venerdì 10 agosto 2018

RECENSIONE: THE MAGPIE SALUTE (High Water I)

THE MAGPIE SALUTE    High Water I (Mascot/Eagle Records, 2018)
 
 
 
 
 
 
 
un saluto alla gazza
 
High Water I è la prima parte del ricco disco registrato ai Dark Horse Studios di Nashville che fa seguito al debutto dello scorso anno. Fu un debutto anomalo ma degno del passato dei tre ex corvi Rich Robinson, Marc Ford, Sven Pipen con la nuova voce di John Hogg che vince bene la scommessa, con Matt Slocum alle tastiere e Joe Magistro alla batteria. Se allora scaldarono i motori con una scaletta di canzoni già conosciute e registrate live in studio con una formazione allargata a dieci elementi che loro stessi accomunarono alle carovane variopinte e numerose di Joe Cocker con i suoi Mad Dogs e Delaney And Bonnie, tanto per ribadire quali siano le radici del progetto, questa volta compongono così tante canzoni che si è reso necessario dividere il tutto in due uscite. La prima parte fuori oggi, 10 Agosto, la seconda nel 2019. “Il disco dell’anno scorso era più una celebrazione della musica che avevamo fatto insieme. Era quasi una rivisitazione, quasi come una cosa dei Mad Dogs and the Englishmen. Ci siamo divertiti ed è stato davvero bello. Mentre eravamo in tour l'anno scorso e abbiamo iniziato a concentrarci su ciò che avremmo fatto dopo, ci siamo resi conto di voler essere una band: vogliamo andare in studio, fare un disco e diventare una vera band.” Ascoltando il disco e prestando attenzione alla durata delle canzoni si può notare come questa volta abbiano badato alla forma canzone con più accuratezza e rigore compositivo con una grande attenzione ai dettagli, senza eccedere in lunghezza, non andando mai oltre i sei minuti: la più lunga è la seconda traccia ‘High Water’ con i suoi 5 minuti e 45, canzone che intreccia la West Coast con impasti di chitarre acustiche e voci che riportano ai tempi dei primi CSN così come ‘Walk On Water’ fa salire i Byrds a bordo dei Led Zeppelin in volo radente sopra le campagne del Galles e in cabina comando pare sia seduto Dylan. L’album si apre con il botto, ‘Mary The Gypsy’ è un rock vizioso con le chitarre di Robinson e Ford che grattano furiose ma è veramente difficile inquadrare un album che fa della varietà il suo punto forte. Se ‘Send Me An Omen’ batte le strade hard dell’apripista, nel resto del disco si passa dal soul con forti melodie beatlesiane di ‘Sister Moon’ al crescendo gospel di ‘Color Blind’ che non nasconde il suo importante messaggio antirazzista scritto e cantato con trasporto da Hogg, dal southern rock di ‘Take It All’ che riallaccia i ponti con i padri degli anni settanta, al quieto e carezzevole country condito da pianoforte e lap steel di ‘You Found Me’ che sa infondere libertà, dal blues di ‘Can You See’ che ricorda il migliore Stephen Stills, al divertente honk tonk di ‘Hand In Hand’ fino al finale ipnotico e tetro di ‘Open Up’ che conclude il disco con un volo leggero dentro a una foresta nera e impenetrabile.
L’ombra generata dalle ali aperte dei Black Crowes (si ascolti ‘For The Wind’) è sempre in agguato anche se loro sono abbastanza scaltri per volare liberi verso la luce del sole. A riguardo sono abbastanza chiari: “il confronto con i Black Crowes non ha alcun senso. Naturalmente guardiamo indietro nei set live. Siamo ancora molto orgogliosi del lavoro dei Crowes e fintanto che la gente continua a chiederlo, ci sarà una particolare attenzione verso loro durante le serate. I Magpie Salute, tuttavia, sono una nuova band con musicisti che hanno un legame speciale che stanno vivendo cose molto belle insieme.”
E questa prima parte di High Water è qualcosa di molto bello, dai toni molto più leggeri e freschi rispetto a quello che ci saremmo aspettati dopo il debutto ma mantenendo inalterati i legami verso la musica degli anni 60/70, sia essa figlia del soul, del southern rock, del country o della psichedelia. La confraternita di Chris Robinson da oggi sentirà il fiato sul collo. Salutiamo la nuova gazza, non farlo sembra porti sfortuna.
 


