiere di rum. Noi vogliamo del rum". Il romanzo di Melville è gran protagonista nella prima parte del disco, da cui traggono ispirazione anche La bianchezza della balena, la talkin' opera Fuochi fatui e la piratesca e corale Billy Budd, un blues contagioso e guidato dall'ospite Marc Ribot (fida chitarra del maestro Waits).
La spettacolare Job, ballata con l'esplosione finale in bilico tra Dio e satana, tratta dal "Libro di Job", lo xilofono guida Lord Jim che prendendo spunto dal romanzo di Joseph Conrad, narra le gesta del marinaio inglese complessato dal suo passato (Nessuno è mai protetto dalla sua debolezza...).
In Polpo d'amor, Capossela immagina l'amore sotto le vesti di un polipo con molte braccia per "amare meglio", magari la bella sirenetta Pryntyl protagonista del primo singolo che sembra uscire direttamente da un grammofono dei primi '900, con le Sorelle Marinetti ospiti.
Con il secondo disco sembra quasi di mettere per un attimo i piedi sulla terra ferma. L'uomo ora cerca risposte e se il mare era poco rassicurante e pieno di incognite, la vita lo è nella stessa misura.
Chi smanioso di risposte, si affida agli indovini, Dimmi Tiresia (...ma è meglio sapere o non sapere...a che mi servirà sapere, saper il mio destino come già deve compiersi...), chi si butta sui nettari capaci di alterare la percezione,Vinocolo è un blues elettrico, rumorista e non sense ode al vino tra i miti dell'Odissea, dal carattere waitsiano. Non poteva mancare la citazione alle mappe dei marinai, ossia il cielo e le sue stelle, Le Pleiadi è una ballata pianistica delicata e armoniosa così come Aedo guidata dalla lyra suonata da Psarantonis, uno dei tanti picchi del disco.
La mitologia greca in Calipso si fonde con la musica caraibica, La madonna delle conchiglie, una filastrocca dedicata alla protettrice dei marinai.
Le sirene che cantano il "tempo andato e futuro" chiudono un disco senza punti deboli, dove ogni nota e ogni parola riempiono e saziano la fame di musica.
Ultimo avviso ai naviganti: il prolungato ascolto del disco produrrà dipendenza. Un 'opera che rimarrà negli annali in compagnia delle migliori opere musicali italiane e un artista che conferma la sua voglia di sperimentare con la fantasia.
Sempre uguale a se stesso, nei secoli dei secoli, il mare non è mai mutato, i suoi rumori e i suoi dolci e spettrali silenzi, il sali/scendi delle onde, i suoi odori di vita e di morte sembrano materializzarsi in un disco enciclopedico che ci racconta leggende, miti e altre storie appoggiandosi spesso e volentieri su testi "alti" della grande letteratura che hanno l'acqua salata come protagonista. Se gli ultimi bollettini ci parlano di un mare rivoltoso ed assassino (Tsunami) o di un mare "autostrada" e ugualmente assassino per disperati alla ricerca di lidi felici, il mare di Vinicio è tutto questo e molto di più. Le sue acque diventano anche la nostra vita compiendo un gioco di parallelismi e metafore.
Capossela ha compiuto un impresa d'altri tempi, riuscendo a riunire 19 canzoni monotematiche in due dischi che suonano d' antico e hanno il colore mutevole dell'acqua e le sue tante sfumature, dal verde melmoso all'azzurro più limpido.
Un primo segnale lo aveva lanciato nel 2008 quando in fondo a Carried to dust, disco degli americani Calexico, vi era come bonus track la canzone Polpo, suonata in compagnia del gruppo di Tucson. Quella canzone è diventata Polpo d'amor. Vi è poi stato il tour sempre del 2008 in cui interpretò in mezzo al mare sopra ad una imbarcazione canzoni a tema marinaresco e infine la geniale intuizione che il mare nella sua oceanica vastità poteva diventare ispiratore di mille storie da appiccicare sopra alla vita di ognuno di noi. Registrato in più luoghi, prevalentemente sul mare, prodotto insieme a Taketo Gohara.
Tutto sembra grande in questo disco a partire dall'autore, passando per la innumerevole quantità di strumenti usati, anche quelli improvvisati, gli ospiti, i cori, gli stili. Capossela si veste da bucaniere e ci indirizza verso un mondo pieno di misteri che solo quando toccano terra sembrano diventare realtà. Due dischi come due parti di un solo racconto, con un solo protagonista, ma ben distinti l'uno dall'altro. La prima parte biblica e letteraria, la seconda più Omerica e terrena .
Può sembrare estremamente difficile entrare dentro al disco, come districarsi ed uscire vivi dalla stiva di una grossa nave piratesca, piena di cunicoli, botole e nascondigli. Si può partire dall'inizio e prendersi un'ora e mezza di tempo seguendolo cronologicamente così come è stato concepito oppure andare a zonzo cercando tra i bizzarri titoli delle canzoni, quelle che più ci attraggono alla prima lettura. Il consiglio è di fare l'una e l'altra cosa.
Si parte dal romanzo "Moby Dick" di Melville, quello con le traduzioni fatte da Pavese, nelle iniziali Il grande Leviatano e L'oceano Oilalà, la prima, una inquiteante e abissale overture tra romanzo e citazioni bibliche, la seconda un mix tra ballata medioevale e canto piratesco che si chiude con il più classico coro dei marinai" Date un bicchiere di rum. Noi vogliamo del rum". Il romanzo di Melville è gran protagonista nella prima parte del disco, da cui traggono ispirazione anche La bianchezza della balena, la talkin' opera Fuochi fatui e la piratesca e corale Billy Budd, un blues contagioso e guidato dall'ospite Marc Ribot (fida chitarra del maestro Waits).
La spettacolare Job, ballata con l'esplosione finale in bilico tra Dio e satana, tratta dal "Libro di Job", lo xilofono guida Lord Jim che prendendo spunto dal romanzo di Joseph Conrad, narra le gesta del marinaio inglese complessato dal suo passato (Nessuno è mai protetto dalla sua debolezza...).
In Polpo d'amor, Capossela immagina l'amore sotto le vesti di un polipo con molte braccia per "amare meglio", magari la bella sirenetta Pryntyl protagonista del primo singolo che sembra uscire direttamente da un grammofono dei primi '900, con le Sorelle Marinetti ospiti.
Con il secondo disco sembra quasi di mettere per un attimo i piedi sulla terra ferma. L'uomo ora cerca risposte e se il mare era poco rassicurante e pieno di incognite, la vita lo è nella stessa misura.
Chi smanioso di risposte, si affida agli indovini, Dimmi Tiresia (...ma è meglio sapere o non sapere...a che mi servirà sapere, saper il mio destino come già deve compiersi...), chi si butta sui nettari capaci di alterare la percezione,Vinocolo è un blues elettrico, rumorista e non sense ode al vino tra i miti dell'Odissea, dal carattere waitsiano. Non poteva mancare la citazione alle mappe dei marinai, ossia il cielo e le sue stelle, Le Pleiadi è una ballata pianistica delicata e armoniosa così come Aedo guidata dalla lyra suonata da Psarantonis, uno dei tanti picchi del disco.
La mitologia greca in Calipso si fonde con la musica caraibica, La madonna delle conchiglie, una filastrocca dedicata alla protettrice dei marinai.
Le sirene che cantano il "tempo andato e futuro" chiudono un disco senza punti deboli, dove ogni nota e ogni parola riempiono e saziano la fame di musica.
Ultimo avviso ai naviganti: il prolungato ascolto del disco produrrà dipendenza. Un 'opera che rimarrà negli annali in compagnia delle migliori opere musicali italiane e un artista che conferma la sua voglia di sperimentare con la fantasia.
martedì 26 aprile 2011
RECENSIONE: PENTAGRAM ( Last Rites)
PENTAGRAM Last Rites (Metal Blade ,2011)
Gli angeli ribelli sono duri da scacciare quando sono stati fedeli alleati di vita e di una carriera vissuta correndo( a passo molto lento) sul filo dello strapiombo . Ma c'è un tempo per tutto e Bobby Liebling era arrivato al punto in cui quei compagni iniziavano a diventare ingombranti seppur sempre in linea con la sua band e la sua vita artistica in generale. Può considerarsi un sopravvissuto del rock che a sessant'anni si è rimesso a camminare a centro strada, costruendosi una famiglia e guardando al cielo con una motivata speranza( anche questa conversione è successa) senza perdere il carisma e il carattere istrionico della sua figura, certamente un personaggio a tutto tondo.
I Pentagram sono in giro da quarant'anni, pochi quelli che se ne sono accorti, molti quelli che riconoscono in loro l'importanza e l'influenza esercitata verso un modo di suonare rock. Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
La storia dei Pentagram si è sempre appoggiata agli anni settanta, anni in cui i nostri non sfornarono nessuno disco ma riempirono il pentagramma musicale di innumerevoli canzoni che ancora oggi sono un profondo pozzo da cui attingere per costruire nuovi album. Non fa difetto Last Rites in bilico tra passato e presente. Veri e propri traghettatori del doom Sabbathiano dagli anni settanta agli anni ottanta , hanno contribuito in maniera sostanziale a far nascere generi come l'Heavy Doom e certo Sludge/Stoner generando centinaia di discepoli. La sapiente e intrigante mescolanza tra la pesantezza dei riff e l'acido blues in stile Blue Cheer è stata assorbita e metabolizzata da schiere di bands che in fila all'anagrafe chiedono la paternità a Liebling e soci.
In Last Rites la chitarra di Griffin è protagonista assoluta tra passeggiate nei più oscuri e sulfurei abissi fino a più rassicuranti melodie(in American dream regna sovrano), i suoi riff e i suoi assoli (che hanno fatto scuola, tanto da essere l'unico vero erede di Tony Iommi) popolano le canzoni, mai così varie e ben costruite. Un disco che gioca sulla varietà degli umori e la voce di Liebling "camaleontica" a dominare sia quando deve essere melodica ed evocativa come nella spiazzante e riuscita ballad Windmills and Chimes, che apre sconfinati spazi tra brezze di vento e campane, sia quando deve seguire la veloce, moderna e quasi stoner opener Treat me right, sfoderando cattiveria e grinta.
Rallentamenti e riff vecchia scuola in Death in 1st person, Walk in blue light, Into the ground , fumosi doom che riconciliano con il passato e consolidano il presente. Menzione per Call the man, ipnotica, cadenzata ed epica marcia con uno strepitoso Griffin che sfodera tutti i suoi effetti da metà canzone in poi e per la psichedelica e trasognante Everything's turning to night.
Dopo un disco così, che potrebbe riaprire porte e consegnare nuovi adepti alla band, si spera che la stabilità si impossessi, finalmente, del futuro consegnando ai virginiani Pentagram l'importanza che meritano al fianco dei grandi nomi del panorama Hard/Heavy mondiale. Perchè se l'Europa ha avuto i Black Sabbath, l'America ha risposto con i Pentagram.
Gli angeli ribelli sono duri da scacciare quando sono stati fedeli alleati di vita e di una carriera vissuta correndo( a passo molto lento) sul filo dello strapiombo . Ma c'è un tempo per tutto e Bobby Liebling era arrivato al punto in cui quei compagni iniziavano a diventare ingombranti seppur sempre in linea con la sua band e la sua vita artistica in generale. Può considerarsi un sopravvissuto del rock che a sessant'anni si è rimesso a camminare a centro strada, costruendosi una famiglia e guardando al cielo con una motivata speranza( anche questa conversione è successa) senza perdere il carisma e il carattere istrionico della sua figura, certamente un personaggio a tutto tondo.
