mercoledì 12 aprile 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 32: BADFINGER (No Dice)

BADFINGER    No Dice (1970)






Dalle alte vette alle tragedie nel giro di pochi anni. Sponsorizzati dai Beatles e ingaggiati dalla Apple nel 1968 quando ancora si facevano chiamare Iveys, i Badfinger vivono almeno quattro anni ai massimi splendori pop: dal 1970 fino al 1975 ereditarono le migliori melodie e armonie vocali dai quattro di Liverpool proprio quando l’avventura dei Beatles era giunta al capolinea. Il duo formato da Pete Ham (comunque il maggior compositore del gruppo) e Tom Evans nel loro piccolo sono i nuovi Lennon-McCartney, nella buona e nella cattiva sorte come vedremo. Anche se pure il chitarrista Joey Holland ha avuto la sua buona importanza. Coincidenze che sembravano spianare la strada verso una discesa mirabolante. Scioltisi i Beatles, il nome della band gallese continua a girare ugualmente intorno a tutti e quattro i Fab Four: Paul McCartney scrive per loro ‘Come And Get It’, compongono la colonna sonora del film con Ringo Starr MAGIC CHRISTIAN MUSIC (il loro primo disco), partecipano alle registrazioni di ALL THINGS MUST PASS e al CONCERT FOR THE BANGLADESH di George Harrison, i loro credits compaiono su IMAGINE di John Lennon. Cosa potrebbe pretendere di più una band pop rock in quegli anni? NO DICE è il secondo album e proprio quella miscela tra accattivante pop trainato da azzeccate melodie vocali (‘Without You’, ‘I Don’t Mind’) e rock’n’roll (‘I Can’T Take It’, ‘Better Days’, ‘Watford John’) è il loro punto di forza. Sempre in bilico tra l’emulazione e la genialità (questa verrà a galla solamente anni dopo, troppo tardi?), i Badfinger si vedono soffiare sotto il naso la loro ‘Without You’ da Harry Nilsson che ne farà un successo mondiale nel 1972, ma non sarà il solo. Fino a quel momento era una semplice canzone incastonata dentro un disco.
Nel 1971 uscirà STRAIGHT UP, altro grande disco, come lo furono i successivi. Ma qualcosa non va soprattutto a livello finanziario: la band paga a caro prezzo alcune scelte sbagliate a livello di management e marketing. Il manager Stan Polley è sul banco dei maggiori imputati. Si vedono pochi soldi in entrata e qualcosa puzza. Sarà proprio questo il motivo che spingerà Pete Ham a togliersi la vita impiccandosi nel garage di casa il 24 Aprile del 1975. Aveva ventotto anni. Sua moglie era all’ottavo mese di gravidanza ma lui il futuro per sua figlia non ce lo vedeva proprio. No future. I restanti Badfinger andranno avanti ma non sarà più la stessa cosa. Anzi sì: Tom Evans emula l’amico e si toglie la vita nello stesso modo dopo una furente litigata con il chitarrista e cantante Joey Molland. Era il 19 Novembre del 1983 quando il suo corpo venne trovato impiccato nel giardino di casa. Ego e soldi ne hanno combinata un’altra. Anche se molti sostennero che Evans non si fu mai ripreso dalla morte dell’amico Ham, tanto da dichiarare spesso e volentieri che prima o poi l’avrebbe raggiunto in quel bel posto. E beffardo, nell’aria si sente volare il testo del loro più grande successo in coppia: “I can’t live if living is without you, I can’t live, I can’t give any more”. Mai più divisi.






DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)



giovedì 6 aprile 2017

RECENSIONE: CORY BRANAN (Adios)

CORY BRANAN   Adios (Bloodshot Records, 2017)




Nativo della terra del Mississippi, vita vissuta tra Memphis e Nashville, marito e padre, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine, fa il suo ritorno a tre anni dal precedente THE NO-HIT WONDER (2014). “Sono cresciuto nel North Mississippi, ho imparato la musica dalla Chiesa e dal blues della zona. Ma sono anche un figlio di MTV”. Quarto disco (poche uscite se consideriamo che è in giro dal 2002), che ha mantenuto inalterato il carattere della sua scrittura: disincantata, sbeffeggiante e cinica, una visione della vita con in primo piano i sentimenti che spesso si ritrovano il cuore infilzato se non spezzato, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero ne rimasero folgorati, citandolo in una loro vecchia canzone ‘Tears don't Matter Much’ contenuta in That Much Further West (2003). Questa volta s’inventa la sua morte e ci gioca su: ci saluta con un addio. Anche se io di questi tempi scherzerei poco con chi impugna la falce, lui lo fa alleggerendo il tema pesante. “Ad un certo punto delle registrazioni, ho realizzato che avevo almeno sette o otto canzoni che parlavano di morte. Ecco, avevo un tema”. Cory Branan è un songwriter dal passo lento, apparentemente distaccato dalla vorace velocità dell'odierno music business, capace di tenere un piede nel pericoloso outlaw country dei seventies, uno appoggiato sull' acceleratore del presente che schiaccia a suo piacimento senza compiacere nessuno, ma riuscendo a stare ben in equilibrio sulla linea della migliore tradizione rock americana, risultando persino sfuggente ad ogni etichetta musicale si voglia appiccicargli addosso. Potrete trovarci lo Springsteen di The River (‘You Got Through’), il coetaneo ma senz’altro più prolifico Ryan Adams (‘Imogene’), il country folk alla John Prine in The ‘Vow’ dedicata al padre scomparso, le languide melodie blues alla JJ Cale in ‘Walls, Ms’, i racconti notturni e jazzati alla Tom Waits (‘Cold Blue Moonlight’), il rock’n’roll dal taglio punk (‘Another Nightmare In America’), frizzanti rock’n’roll alla Buddy Holly (‘Only Know’). Ad accompagnarlo una formazione ridotta all’osso: Robbie Crowell dei Deer Tick alla batteria, tastiere e fiati e James “Haggs” Haggerty al basso. In aggiunta: Amanda Shires (violin e voce), Laura Jane Grace e Dave Hause alle voci. Adios, ma era meglio un arrivederci.








lunedì 3 aprile 2017

RECENSIONE: THEE JONES BONES (This Is Love)

THEE JONES BONES       This Is Love (La Stalla Domestica, 2017)