 
 

lunedì 6 agosto 2018

BRUCE SPRINGSTEEN and the E STREET BAND Wembley Arena June 5, 1981

BRUCE SPRINGSTEEN and the E STREET BAND    Wembley Arena June 5, 1981





Il 7 Aprile del 1981 da Amburgo prende il via il primo vero tour europeo di Bruce Springsteen, dopo aver riprogrammato le date che inizialmente prevedevano i concerti inglesi in cima a tutti gli altri. Springsteen era spossato e reduce da 150 date americane e visto che davanti al pubblico anglosassone, l’unico che lo aveva già incontrato dal vivo nel 75, intendeva fare una buona impressione, spostò tutte le date in coda al tour, venendo forse a meno a una regola che si è sempre autoimposto: tutti gli spettacoli hanno la stessa importanza. Forse non sempre è così. Vengono toccate tante nazioni e tante città in quel tour (21 città e 33 concerti) ma manca l’Italia e per vederlo gli italiani si devono traferire in massa nella vicina Zurigo. Uno dei culmini del tour viene quindi toccato quasi alla fine con le sei date sold out alla Wembley Arena di Londra (il tutto si concluderà con la due giorni di Birmingham), concerti che molti grandi nomi del rock non si lasciarono sfuggire. In quei giorni furono avvistati: Mick Jagger e Keith Richards, Joe Jackson, Paul Cook, Pete Townshend, Elvis Costello e un giovanissimo Bono “Qualche sera dopo il concerto di Brighton andai con Pete Townshend in un club londinese a vedere un giovane gruppo che aveva appena pubblicato il primo album. Erano forti e avevano un nome strano, U2…meglio non riposare sugli allori”. Bruce Springsteen

“L’Europa ci aveva trasformato in una band più determinata e sicura di sé. Persino dall’imperturbabile Gran Bretagna ci aspettavamo grandi cose. Calcare un palco inglese per la prima volta dopo la grande messa in scena del ’75 fu un’esperienza snervante ma gratificante. Forti di due album nuovi, cinque anni di battaglie personali e tour interminabili, non eravamo più gli ingenui fannulloni sbarcati dal 747 della British Airways cinque anni prima. Sapevo di avere una band pazzesca: chi poteva farcela se non noi?” racconta Bruce Springsteen nella sua autobiografia.

Esce ora a 37 anni di distanza la testimonianza ufficiale di uno di quei sei concerti londinesi: l’ultimo, quello del 5 giugno, con 31 canzoni in scaletta tra cui ‘Jolè Blon’ che fece il suo debutto, un vecchio brano con cui Springsteen e Gary U.S. Bond aprivano l'album Dedication (1981) di quest'ultimo, ‘I Wanna Marry You’ suonata per la prima volta in quel tour europeo, e con gli ultimi 95 secondi del ‘Detroit Medley’ che conclude il concerto che sono stati recuperati da una registrazione di un fan, visto che l’originale andò perso. Le tre bombe iniziali 'Born To Run', 'Prove It All Night', 'Out In The Street' hanno il compito di stendere in anticipo la platea che ritorna a respirare con 'Follow That Dream', poi è tutto un lungo viaggio sulle quattro corsie del rock: le scosse elettriche di 'Candy' s Room', le luci nella notte di 'Pont Blank', l'epicità nei quindici minuti di 'Rosalita', la consapevolezza folk di 'This Land Is Your Land' e 'The River'.
“Ci eravamo detti: andiamo in Europa a spaccare e ce l’avevamo fatta. Fu un trionfo che ci lasciò stupefatti. Ci erano voluti quindici anni, sapete” Steve Van Zandt.
"Ricordo che quando tornammo a casa, alla fine, tutti avevamo la sensazione di aver vissuto una delle più belle esperienze della nostra vita". Bruce Springsteen

TRACKLIST: Born To Run, Prove It All Night, Out In The Street, Follow That Dream, Darkness On The Edge Of Town, Independence Day, Johnny Bye-Bye, Two Hearts, Who’ll Stop The Rain?, The Promised Land, This Land Is Your Land, The River, I Fought The Law, Badlands, Thunder Road, Hungry Heart, You Can Look (But You Better Not Touch), Cadillac Ranch, Sherry Darling, Jole Blon, Fire, Because The Night, I Wanna Marry You, Point Blank, Candy’s Room, Ramrod, Rosalita (Come Out Tonight), I’m A Rocker, Jungleland, Can’t Help Falling In Love, Detroit Medley.