I Pentagram sono in giro da quarant'anni, pochi quelli che se ne sono accorti, molti quelli che riconoscono in loro l'importanza e l'influenza esercitata verso un modo di suonare rock. Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
La storia dei Pentagram si è sempre appoggiata agli anni settanta, anni in cui i nostri non sfornarono nessuno disco ma riempirono il pentagramma musicale di innumerevoli canzoni che ancora oggi sono un profondo pozzo da cui attingere per costruire nuovi album. Non fa difetto Last Rites in bilico tra passato e presente. Veri e propri traghettatori del doom Sabbathiano dagli anni settanta agli anni ottanta , hanno contribuito in maniera sostanziale a far nascere generi come l'Heavy Doom e certo Sludge/Stoner generando centinaia di discepoli. La sapiente e intrigante mescolanza tra la pesantezza dei riff e l'acido blues in stile Blue Cheer è stata assorbita e metabolizzata da schiere di bands che in fila all'anagrafe chiedono la paternità a Liebling e soci.
In Last Rites la chitarra di Griffin è protagonista assoluta tra passeggiate nei più oscuri e sulfurei abissi fino a più rassicuranti melodie(in American dream regna sovrano), i suoi riff e i suoi assoli (che hanno fatto scuola, tanto da essere l'unico vero erede di Tony Iommi) popolano le canzoni, mai così varie e ben costruite. Un disco che gioca sulla varietà degli umori e la voce di Liebling "camaleontica" a dominare sia quando deve essere melodica ed evocativa come nella spiazzante e riuscita ballad Windmills and Chimes, che apre sconfinati spazi tra brezze di vento e campane, sia quando deve seguire la veloce, moderna e quasi stoner opener Treat me right, sfoderando cattiveria e grinta.
Rallentamenti e riff vecchia scuola in Death in 1st person, Walk in blue light, Into the ground , fumosi doom che riconciliano con il passato e consolidano il presente. Menzione per Call the man, ipnotica, cadenzata ed epica marcia con uno strepitoso Griffin che sfodera tutti i suoi effetti da metà canzone in poi e per la psichedelica e trasognante Everything's turning to night.
Dopo un disco così, che potrebbe riaprire porte e consegnare nuovi adepti alla band, si spera che la stabilità si impossessi, finalmente, del futuro consegnando ai virginiani Pentagram l'importanza che meritano al fianco dei grandi nomi del panorama Hard/Heavy mondiale. Perchè se l'Europa ha avuto i Black Sabbath, l'America ha risposto con i Pentagram.
venerdì 22 aprile 2011
COVER ART #1: BILLY JOEL (GLASS HOUSES, 1980)
artista: BILLY JOEL
album: GLASS HOUSES
anno: 1980
fotografo: JIM HOUGHTON
canzoni da ricordare: All for Leyna, It's still rock and roll to me, Sometimes a fantasy, You may be right
Anno 1980, il punk aveva già spazzato via tutto. Occorrevano grandi cambiamenti e molti artisti non rimasero a guardare, chi si buttò sulla discomusic imperante, chi sulla new wave e chi optò per una svolta rock.
Billy Joel esce dagli anni settanta con l'etichetta appiccicata addosso da crooner confidenziale, un "piano man" sulla scia dell'amico Elton John con almeno due hits mondiali come Just the way you are e Honesty che gli garantiranno diritti a vita ed un futuro radioso ed economicamente coperto.
Glass Houses è il disco delle rivincite. La sua personale mossa "punk" scagliata contro chi gli voleva male, critici in primis. Nulla cambia nel successo, confermando Joel come uno dei più straordinari hit maker americani di sempre. Glass Houses diventa presto un altro album di platino da aggiungere in bacheca grazie ai nuovi successi di You May Be Right, Sometimes A Fantasy, All For Leyna, It's Still Rock And Roll To Me, Don't Ask Me Why. Naturalmente la critica rema nuovamente contro, vedendo in questa nuova trasformazione di Joel il tentativo di cavalcare "l'onda" della nascente New Wave.
“Penso che ci sia stata la
percezione che stavo tentando di atteggiarmi come un ragazzo uscito dalla New
Wave, ma non era in alcun modo la mia intenzione. La mia intenzione era
scrivere roba più adatta da suonare nelle grandi arene”.
Joel, tutto sommato è un combattivo e la sua giovinezza passata a boxare lo sprona a far uscire un disco di rottura, diverso da quanto prodotto fino ad allora.Ecco che la copertina assume un significato particolare , svelando subito i suoi contenuti rock'n'roll.
Vestito di giubbotto e guanti di pelle nera, jeans sdruciti e stivaletti, impugna una pietra. I caratteri delle scritte, il nome e il titolo dell'album in rosso, fanno tanto "New York Dolls". Il fotografo Jim Houghton, già autore dello scatto del precedente disco di Joel 52 nd Street(1978) e di Powerage e Highway To Hell degli AC-DC, lo ritrae un attimo prima che la pietra tenuta in mano vada ad infrangersi sull'enorme vetrata davanti a lui. Un gesto che assume il significato di rottura con il passato o un atto da teppistello del Bronx, visto anche l'abbigliamento di Joel?
Sul retro copertina viene svelato l'arcano e tutto sembra tornare normale, il primo piano vede il musicista Newyorchese in giacca e cravatta però davanti ad un vetro in frantumi. La pietra , non ci sono più dubbi, è stata lanciata e gli anni ottanta, lo vedranno ancora protagonista.
giovedì 21 aprile 2011
retroRECENSIONE: KRIS KRISTOFFERSON (Closer to the bone)
KRIS KRISTOFFERSON Closer to the bone (NEW WEST Records,2009)
Il vento sbatte la porta socchiusa della veranda, un vecchio uomo texano dalla barba bianca armato di chitarra e armonica è intento ad accompagnare l'arrivo della sera seduto su una vecchia sedia cigolante. La sua voce calda ed avvolgente racconta storie di libertà, dolore e lo fa in solitudine come un vecchio zio che racconta ai suoi giovani nipoti cos'è la vita e come deve essere affrontata. Si mormora che questo uomo fu anche un attore bello e dannato che faceva cadere ai suoi piedi le donne e che scrisse quella canzone che tanto successo portò alla giovane e anch'essa dannata Janis Joplin, sì quella "Me and Bobby McGee" l'ha scritta proprio quel vecchio uomo.
Alla soglia dei settantatrè anni, Kris Kristofferson fa uscire un disco stupendo, che potrebbe essere benissimo il sesto capitolo mancante delle "American recordings" del compianto amico Johhny Cash. Proprio alle ultime registrazioni di Cash si è ispirato il produttore Don Was per far rinascere la carriera artistica di Kristofferson. Seguendo la strada di Rubin, Was con un operazione di taglio arrichisce la vena malinconica di queste undici composizioni scritte tutte dall'artista texano. Pochi strumenti e band (tra cui il recentemente somparso chitarrista Stephen Bruton e il batterista Jim Keltner) ridotta all'osso rendono le canzoni penetranti e ricche di quel feeling malinconico e struggente che l'ultimo Cash aveva creato. Proprio a Cash è dedicata una delle composizioni più solari del disco, "Good Morning John". Questa canzone è una dedica e un ricordo dell'amico scomparso, che già negli anni sessanta incoraggiò il giovane Kristofferson alla musica. E' inutile negarlo o nasconderlo, lo spettro di Cash esce un pò da tutti i solchi di questo lavoro come nelle crepuscolari "From Here To Forever" e "Holy Woman".
L'iniziale titletrack, già conosciuta ai tempi del supergruppo Highwaymen e sorretta dall'armonica di Kristofferson, protagonista in più tracce e che spesso portano alla mente le prime splendide ballate del giovane Dylan. Closer to the bone è un disco folk dall'anima country, pieno zeppo di dediche, oltre a quella per Cash, troviamo "Sister Sinead", dedicata alla O'Connor e infine la dedica finale al compagno di mille avventure Stephen Bruton, chitarrista della sua band e scomparso poco dopo le registrazioni.
Un disco d'altri tempi che ben si adatta all'arrivo di un altro inverno, in grado di scaldare anima e cuore, cullati dalla voce roca e saggia di Kristofferson che ci regala anche una traccia nascosta che non fa che confermare la bontà di questo lavoro e la nuova strada intrapresa da questo artista intento a vivere da protagonista anche questa sua fase di fine carriera. Il disco è uscito per la New West records e nella edizione limitata presenta un bonus disc con un live registrato a Dublino nel 2008 tra cui si possono ascoltare alcuni suoi vecchi successi come "Sunday Mornin' Comin' Down".
In origine compare su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_29489/Kris_Kristofferson_Closer_To_The_Bone.htm
Il vento sbatte la porta socchiusa della veranda, un vecchio uomo texano dalla barba bianca armato di chitarra e armonica è intento ad accompagnare l'arrivo della sera seduto su una vecchia sedia cigolante. La sua voce calda ed avvolgente racconta storie di libertà, dolore e lo fa in solitudine come un vecchio zio che racconta ai suoi giovani nipoti cos'è la vita e come deve essere affrontata. Si mormora che questo uomo fu anche un attore bello e dannato che faceva cadere ai suoi piedi le donne e che scrisse quella canzone che tanto successo portò alla giovane e anch'essa dannata Janis Joplin, sì quella "Me and Bobby McGee" l'ha scritta proprio quel vecchio uomo.
Alla soglia dei settantatrè anni, Kris Kristofferson fa uscire un disco stupendo, che potrebbe essere benissimo il sesto capitolo mancante delle "American recordings" del compianto amico Johhny Cash. Proprio alle ultime registrazioni di Cash si è ispirato il produttore Don Was per far rinascere la carriera artistica di Kristofferson. Seguendo la strada di Rubin, Was con un operazione di taglio arrichisce la vena malinconica di queste undici composizioni scritte tutte dall'artista texano. Pochi strumenti e band (tra cui il recentemente somparso chitarrista Stephen Bruton e il batterista Jim Keltner) ridotta all'osso rendono le canzoni penetranti e ricche di quel feeling malinconico e struggente che l'ultimo Cash aveva creato. Proprio a Cash è dedicata una delle composizioni più solari del disco, "Good Morning John". Questa canzone è una dedica e un ricordo dell'amico scomparso, che già negli anni sessanta incoraggiò il giovane Kristofferson alla musica. E' inutile negarlo o nasconderlo, lo spettro di Cash esce un pò da tutti i solchi di questo lavoro come nelle crepuscolari "From Here To Forever" e "Holy Woman".
L'iniziale titletrack, già conosciuta ai tempi del supergruppo Highwaymen e sorretta dall'armonica di Kristofferson, protagonista in più tracce e che spesso portano alla mente le prime splendide ballate del giovane Dylan. Closer to the bone è un disco folk dall'anima country, pieno zeppo di dediche, oltre a quella per Cash, troviamo "Sister Sinead", dedicata alla O'Connor e infine la dedica finale al compagno di mille avventure Stephen Bruton, chitarrista della sua band e scomparso poco dopo le registrazioni.