Il sesto disco della band camuna, attiva dal 2001, è stato presentato durante lo scorso weekend: prima in città a Brescia, poi a Darfo Boario Terme nella loro Val Camonica. Assistendo al primo concerto al Lio Bar (immancabile punto di riferimento per la musica bresciana e non solo) ho potuto testare di persona il mood che caratterizza gran parte di THIS IS LOVE: la presenza di due coriste (Tiziana Salvini e Anna Pina) alla sinistra del trio era sintomatico di qualche cambiamento che su disco viene poi amplificato dalla presenza di una sezione fiati in alcune tracce. Rimane intatta quella semplice magia ad alto volume composta da basso, chitarra e voce che semplificheremo in una bella parola mai passata di moda, rock’n’roll (a morte chi dice: è morto!), ma questa volta il passo più lungo è in direzione America e vengono aggiunte due mani di R&B e soul che fanno tanto Muscle Shoals: ‘Like A Sunshine In The Morning’ e ‘La La La’ (con la voce ospite di Alessandra Cekka Cecala) sono due blues mordenti e dal groove incalzante, mentre ‘Mother’s Heart’ rallenta il ritmo, diventando un ballata soul, sulle impronte della voce dell’ospite Ceki Blues.
Luca Ducoli (voce e chitarra), Paolo Gheza (basso) e Sergio Alberti (batteria) rimangono quella genuina macchina da guerra dei precedenti dischi, dove l’hard blues britannico e il southern rock, il garage made in Detroit e il blues del Mississippi, la solare e psichedelica west coast californiana si rincorrono senza conflitto lungo dieci tracce, spalmate in due facciate di plastica rosso fuoco, proprio come succede nei nostri cari vinili dei 70 impilati sotto il vecchio stereo, con tanto di brevi e suggestivi intermezzi acustici che preparano alle imminenti esplosioni. ‘A Season In Your Soul In The Shadow Of The Sun’ introduce ‘Welcome To The Show’, una vera e propria chiamata alle armi dal taglio hard seventies che durante i live servirà da apripista e dare la scossa primordiale, ‘Little Moon’ è un siparietto acustico che sembra emergere da una bayou e ci prepara a ‘Hey Man (a Song For Johhny Cool)’, omaggio dichiarato a Phil Lynott suonata come dei redivivi Thin Lizzy e con la chitarra ospite di Rick Phillips a primeggiare, mentre ‘Every Cloud Is A Silver Lining’ è l’apripista verso il gran finale chiamato ‘Take It Easy’, che è più Rolling Stones degli ultimi Stones. Se aggiungete presenza scenica e una naturale propensione a jammare e allungare durante i live il gioco è fatto. Un disco grezzo e diretto, nonostante le tante sfumature di abbellimento aggiunte, perfettamente in linea con la precedente produzione. Si va sul sicuro. A vincere sono ancora una volta l'attitudine giusta e la passione vera.


vedi anche
BRESCIA ROCK (5 band da conoscere: Slick Steve & The Gangsters, Van Cleef Continental, Thee Jones Bones, Il Sindaco, The Union Freego)


mercoledì 29 marzo 2017

It's Just Another Town Along The Road, tappa 4: MATT WALDON (Grow Up)

MATT WALDON Grow Up (Arkham Records/IRD, 2017)




Due anni fa, al Buscadero Day, Matt Waldon si presentò al pubblico con un set di canzoni dal taglio rock e chitarristico, lasciando trasparire il suo possibile futuro discografico. Il tempo passa veloce, (aggiungete: un purtroppo) ed ecco qui il frutto di questi due anni di lavoro: tutto come previsto, tanto che anche il simpatico disegno di copertina lo ritrae esattamente com'era vestito quel giorno. Visto che si parla di copertine, vorrei fare un plauso alla cura dei dettagli con cui il tutto viene confezionato con l'ormai immancabile plettro all'interno. Faremo una collezione, spero più lunga possibile. Il cantautore di Padova si avvale ancora dell'aiuto prestigioso di Kevin Salem al mixer e come musicista in alcuni brani, cementando un'amicizia che da oggi potremo chiamare di vecchia data. Registrato tra Padova e Woodstock, GROW UP è senza dubbio il disco più personale tra i tre registrati in carriera da Matteo: il primo OKTOBER (2012) era la summa di tutte le sue prime esperienze musicali, un disco che andava a pescare in tante direzioni, il secondo LEARN TO LOVE (2014), era più omogeneo e brumoso e prediligeva il lato acustico.
GROW UP è un disco che fa poco per compiacere l'ascoltatore, le dieci canzoni viaggiano diritte per la loro strada senza troppi occhiolini di circostanza: lo si capisce immediatamente dalla traccia d'apertura e ripresa pure nella traccia fantasma che chiude il disco, Hungry Bears (anche nome del gruppo che lo accompagna), è uno strumentale dal piglio psichedelico che fa da introduzione, ma che non svela ancora nulla della direzione in cui andranno a viaggiare la maggioranza delle dieci canzoni. Almeno fino all'attacco tambureggiante di 7 Beers, rock song con le chitarre davanti  e l'umore di chi ama annegare i dispiaceri sopra al bancone di un bar nel retro. Sulla scia si accoderanno le dirette You'll Never Get Back, No Slaves e Grow Up. Punta sulla parte più elettrica della sua musica, quella tesa, graffiante e acida, tanto scura che 21 Cigarettes, introdotta dal basso di Francesco De Negri, sembra addirittura recuperare un riff di chitarra abbandonato dalla new wave più rock degli anni ottanta. Ci sento i Killing Joke,
Nella parte centrale emergono invece due ballate molto personali ma dal carattere molto forte: Save Me, guidata dal violino suonato da Chiara Giacobbe, affronta l'amore e i chilometri (e sotto, nell'intervista, potrete leggere il rapporto di Matt con il viaggio), mentre la dedica alla madre della dolce ?!%$, con il violino e la seconda voce di Debby Clinkenbeard, svela il lato più malinconico e privato.
Quando Matt dice che Ryan Adams non manca mai nello stereo della sua auto durante gli spostamenti, io rispondo che ultimamente GROW UP staziona nella mia. Metto in moto e parto.