sabato 4 agosto 2018

RECENSIONE: LUCERO (Among The Ghosts)

LUCERO Among The Ghosts (Liberty & Lament, 2018)
 
 
 
 
 
 
 
“Sono più felice di quanto lo sia mai stato, ma ho scritto alcune delle canzoni più oscure di sempre. Ora la posta in gioco è più alta. Ho qualcosa da perdere. Ho qualcosa a cui tengo davvero. In passato, non importava in che direzione andava il mondo, ma ora ho una bambina. E le cose contano di più e sono più spaventose di quanto lo erano prima.” Ecco uno dei perni su cui ruota il nuovo album dei Lucero, la fresca paternità del cantante e principale autore Ben Nichols. “Everything Has Changed” canta nell’omonima canzone. Cambia la prospettiva della visuale sul mondo, i suoi testi non sono più autobiografici ma aperti su tutto quello che da ora in avanti potrà insinuarsi tra lui e la sua famiglia. Rimane una capacità di scrittura unica e alla vecchia maniera, in grado di tracciare tratti emozionali e paesaggi che spesso coincidono con la tetra foto di copertina scelta, scattata nella città fantasma di Rodney, opera di Michael N. Foster. Un paesaggio avvolto nelle nebbie che rimanda ai lati oscuri nel Sud degli States (anche se la band rifugge da certi stereotipi a buon mercato) dove quella chiesa che si specchia tra le acque del Mississippi da voce agli spiriti maligni che viaggiano sinuosi nelle canzoni: dall’apertura ‘Among The Ghosts’ che esplode in un crescendo rock liberando antichi fantasmi Southern Gothic, a ‘For My Dearest Wife’ che prendendo spunto dalle lettere che i soldati spedirono alle mogli durante la Guerra Civile americana si catapulta all'oggi e all’intimita familiare , alle atmosfere cupe, desertiche, malinconiche e western di ‘Long Way Back Home’ al cameo di Michael Shannon in ‘Back To The Night’, un recitato tenebroso che si incastra sulle chitarre lancinanti. A cambiare è anche la direzione musicale del gruppo, dopo tre album direzionati verso il Memphis sound, tra soul e R&B (ad eccezione della finale ‘For The Lonely Ones’ che batte quei territori, un honky tonk alcolico e scatenato con la presenza del sax di Jim Spake), si ritorna a un suono più grezzo e semplice, a mancare è ancora lo slancio giovanile dei bei tempi ma quello non tornerà più , registrato quasi in presa diretta al Sam Phillips Recording Studio di Memphis, fatto di rock songs tese e ballate (‘Loving’, ‘Always Been You’ è guidata dal pianoforte di Rick Steff) condotte dalla voce rude e sincera di Nichols, che per alcuni aspetti si ricollega ai primi dischi. La produzione è di Matt Ross Spang già al lavoro con Jason Isbell e Drive By Truckers. Aggiungete la maturità e la libertà compositiva raggiunta dopo vent'anni di onorata carriera come spiega il chitarrista Brian Venable: "siamo liberi di fare tutto ciò che vogliamo. Possiamo scrivere canzoni su Butch Cassidy come in ‘Cover Me’ possiamo suonare riff dei Cure (qualcosa di simile sembra uscire da ‘Bottom Of The Sea’) , possiamo fare qualsiasi cosa vogliamo, e questa è la sua bellezza.”. Album riuscitissimo che riporta i Lucero allo start di quel genere Americana o alt Country o chiamatelo come volete tra cui furono i principali sponsor a inizio carriera.
 
 
 

 

mercoledì 1 agosto 2018

RECENSIONE: WILLIE NILE (Children Of Paradise)

WILLIE NILE    Children Of Paradise (Riverhouse, 2018)