Un disco d'altri tempi che ben si adatta all'arrivo di un altro inverno, in grado di scaldare anima e cuore, cullati dalla voce roca e saggia di Kristofferson che ci regala anche una traccia nascosta che non fa che confermare la bontà di questo lavoro e la nuova strada intrapresa da questo artista intento a vivere da protagonista anche questa sua fase di fine carriera. Il disco è uscito per la New West records e nella edizione limitata presenta un bonus disc con un live registrato a Dublino nel 2008 tra cui si possono ascoltare alcuni suoi vecchi successi come "Sunday Mornin' Comin' Down".
In origine compare su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_29489/Kris_Kristofferson_Closer_To_The_Bone.htm
lunedì 18 aprile 2011
RECENSIONE: PAUL SIMON ( So Beautful or So What)
PAUL SIMON So beautiful or so what (Concord music group, 2011)
La migliore recensione su questo disco la trovate all'interno del libretto, scritta da Elvis Costello e anche se potrebbe sembrare di parte perchè scritta da un artista, amico e collega, riesce benissimo a rendere l'idea e le sensazioni che l'ascolto riesce a dare.
Paul Simon non conosce confini per la sua arte musicale.Se l'ultimo disco Surprise , uscito nel 2006 fu in tutti i sensi una sorpresa, questo nuovo sembra tracciare un ideale riassunto della sua carriera, raccogliendo al suo interno tutte le esperienze musicali della sua vita, dai primissimi vagiti rock'n'roll sul finire degli anni cinquanta, al pop-folk epocale con Garfunkel, infine arrivando a tutte le direzioni di world music intraprese da solista compreso il poco riuscito tentativo di sposare l'elettronica di Bryan Eno in Surprise, perchè alcune tracce di quell'ultimo strano e poco riuscito lavoro sembrano essere presenti anche qui, ma fanno tutt'altra figura.
Un viaggio senza confini quello di Simon, da sempre esploratore curioso della musica che viaggia fuori dai perimetri americani, in grado di unire il folk con i suoni provenienti dai continenti più lontani e dagli strumenti più strani ed inusuali per un americano nato con il rock'n'roll. Nessuno, forse, poteva pensare che già in canzoni come Cecilia e il Condor Pasa, dell'ultimo disco insieme ad Art Garfunkel, quel Bridge Over Troubled Water, uscito nel 1970 e celebrato a dovere quest'anno con la recente uscita deluxe,Simon stava già piantando i primi germogli della sua futura carriera solista. Una carriera che lo porterà ad abbracciare la world music, inglobandola alla perfezione nelle sue radici musicali. Graceland e The rhythm of the Saints sono stati l'apice di questa ricerca, due dischi premiati da critica e successo.
So beautiful os so what ha un sapore particolare, lieve ma allo stesso tempo pieno di pesanti domande(che vengono rivolte anche agli angeli Questions for the Angels), dove l'amore, come Costello rimarca nelle note di copertina, è presente e fa da guida ad un disco pieno di spiritualità, quella di un uomo di origine ebrea che a settant'anni cerca ancora tante risposte sul significato della vita e su quello che vi è dopo (The Afterlife).
Il sermone datato 1941, del reverendo J.M.Gates, campionato all'interno di Getting ready for Christmas Day è il pretesto per parlare dei nostri giorni e della guerra in Iraq attraverso gli occhi di un giovane soldato che passerebbe volentieri il Natale a casa piuttosto che sui campi minati. Chitarre acustiche a tessere la ritmica in primo piano e la voce sempre calda di Simon aprono il disco. Compare anche la moglie Edie Brickell ai cori (anc'essa fresca di stampa con il suo nuovo disco).
L'Africa di Graceland ritorna nei ritmi di Dizzing Blue e si mischia all'India, dove le percussioni sono anche sillabe vocali cantate da Karaikudi R. Mani.
Il piano e gli archi della ballata Love and Hard Times, tessono il momento musicale più intimo e raccolto del disco. Love is eternal sacred light è un blues che parte come un treno fischiante, il momento più propriamente rock dell'intero lavoro, armonica ed un finale che sale di ritmo.
Echi anni 50 escono dal testo di The Afterlife dove Simon immagina la vita nell'aldilà, in modo scherzoso e leggero, uscendone canticchiando "Be Bop a Lula" su un ritmo groove e trascinante. Amulet non è che un piccolo preludio acustico suonato dal solo Simon che fa da apripista a Questions for the angels, delicata e suonata in punta di piedi. Le chitarre acustiche sono protagoniste anche in Rewrite, sapori africani e un amaro testo sul passato di un veterano.
Il disco si chiude con Love and Blessings , la più americana del lotto e ancora in blues, con la title track, già un piccolo classico al primo ascolto.
Un disco pensato e nato alla vecchia maniera nella testa di Simon che è diventato working in progress, un disco ricco di sfumature anche moderne, rendendolo figlio dei suoi tempi e assolutamente degno successore dei passati capolavori del piccolo artista americano. Testi come al solito superiori alla media e classe da vendere. Finito l'ascolto la voglia di tornare alla prima traccia, è un segnale non trascurabile della bontà di questo lavoro.
La migliore recensione su questo disco la trovate all'interno del libretto, scritta da Elvis Costello e anche se potrebbe sembrare di parte perchè scritta da un artista, amico e collega, riesce benissimo a rendere l'idea e le sensazioni che l'ascolto riesce a dare.
Paul Simon non conosce confini per la sua arte musicale.Se l'ultimo disco Surprise , uscito nel 2006 fu in tutti i sensi una sorpresa, questo nuovo sembra tracciare un ideale riassunto della sua carriera, raccogliendo al suo interno tutte le esperienze musicali della sua vita, dai primissimi vagiti rock'n'roll sul finire degli anni cinquanta, al pop-folk epocale con Garfunkel, infine arrivando a tutte le direzioni di world music intraprese da solista compreso il poco riuscito tentativo di sposare l'elettronica di Bryan Eno in Surprise, perchè alcune tracce di quell'ultimo strano e poco riuscito lavoro sembrano essere presenti anche qui, ma fanno tutt'altra figura.
Un viaggio senza confini quello di Simon, da sempre esploratore curioso della musica che viaggia fuori dai perimetri americani, in grado di unire il folk con i suoni provenienti dai continenti più lontani e dagli strumenti più strani ed inusuali per un americano nato con il rock'n'roll. Nessuno, forse, poteva pensare che già in canzoni come Cecilia e il Condor Pasa, dell'ultimo disco insieme ad Art Garfunkel, quel Bridge Over Troubled Water, uscito nel 1970 e celebrato a dovere quest'anno con la recente uscita deluxe,Simon stava già piantando i primi germogli della sua futura carriera solista. Una carriera che lo porterà ad abbracciare la world music, inglobandola alla perfezione nelle sue radici musicali. Graceland e The rhythm of the Saints sono stati l'apice di questa ricerca, due dischi premiati da critica e successo.
So beautiful os so what ha un sapore particolare, lieve ma allo stesso tempo pieno di pesanti domande(che vengono rivolte anche agli angeli Questions for the Angels), dove l'amore, come Costello rimarca nelle note di copertina, è presente e fa da guida ad un disco pieno di spiritualità, quella di un uomo di origine ebrea che a settant'anni cerca ancora tante risposte sul significato della vita e su quello che vi è dopo (The Afterlife).
Il sermone datato 1941, del reverendo J.M.Gates, campionato all'interno di Getting ready for Christmas Day è il pretesto per parlare dei nostri giorni e della guerra in Iraq attraverso gli occhi di un giovane soldato che passerebbe volentieri il Natale a casa piuttosto che sui campi minati. Chitarre acustiche a tessere la ritmica in primo piano e la voce sempre calda di Simon aprono il disco. Compare anche la moglie Edie Brickell ai cori (anc'essa fresca di stampa con il suo nuovo disco).
L'Africa di Graceland ritorna nei ritmi di Dizzing Blue e si mischia all'India, dove le percussioni sono anche sillabe vocali cantate da Karaikudi R. Mani.
Il piano e gli archi della ballata Love and Hard Times, tessono il momento musicale più intimo e raccolto del disco. Love is eternal sacred light è un blues che parte come un treno fischiante, il momento più propriamente rock dell'intero lavoro, armonica ed un finale che sale di ritmo.
Echi anni 50 escono dal testo di The Afterlife dove Simon immagina la vita nell'aldilà, in modo scherzoso e leggero, uscendone canticchiando "Be Bop a Lula" su un ritmo groove e trascinante. Amulet non è che un piccolo preludio acustico suonato dal solo Simon che fa da apripista a Questions for the angels, delicata e suonata in punta di piedi. Le chitarre acustiche sono protagoniste anche in Rewrite, sapori africani e un amaro testo sul passato di un veterano.
Il disco si chiude con Love and Blessings , la più americana del lotto e ancora in blues, con la title track, già un piccolo classico al primo ascolto.
Un disco pensato e nato alla vecchia maniera nella testa di Simon che è diventato working in progress, un disco ricco di sfumature anche moderne, rendendolo figlio dei suoi tempi e assolutamente degno successore dei passati capolavori del piccolo artista americano. Testi come al solito superiori alla media e classe da vendere. Finito l'ascolto la voglia di tornare alla prima traccia, è un segnale non trascurabile della bontà di questo lavoro.
giovedì 14 aprile 2011
RECENSIONE: GRAVEYARD (Hisingen Blues)
GRAVEYARD Hisingen Blues (Nuclear Blast, 2011)
C'è poco da discutere, gli scandinavi hanno preso in mano le redini del rock europeo. Ogni sottogenere, dal punk, al glam, dall'hard , al metal più estremo ha dei rappresentanti in grado di rivaleggiare con le grosse ed ingombranti rockstar americane ed inglesi. Terre fredde che sanno riscaldare mente e muscoli.
Non sfuggono a tutto ciò, gli svedesi Graveyard, al loro secondo lavoro, primo per Nuclear Blast. Sono la conferma che, sì, nel 2011 ci si può ancora innamorare di una musica che ha sul groppone quarant'anni d'età. Continuare ad ascoltare il vecchio rock degli anni settanta senza andare a tirare fuori i vecchi vinili, si può, basta distinguere bene da chi lo fa con passione devota e chi salta sopra al carrozzone.
Presentato da una copertina assolutamente strepitosa, Hisingen blues dice già tutto lì, nel titolo, nell'artwork e nelle foto promozionali dei quattro ragazzi svedesi. Per chi non cerca l'originalità a tutti i costi ma solamente il calore e l'anima che l'hard blues dei settanta sapeva emanare. Led Zeppelin, Free, qualcosa dei Black Sabbath, folk, un pò di psichedelia e un suono perfetto .
Il blues che esce dall'isola di Hisingen (quartiere operaio di Goteborg da cui arrivano i nostri) ha il retro gusto, tutto scandinavo ,di chi sa darti un calcio nel sedere per poi ammagliarti con le atmosfere oniriche, malinconiche e tristi. Ascoltate No good, Mr. Holden, un hard-blues che parte lento ed acido e sale con l'ombra del "grande dirigibile" che si posa trasportando la canzone indietro nel tempo quando l'accoppiata Plant/Page rileggieva a modo suo la tradizione. Buying Truth è un rock'n'roll che nasconde in mezzo al bel riff chitarristico un coro ruffiano e un testo polemico contro l'industria discografica così come lo stesso si può dire di RSS.Ain't fit to live here, posta in apertura possiede quell'urgenza compositiva che avevano i grandi classici di Deep Purple e Uriah Heep, un benvenuto di tre minuti tre folgorante ed accattivante.