In viaggio con Matt Waldon


I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Certamente! Amo viaggiare e molte delle mie canzoni sono nate durante alcuni di questi viaggi o da riflessioni fatte al rientro a casa.
Non è una regola fissa ma è accaduto spesso e in tutti e 3 i miei album ci sono canzoni che raccontano di esperienze ed emozioni vissute proprio durante questi viaggi.

Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Lasciamo la parola “Tour” a chi veramente macina Km per settimane, mesi, i miei al massimo si possono definire “Mini Tour”. Aspetti positivi del viaggiare per concerti in Italia sono appunto in primis il viaggiare perché è un qualcosa che amo, conoscere gente nuova e scoprire realtà nuove. Sicuramente una parte della mia vita a cui difficilmente rinuncerei. Aspetti negativi non ne vedo, li chiamerei piuttosto imprevisti, come la disorganizzazione di alcuni locali, la mancata risposta del pubblico, esperienze che comunque servono per crescere!
Il club che amo e dove torno più spesso a suonare, non l’ho mai nascosto, è il “Club Il Giardino” di Lugagnano (VR), un vero e proprio tempio della musica live in Italia, un palco che ha visto innumerevoli importanti personalità della musica nazionale ed internazionale, un vero Club con la C maiuscola dove l’artista può esprimersi a 360 gradi con la certezza & la consapevolezza che il pubblico presente è realmente li per ascoltare ogni singola nota, accordo, parola o frase espressa.

Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Entrambi, ripeto, amo viaggiare conoscere nuove realtà ma allo stesso modo amo le mie radici, rifugiarmi in loro è per me fondamentale, non riuscirei a vagabondare senza le mie radici.

Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Qui la scelta è difficile, quasi impossibile, diciamo che mi sarebbe piaciuto aprire i concerti di Bob Dylan & Tom Petty nel 1987 durante il loro True Confessions Tour, sarebbe di sicuro stata un incredibile esperienza mistica!
Tra vent’anni non mi vedo, ho imparato vivere alla giornata, è la cosa migliore in questo mondo!

La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
Anche qui è dura rispondere, non esiste una canzone da viaggio che non manca mai durante i miei spostamenti, esiste l’artista che non manca mai durante i miei viaggi, e questo sicuramente è Ryan Adams.




 

lunedì 27 marzo 2017

ALEJANDRO ESCOVEDO live@Teatro Toscanini, Chiari (BS), 25 Marzo 2017






Sabato sera Alejandro Escovedo ha generosamente sciorinato nomi legati alla sua vita musicale che solo avendo avuto block-notes e penna con me riuscirei a ricordare perfettamente ora. Un elenco lungo ma in continua trasformazione. Ci provo: i Nuns, la sua prima formazione in pieno punk 77 che ebbe il pregio di aprire alcuni concerti  dei Sex Pistols, i tanti cantautori texani che aprirono la strada e quelli rimasti oggi come compagni di viaggio, l'amico Bruce Springsteen (ricordate il duetto 'Always A Friend'?, stasera suonata), la sua grande famiglia con i tantissimi fratelli musicisti, la favola maledetta di Sid Vicious e Nancy Spungen, gli amici italiani con il compianto Carlo Carlini in testa, il primo a portarlo in Italia, Chuck Berry recentemente scomparso e poi chissà quanti altri che ora mi sfuggono. Una memoria vivente degli ultimi quarant’anni di rock'n'roll-da non confondere con il rock patinato da prima pagina-con in mezzo le tante sfighe della vita, con la vittoria sull'epatite C da sfoggiare con l'orgoglio del combattente che ce l'ha fatta. I messaggi delle canzoni di Escovedo sono usciti chiari e forti: grazie al carisma e la bontà del texano, alla bravura dei musicisti che lo hanno accompagnato in questa data e in tutte le altre in giro per l'Europa, non ultima, alla buonissima acustica del Teatro Toscanini di Chiari. Uno spazio ricavato all'intero di una struttura scolastica che finché non ci entri, ti siedi e ascolti, non ci credi. Da buoni alunni con l'esperienza in tasca, ad aprire la serata sono stati i bresciani The Scotch, guidati dalla chitarra di Enrico Sauda: un rock blues tosto il loro, carico di groove e coinvolgente. Hanno giocato in casa e hanno portato casa la partita con disinvoltura. Bravi!
Il concerto di Escovedo, invece, è stato una lezione di songwriting rock, raccontata senza nessuna barriera. A porte aperte: nessuna frontiera tra Austin e Messico, Londra e New York, l’Italia e il mondo tutto, i pochi vincenti e i tanti vinti, il rock e il folk. Una nota di merito va sicuramente a Don Antonio (dietro c'è Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori) e band ( Franz Valtieri, Matteo Monti e Denis Valentini) che hanno tramutato sangue, ruggine, polvere e petali di rose in musica, attraverso possenti e abrasive chitarre elettriche e dilatate ballate suonate come dio comanda. Nella mia personale lista delle migliori canzoni della serata metto: 'Sally Was A Cop’, 'Can't Make Me Run' e ' Down In The Bowery'. A proposito di Don Antonio: occhio al debutto in uscita ad Aprile, ricco di sapori mediterranei e già in heavy rotation nel mio stereo il giorno dopo il concerto. Era una domenica uggiosa, maledizione. Ma è stato un bel contrasto. Vincente.
Le stanze del Chelsea Hotel non sono più tutte prenotate, come quelle del 1978, la sua Austin gli è cambiata sotto quegli occhi veri e sinceri che ora la guardano con nostalgia, tanti amici sono emigrati  per sempre in altri posti lontani e sconosciuti, ma finché ci saranno chitarre, cuori e anime romantiche io ci credo ancora. L'ultimo disco BURN SOMETHING BEAUTIFUL è la testimonianza più diretta e convincente, comunque l'ultimo di un poker di album (REAL ANIMAL, STREET SONGS OF LOVE e  BIG STATION)  che lo hanno riportato ai vertici del cantautorato rock americano di questi ultimi anni.
Non è un caso che tutto sia finito sotto un uragano. 'Like A Huricane' di Neil Young, con la chitarra ospite di Giovanni Ferrario, è stata l'ultima ondata di una serata di grande rock. E mentre l'ultimo feedback aleggiava ancora nell'aria, Escovedo era già dietro al banchetto a firmare autografi, vendere i suoi cd e posare per le foto fino a tarda serata. Un esempio.