Willie Nile si è tolto alcune soddisfazioni personali in questi ultimi anni. Prima un disco di canzoni con il pianoforte al centro della scena, IF I WAS A RIVER (2014), disco sognato da una vita e venuto fuori particolarmente bene, poi un sentito omaggio al padre dei cantautori moderni: in POSITIVELY BOB (2017) ha riletto Bob Dylan con il consueto spirito rock’n’roll con il quale ha stipulato un patto fin dai quei lontani giorni dei settanta trascorsi dentro le mura del CBGB di New York a carpire i segreti dei grandi. ‘Children Of Paradise’, la canzone che dà il titolo al disco, ispirata dall'omonimo film, fu scritta anni fa con Martin Brimley e fece la sua prima apparizione nel vecchio album PLACE I HAVE NEVER BEEN (1991) ”è sempre stata una delle mie canzoni preferite, c’è un tema di redenzione e salvezza che mi ha sempre affascinato”, racconta Nile. Non ci sono rivoluzioni musicali in questo suo dodicesimo album ma solo inviti a farle le rivoluzioni, quelle vere, iniziando a gettare i semi come avviene nella canzone di apertura ‘Seeds Of A Revolution’, uno sguardo contemplativo sul mondo che lo circonda con l’antica epicità immersa tra gospel e rock’n’roll che ricorda tanto i giorni di gloria di Born To Run dell’amico Springsteen. “I semi della rivoluzione sono piantati nel mio cuore” attacca il piccolo grande uomo di Buffalo, seguito dalla sua rodata band: Johnny Pisano, Matt Hogan, Jon Weber, Stuart Smith, Andy Burton. Un disco che riprende i discorsi portati avanti con il precedente WORLD WAR WILLIE (2016): c’è lo sguardo penetrante e critico verso la mala politica (‘Don’t’ avanza come i migliori Who), verso il sociale e gli indifesi -e qui un plauso va anche al curato artwork con i ritratti fotografici in bianco e nero catturati da Cristina Arrigoni lungo le strade di New York al Greenwich Village. Ci sono l’amore per l’ambiente e la preoccupazione verso i pazzi cambiamenti climatici dei nostri tempi (il funk trascinante di ‘Earth Blues’), c’è tutta la devozione per il primo punk di Clash (‘All Dressed Up And Place To Go’) e Ramones (‘I Defy’), il garage rock nella evasiva ‘Rock’N’Roll Sister’, attestato d’amore verso le donne che amiamo e che amano la musica con tanto di Rolling Stones, Bruce, Kinks, Who, Clash e Pink Floyd citati nel testo . C’è l’antico folk impegnato di ‘Gettin’ Ugly Out There’, la ballata d’amore romantica (‘Have I Ever Told You’) e quella al pianoforte ‘All God’s Children’ che chiude il disco nel migliore dei modi, in modo sommesso ma che sa di grido, avvicinandosi ai migliori piano man della scena pop rock, creando un ponte verso i temi musicali del recente If I Was A River. C’è pure una dedica speciale a Andrew Dorff, coautore di ‘Lookin For Someone’, scomparso da poco. Il bello dei dischi di Willie Nile è che non ci si annoia mai, quello che troviamo lungo i solchi lo ritroveremo sopra un palco: un fedele concentrato di nervi tesi e romanticismo rock, un’attitudine urbana mai a riposo e mai doma, un cuore in salute che batte ancora forte dalla parte giusta della musica.

Ph.Cristina Arrigoni





 

lunedì 30 luglio 2018

RECENSIONE: PAUL RODGERS (Free Spirit)

PAUL RODGERS    Free Spirit (Quarto Valley Records, 2018)