The Siren è una sporca ballad blues che si illumina di lampi improvvisi e si incendia come una chitarra di Hendrix lasciata a bruciare sopra ad un palco di quei festival lontani nel tempo. Così come Uncomfortably Numb dove le capacità vocali del singer Joakim Nilsson esplodono in un smisurato feeling rock, canzone dalla quale ti aspetti il crescendo che puntualmente arriva appagandoti con l'assolo finale. Perfetta.
Longing è psichedelica e l'Hammond in sottofondo gioca pienamente le sue carte, in una sorta di strumentale psycho-western che solo il nostro Morricone potrebbe scrivere, mentre con Cooking Brew( presente come bonus track ) si va a parare nello Space hardrock.
Per capire in che epoca pensano di vivere questi quattro ragazzi, guardate poi il video della title track, puro hard rock settantiano.
Un disco capace di appagare i nostalgici del vecchio hard rock in tutte le sue vecchie forme, come un disco del Led Zeppelin registrato nel 2011 e capace di infilare nei retaggi dei suoni vintage la modenità e il calore dello stoner, i rallentamenti del doom metal e la passione di certo rock sudista. Più che una sorpresa.
lunedì 11 aprile 2011
RECENSIONE: MIDDLE BROTHER
MIDDLE BROTHER Middle Brother (Partisan Records, 2011)
Sempre difficile riuscire a venir fuori con un buon album, quando i caratteri, le esperienze e l'arte di diversi musicisti si uniscono per formare un'unica entità. Prendendo come metro di paragone i soliti Crosby-Stills, Nash & Young, l'unico supergruppo che ha resistito per fama nel tempo, poco altro rimane. Tornando in tempi recenti, in ambito alternative-folk, l'ultima delusione furono quei Monsters of folk che non mantennero tutte le promesse date anche dall'altisonante e provocatorio nome.
I Middle Brother riescono invece a non stancare per tutta la durata del disco.
12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.
Dall'iniziale e sognante folk Daydreaming di McCauley, alla seguente Blue Eyes di Vasquez che ruba letteralmente tutto al miglior Neil Young degli anni settanta, in bilico tra chitarra elettrica ed un impianto country/folk. Atmosfere da west coast californiana in Thanks for Nothing di Goldsmith così come in Million Dollar Bill e Wildnerness. Poi delle incursioni nel rock'n'roll anni '50 che danno forza e vigore ad un disco suonato con divertimento e spensieratezza. Middle Brother e il singolo Me,me,me rimandano al primordiale honk-tonk rock'n'roll, mentre Someday con i suoi cori, ci porta alla fun-music della california dei Beach Boys e alle grandi band vocali dei '50. Inclusa anche la cover di Portland dei Replacements.
Brezza fresca che soffia su canzoni calde ed avvolgenti, un progetto che forse rimarrà ancorato a questo solo disco, mantenendo la tradizione che vuole i supergruppi sempre in lotta con la breve longevità dei progetti. Da ascoltare in tutta rilassatezza in questa primavera afosa come non mai. Pensieri azzerati, sole e basta.
Sempre difficile riuscire a venir fuori con un buon album, quando i caratteri, le esperienze e l'arte di diversi musicisti si uniscono per formare un'unica entità. Prendendo come metro di paragone i soliti Crosby-Stills, Nash & Young, l'unico supergruppo che ha resistito per fama nel tempo, poco altro rimane. Tornando in tempi recenti, in ambito alternative-folk, l'ultima delusione furono quei Monsters of folk che non mantennero tutte le promesse date anche dall'altisonante e provocatorio nome.
I Middle Brother riescono invece a non stancare per tutta la durata del disco.
12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.
Dall'iniziale e sognante folk Daydreaming di McCauley, alla seguente Blue Eyes di Vasquez che ruba letteralmente tutto al miglior Neil Young degli anni settanta, in bilico tra chitarra elettrica ed un impianto country/folk. Atmosfere da west coast californiana in Thanks for Nothing di Goldsmith così come in Million Dollar Bill e Wildnerness. Poi delle incursioni nel rock'n'roll anni '50 che danno forza e vigore ad un disco suonato con divertimento e spensieratezza. Middle Brother e il singolo Me,me,me rimandano al primordiale honk-tonk rock'n'roll, mentre Someday con i suoi cori, ci porta alla fun-music della california dei Beach Boys e alle grandi band vocali dei '50. Inclusa anche la cover di Portland dei Replacements.
Brezza fresca che soffia su canzoni calde ed avvolgenti, un progetto che forse rimarrà ancorato a questo solo disco, mantenendo la tradizione che vuole i supergruppi sempre in lotta con la breve longevità dei progetti. Da ascoltare in tutta rilassatezza in questa primavera afosa come non mai. Pensieri azzerati, sole e basta.
venerdì 8 aprile 2011
retroRECENSIONE: KEITH CAPUTO (Died Laughing)
KEITH CAPUTO Died Laughing (Roadrunner Records,2000)
In questi giorni mi sono perso nell'ascolto del primo disco solista di quel piccolo grande personaggio di nome Keith Caputo. Ai piu' il suo nome dirà poco o nulla, a qualcuno ricorderà essere il nome del vocalist di un gruppo dagli esordi Metal-core di New York, i "Life Of Agony", un po' i figli minori dei piu' fortunati "Type O Negative".
Uscito nel 2000 rappresenta il primo disco solista della sua carriera a cui faranno seguito altre tre uscite, aprofittando dello scioglimento della band madre ritornata nel 2005 e tuttora attiva. Nei suoi lavori solisti Caputo prende totalmente le distanze dal suono della band newyorchese preferendo suoni acustici e intimistici. Poche schitarrate quindi ma molte ballad malinconiche e spesso minimali con testi spesso autobiografici.
Keith Caputo è figlio di una adolescenza da non augurare a nessuno.
Figlio di genitori distrutti e sconfitti dall'eroina, Keith si è dovuto costruire una vita da solo con le proprie forze e nella musica ha trovato una via di uscita ed una risposta al suo vivere. Dotato di una delle migliori voci che il rock abbia partorito negli anni novanta, Caputo sfoga la sua rabbia e i suoi pensieri d'esistenza in queste dodici canzoni mature e mai urlate.
Con i Life Of Agony , Caputo urla la sua rabbia, da solista cerca di scavare nell'anima facendo uscire perle come la stupenda "Razzberry Mockery", canzone che avrebbe meritato di più. Ballad che ti si stampa in testa con la descrizione amara della sua triste infanzia negata da certe cose che in età adulta o abbracci con rassegnazione o tieni lontano con tutte le tue forze ancor di più se queste hanno tolto di mezzo la vita dei tuoi genitori.
Poco rock in questo disco, dicevo, giusto l'iniziale "Honeycomb" e le finali "Lollipop" e "Upsy Daisy". Canzoni dal forte sapore grunge e unici pezzi dove compaiono chitarre elettriche. Ad un martire del grunge è poi dedicata la quasi jazzata "Cobain (Rainbow Deadhead)", quasi a voler accumunare la sua vita a quella di Cobain. Ma Caputo non arriverebbe mai a certi compromessi con la vita, la sua voglia di esserci traspare da tutte le tracce e a vederlo non si può provare che ammirazione e simpatia per quest'uomo minuto e quasi buffo dotato di una voce unica.
Nell'ascolto del disco vengono a galla certi amori di Caputo per la west coast californiana come in "Selfish", "New York City", "Home" o per i Beatles psichedelici come in "Just Be" e "Brandy Duval" dove l'uso di strumenti ad arco e orchestrazioni fanno la loro comparsa. Disco in tutto e per tutto intimista che ti entra dentro poco a poco, suonato con passione dall'inizio alla fine, bandito l'uso dell'elettronica a favore di veri strumenti a rendere il tutto più caldo e avvolgente.
Uscito per la Roadrunner, etichetta anche dei Life Of Agony, ai tempi, passò quasi del tutto inosservato così come quasi è sconosciuto Keith Caputo, talento non ancora compreso. Di lui si sono però ricordati i suoi amici musicisti. Possiamo così trovare Caputo nelle backing vocals del fortunato Bloody kisses degli amici Type O Negative (a cui i Life Of Agony sottrarranno il batterista Sal Abruscato), oppure a duettare nel singolo dei gothmetallers Within Temptation "What have you done". Non si è dimenticata di lui nemmeno la Roadrunner che lo chiamò insieme ad altre decine di artisti per la compilation fatta per festeggiare i 25 anni dell'etichetta. Caputo scrisse le lirics e suonò il piano nella canzone "Tired'n'lonely".
Ora sta a voi scoprirlo se già non lo conoscete.
In Origine su Debaser.it http://www.debaser.it/recensionidb/ID_27958/Keith_Caputo_Died_Laughing.htm
In questi giorni mi sono perso nell'ascolto del primo disco solista di quel piccolo grande personaggio di nome Keith Caputo. Ai piu' il suo nome dirà poco o nulla, a qualcuno ricorderà essere il nome del vocalist di un gruppo dagli esordi Metal-core di New York, i "Life Of Agony", un po' i figli minori dei piu' fortunati "Type O Negative".
Uscito nel 2000 rappresenta il primo disco solista della sua carriera a cui faranno seguito altre tre uscite, aprofittando dello scioglimento della band madre ritornata nel 2005 e tuttora attiva. Nei suoi lavori solisti Caputo prende totalmente le distanze dal suono della band newyorchese preferendo suoni acustici e intimistici. Poche schitarrate quindi ma molte ballad malinconiche e spesso minimali con testi spesso autobiografici.
Keith Caputo è figlio di una adolescenza da non augurare a nessuno.
Figlio di genitori distrutti e sconfitti dall'eroina, Keith si è dovuto costruire una vita da solo con le proprie forze e nella musica ha trovato una via di uscita ed una risposta al suo vivere. Dotato di una delle migliori voci che il rock abbia partorito negli anni novanta, Caputo sfoga la sua rabbia e i suoi pensieri d'esistenza in queste dodici canzoni mature e mai urlate.
Con i Life Of Agony , Caputo urla la sua rabbia, da solista cerca di scavare nell'anima facendo uscire perle come la stupenda "Razzberry Mockery", canzone che avrebbe meritato di più. Ballad che ti si stampa in testa con la descrizione amara della sua triste infanzia negata da certe cose che in età adulta o abbracci con rassegnazione o tieni lontano con tutte le tue forze ancor di più se queste hanno tolto di mezzo la vita dei tuoi genitori.
Poco rock in questo disco, dicevo, giusto l'iniziale "Honeycomb" e le finali "Lollipop" e "Upsy Daisy". Canzoni dal forte sapore grunge e unici pezzi dove compaiono chitarre elettriche. Ad un martire del grunge è poi dedicata la quasi jazzata "Cobain (Rainbow Deadhead)", quasi a voler accumunare la sua vita a quella di Cobain. Ma Caputo non arriverebbe mai a certi compromessi con la vita, la sua voglia di esserci traspare da tutte le tracce e a vederlo non si può provare che ammirazione e simpatia per quest'uomo minuto e quasi buffo dotato di una voce unica.
Nell'ascolto del disco vengono a galla certi amori di Caputo per la west coast californiana come in "Selfish", "New York City", "Home" o per i Beatles psichedelici come in "Just Be" e "Brandy Duval" dove l'uso di strumenti ad arco e orchestrazioni fanno la loro comparsa. Disco in tutto e per tutto intimista che ti entra dentro poco a poco, suonato con passione dall'inizio alla fine, bandito l'uso dell'elettronica a favore di veri strumenti a rendere il tutto più caldo e avvolgente.