con Giovanni Ferrario

The Scotch

RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO-Burn Something Beautiful (2017)
RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO-Big Station (2012)




martedì 21 marzo 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 31: SUZI QUATRO (Suzy Quatro)

SUZI QUATRO    Suzy Quatro   (Rak Records, 1973)






Non so voi cari maschietti, ma quando Suzi Quatro, nel ruolo di Leather Tuscadero (sorella di Pinky, la ragazza di Fonzie) apparve per la prima volta in una puntata di Happy Days, qualcosa di ancora indefinito mi fece vibrare qualcosa, non so cosa fosse, non so dove fosse, ma so che successe. Forse non raggiungevo nemmeno i dieci anni, ma il fascino da sexy maschiaccio di quella ragazza vestita di pelle con il basso a tracolla arrivò immediatamente. Colpito e affondato. Forse l’amore per il rock’n’roll si accese in quel preciso momento, vicino a quella cerniera di quella tutina aderente in pelle nera. Il debutto di Suzi Quattro, invece, uscì qualche anno prima e già conteneva quella ’48 Crash’ che si porterà dietro per tutta la carriera. Un debutto fulminante (senza dimenticare gli esordi nelle all female band Pleasure Seekers, poi Cradle, insieme alle due sorelle, da metà anni sessanta), sexy, agressivo, e palestra per tante future ragazze ribelli. Una ragazza vestita di jeans e chiodo che martellava il suo basso, a capo di una basilare band rock’n’roll formata da tre uomini: Len Tuckey (chitarre) che sposerà, Alastar McKenzie (piano) e Dave Neal (batteria). Qualcosa di nuovo che farà scuola.
Un debutto che arriva dopo una buona gavetta in Inghilterra aprendo i tour di Thin Lizzy, Slade e venendo a contatto con la colorata scena glam inglese. Proprio da lì il produttore Mike Most pescherà la coppia di autori Mike Chapman e Nicky Chinn (già al lavoro con gli Sweet) da affiancare nella scrittura di alcuni pezzi di questo debutto.Sarà il glam a segnare l’intero album ma non solo: l’hard rock’n’roll carico di irresistibile groove di ‘Glycerine Queen’ e ‘ Shine My Machine’, il tambureggiante e psichedelico mantra di ‘ Primitive Love’, il basso pulsante in ‘Get Back Mama’, l’irresistibile coro di ‘Sticks And Stones’, il boogie di ‘Roockin’ Moonbean’ e ‘Can The Can’ (primo vero singolo) sono ingredienti semplici e mai fuori moda. Metà Chewing gum, metà cuoio. Poi le due cover: ‘I Wanna Be Your man’ (Beatles) e All Shook Up’ di Elvis Presley , e leggenda narra che proprio il re dopo aver sentito questa versione, la invitò a Graceland per conoscerla. L’incontro non avvenne mai. Ma c’è di più: dopo l’audizione per il telefilm Happy Days, Suzy Quatro ricevette la risposta della sua assunzione nel mondo della televisione proprio il 16 Agosto del 1977, quando il re passò a dettar legge da qualche altra parte nell'universo. Strane coincidenze.





DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

giovedì 16 marzo 2017

RECENSIONE: MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES (Way Out West)

MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES   Way Out West (Superlatone Records, 2017)






Il giorno che il giovanissimo Marty Stuart, appena dodicenne, approdò a Nashville, città che rappresentava già un sogno predestinato, dovette aspettare ore prima di incontrare colui che lo invitò nella città del country per offrirgli il primo lavoro in campo musicale. In quei momenti di attesa, Stuart non perse troppo tempo e si avventurò, solo, alla scoperta della città. Quello spirito di ricerca gli rimase per tutta la carriera, trovando uno dei suoi culmini quando entrò nella band di Johnny Cash. Marty Stuart con i suoi dischi, le sue memorabilia raccolte in un museo e le sue trasmissioni televisive rimane una delle più fulgide memorie storiche “viventi” della country music che potremmo tradurre in un più semplice ed esaustivo “musica americana”. Adesso che anche i più grandi, uno ad uno, stanno passando a miglior vita, a lui il compito di preservare la forza e la tradizione di certi suoni. Tanto che Johnny Cash nella sua biografia scrisse: “Fra tutti, Dwight Yokam e Marty Stuart sono stati capaci di inserirsi nella tradizione della musica country apportando nuova linfa ma senza snaturare il genere. Non cercano di imitare il soundi di artisti come George Jones e Lafty Frizzell, come invece fanno molti altri”.
In compagnia dei fedeli Fabulous Superlatives (la chitarra di Kenny Vaughan, la batteria di Harry Stinson e il basso di Chris Scruggs) e della produzione di Mike Campbell (Tom Petty and the Heartbreakers) scrive un’accorata lettera d’amore lunga quindici canzoni (suddivise in autografe, strumentali e una cover) al territorio americano dell’Ovest. La terra promessa tanto agognata compresa tra deserti (‘Mojave’) e interminabili autostrade (‘Whole Lotta Highway’), preghiere e invocazioni ai nativi (‘Desert Prayer’), difficili confini (‘Old Mexico’, ‘El Fantasma Del Toro’), tra rutilanti honky tonk (‘Air Mail Special’ di Benny Goodman), rock (la byrdsiana ‘Time Don’t Wait’, ‘Quicksand’), accenni surf e country western cosmici accecati e storditi dal sole dove si può ancora intravedere la sagoma nera di Johnny Cash alle prese con Folsom Prison (‘Way Out west’). Un disco senza tempo, suonato alla grande (che chitarre!), destinato a farsi strada e diventare un piccolo classico di questi tempi ingrati, troppo veloci anche per il cuore e la perfezione qui contenuti.





