BLACK JOE LEWIS & the HONEYBREARS Backlash (2017)
A volte alcune copertine ammazzano i dischi prima del tempo. Questa è un killer spietato. Basta passare oltre, perché nelle undici canzoni che costruiscono il quarto disco di Black Joe Lewis con i suoi Honeybears c’è tutto quello che ci aveva già presentato in precedenza, ossia la sua personale miscela dove oltre al contagioso R&B, esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta, in verità maggiormente esplorata con il precedente ELECTRIC SLAVE del 2013: vocalità che a volte sfiora Iggy Pop (ascoltate ‘Freakin’ Out’, ‘Prison’ e la finale ‘Maroon’ che si perde oltretutto nella psichedelia), due chitarre che intrecciano il serpeggiare dei sempre presenti fiati e il personale garage soul carico di groove è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate. Anche se lui ama liquidare il tutto con un semplice: "è solo rock’n’roll". Il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la dimensione ideale sopra ai palchi. Dall'essere "iguana" a "macchina del sesso" come quella guidata dai migliori interpreti soul alla James Brown" (nel funky di ‘Sexual Tension’) il passo è brevissimo e la sua lingua sa essere velenosa sia quando si preoccupa della salute della terra in ‘Global’, quando si prende a cuore la situazione degli afro americani nel soul di ‘Nature’s Natural’, quando invita a suo modo gli ‘Hipster’, figli di papà, a cercarsi un lavoro o come quando sta dalla parte del potere, quello vero: ‘PTP’, ossia Power To Pussy, e qui non c’è bisogno di nessun chiarimento.
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