Uscito per la Roadrunner, etichetta anche dei Life Of Agony, ai tempi, passò quasi del tutto inosservato così come quasi è sconosciuto Keith Caputo, talento non ancora compreso. Di lui si sono però ricordati i suoi amici musicisti. Possiamo così trovare Caputo nelle backing vocals del fortunato Bloody kisses degli amici Type O Negative (a cui i Life Of Agony sottrarranno il batterista Sal Abruscato), oppure a duettare nel singolo dei gothmetallers Within Temptation "What have you done". Non si è dimenticata di lui nemmeno la Roadrunner che lo chiamò insieme ad altre decine di artisti per la compilation fatta per festeggiare i 25 anni dell'etichetta. Caputo scrisse le lirics e suonò il piano nella canzone "Tired'n'lonely".
Ora sta a voi scoprirlo se già non lo conoscete.
In Origine su Debaser.it http://www.debaser.it/recensionidb/ID_27958/Keith_Caputo_Died_Laughing.htm
lunedì 4 aprile 2011
RECENSIONE: MANNARINO (Supersantos)
ROMANITÀ Un giorno una Signora forastiera, passanno còr marito sotto l'arco de Tito, vidde una Gatta nera spaparacchiata fra l'antichità. -Micia che fai?- je chiese: e je buttò; un pezzettino de biscotto ingrese; ma la Gatta, scocciata, nu' lo prese: e manco l'odorò. Anzi la guardò male e disse con un' aria strafottente: Grazzie, madama, nun me serve gnente: io nun magno che trippa nazzionale! Trilussa
Roma, per chi ci vive o ha provato a viverla da turista curioso lontano dai cataloghi che promettono meraviglie, ha un magnetismo che difficilmente chi la cerca solamente per i suoi monumenti, riuscirà a scovare. Fortunatamente, in tanti hanno provato a raccontarcela in modo diverso. La Roma nascosta, quella del quartiere Monteverde di Pasolini, quella poetica e bizzarra di Fellini, quella dei rioni cantati negli stornelli romani ed interpretati da Lando Fiorini e Gabriella Ferri, rivive un po' anche nelle canzoni di Mannarino, un cantore che coniuga tutto questo come un Tom Waits nato tra i colli e il Vaticano. Con lui i perdenti hanno la ribalta, anche chi vive a Trastevere e si affaccia alla finestra può diventare protagonista di una sua canzone, basta avere poche prerogative: non essere famoso, tirare a campare e avere qualche vecchia bella storia da raccontare, meglio se d'amore anche se il finale è tragico e fa soffrire. Alessandro Mannarino ha percorso tutte le strade meno battute della sua Roma. Quelle che i turisti americani non toccano. Partendo da Casilina arrivando alla stazione Termini, ha incontrato i vecchi e giovani ubriachi che popolano il bar della "rabbia", le donne di strada, ha fatto amicizia con la comunità rom che popola casilino 900 e ora si è fermato al Vaticano a contemplarne la grandezza e a farsi molte domande. Perchè se sei di Roma , lo stato pontificio è nella tua pelle, nel bene e nel male e devi conviverci. Ed ecco che Supersantos diventa, oltre che il più acerrimo nemico del Super tele, palloni da poche lire, appesi fuori dalle edicole, indimenticati protagonisti di tante partitelle a calcio nei più malandati campetti di periferia, anche un santo "tanto", in carne ed ossa, quello a cui appellarci per liberarci dalla rovina imminente. Mannarino racconta un'apocalisse fatta di distruzione del libero pensiero e costruita su dogmi a volte inconcepibili e difficili da decifrare. Nascoste tra le pieghe delle canzoni sono tante le stoccate indirizzate alla chiesa, alcune sottili da cogliere, altre senza mandarle a dire.
"Serenata lacrimosa-sui gradini della chiesa-ma chi me sente-er vescovo c'ha er microfono e io niente- e lui vorebbe una cosa solamente-che se seccassero tutte le donne- che fà l'amore fosse un incidente..." da Serenata Lacrimosa "C'è chi ha detto " m'hanno derubato i preti e lo stato"- l'hanno condannato più le spese-e adesso fa la questua nelle chiese" da Serenata Silenziosa
In Maddalena ricostruisce a modo suo le sacre scritture, attraverso una tresca amorosa tra la Santa e Giuda arrivando ad una interessante conclusione. Ma in Supersantos, che rappresenta un grande balzo in avanti , anche a livello musicale, il viaggio di Mannarino tocca anche l'Europa e la patchanka di Manu Chao in L'era della gran pubblicitè , il sudamerica, spunti di Capossela ( il quale non ha mancato di benedire il suo figliol prodigo con belle parole), che escono a più riprese in canzoni quali Quando l'amore se ne va o la bella favola Merlo rosso, cantata in coppia con Claudia Angelucci. La tradizione degli stornelli nell'accorata dichiarazione d'amore di State zitta e la romanità che esce prepotente nell'iniziale Rumba magica e il suo colorato e a volte desolato ritratto della Roma di oggi.
"Chi per strada vape strada mòre sotto tangenziali di città e dal policlinico al Verano tutta vita tocca camminà da Gerusalemme al Vaticano tutti quanti fanno inginocchià alzati e balla contromano questa nuova rumba magica"
Mannarino è un personaggio umile ed onesto che ha confermato tutto il buono dell'esordio e si appresta a fare il grande balzo di popolarità.
vedi anche RECENSIONE: VINICIO CAPOSSELA- Marinai Profeti e Balene
giovedì 31 marzo 2011
RECENSIONE: STOOP (Freeze Frames)
STOOP Freeze Frames (Bugbite Records ,2011)
La sensazione di entrare in un lungo e buio tunnel di cemento, lasciarsi alle spalle la vita che hai condotto fino ad ora, affrontare un percorso tortuoso con la fioca luce dell'uscita solo impressa nella tua testa come desiderio più imminente e simbolo di nuove buone cose che possano far dimenticare il passato. Una luce non poi così lontana nella realtà, pochi minuti, quelli che compongono le prime due tracce di Freeze Frames, il secondo lavoro degli Stoop. Our Modern Assaults e Migrations , dopo una breve intro, ti avvolgono con le loro atmosfere elettriche, dove l'alternative indie rock europeo dei primi anni novanta incontra sprazzi di folk con i bagliori di una psichedelia che trova supporto nell'originale uso di uno strumento come la tromba che di tanto in tanto (Trainwrecks e Fever is a ghost) colora canzoni architettamente perfette.
Ora, arbusti verdi, fiori color pastello e luce si sostituiscono al freddo gelo del cemento, l'acido folk nell'inizio di Remote, la magia ipnotizzante della bella Machine e le suggestioni quasi pinkfloydiane della finale We carry the fire con la sua coda noise, fanno da punti guida di un disco che gioca sul forte connubio elettro-acustico a livello musicale e sul passato-contemporaneo nei testi, per nulla banali, dove il forte richiamo al tempo passato, alle occasioni perdute, alle esperienze negative (Freeze frame), da vivere senza rimorso (10000 Bugs) diventa fuga da un mondo sempre più apocalittico fatto di soldi e potere ( Our modern Assault) ma colmo di speranze (Migrations).
Un disco che fa della omogeneità dei suoi chiaro-scuri ipnotici, disseminati per tutta la durata, il proprio punto di forza, dove anche gli accenni pop nell'uso particolare delle voci fanno la loro figura, incastrandosi perfettamente nelle trame delle canzoni. Manca, forse, quel tocco di cattiveria in più che potrebbe renderlo perfetto e con un'altra sfumatura da aggiungere alle tante già presenti, se proprio bisogna trovare un appunto.
Ora posso dirlo, sottovoce, gli Stoop sono italiani, sanno scrivere belle canzoni dal tratto internazionale e proprio all'estero hanno già ottenuto importanti riconoscimenti che sono valsi l'importante collaborazione con Davide Bortolini (Kings of convenience) che ha mixato il loro brano In the cave in Norvegia e la partecipazione del loro brano We carry the fire( con ospiti membri di Julie's haircut,Zeta bum, Slugs) nella colonna sonora di Cenere, film di Martino Pompili. Nascono a Reggio Emilia nel 2003 e hanno all'attivo già un album, Stoopid monkeys in the house(uscito per Prismopaco records) nel 2008. Canzoni da bruciare lentamente per assaporarne le sfumature che gli ascolti fanno emergere, lontano dal quel tunnel di cemento che ingabbia certa musica italiana.
Dal 6 Maggio disponibile su iTunes, in anteprima esclusiva per due settimane, la Special Edition dell’album contenente 4 inedite live bonus tracks.
Dal 20 Maggio disponibile in versione digitale in tutti i migliori Digital Store e in download gratuito per una settimana su Nokia Music Store il singolo "Fever Is A Ghost"
INTERVISTA su impattosonoro.it
Per saperne di più visitate l'indirizzo http://www.prismopaco.com/home.php?l=it
La sensazione di entrare in un lungo e buio tunnel di cemento, lasciarsi alle spalle la vita che hai condotto fino ad ora, affrontare un percorso tortuoso con la fioca luce dell'uscita solo impressa nella tua testa come desiderio più imminente e simbolo di nuove buone cose che possano far dimenticare il passato. Una luce non poi così lontana nella realtà, pochi minuti, quelli che compongono le prime due tracce di Freeze Frames, il secondo lavoro degli Stoop. Our Modern Assaults e Migrations , dopo una breve intro, ti avvolgono con le loro atmosfere elettriche, dove l'alternative indie rock europeo dei primi anni novanta incontra sprazzi di folk con i bagliori di una psichedelia che trova supporto nell'originale uso di uno strumento come la tromba che di tanto in tanto (Trainwrecks e Fever is a ghost) colora canzoni architettamente perfette.
Ora, arbusti verdi, fiori color pastello e luce si sostituiscono al freddo gelo del cemento, l'acido folk nell'inizio di Remote, la magia ipnotizzante della bella Machine e le suggestioni quasi pinkfloydiane della finale We carry the fire con la sua coda noise, fanno da punti guida di un disco che gioca sul forte connubio elettro-acustico a livello musicale e sul passato-contemporaneo nei testi, per nulla banali, dove il forte richiamo al tempo passato, alle occasioni perdute, alle esperienze negative (Freeze frame), da vivere senza rimorso (10000 Bugs) diventa fuga da un mondo sempre più apocalittico fatto di soldi e potere ( Our modern Assault) ma colmo di speranze (Migrations).
Un disco che fa della omogeneità dei suoi chiaro-scuri ipnotici, disseminati per tutta la durata, il proprio punto di forza, dove anche gli accenni pop nell'uso particolare delle voci fanno la loro figura, incastrandosi perfettamente nelle trame delle canzoni. Manca, forse, quel tocco di cattiveria in più che potrebbe renderlo perfetto e con un'altra sfumatura da aggiungere alle tante già presenti, se proprio bisogna trovare un appunto.