lunedì 13 marzo 2017

BLACKBERRY SMOKE live@Fabrique, Milano, 11 Marzo 2017


Breve nota (polemica) a margine prima di iniziare: i primi protagonisti, non attesi e fastidiosi, che si palesano davanti al Fabrique di Milano mentre  la gente è in coda all'entrata, sono una manciata di venditori abusivi di biglietti (chiamiamoli ancora bagarini) che  senza ritegno inseguono le persone con fare gradasso, invadono la strada trafficata di macchine al grido di: "vendo, vendo biglietti, sottocosto". Dopo tutte le polemiche di questi ultimi mesi sul secondary ticketing mi sembra che poco sia cambiato. Veramente nessuno può intervenire fuori dal locale e fare qualcosa, spezzando almeno l'ultimo anello della catena per risalire su, fino in cima? Fine
Fortunatamente all'interno del Fabrique l'atmosfera sembra diversa e già riscaldata a dovere. Pubblico delle grandi occasioni e a giovarne è il gruppo di spalla BITERS. Un quartetto di Atlanta poco originale musicalmente, in verità (divertente cercare i rimandi: ad un certo punto sembra spuntare 'You Ain't Seen Nothing Yet' dei BACHMAN TURNER-OVERDRIVE, invece no, era una loro composizione) che pur avendo in scaletta una canzone dal titolo '1975' sembra rifarsi alla scena street glam losangelina di metà anni ottanta e a quella scandinava compresa tra gli Hanoi Rocks e gli Hardcore Superstar piuttosto che a quella più rozza, malata e scollacciata dei  settanta. Presenza, look e una buona dose di divertimento e portano ugualmente a casa la loro serata.

 

Quando cala il telone, raffigurante la copertina dell'ultimo, ottimo  album LIKE AN ARROW, sono le 22:00. Guardo l'orologio: gran puntualità. Ci vorranno però almeno due canzoni (la sacrificate 'Fire In The Hole' e 'Six Ways To Sunday') prima che la band di Atlanta, nuova stella del southern rock americano, riesca a colpirmi. I suoni sono ovattati, il basso di Richard Turner sembra coprire tutto e la voce di Charlie Starr arriva debole e lontana. Fortunatamente tutto si sistema al meglio in gran velocità e già da 'Good One Comin' On' i Blackberry Smoke iniziano quello che, a fine serata, risulterà un concerto straordinario, intenso e vario, in grado di riportare le lancette del tempo indietro fino alla migliore stagione del rock confederato compresa tra i fine anni sessanta e il 1978, con una lacrimuccia che scende pensando ai più recenti Black Crowes dei fratelli Robinson, gruppo al quale i Blackberry Smoke sembrano guardare per cercare di occuparne il posto lasciato libero da un paio d’anni, senza possederne però i tanti fuoriclasse.Sì peché la vera e unica star nei Blackberry Smoke è proprio il cantante e chitarrista Charlie Starr: intorno a lui (completano la formazione il barbuto batterista Brit Turner, il secondo chitarrista Paul Jackson e il tastierista Brandon Still ) una schiera di importanti gregari che fanno squadra, pestando duro di possente hard, giocando con il divertente boogie ('Rock'N'Roll Again',     'Let  It Burn') svolazzando su canzoni ariose, melodiche  e country come 'One Horse Town', e perdendosi in lunghe jam quando necessario, senza mancare di omaggiare 
 il passato, dai Led Zeppelin di 'Your Time Is Gonna Come', ai Little Feat di 'Fat Man In The Bathtub' al reggae di Bob Marley che compare a sorpresa nel lungo finale jammato. 

"Too country for rock too rock for country" cita la scritta sul retro di una t-shirt in vendita al banchetto marchandise. In mezzo ci stanno comodamente i Blackberry Smoke. E come scrissi qualche anno fa dopo il disco della svolta WHIPPOORWILL: per avere il quadro clinico del southern rock odierno, è obbligatorio passare per le strade della Georgia calpestate dai Blackberry Smoke. Sui cartelli stradali leggerete: ancora in salute. Un concerto da ricordare.

 

SETLIST: Fire In The Hole/Six Ways To Sunday/Good One Comin' On/Wish In One Hand/ Waiting For The Thunder/Rock And Roll Again/Let It Burn/Sleeping Dogs/Shakin' Hands With The holy Ghost/The Good Life/Restless/Whippoorwill/Up In Smoke/Lay It All On Me/Ain't Got The Blues/One Horse Town/Like An Arrow/Eden/Fat Man In tHe Bathtub (Little Feat cover)/Ain't Much Left Of Me (with Everythings Gonna be Alright-bob Marley)


RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Like an Arrow (2016)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Leave A Scar (2014)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-The Whippoorwill (2012)

 

venerdì 10 marzo 2017

RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & the HONEYBEARS (Backlash)

BLACK JOE LEWIS  & the HONEYBREARS    Backlash (2017)





A volte alcune copertine ammazzano i dischi prima del tempo. Questa è un killer spietato. Basta passare oltre, perché nelle undici canzoni che costruiscono il quarto disco di Black Joe Lewis con i suoi Honeybears c’è tutto quello che ci aveva già presentato in precedenza, ossia la sua personale miscela dove oltre al contagioso R&B, esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta, in verità maggiormente esplorata con il precedente ELECTRIC SLAVE del 2013: vocalità che a volte sfiora Iggy Pop (ascoltate ‘Freakin’ Out’, ‘Prison’ e la finale ‘Maroon’ che si perde oltretutto nella psichedelia), due chitarre che intrecciano il serpeggiare dei sempre presenti fiati e il personale garage soul carico di groove è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate. Anche se lui ama liquidare il tutto con un semplice: "è solo rock’n’roll". Il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la dimensione ideale sopra ai palchi. Dall'essere "iguana" a "macchina del sesso" come quella guidata dai migliori interpreti soul alla James Brown" (nel funky di ‘Sexual Tension’) il passo è brevissimo e la sua lingua sa essere velenosa sia quando si preoccupa della salute della terra in ‘Global’, quando si prende a cuore la situazione degli afro americani nel soul di ‘Nature’s Natural’, quando invita a suo modo gli ‘Hipster’, figli di papà, a cercarsi un lavoro o come quando sta dalla parte del potere, quello vero: ‘PTP’, ossia Power To Pussy, e qui non c’è bisogno di nessun chiarimento.






martedì 7 marzo 2017

It's Just Another Town Along The Road, tappa 3: PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS (Hangin' On A Wire)

PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS  Hangin' On A Wire (2016)

