sabato 12 novembre 2011

RECENSIONE: DAVID LYNCH ( Crazy Clown Time)

DAVID LYNCH Crazy Clown Time ( Sunday Best, 2011)

Fuga dal cinema. Dice lui. Poche idee da proiettare sul grande schermo si tramutano in suono. David Lynch ha sempre condiviso la sua arte cinematografica con le note, a volte rendendole inseparabili come un lento monolite che catturava anima e pensiero. Le sue collaborazioni con Badalamenti per Twin Peaks e altre mille collaborazioni teatrali (Industrial Synphony N.1) e musicali (soundtracks e produzioni) hanno fatto solo da apripista a un qualcosa che prima o poi doveva accadere. La sua arte ha sempre dovuto liberarsi in qualche altra forma concreta. Se il cinema non accende più in lui la scintilla , sotto con la scrittura, i video musicali, la scultura, la pittura e poi ancora con le chitarre.
Crazy Clown Time, nasconde già nel titolo quello che Lynch vuole far uscire. Il pagliaccio non ha mai fatto ridere nessuno. La solitaria inquietudine di un sorriso sbavato, rosso che cola sul cerone bianco; riccioli biondi ai lati di una stempiatura nascosta da un cappello, specchio di un animo tormentato, nascosto da una risata forzata. Riso forzato per compiacere se stessi e il tempo che inesorabile avanza. Mano che sfida la sorte con un dado truccato.
Crazy Clown Time è ingenua mietitura di idee. Un blues che libera l'anima e i pensieri di Lynch. Oppressione davanti ad un mondo che ha voglia di ribellione. Ribellione davanti ad un mondo oppresso.
Non tutto funziona a meraviglia è bene dirlo. Il vocoder usato su Good Day Today, Strange and unproductive Thinking e Shine Rise Up andava bene per Kraftwerk e Rockets negli anni settanta, iniziava a dare già fastidio e irritava nel 1983 quando Neil Young lo usò su Trans (e lì aveva un almeno un senso molto profondo, si scoprì in seguito) se poi lo si incolla su ripetitivi samples elettronici, il risultato non cambia ma tende a peggiorare.
Cambia tutto quando ci si sposta sulla titletrack Crazy Clown Time. Sette minuti di voci agghiaccianti su un freddo blues dall'incedere marziale. Macchina da presa liberata nel deserto dell'anima alla ricerca di una luce. Buio, tanto buio in questo disco.
Lo spoken word di Speed Roaster ti catapulta dentro un quadro serale di Edward Hopper, illuminato da neon stanchi. Tutto è immobile tranne le ombre, nessuno fiata e il barista continua a tenere la bottiglia in mano, obliqua, ma di versare quel goccio di Whisky che potrebbe riscaldare la scena, non ne vuole sapere.
Football Game è un altro scheletrico blues che piacerebbe a Lanois ma che il collaboratore di Lynch, Dean Hurley riproduce in modo perfetto. Voce impastata e inquietante che narra instancabile così come in I know, lentissima discesa negli inferi scanditi da batteria, hammond e chitarre. Ossessiva ripetizione che ipnotizza come il ticchettio trip hop della liquida e fumosa Noah's Ark.
Tutto sembra comparire e scomparire: come le chitarre nel glaciale incedere di So Glad e Movin On; come la luce nella twinpeaksiana Stone's gone Up, dove sembra intravedersi uno spiraglio di raggio solare che illumina la scena, ma era solamente un raggio vero e proprio. Troppo poco, veramente.
Poi c'è Pinky's dream, piazzata in apertura, chitarre che portano a Twin Peaks e andatura quasi da psychobilly disossato con la voce di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs a elevarsi.
Non tutto è perfetto ma la curiosità riesce a tenerti incollato fino alla fine per chiederti : cosa succederà adesso e come andrà a finire? Se non è un film questo...

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