Ora posso dirlo, sottovoce, gli Stoop sono italiani, sanno scrivere belle canzoni dal tratto internazionale e proprio all'estero hanno già ottenuto importanti riconoscimenti che sono valsi l'importante collaborazione con Davide Bortolini (Kings of convenience) che ha mixato il loro brano In the cave in Norvegia e la partecipazione del loro brano We carry the fire( con ospiti membri di Julie's haircut,Zeta bum, Slugs) nella colonna sonora di Cenere, film di Martino Pompili. Nascono a Reggio Emilia nel 2003 e hanno all'attivo già un album, Stoopid monkeys in the house(uscito per Prismopaco records) nel 2008. Canzoni da bruciare lentamente per assaporarne le sfumature che gli ascolti fanno emergere, lontano dal quel tunnel di cemento che ingabbia certa musica italiana.
Dal 6 Maggio disponibile su iTunes, in anteprima esclusiva per due settimane, la Special Edition dell’album contenente 4 inedite live bonus tracks.
Dal 20 Maggio disponibile in versione digitale in tutti i migliori Digital Store e in download gratuito per una settimana su Nokia Music Store il singolo "Fever Is A Ghost"
INTERVISTA su impattosonoro.it
Per saperne di più visitate l'indirizzo http://www.prismopaco.com/home.php?l=it
lunedì 28 marzo 2011
RECENSIONE: MODENA CITY RAMBLERS ( Sul tetto del mondo)
MODENA CITY RAMBLERS Sul tetto del mondo ( Mescal, 2011)
Il tour di "Riportando tutto a casa, quindici anni dopo" era un importante segnale che si è materializzato in questo nuovo "Sul tetto del mondo". Il riavvicinamento a quella semplicità di suonare folk, come agli esordi, riguardando all'Irlanda e al combat -folk come principali fonti di ispirazione. Dall'uscita di Cisco, in seno al gruppo di Modena, sono successe tante cose, arrivi e partenze che hanno trasformato e rivoluzionato la band, senza però far perdere l'idea di base della grande famiglia. Persa per strada la voce femminile di Betty Vezzani, il "tuttofare" Angelo Kaba Cavazzuti e riassorbita la ferita per la prematura scomparsa di Luca Giacometti, due sono le nuove entrate, già presenti nel precedente tour, Luciano Gaetani già membro fondatore della band nel lontano 1991 e rientrato in pianta stabile e Luca Serio Bertolini, cantautore di professione che si presta alla chitarra.
Lontani i tempi della lotta politica, sempre più stemperata e moderata con il tempo, i Modena city Ramblers del 2011, sono un gruppo alla ricerca della semplicità, nei suoni e nei testi, pur non mancando di punzecchiare nel sociale. Sul tetto del mondo si vanta d'essere l'ultimo disco registrato negli studi Esagono di Rubiera (Reggio Emilia), a cui dedicano Il posto dell'Airone e proprio da questo suono vintage, privo di orpelli o tentazioni di modernità che avevano caratterizzato, anche troppo, le ultime produzioni dell'era Cisco, si riparte.
Senza dubbio il migliore album con la voce di Andrea "Dudu" Morandi, dove traspare chiaramente la voglia di suonare quel folk che aveva fatto nascere la band, con i traditionals irlandesi,i Pogues e i Waterboys come faro guida. Il violino torna protagonista e la dolce melodia costruita in Seduto sul tetto del mondo, accompagna una delle migliori ballad mai composte dalla band. Non solo violino, ma anche fisarmonica e flauto, come nella migliore tradizione folk britannica tornano al centro della proposta musicale, subito dall'apertura con AltrItalia, I giorni della crisi e Interessi Zero che lasciano poco spazio a fantasia e sogno, ma raccontano uno spaccato di contemporaneità da cui però si vorrebbe uscire volentieri. Qualcuno potrebbe fare dell'ironia sui testi retorici, ma va da sè che il momento socio-politico che stiamo vivendo in Italia lascia pochi spazi a dubbi o confusioni. Prendere o lasciare. Chiamiamolo ancora combat folk e andiamo avanti. Appunti partigiani nel dialetto di S'ciop e Picòun mentre le uniche strade che portano fuori dal verde irlandese sono l'orientaleggiante Povero Diavolo, il folk in levare di Camminare e la caraibica e piratesca Que viva Tortuga con tanto di citazione di Capitan uncino di Bennato e la presenza di Tony Esposito che proprio con Bennato lasciò il suo segno negli anni settanta.
I Modena city Ramblers, continuano a fare i Modena City Ramblers, non cercate altro da loro, chi li ama continuerà a seguirli, chi li ha abbandonati dopo l'uscita di Cisco potrebbe dare loro un ascolto e chi li ha sempre odiati continuerà a farlo. Anche questa è coerenza nel bene e nel male.
Il tour di "Riportando tutto a casa, quindici anni dopo" era un importante segnale che si è materializzato in questo nuovo "Sul tetto del mondo". Il riavvicinamento a quella semplicità di suonare folk, come agli esordi, riguardando all'Irlanda e al combat -folk come principali fonti di ispirazione. Dall'uscita di Cisco, in seno al gruppo di Modena, sono successe tante cose, arrivi e partenze che hanno trasformato e rivoluzionato la band, senza però far perdere l'idea di base della grande famiglia. Persa per strada la voce femminile di Betty Vezzani, il "tuttofare" Angelo Kaba Cavazzuti e riassorbita la ferita per la prematura scomparsa di Luca Giacometti, due sono le nuove entrate, già presenti nel precedente tour, Luciano Gaetani già membro fondatore della band nel lontano 1991 e rientrato in pianta stabile e Luca Serio Bertolini, cantautore di professione che si presta alla chitarra.
Lontani i tempi della lotta politica, sempre più stemperata e moderata con il tempo, i Modena city Ramblers del 2011, sono un gruppo alla ricerca della semplicità, nei suoni e nei testi, pur non mancando di punzecchiare nel sociale. Sul tetto del mondo si vanta d'essere l'ultimo disco registrato negli studi Esagono di Rubiera (Reggio Emilia), a cui dedicano Il posto dell'Airone e proprio da questo suono vintage, privo di orpelli o tentazioni di modernità che avevano caratterizzato, anche troppo, le ultime produzioni dell'era Cisco, si riparte.
Senza dubbio il migliore album con la voce di Andrea "Dudu" Morandi, dove traspare chiaramente la voglia di suonare quel folk che aveva fatto nascere la band, con i traditionals irlandesi,i Pogues e i Waterboys come faro guida. Il violino torna protagonista e la dolce melodia costruita in Seduto sul tetto del mondo, accompagna una delle migliori ballad mai composte dalla band. Non solo violino, ma anche fisarmonica e flauto, come nella migliore tradizione folk britannica tornano al centro della proposta musicale, subito dall'apertura con AltrItalia, I giorni della crisi e Interessi Zero che lasciano poco spazio a fantasia e sogno, ma raccontano uno spaccato di contemporaneità da cui però si vorrebbe uscire volentieri. Qualcuno potrebbe fare dell'ironia sui testi retorici, ma va da sè che il momento socio-politico che stiamo vivendo in Italia lascia pochi spazi a dubbi o confusioni. Prendere o lasciare. Chiamiamolo ancora combat folk e andiamo avanti. Appunti partigiani nel dialetto di S'ciop e Picòun mentre le uniche strade che portano fuori dal verde irlandese sono l'orientaleggiante Povero Diavolo, il folk in levare di Camminare e la caraibica e piratesca Que viva Tortuga con tanto di citazione di Capitan uncino di Bennato e la presenza di Tony Esposito che proprio con Bennato lasciò il suo segno negli anni settanta.
I Modena city Ramblers, continuano a fare i Modena City Ramblers, non cercate altro da loro, chi li ama continuerà a seguirli, chi li ha abbandonati dopo l'uscita di Cisco potrebbe dare loro un ascolto e chi li ha sempre odiati continuerà a farlo. Anche questa è coerenza nel bene e nel male.
sabato 26 marzo 2011
RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS (Scandalous)
BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS Scandalous (Lost Highway, 2011)
Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso. L'istinto è alzare, alzare e muoversi. Le undici tracce che compongono l'album sono un bignami del rock, dove soul, black music, funky incontrano blues e rock'n'roll a tratti suonato con l'urgenza del garage proto-punk di Detroit, di cui Black Joe Lewis si professa grande fan. Un bel calderone, fresco ed elettrizzante, dove il "nulla di nuovo" si veste a festa e calamita l'attenzione, come una vecchia signora che detta ancora le regole. Una super band quella messa insieme dal coloured texano Black Joe Lewis. Due sax e una tromba che sul classico impianto rock, fanno la differenza, ascoltare la già citata Livin' in the jungle, dove la sagoma di James Brown sembra materializzarsi imponente e jammare con Sly & The Family Stone. Un disco dall'impronta live, chitarristico, bello da vivere sopra ad un palco, costruito per essere portato in giro e dato in pasto insieme al sudore. America, corse in autostrada, strade, vicoli malfamati e insegne al neon che indicano il nuovo locale dove esibirsi, evadere e divertirsi.
Corpi sciolti e trascinati dal suono mai domo e vivo, nei pezzi più veloci che si tratti di soul come in Booty City, funk come in Black Snake o il talkin' blues/rock di Mustang Ranch sia quando il ritmo cala come nella più oscura I'm gonna leave you, nella sensuale e ritmata perversione di She's so scandalous come insegnava papà Otis Redding.
Con Messin' , un canonico blues acustico, si gioca a fare i pionieri del blues nero, i fantasmi di Robert Johnson e Howlin Wolf sorridono compiaciuti.
You been Lyin' è cattiva, chitarre rock, stop and go R'n'B e vena funky in stile Funkadelic con i cori degli ospiti The Relatives a stemperare o elevare il tutto.
Nulla si inventa, ma tutto si trasforma e delle trasformazioni di Black Joe Lewis sentiremo ancora parlare.
Garage rock meets soul e il party abbia inizio.
Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso. L'istinto è alzare, alzare e muoversi. Le undici tracce che compongono l'album sono un bignami del rock, dove soul, black music, funky incontrano blues e rock'n'roll a tratti suonato con l'urgenza del garage proto-punk di Detroit, di cui Black Joe Lewis si professa grande fan. Un bel calderone, fresco ed elettrizzante, dove il "nulla di nuovo" si veste a festa e calamita l'attenzione, come una vecchia signora che detta ancora le regole. Una super band quella messa insieme dal coloured texano Black Joe Lewis. Due sax e una tromba che sul classico impianto rock, fanno la differenza, ascoltare la già citata Livin' in the jungle, dove la sagoma di James Brown sembra materializzarsi imponente e jammare con Sly & The Family Stone. Un disco dall'impronta live, chitarristico, bello da vivere sopra ad un palco, costruito per essere portato in giro e dato in pasto insieme al sudore. America, corse in autostrada, strade, vicoli malfamati e insegne al neon che indicano il nuovo locale dove esibirsi, evadere e divertirsi.
Corpi sciolti e trascinati dal suono mai domo e vivo, nei pezzi più veloci che si tratti di soul come in Booty City, funk come in Black Snake o il talkin' blues/rock di Mustang Ranch sia quando il ritmo cala come nella più oscura I'm gonna leave you, nella sensuale e ritmata perversione di She's so scandalous come insegnava papà Otis Redding.
Con Messin' , un canonico blues acustico, si gioca a fare i pionieri del blues nero, i fantasmi di Robert Johnson e Howlin Wolf sorridono compiaciuti.
You been Lyin' è cattiva, chitarre rock, stop and go R'n'B e vena funky in stile Funkadelic con i cori degli ospiti The Relatives a stemperare o elevare il tutto.