Questa terza tappa del mio viaggio tra l'Italia musicale con l'accento internazionale si ferma a Torino. Con un po' di fortuna, girando per i locali cittadini che hanno il coraggio di non mettere tribute band in cartellone, potrete imbattervi in Paolo Ambrosioni e i suoi Bi-Folkers: ossia Davide Trombini alle chitarre e mandolino e Roberto Necco alle chitarre e banjo. Già dalla formazione (a cui si aggiungono comunque tanti ospiti tra cui Renato Tammi e Thomas Guiducci nella finale Folk'N' Roll) si può capire a cosa va incontro la musica di Ambrosioni: un country folk ragionato, intimo, introspettivo, mai sopra le righe, dominato da strumenti a corda, dove si mette in mostra la buona
capacità di cucire i vecchi songwriters americani, l'old time roots con la nuova ondata di bluegrass band provenienti dagli Stati Uniti. Con un po' di attenzione però, leggendo tra le righe dei testi, c'è un aspetto che salta subito in primo piano, rendendo HANGIN' ON A WIRE, il secondo disco dopo NO PLACE TO HIDE uscito nel 2014, unico e interessante: il vissuto del suo autore. Non c'è finzione tra i solchi di queste dieci canzoni, niente viene raccontato per sentito dire, non c'è lo scopiazzamento di prose altrui o lo scimmiottamento di qualche idolo a stelle e strisce: sia quando prende spunto dal suo lavoro di assistente sociale in  Social Worker Blues, quando denuncia vigliacchi soprusi (Nothing Will Change), quando mette in musica esperienze personali legate alla musica (Share The Same), quando apre il cuore a situazioni più intime e private come l'omaggio al piccolo figlio in Shine, ma più in generale, come suggerisce il titolo dell'album, nelle sue canzoni riesce a dare voce alle persone deboli e indifese, tutte quelle che vivono nell'ombra con l'esistenza appesa ad un sottilissimo filo a cui basta veramente poco per spezzarsi senza ritorno. E per chi ha fatto anche solo un anno di servizio civile come me, queste canzoni sono indispensabili e un chiaro segno di rinnovata fiducia verso la razza umana. It's a brand new light.



In viaggio con Paolo Ambrosioni

1)I km nel tuo disco. IL viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Viaggiare è una delle mie più grandi passioni, ho avuto la fortuna e la possibilità di viaggiare molto, un po’ meno da quando è nato mio figlio, ma cercheremo di recuperare. Le canzoni del disco risentono in parte della mia attività lavorativa di assistente sociale ove ho cercato di dare voce a persone con le loro storie ma anche di situazioni/ricordi legate a dei viaggi, per cui direi sì, il viaggio ha in parte contribuito nella fase di scrittura dei pezzi. Credo comunque che, oltre al viaggio in sé, una delle parti più belle sia la fase di “preparazione” del viaggio stesso e scrivendo canzoni si viaggia con la mente e con la fantasia, si immaginano e scrivono storie
2)Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Al momento abbiamo suonato prevalentemente nel nord-ovest tra Piemonte, Liguria e Lombardia con qualche puntata in Romagna (Glory Days in Rimini). Speriamo di poter espandere il nostro “territorio” nel prossimo futuro. Gli aspetti positivi sono legati anche semplicemente al fatto stesso di poter viaggiare, vedere posti nuovi ed incontrare altre persone (per me la musica è comunione e condivisione, di emozioni e di buone vibrazioni), riuscire a presentare le mie canzoni ad un numero sempre maggiore di ascoltatori. Capita spesso di suonare fuori Torino in locali pieni o quasi e di percepire l'attenzione e l'ascolto della nostra musica. E' molto emozionante e gratificante ma anche responsabilizzante, nel senso positivo del termine. Gli aspetti negativi sono più relativi alla fatica logistica, di tempo, di conciliare i lavori (e le relative famiglie) di ognuno con la musica, di suonare in posti dove c’è poca accoglienza, pochissima attrezzatura o dove si aspettano che la promozione la faccia solo il musicista che deve portare gente. Questo capita più nella città dove vivo, Torino, che fuori. Ci piace tornare quindi nei posti dove c’è una buona accoglienza umana e rispettosa, dove c'è calore, ove il pubblico è abituato ad una programmazione musicale di un certo tipo e dove possano esibirsi artisti con una propria proposta musicale e non esclusivamente tributi; dove il cachet, sebbene magari ridotto, viene regolarmente versato, segno di rispetto e chiarezza
3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Nato a Milano, cresciuto a Torino, origine maremmane. Vivo da 30 anni a Torino per cui mi piace avere radici ma con la possibilità di poter un po’ vagabondare.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Un qualsiasi concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band negli anni ’70, per poter poi esserci a sentire il concerto loro. Avrei voluto assistere a qualsiasi concerto nel Mississippi negli anni '20 o '30 del secolo scorso. Tutto ha avuto origine da lì alla fine. Tra vent’anni avrò 64 anni e spero di non essere così lontano dalla pensione (facciamo finta di crederci…) per poter avere più tempo a disposizione da dedicare alla musica. Tra vent’anni spero di essere capace a suonare meglio la chitarra e magari riuscire ad accompagnarmi in qualche pezzo al piano.
5)La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
This Hard Land - Bruce Springsteen, Wagon Wheel - Old Crow Medicine Show




IT'S JUST ANOTHER TOWN ALONG THE ROAD tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNAN:DEZ & SAMPEDRO
tappa2: LUCA MILANI

lunedì 6 marzo 2017

RECENSIONE: DANKO JONES (Wild Cat)

DANKO JONES   Wild Cat  (AFM, 2017)




Se fossi donna potrei dire che Danko Jones non mi fa più bagnare come ai tempi di BORN A LION (2002). Quel garage blues vizioso e scollacciato-che faceva già pensare ad un nuovo John Spencer Blues Explosion- è stato via via coperto, disco dopo disco, da un hard'n'heavy rock molto più potente ma anche più prevedibile e scontato, portato avanti con quel pilota automatico di nome mestiere. Eppure il canadese (con John “JC” Calabrese e Rich Knox in formazione e Eric Ratz alla produzione) continua a rimanere quell'irriverente figlio di buona donna con la giusta attitudine, l’urgenza e la sfrontatezza di chi suona vero rock’n’roll senza inutili orpelli, con basso, batteria e chitarra come se non ci fossero altri giorni dopo questo. In studio come nei live. Gli stereotipi del rock’n’roll che piacciono tanto sono tutti presenti (è la sua forza), nei titoli, nei testi, nei chorus, nella forma, ma dopo vent’anni e otto dischi, Danko Jones rimane uno dei venditori più credibili in materia, sia quando ritorna al blues abrasivo (‘Revolution’), strizza l’occhio al punk più melodico (‘Diamond Lady’), si veste da quindo Kiss (‘My Little RnR’) o riga dritto per le strade aperte dall’amico Lemmy (‘Let’s Start dancing’). Il tutto con il chiodo fisso del sesso sempre ben piantato in testa. Poi ti piazza una canzone come ‘You Are My Woman’, un dichiarato omaggio ai Thin Lizzy di Phil Lynott, e allora, sotto sotto, proprio lì, vorresti essere veramente donna. C'è ancora la vecchia formula: Watt, sudore e "gnocca" (a volte con eccesso maniacale di machismo, ma con tutto il rispetto possibile) sono ancora ingredienti basilari per divertirsi senza dare o chiedere troppo in più. Basta saperlo. Divertimento comunque, e sempre, assicurato in un disco che fila liscio dall'inizio alla fine senza rallentamenti.