free as a bird
In questi anni stiamo celebrando gli anniversari di moltissimi live album passati alla storia, dischi spesso immortali come non se ne fanno più da tempo. Anche se le migliori risposte le danno gli anni che passano, quindi se ne riparlerà in futuro. Ma proprio mentre pensavo a questo, ecco piombarmi addosso un documento recente, registrato nel Maggio del 2017 alla Royal Albert Hall di Londra, solo un anno fa, a sua volta una celebrazione per festeggiare i 50 anni di una delle più grandi rock band britanniche degli anni settanta, una delle più influenti certo (chiedere alle innumerevoli band, giovani e non più giovani, che li citano) ma spesso relegata dietro ad altri nomi da prima pagina. “Sapevamo di avere qualcosa di speciale quando eravamo insieme, la gente ci diceva che quando suonavamo il tempo rimaneva fermo". Racconta oggi Rodgers che quando formò la band era un fresco maggiorenne ma con le idee ben chiare e un background importante dietro. Anche se non ci sono più i compagni di un tempo (Paul Kossoff e Andy Fraser suonano in altre galassie da tempo) PAUL RODGERS continua ad essere uno dei più micidiali cantanti, non solo della sua generazione (gli anni sono quasi 69) ma con pochi eguali tra le nuove leve. Per quest'ultimo dettaglio, invece, chiedere a Robert Plant.
Una voce allenata a classici blues e dischi Stax che sembra non aver perso nulla di quegli anni gloriosi (comunque sempre pochi quelli di attività) , anche se chiusa la parentesi Free, allungata con i sempre buoni Bad Company, formati con il compagno Simon Kirke, la sua carriera solista non è mai stata da primissima pagina, escludendo le promesse non mantenute fino in fondo con i Firm insieme a Jimmy Page, con l’avventurosa parentesi Queen e con un paio di buoni dischi di cover. Anche il repertorio di canzoni dentro a questo disco è incredibile e ribadisce tutta la grandezza dei vecchi Free. Ecco arrivare ‘The Stealer’, ‘All Right Now’, ‘Wishing Well’, ‘Be My Friend’, ‘Mr. Big’ e ‘My Brother Jake’. Si pesca in tutti i dischi pubblicati tra il 1968 e il 1973, ci sono anche due canzoni che gli stessi Free, ai tempi, non suonarono mai dal vivo: ‘Love You So’ e ‘Catch A Train’ La band che gira intorno a Rodgers, i Free Spirit, è quella di Deborah Bonham (sorella d’arte che ha aperto il concerto insieme alla figlia di Rodgers, Jasmine-il tutto si può vedere nel Dvd incluso) sa il fatto suo e il chitarrista Pete Bullick sembra sempre a suo agio nella difficile parte che fu di Kossof. Rodgers è libero di battere con mestiere, accarezzando e graffiando con una voce che il tempo sembra non aver intaccato e ricercando quella spiritualità mai doma (“credo nello spirito, credo nel suo potere”). È talmente in forma che quest'anno sta girando con due tour insieme ai suoi vecchi Bad Company e con un supergruppo con la compagnia di Jeff Beck e Ann Wilson (Heart). Un disco dai sapori antichi.







martedì 24 luglio 2018

RECENSIONE: THE NATIONAL RESERVE (Motel La Grange)

THE NATIONAL RESERVE     Motel La Grange (Ramseur Records, 2018)





 mai fuori moda...

Non pretendono che la loro musica cambi il mondo, così come chi li ascolta non pretenda da loro rivoluzioni. La band di Brooklyn, guidata da Sean Walsh, arriva al traguardo del debutto (anche se in verità ci fu un EP nel 2015: Easy Does It) dopo quasi dieci anni di onorata carriera sopra i palchi. Non si può dire che non abbiano fatto la gavetta. "Suonare live ci ha dato la possibilità di capire come le canzoni dovrebbero essere, puoi farlo durante le prove ma è difficile dire se stai facendo un buon lavoro a meno che tu non stia di fronte alle persone".

Avete guardato bene la copertina? Letto il titolo del disco? Bene, i NATIONAL RESERVE vi daranno esattamente quello che state immaginando: un rock americano senza tempo e date di scadenza dove a soffiare in prevalenza è il vento del sud, perché proprio in quella direzione si avventurano con successo. Dove i colori musicali dei Little Feat amoreggiano con la west coast dei 70 (‘New Love’), dove il rock’n’roll lascia spazio al soul (‘Motel La Grange’) e viceversa, dove un organo, suonato da Steve Okonsky ( completano la formazione: il chitarrista Jon LaDeau, il bassista Matthew Stoulil e il batterista Brian Geltner) si insinua sempre senza chiedere permesso tra le chitarre slide sempre in prima linea (l’apertura ‘No More’ ha il passo dei Crazy Horse), dove folk (‘Roll On Babe’) e ballate ariose illuminate dal sole rosso e pigro al tramonto tra le strade di Laurel Canyon (‘Big Bright Light’ ricorda gli Eagles) si risveglia a suon di funk blues tra le vie di New Orleans (‘Found Me A Woman’). “Amiamo The Band, amiamo la vecchia musica rock 'n' roll, la vecchia musica soul, adoro un buon shuffle, ma adoro i bei cambiamenti…” , detto da uno, il cantante e chitarrista Sean Walsh, che ha pure dichiarato che Blonde On Blonde di Bob Dylan gli ha letteralmente cambiato la vita, indicandogli la strada giusta da seguire. Dopo questo si può andare sul sicuro. Se pensate che il rock non sia ancora morto del tutto e se vi sono piaciuti i più recenti Banditos e Record Company, qui dentro vi troverete a vostro agio: si respira la stessa aria sana e retrò.