Nulla si inventa, ma tutto si trasforma e delle trasformazioni di Black Joe Lewis sentiremo ancora parlare.
Garage rock meets soul e il party abbia inizio.
giovedì 17 marzo 2011
RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS (Yanez)
DAVIDE VAN DE FROOS Yanez ( Universal,2011)
Davide Van De Sfroos ne ha fatta di strada, giù dalla stradine del suo paese di Mezzegra che lambisce il lago di Como per arrivare al punto che ha toccato con la sua partecipazione all'ultima edizione del festival di San Remo. Tra le montagne e il lago per arrivare al mare. Chi gli dava del matto, chi del venduto e chi, invece, la maggior parte dei suoi fans (i cauboi), bisogna riconoscerlo, era convinto che questa sua esposizione non avrebbe intaccato le genuina vena poetica dei suoi testi in lagheè. La conferma arriva proprio dal nuovo album, Yanez.
Un album "del coraggio" come lo stesso Davide Bernasconi ha voluto sottolineare, consapevolezza di uomo di 46 anni che ha deciso, dopo anni, dischi e libri con protagonisti gli altri, di mettersi a nudo e di raccontare un pò di sè. Sì, perchè in mezzo alla storie raccontate in Yanez, c'è modo di trovare qualcosa di autobiografico. Il viaggio di Semm Partii(2001), il mistero dei luoghi del suo capolavoro Akuaduulza (2005) e i personaggi tra mito e realtà che animavano Pica!(2008), per rimanere agli ultimi anni, lasciano spazio, per una volta anche a delle confessioni, dediche e ritratti più personali. Un disco intimo e raccolto, forse il meno giocoso e gioioso della sua carriera, tanto per ribadire e sottolineare che non basta una settimana in Riviera ligure per distruggere una carriera. Anzì dirò di più, Yanez contiene alcuni dei testi più belli mai composti da Van De Sfroos.
Chi ha conosciuto Van De Sfroos grazie al brano Yanez, un mariachi allegro e spensierato costruito sul parallelismo tra i personaggi di Salgari (a cent'anni dalla sua morte e quasi 150 dalla nascita, tanto per rimanere in linea con gli anniversari di quest'anno) e quei vitelloni da riviera romagnola sospesi tra gli anni sessanta e il moderno , deve mettere in conto di trovarsi di fronte a uno dei dischi più profondamente cantautorali del musicista lombardo. La stessa Yanez in realtà, dietro all'allegria musicale, nasconde dediche al padre e a certi miti romantici con cui Van De Sfroos è cresciuto.
La capacità di musicare e dare parola a dei piccoli film, quasi dei cortometraggi, completi di tutti i particolari, rimane il grande pregio della scrittura di Van De Sfroos. Canzoni in grado di far vivere all'ascoltatore i sapori, gli odori, saper coinvolgere fino all' immedesimazione, usando la poesia di frasi che solo il dialetto riesce a far risaltare.
L'infanzia del cantautore con la sua passione musicale, allora nascente, esce da La macchina del ziu Toni, un blues evocativo ( con la chitarra di Francesco Piu) dove la memoria torna alla campagna e a quella macchina in disuso parcheggiata nel fienile dove l'adolescenza cavalcava a suon di ribellione fatta in musica ( citati Black Sabbath, Ramones, Rolling Stones, Bob Marley) e i sogni che presto hanno dovuto fare i conti con la dura realtà. I miti musicali di una volta ritornano e si fanno maturi nel folk sospeso tra Dylan e Guthrie di Il camionista Ghost Rider, geniale viaggio tra la via Emilia e il west dove Johnny Cash, Guthrie stesso, Robert Johnson e Jimi Hendrix diventano protagonisti di un fantomatico viaggio nella pianura padana, che sembra quasi di esserci sopra a quel tir insieme al camionista.
Tra le pieghe della ballata Dona Luseerta si nasconde la dedica al padre e la frase finale è sintomatica (E sarà menga questa polaroid cun soe una facia s'è sculurida a scancelà la mann che m'ha tegnuu in brasc) come non è difficile leggere un fiero bilancio di vita fatto in Long John Xanax (E vò innanz a ruzza la mia biglia perchè fin che gh'è tèra la voe rutulà).
Anche quando vuole raccontare spaccati di vita contadina, che sembrano arrivare da lontano, ma che nei paesi di tutta Italia continuano a vivere e sopravvivere come tradizioni da tramandare di generazione in generazione. E' il caso di Setembra , canzone dall'andatura sbilenca ed avvinazzata che rende perfettamente l'atmosfera da festa di paese, tra gioia e triste malinconia o El carnevaal de Schignan, che apre il disco e musicalmente fa il paio con la sanremese Yanez.
Il dialetto riesce a rendere meno scontata ed elevare Maria, canzone dal tema un pò abusato, sulla prostituzione imposta ad una extracomunitaria e riesce ad unire idealmente l'Italia in Dove non basta il mare. Ospiti Luigi Maieron, Patrizia Laquidara, Peppe Voltarelli e Roberta Carrieri intenti a cantare ,ognuno nel suo dialetto, una strofa della canzone.
Piedi ben piantati in terra e poca concessione a idee di successo, questo è quello che i suoi fans continuano ad aspettarsi e lui li ripaga con canzoni come El Pass del Gatt, alta vena poetica su tappeto di steel guitar e fisarmonica ( Davide Brambilla), (E ho fa'l bagn insema ai aspis, ho majà sceres o ho majà caden, gh'è anca una foto induè paar che ridi ma l'è una smorfia per la tropa luus) o la triste storia de Il Reduce, viola, violini (Angapiemage G. Persico) e tromba e la memoria torna alla guerra , ai racconti di chi porta i segni indelebili nella memoria e nel corpo (Eri mai cupaa gnaa un fasàn e ho trataa sempru bee anca i furmiigh serum in tanti cargà in sole quel trenu, cume foej destacàa e imraum la geografia...).
Un disco che nel finale nasconde le gemme più poetiche di Van De Sfroos, la pianistica e orchestrale tragedia di un amore impossibile, vissuto desfroos contro ogni maldicenza, La figlia del tenente, le chitarre di Maurizio "Gnola" Glielmo guidano il Blues di Santa Rosa, il mississippi si materializza a Como.
L'evocativa melanconia di Ciamel Amuur e Rosa del vento, chiudono un disco di conferme di un cantautore in grado di ingrandire anche le cose più piccole e semplici, grazie all'uso delle parole musicate come un folk singer americano con la fantasia tutta italiana. Un cantastorie , quasi d'altri tempi, che dopo il sold out al Forum di Assago e l'esposizione di Sanremo è tornato a guidare verso le sue due modeste strade: una porta verso il suo lago, l'altra è quella del suo percorso artistico e tutte e due sono chiare e definite con un'unica destinazione che lo porteranno in cerca di nuove storie da musicare.
Van De Sfroos, vedi anche :
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
Davide Van De Sfroos ne ha fatta di strada, giù dalla stradine del suo paese di Mezzegra che lambisce il lago di Como per arrivare al punto che ha toccato con la sua partecipazione all'ultima edizione del festival di San Remo. Tra le montagne e il lago per arrivare al mare. Chi gli dava del matto, chi del venduto e chi, invece, la maggior parte dei suoi fans (i cauboi), bisogna riconoscerlo, era convinto che questa sua esposizione non avrebbe intaccato le genuina vena poetica dei suoi testi in lagheè. La conferma arriva proprio dal nuovo album, Yanez.
Un album "del coraggio" come lo stesso Davide Bernasconi ha voluto sottolineare, consapevolezza di uomo di 46 anni che ha deciso, dopo anni, dischi e libri con protagonisti gli altri, di mettersi a nudo e di raccontare un pò di sè. Sì, perchè in mezzo alla storie raccontate in Yanez, c'è modo di trovare qualcosa di autobiografico. Il viaggio di Semm Partii(2001), il mistero dei luoghi del suo capolavoro Akuaduulza (2005) e i personaggi tra mito e realtà che animavano Pica!(2008), per rimanere agli ultimi anni, lasciano spazio, per una volta anche a delle confessioni, dediche e ritratti più personali. Un disco intimo e raccolto, forse il meno giocoso e gioioso della sua carriera, tanto per ribadire e sottolineare che non basta una settimana in Riviera ligure per distruggere una carriera. Anzì dirò di più, Yanez contiene alcuni dei testi più belli mai composti da Van De Sfroos.
Chi ha conosciuto Van De Sfroos grazie al brano Yanez, un mariachi allegro e spensierato costruito sul parallelismo tra i personaggi di Salgari (a cent'anni dalla sua morte e quasi 150 dalla nascita, tanto per rimanere in linea con gli anniversari di quest'anno) e quei vitelloni da riviera romagnola sospesi tra gli anni sessanta e il moderno , deve mettere in conto di trovarsi di fronte a uno dei dischi più profondamente cantautorali del musicista lombardo. La stessa Yanez in realtà, dietro all'allegria musicale, nasconde dediche al padre e a certi miti romantici con cui Van De Sfroos è cresciuto.
La capacità di musicare e dare parola a dei piccoli film, quasi dei cortometraggi, completi di tutti i particolari, rimane il grande pregio della scrittura di Van De Sfroos. Canzoni in grado di far vivere all'ascoltatore i sapori, gli odori, saper coinvolgere fino all' immedesimazione, usando la poesia di frasi che solo il dialetto riesce a far risaltare.
L'infanzia del cantautore con la sua passione musicale, allora nascente, esce da La macchina del ziu Toni, un blues evocativo ( con la chitarra di Francesco Piu) dove la memoria torna alla campagna e a quella macchina in disuso parcheggiata nel fienile dove l'adolescenza cavalcava a suon di ribellione fatta in musica ( citati Black Sabbath, Ramones, Rolling Stones, Bob Marley) e i sogni che presto hanno dovuto fare i conti con la dura realtà. I miti musicali di una volta ritornano e si fanno maturi nel folk sospeso tra Dylan e Guthrie di Il camionista Ghost Rider, geniale viaggio tra la via Emilia e il west dove Johnny Cash, Guthrie stesso, Robert Johnson e Jimi Hendrix diventano protagonisti di un fantomatico viaggio nella pianura padana, che sembra quasi di esserci sopra a quel tir insieme al camionista.
Tra le pieghe della ballata Dona Luseerta si nasconde la dedica al padre e la frase finale è sintomatica (E sarà menga questa polaroid cun soe una facia s'è sculurida a scancelà la mann che m'ha tegnuu in brasc) come non è difficile leggere un fiero bilancio di vita fatto in Long John Xanax (E vò innanz a ruzza la mia biglia perchè fin che gh'è tèra la voe rutulà).
Anche quando vuole raccontare spaccati di vita contadina, che sembrano arrivare da lontano, ma che nei paesi di tutta Italia continuano a vivere e sopravvivere come tradizioni da tramandare di generazione in generazione. E' il caso di Setembra , canzone dall'andatura sbilenca ed avvinazzata che rende perfettamente l'atmosfera da festa di paese, tra gioia e triste malinconia o El carnevaal de Schignan, che apre il disco e musicalmente fa il paio con la sanremese Yanez.
Il dialetto riesce a rendere meno scontata ed elevare Maria, canzone dal tema un pò abusato, sulla prostituzione imposta ad una extracomunitaria e riesce ad unire idealmente l'Italia in Dove non basta il mare. Ospiti Luigi Maieron, Patrizia Laquidara, Peppe Voltarelli e Roberta Carrieri intenti a cantare ,ognuno nel suo dialetto, una strofa della canzone.