mercoledì 1 marzo 2017

RECENSIONE: SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES (The Fever, The Remastered Epic Recordings)

SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES    The Fever, The Remastered Epic Recordings (Real Gone Music/Epic Records, 2017)




“Southside Johnny veniva da Ocean Grove, una cittadina vicino ad Asbury Park fondata nell’ottocento dai metodisti. Era il re del blues nell’area, il che spiega il soprannpome Southside. Cripto-intellettuale suscettibile e bisbetico, era un uomo profondo con qualche rotella fuori posto, ma conosceva vita, morte e miracoli di tutti gli artisti blues e soul. La sua famiglia aveva una straordinaria collezione di dischi, grazie alla quale era diventato un luminare della musica.” Così Bruce Springsteen presenta Southside Johnny nelle pagine del’autobiografia Born To Run.
Nulla di nuovo (o quasi) lungo le strade del New Jersey  ma aspettavo questi dischi rimasterizzati in cd da molto tempo. Il meglio dei primi anni di mister John Lyon spalmato in due cd (40 canzoni, 160 minuti e libretto di venti pagine con note, aneddoti e commenti dello stesso Southside Johnny e di Chris Morris) comprendenti i primi tre album usciti per la Epic Records: l’esordio fulminante I DON’T WANT TO GO HOME (1976), il secondo THIS TIME IT’S FOR THE REAL (1977) pieno di mitici gruppi doo-wop ospiti e HEARTS OF STONE (1978) tanto acclamato dalla critica ma bocciato dalle vendite (dopo questo disco passerà alla Mercury), più, per la prima volta in CD, il live promozionale JUKES LIVE AT THE BOTTOM LINE, registrato a New York nell’Ottobre del 1976 e il singolo ‘Havin’ A Party’ uscito nel 1977.
Autentica leggenda del Jersey Shore Sound svezzato a pane e Sam & Dave, cresciuto tra le assi dello Stony Pony e dell’Upstage, inutile raccontarvi della bilanciata presenza di cover e canzoni scritte appositamente per gli album, della massiccio peso degli amici di vecchia data Miami Steve Van Zandt come produttore e autore, di Bruce Springsteen autore di ‘The Fever’, ‘You Mean So Much To Me’ (con Ronnie Spector ospite), ‘Hearts Of Stone’, ‘Talk To Me’, dei fedeli e numerosi Asbury Jukes con la possente sezione fiati guidata da Richie "La Bamba" Rosenberg e dei tanti ospiti come Lee Dorsey, The Coasters, The Five Satins, The Drifters. Qui dentro c’è tanto da ascoltare e tanto per muoversi. Stop.
“Southside Johnny…una delle persone più strane che abbia mai incontrato. Si vestiva come il mio vecchio. La prima volta che lo vidi suonava il basso per una vecchia leggenda di Asbury chiamata Sonny Kenn. Johnny era terribile. Era una di quelle persone che non potevano suonare il basso. Ma poteva cantare e suonare l’armonica, in più conosceva molto bene il blues.” Così Bruce Springsteen, da sempre il miglior sponsor, racconta il suo primo incontro con Southside Johnny, nelle note originali che accompagnavano I DON’T WANT TO GO HOME del 1976, riportate integralmente nel libretto.
Ed è come trovarsi dentro a un piccolo club dall'insegna esterna tanto luminosa e sgargiante quanto buio e fumoso all'interno, affollato di gente festante, con il calore e il sudore che diventano un tutt'uno sotto la voce calda e avvolgente di Southside e l’irresistibile miscuglio tra Soul, R&B di casa Motown/Stax e ruspante Rock'n'Roll urbano che gli Asbury Jukes portavano in giro, con pochi eguali, in quegli anni settanta. E pure oggi, mentre l’amico continua a riempire stadi, fa cantare chiunque sopra al palco e si concede ai selfie, Southside Johnny continua a bazzicare locali fumosi dei circuiti minori, tergendosi i il sudore sotto gli immancabili occhiali come una volta, forte anche di una vena creativa da studio per nulla scalfita visto lo splendido ultimo album, SOULTIME!, uscito nel 2015, degno di stare accanto a questa tripletta d’esordio.




lunedì 27 febbraio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 30: RITMO TRIBALE (Bahamas)

RITMO TRIBALE   Bahamas  ( Edel Records, 1999)