RECENSIONE: HOWLIN RAIN-The Alligator Bride (2018)
RECENSIONE: THE JAYHAWKS-Back Roads And Abandoned Motels (2018)

mercoledì 18 luglio 2018

It's Just Another Town Along The Road, tappa 8: THE FIREPLACES (Soulfood)

 THE FIREPLACES   Soulfood (2018)



I veneti FIREPLACES hanno viaggiato in direzione del secondo disco con il vento in poppa e la fame di chi davanti a un piatto buono e prezioso come la musica  non sa dire di no. In qualunque circostanza, posto e situazione. Questo disco ha preso forma a tanti chilometri dall'Italia: è nato durante il loro ultimo viaggio negli States, quindi ha tutte le caratteristiche per rientrare dentro a questa mia piccola rubrica fatta di sole cinque domande secche, gravitanti intorno al tema viaggio. Il titolo dell'album, la copertina e la canzone 'Soulfood (Song To Joy)' in particolare rendono omaggio al locale dove i Fireplaces (Caterino Riccardi, Carlo Marchiori, Marco Quagliato e Oliviero Lucato) usavano nutrirsi (di pancia ma sicuramente anche di esperienze) durante la loro permanenza a Brooklyn. "Soulfood è un album dove il concetto di viaggio sia kilometrico che dentro di se è oltremodo presente" dice Caterino. Da qui si avanza e si arriva al disco finito e servito in tavola.
Un disco che conferma tutto l'amore per i suoni americani più tradizionali, legati al blues, al bluegrass, al gospel, al country, al rock'n'roll. Nove canzoni (tra cui la cover 'Way Back In The Way Back When' dell'amato Glen Hansard) che saltellano tra l'irrefrenabile voglia di divertirsi, l'ukulele suonato da Veronica Sbergia in 'Happy Song' fa il suo dovere fino in fondo e una certa dose di impegno come nella travolgente 'Wreckin' Ball Blues', con la chitarra ospite di Cristian Secco, che omaggia pure alcuni eroi musicali nel testo. Se l'unione fa la forza, i Fireplaces si confermano culturisti con gli attributi.


In viaggio con Caterino "Washboard" Riccardi (The Fireplaces)

1-I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?

KM: Tanti, considerando che sono io quello gira per date, suona con altri, crea e tiene contatti insomma tiene vivo il progetto. Il viaggio come concetto, si, influenza le mie canzoni, ma spesse volte esse nascono seduto in poltrona. (a volte mi son svegliato dalla pennica, col bisogno di registrare col cellulare, perchè un riff mi violenta il cervello) ho chitarre scrause sparse per tutta la casa.

2-Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?

Sento il costante e ardente desiderio di fare un bel periodo on the road, quello è il momento di vita vera per la band, dove idee incrociano altre idee, creando entità nuove. Dove stando spalla a spalla con i tuoi compagni pregi e difetti vengono fuori. Non c'è via d'uscita ne piano B. C'è una sola unica via quella di affrontarsi, conoscersi e accettarsi. Soulfood è un album dove il concetto di viaggio sia kilometrico che dentro di se è oltremodo presente. Il titolo Soulfood è stato fortemente da me voluto per ricordare sempre che anche a 6800 km lontano da casa (Brooklyn) , è una fortuna enorme se qualcuno disposto ad accoglierti e a trattarti come uno dei suoi. E' incredibile perchè a volte il viaggio avviene anche solo incontrando persone diverse (quindi senza necessità di distanza kilometrica) le persone giuste creano impagabili scintille di ispirazione. Il mio posto preferito è il Malcesine Blues festival le strade del paese diventano palcoscenico e il pubblico parte attiva della band. E' una figata senza prezzo, stare in mezzo e dirigere tutti e sentire la magia che si forma e cresce.



3-Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?