Piedi ben piantati in terra e poca concessione a idee di successo, questo è quello che i suoi fans continuano ad aspettarsi e lui li ripaga con canzoni come El Pass del Gatt, alta vena poetica su tappeto di steel guitar e fisarmonica ( Davide Brambilla), (E ho fa'l bagn insema ai aspis, ho majà sceres o ho majà caden, gh'è anca una foto induè paar che ridi ma l'è una smorfia per la tropa luus) o la triste storia de Il Reduce, viola, violini (Angapiemage G. Persico) e tromba e la memoria torna alla guerra , ai racconti di chi porta i segni indelebili nella memoria e nel corpo (Eri mai cupaa gnaa un fasàn e ho trataa sempru bee anca i furmiigh serum in tanti cargà in sole quel trenu, cume foej destacàa e imraum la geografia...).
Un disco che nel finale nasconde le gemme più poetiche di Van De Sfroos, la pianistica e orchestrale tragedia di un amore impossibile, vissuto desfroos contro ogni maldicenza, La figlia del tenente, le chitarre di Maurizio "Gnola" Glielmo guidano il Blues di Santa Rosa, il mississippi si materializza a Como.
L'evocativa melanconia di Ciamel Amuur e Rosa del vento, chiudono un disco di conferme di un cantautore in grado di ingrandire anche le cose più piccole e semplici, grazie all'uso delle parole musicate come un folk singer americano con la fantasia tutta italiana. Un cantastorie , quasi d'altri tempi, che dopo il sold out al Forum di Assago e l'esposizione di Sanremo è tornato a guidare verso le sue due modeste strade: una porta verso il suo lago, l'altra è quella del suo percorso artistico e tutte e due sono chiare e definite con un'unica destinazione che lo porteranno in cerca di nuove storie da musicare.
Van De Sfroos, vedi anche :
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
mercoledì 16 marzo 2011
RECENSIONE : PAOLO BENVEGNU'( Hermann)
PAOLO BENVEGNU' Hermann ( La Pioggia Dischi, 2011)
Ci vuole del tempo, quello che si trova dopo una giornata di lavoro, la sera quando tutti i pensieri e le domande del giorno vengono accantonate. Quel tempo spesso prezioso da dedicare a se stessi, ad un libro o al disco di Paolo Benvegnù. Liberate la mente perchè il terzo disco dell'ex cantante dei Scisma ha tanto da offrire per riempirvela nuovamente. Un disco che conferma Benvegnù come uno dei migliori cantautori attualmente in Italia e uno dei pochi a poter ereditare la forma e la sostanza della cara categoria italica.
Ambizioso è l'aggettivo che forse più si addice a raccontare le tredici canzoni che compongono una sorta di concept basato sull'umanità e la sua evoluzione che come un boomerang sta trasformandosi in involuzione, tratto liberamente da un racconto di un certo Fulgenzio Innocenzi, di cui nessuno ha mai sentito parlare, esisterà veramente?
Gli spunti, gli agganci e i riferimenti storici e letterari a cui Benvegnù si affida sono molteplici e ad un primo ascolto anche intricati da cogliere. Si parte da molto lontano per arrivare al quotidiano con tutto tutto quello che vi è in mezzo. Dalla mitologia, passando per Sartre, arrivando alla frenesia del lavoro di oggi.
Uomo fatto di carne, sentimenti, ambizione,coraggio e valore,valoroso e traditore, capace di pugnalare alle spalle per l'innalzamento del proprio ego per poi affidarsi alla fede arrivando infine a negarla. Nessuno esce da questa categoria. Chi più, chi meno ci portiamo addosso la reputazione e il Dna che ci siamo costruiti nei secoli. Ecco che il tempo diventa prezioso alleato per cercare sosta ed un riparo dalla marcia di progresso , cui siamo costretti a partecipare quasi come automi senza controllo e a domandarci in quanto uomini, cosa vogliamo?
Il tempo come alleato e nemico per capire la nostra collocazione sulla terra(Non sai distinguere il tempo perso da quello vissuto) nell'iniziale Il Pianeta perfetto o come pretesto per tornare all'inizio dei secoli per raccontare l'origine dell'uomo (Ma poi finirono le terre ed inventammo Dio , lo trafiggemmo all'alba, l'ultima volta che provò a sorridere, così inventammo la notte...) in Love is talking. I secoli che passano, i posti e la gente pure ma i problemi sempre presenti e l'uomo, al centro di tutto, come sempre si accorge che le distrazioni lo hanno allontanato dal proprio essere interiore.
Se la speranza era quella che il trascorrere dell'età riuscisse a trascinare con sè il benessere, bisogna invece fare i conti con l'esatto contrario. Il dito indice accusatorio sempre pronto ad inquadrare qualcuno da sacrificare e punire in Date fuoco (Il primo dice che è stato lui a ricoprire il mondo di automobili e il terzo dice che non si vedeva niente), prendendo spunto dall'"eretico" Giordano Bruno e trasportando il tutto al presente.
La bramosia di conquista ed invicibilità di Moses (...Infliggi le tue regole, distruggere per conquistare...), l'amore , anche non a lieto fine, come evasione e rifugio da tutti i mali , Johnnie and Jane, così come il viaggio, per approdare ed affrontare qualcosa di nuovo in Il Mare è bellissimo(...e un viaggio senza destinazione significa destinazione...) ed il tempo che torna inesorabile a scandire la vita (...e intanto si è fatto tardi e tardi è legge e attendere un'attesa sempre attesa...).
L'uomo inerme davanti alla sua vita, al trascorrere degli eventi che ha visto e vissuto, la consapevolezza che poi,alla fine, l'eguaglianza tra di noi non è così lontana dall'essere trovata in Io ho visto , uno dei punti più alti del disco ( ...Ho visto il sole restare al buio e gli animali rimanere in branco fiutando il cielo più sicuro...ho visto inverni piegare gli alberi e setacciare al grembo con le mani cercando polvere e ho bestemmiato iddio perchè non si fa mai vedere e ho perso falangi nei combattimenti e nelle fabbriche...)
Un disco dall'anima rock, che si concede fughe orchestrali, suonato da una band, "i Paolo Benvegnù", appunto, alcuni tratti pop presenti nei ritornelli in inglese di Love is talking e Good Morning, Mr.Monroe, piccola messa in musica dei tempi moderni(con l'inizio che tanto mi ricorda Milano circonvallazione esterna degli Afterhours) che cercano la continuità con il suo passato in un disco impervio che vuole essere diretto nella sua complicata complessità e spronante nel metterci di fronte al punto in cui l'essere umano, perso, è arrivato a piantare la sua bandierina di evoluzione, così poco colorata da esserne poco fieri.
Ci vuole del tempo, quello che si trova dopo una giornata di lavoro, la sera quando tutti i pensieri e le domande del giorno vengono accantonate. Quel tempo spesso prezioso da dedicare a se stessi, ad un libro o al disco di Paolo Benvegnù. Liberate la mente perchè il terzo disco dell'ex cantante dei Scisma ha tanto da offrire per riempirvela nuovamente. Un disco che conferma Benvegnù come uno dei migliori cantautori attualmente in Italia e uno dei pochi a poter ereditare la forma e la sostanza della cara categoria italica.
Ambizioso è l'aggettivo che forse più si addice a raccontare le tredici canzoni che compongono una sorta di concept basato sull'umanità e la sua evoluzione che come un boomerang sta trasformandosi in involuzione, tratto liberamente da un racconto di un certo Fulgenzio Innocenzi, di cui nessuno ha mai sentito parlare, esisterà veramente?
Gli spunti, gli agganci e i riferimenti storici e letterari a cui Benvegnù si affida sono molteplici e ad un primo ascolto anche intricati da cogliere. Si parte da molto lontano per arrivare al quotidiano con tutto tutto quello che vi è in mezzo. Dalla mitologia, passando per Sartre, arrivando alla frenesia del lavoro di oggi.
Uomo fatto di carne, sentimenti, ambizione,coraggio e valore,valoroso e traditore, capace di pugnalare alle spalle per l'innalzamento del proprio ego per poi affidarsi alla fede arrivando infine a negarla. Nessuno esce da questa categoria. Chi più, chi meno ci portiamo addosso la reputazione e il Dna che ci siamo costruiti nei secoli. Ecco che il tempo diventa prezioso alleato per cercare sosta ed un riparo dalla marcia di progresso , cui siamo costretti a partecipare quasi come automi senza controllo e a domandarci in quanto uomini, cosa vogliamo?
Il tempo come alleato e nemico per capire la nostra collocazione sulla terra(Non sai distinguere il tempo perso da quello vissuto) nell'iniziale Il Pianeta perfetto o come pretesto per tornare all'inizio dei secoli per raccontare l'origine dell'uomo (Ma poi finirono le terre ed inventammo Dio , lo trafiggemmo all'alba, l'ultima volta che provò a sorridere, così inventammo la notte...) in Love is talking. I secoli che passano, i posti e la gente pure ma i problemi sempre presenti e l'uomo, al centro di tutto, come sempre si accorge che le distrazioni lo hanno allontanato dal proprio essere interiore.
Se la speranza era quella che il trascorrere dell'età riuscisse a trascinare con sè il benessere, bisogna invece fare i conti con l'esatto contrario. Il dito indice accusatorio sempre pronto ad inquadrare qualcuno da sacrificare e punire in Date fuoco (Il primo dice che è stato lui a ricoprire il mondo di automobili e il terzo dice che non si vedeva niente), prendendo spunto dall'"eretico" Giordano Bruno e trasportando il tutto al presente.
La bramosia di conquista ed invicibilità di Moses (...Infliggi le tue regole, distruggere per conquistare...), l'amore , anche non a lieto fine, come evasione e rifugio da tutti i mali , Johnnie and Jane, così come il viaggio, per approdare ed affrontare qualcosa di nuovo in Il Mare è bellissimo(...e un viaggio senza destinazione significa destinazione...) ed il tempo che torna inesorabile a scandire la vita (...e intanto si è fatto tardi e tardi è legge e attendere un'attesa sempre attesa...).
L'uomo inerme davanti alla sua vita, al trascorrere degli eventi che ha visto e vissuto, la consapevolezza che poi,alla fine, l'eguaglianza tra di noi non è così lontana dall'essere trovata in Io ho visto , uno dei punti più alti del disco ( ...Ho visto il sole restare al buio e gli animali rimanere in branco fiutando il cielo più sicuro...ho visto inverni piegare gli alberi e setacciare al grembo con le mani cercando polvere e ho bestemmiato iddio perchè non si fa mai vedere e ho perso falangi nei combattimenti e nelle fabbriche...)
Un disco dall'anima rock, che si concede fughe orchestrali, suonato da una band, "i Paolo Benvegnù", appunto, alcuni tratti pop presenti nei ritornelli in inglese di Love is talking e Good Morning, Mr.Monroe, piccola messa in musica dei tempi moderni(con l'inizio che tanto mi ricorda Milano circonvallazione esterna degli Afterhours) che cercano la continuità con il suo passato in un disco impervio che vuole essere diretto nella sua complicata complessità e spronante nel metterci di fronte al punto in cui l'essere umano, perso, è arrivato a piantare la sua bandierina di evoluzione, così poco colorata da esserne poco fieri.
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