Il sole, le spiagge e la tranquillità delle isole Bahamas stridono nel pensare alla musica dei vecchi Ritmo Tribale, ma si adattanno bene alle soluzioni musicali di questo disco, l'ultimo capitolo (se si esclude la raccolta del 2007) del gruppo milanese. Le Bahamas: le isole felici, lontane e mai viste, che ognuno di noi conserva da qualche parte dentro alla propria testa. Il posto dove si vorrebbe fuggire quando si è nei guai. E per un gruppo che aveva appena perso il proprio carismatico frontman, i guai erano dietro l’angolo. Cosa fare? Continuare? Cambiare nome? Cambiare musica? “Siamo l’unico gruppo distrutto dalla droga che non è diventato famoso per questo. In genere i gruppi, quando c’è quello che si fa perché pippa, perché beve, diventa famoso. Noi no. Noi ci siamo solo distrutti! Avevamo litigato con tutti, avevamo scazzato con la casa discografica anche se avevamo trovato un contratto con la Edel che non era niente male. Facemmo un disco completamente di rottura, musicalmente, con ciò che eravamo prima. Fare un disco in cui scimmiottavamo i Ritmo Tribale con Edda sarebbe stato assurdo. Uscimmo con un disco secondo noi molto bello però molto introspettivo, intimo e diversissimo dagli altri mentre venne promosso come se fossimo ancora quelli di MANTRA.” Così Andrea Scaglia sulle pagine di UOMINI, il libro di Elisa Russo, uscito nel 2014, che racconta la storia dei Ritmo Tribale. Suoni fluidi, elettronica, loop e campionamenti che si incastrano alla perfezione con i tradizionali strumenti rock e Andrea Scaglia, nuovo cerimoniere dopo l'uscita dell'istrionico e (quasi) insostituibile Edda, sono i tratti fondamentali di questo lavoro. Uscito nel 1999 dopo PSYCORSONICA (1995), ultimo lavoro con Edda che di fatto rappresenta la chiusura di una prima parte di carriera di uno dei gruppi basilari del rock italiano a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Il gruppo cambia pelle, mantenendo inalterate coerenza e spirito. Bahamas doveva essere un nuovo inizio ma si tramutò anche nel disco di addio. Il punto a capo. Con il nuovo ritorno ancora adesso seguito da un grande punto interrogativo. Proprio per questo rimane un'opera preziosa, unica e purtroppo poco capita, sottovalutata, soprattutto da chi pensava che i Ritmo Tribale senza Edda, non avessero ragione d'esistere. La smentita è un disco che oggi, a diciotto anni dall’ uscita, suona ancora fresco, guadagnando i classici punti alla distanza. Devo ammettere che fu dura entrare nella nuova strada intrapresa dai Ritmo Tribale.
La rivalutazione avvenne per gradi, con canzoni fluide, dai testi quasi ermetici, che ti giravano attorno, ti scrutavano e poi ti penetravano. Registrato in gran parte lontano dagli storici studi Jungle Sound, loro casa naturale, i cinque tribali abbandonano la quotidianità metropolitana per tuffarsi e rifugiarsi nella tranquillità delle campagne romagnole del "castello" di Pieve Salutare, una frazione di Castrocaro Terme, in provincia di Forlì. A beneficiarne sono dieci canzoni compatte, unitarie, collegate tra loro dai testi quasi visionari di Scaglia, anche produttore dell'intero lavoro. Se i contatti con il rock del passato si possono scorgere in alcune tracce come ‘Meno Nove’ o la bonus track ‘Cuore Nero’, il resto viaggia tra partiture liquide e psichedeliche con le chitarre di Andrea Scaglia e Fabrizioo Rioda impegnate a tessere intrecci sfuggenti e la base ritmica composta da Andrea Briegel Filipazzi e Alex Marcheschi sempre pulsante e vivace. Un disco d'impronta quasi progressive che amalgama anche i nuovi suoni elettronici del trip-hop con il rock (grande lavoro del tastierista Luca Talia Accardi), giocando con i testi mai banali o scontati ma aperti a qualunque interpretazione. Esempi del nuovo corso sono le bellissime ‘Il Centro’, ‘Lumina’, ‘Diamante’, il singolo ‘2000’ che apre il disco, ‘Musica’, e la title track che chiude con tanto di violino e moog. Se questo doveva essere l'ultimo disco a nome Ritmo Tribale, mai commiato fu migliore. Poi: undici anni dopo, il cerchio chiuso (riaperto momentaneamente per la reunion live del 2007) si riaprirà totalmente sotto nome NO GURU. E oggi, anno 2017?
L'appuntamento è per Venerdì 24 Aprile 2017 al Pub Centrale Rock di Erba (Como) , per un unico concerto di reunion , proprio con la formazione di Bahamas, disco che verrà suonato per intero.






DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

mercoledì 22 febbraio 2017

RECENSIONE: TINARIWEN (Elwan)

 TINARIWEN  Elwan (Wedge Records, 2017)







Chi è stato almeno per una volta nell' Africa sahariana e ha avuto modo di percorrere alcune strade lontane dai centri turistici, ha trovato un mondo al rallentatore, fatto di persone che camminano, apparentemente senza meta, lungo infinite strade polverose e altre, ferme a gruppetti ai bordi di queste strade ad aspettare non si sa chi o cosa. Qualcosa di inconcepibile nella nostra assurda frenesia giornaliera. È qui che pensi : "a volte ci sarebbe bisogno di un lungo passo indietro". E di passi indietro, i Tinariwen continuano a farne, tanto che, per assurdo, sembrano essere ancora una volta lì, davanti a tutti, a tirare la fila, come appare chiaro nello splendido scatto di copertina.
La musica della band, originaria del Mali, non è più la sorpresa di alcuni dischi fa (di quando venivano chiamati guerriglieri con le chitarre), eppure l’ascolto di ogni nuovo lavoro libera sabbia ricca di purezza e magia, pur contenendo ancora messaggi forti e chiari dove luoghi (‘Tenere Taqqal’), fede, appartenenza (i Tuareg hanno vita difficile in Mali), unità (‘Ittus’) ma anche la libertà delle donne (‘Assawt’) sono gettati in pasto alle nostre orecchie occidentali senza troppi filtri, anche se un velo di nostalgia sembra affiorare sempre più frequentemente. Al resto ci pensano l’ipnotico ritmo delle canzoni, un blues costruito su un suono di chitarra unico, un groove circolare, continuo e trascinante, e i cantilenanti testi in lingua madre (Tamasheq) che in concerto diventano pura droga in grado di rapire, stordire. Mandarti al tappeto. Da provare almeno una volta nella vita. Una delle esperienze live più lisergiche a cui ho assistito.

Anche ELWAN (elefanti) è stato registrato tra i deserti californiani di Joshua Tree (Rancho De La Luna), la Francia, e il Marocco, tenendo fede alla loro natura nomade e ancora una volta i tanti ospiti sembrano inghiottiti e calati perfettamente tra i deserti africani. Vi sfido a trovare le tracce di Mark Lanegan, Kurt Vile, Matt Sweeney e Alain Johannes (QOTSA). Felicemente inghiottiti come chi ascolta.






RECENSIONE: SON VOLT-Notes Of Blue (2017)
RECENSIONE:JOHN GARCIA -The Coyote Who Spoke In Tongues (2017)
RECENSIONE: SCOTT H. BIRAM- The Bad Testament (2017)