Io son un cuspide ariete toro, per cui in me convivono sia il costante viaggiare sia il piacere di tornare. Per il 98 % delle volte ho viaggiato da solo. La mia sfrenata passione per la musica live, mi ha portato a girare il mondo occidentale mentre quelli che erano i miei amici avevano come priorita' il metter su famiglia. Ho visto 22 volte i Black Crowes. Ho convinto amici abitudinari a prendere permesso dal lavoro e andare a Montpellier a vedere John Butler Trio, Uno di essi l'ho portato a New York a vedere gli Allman Bros al Beacon. Questa sono le medaglie che più orgogliosamente porto al petto. N.B.: Il nome Fireplaces nasce dalla voglia di sederci attorno ad una tavola e mangiare raccontare cantare.

4-Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?

Per me i Black Crowes sono più che un punto di riferimento, sono un ponte culturale tra l'oggì, qui e un punto geografico/ epoca lontana. per cui senza dubbio mi sarebbe davvero piaciuto aver avuto a che fare con loro (specie con Marc Ford in band). Già il fatto di essere entrato ed aver suonato nella barn di Levon Helm, mi ha fatto andare via di testa Fra vent'anni non lo so... vent'anni fa non mi sarei mai aspettato di poter avere le fortune che ho avuto e che mi hanno permesso di allargare tutte le mie conoscenze... per cui keep rolling the dice !

5-La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.

Posso dire con una certezza quasi assoluta che 'My Morning Song' sia omnipresente. Ma i fratelli che non mancano mai sono: Black Crowes:Southern Harmony, Amorica, Croweology.
Little Feat: Live at Columbus.
Tom Petty: Wildflowers
Rolling Stones: Sticky Fingers, Exile.
Paul Weller: Stanley Road e Heavy Soul



It's Just Another Town Along The Road
tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNANDEZ & SAMPEDRO
tappa 2: LUCA MILANI
tappa 3: PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS
tappa 4: MATT WALDON

tappa 5: LUCA ROVINI
tappa 6: GUY LITTELL

tappa 7: FRANK GET

lunedì 16 luglio 2018

RECENSIONE: THE JAYHAWKS (Back Roads And Abandoned Motels)


The JAYHAWKS Back Roads And Abandoned Motels (Legacy Records, 2018)





le belle strade secondarie
Tanti vecchi figli riuniti per l’occasione. Così in sintesi potremmo liquidare il nuovo disco dei JAYHAWKS, raccolta di canzoni scritte da Gary Louris con altri interpreti nel tempo ma che ora ritornano a vivere sotto lo stesso tetto con uno dei veri padri e la sua famiglia. Anche se qualche maligno potrebbe uscirne con un “calo di idee e ispirazione” per un nuovo disco interamente di inediti? Tutte scritte con altri autori (con le Dixie Chicks, ‘Gonna Be A Darkness’ con Jakob Dylan, ‘Eldorado’ con Carrie Rodriguez) mentre le ultime due in scaletta ( la sognante ‘Carry You To Safety' e la delicata 'Leaving Detroit') sono completamente nuove. Queste sì. “Quando scrivi con qualcun altro è come se lo stessi invitando ad entrare in te, e devi scrivere delle sue situazioni”, racconta Louris. Per la prima volta poi, Louris lascia il microfono in una manciata di canzoni al batterista Tim O’Reagan e alla tastierista Karen Grotberg (a lei il compito di aprire il disco con 'Come Cryin' To Me'), tanto per ribadire il concetto di famiglia allargata. Un disco che sulla carta si potrebbe presentare poco omogeneo ma che invece fa della compattezza il suo carattere distintivo, confermando ed esaltando Louris come una dei più attenti e fini songwriter della sua generazione e i Jayhawks come i migliori interpreti d’Americana degli ultimi sei lustri (chiedere a Ray Davies che li ha scelti come backing band per i suoi dischi made in Usa, l’ultimo di fresca uscita). Evocativo, acustico, introspettivo e fatto di ballate prevalentemente cullanti, spesso puntellate da violino e pianoforte, e armonie cristalline che si insinuano senza fatica tra le pieghe dei ricordi e dei rimpianti, sbuffando frizzante aria di libertà. Certo, manca la profondità di Mark Olson ma i Jayhawks di oggi sono questi. Tutti i pezzi sono stati registrati in due sedute ai Flowers Studio di Minneapolis e impacchettate dentro a una foto di copertina scattata da Wim Wenders che si candida a diventare una delle più suggestive dell’anno con un titolo che sembra spiegare molto bene la natura di queste undici canzoni, a cui è stata offerta una seconda vita: le strade secondarie e i Motels abbandonati hanno sempre un fascino speciale. Incuriosiscono e attirano.