giovedì 16 marzo 2017

RECENSIONE: MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES (Way Out West)

MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES   Way Out West (Superlatone Records, 2017)






Il giorno che il giovanissimo Marty Stuart, appena dodicenne, approdò a Nashville, città che rappresentava già un sogno predestinato, dovette aspettare ore prima di incontrare colui che lo invitò nella città del country per offrirgli il primo lavoro in campo musicale. In quei momenti di attesa, Stuart non perse troppo tempo e si avventurò, solo, alla scoperta della città. Quello spirito di ricerca gli rimase per tutta la carriera, trovando uno dei suoi culmini quando entrò nella band di Johnny Cash. Marty Stuart con i suoi dischi, le sue memorabilia raccolte in un museo e le sue trasmissioni televisive rimane una delle più fulgide memorie storiche “viventi” della country music che potremmo tradurre in un più semplice ed esaustivo “musica americana”. Adesso che anche i più grandi, uno ad uno, stanno passando a miglior vita, a lui il compito di preservare la forza e la tradizione di certi suoni. Tanto che Johnny Cash nella sua biografia scrisse: “Fra tutti, Dwight Yokam e Marty Stuart sono stati capaci di inserirsi nella tradizione della musica country apportando nuova linfa ma senza snaturare il genere. Non cercano di imitare il soundi di artisti come George Jones e Lafty Frizzell, come invece fanno molti altri”.
In compagnia dei fedeli Fabulous Superlatives (la chitarra di Kenny Vaughan, la batteria di Harry Stinson e il basso di Chris Scruggs) e della produzione di Mike Campbell (Tom Petty and the Heartbreakers) scrive un’accorata lettera d’amore lunga quindici canzoni (suddivise in autografe, strumentali e una cover) al territorio americano dell’Ovest. La terra promessa tanto agognata compresa tra deserti (‘Mojave’) e interminabili autostrade (‘Whole Lotta Highway’), preghiere e invocazioni ai nativi (‘Desert Prayer’), difficili confini (‘Old Mexico’, ‘El Fantasma Del Toro’), tra rutilanti honky tonk (‘Air Mail Special’ di Benny Goodman), rock (la byrdsiana ‘Time Don’t Wait’, ‘Quicksand’), accenni surf e country western cosmici accecati e storditi dal sole dove si può ancora intravedere la sagoma nera di Johnny Cash alle prese con Folsom Prison (‘Way Out west’). Un disco senza tempo, suonato alla grande (che chitarre!), destinato a farsi strada e diventare un piccolo classico di questi tempi ingrati, troppo veloci anche per il cuore e la perfezione qui contenuti.





lunedì 13 marzo 2017

BLACKBERRY SMOKE live@Fabrique, Milano, 11 Marzo 2017


Breve nota (polemica) a margine prima di iniziare: i primi protagonisti, non attesi e fastidiosi, che si palesano davanti al Fabrique di Milano mentre  la gente è in coda all'entrata, sono una manciata di venditori abusivi di biglietti (chiamiamoli ancora bagarini) che  senza ritegno inseguono le persone con fare gradasso, invadono la strada trafficata di macchine al grido di: "vendo, vendo biglietti, sottocosto". Dopo tutte le polemiche di questi ultimi mesi sul secondary ticketing mi sembra che poco sia cambiato. Veramente nessuno può intervenire fuori dal locale e fare qualcosa, spezzando almeno l'ultimo anello della catena per risalire su, fino in cima? Fine
Fortunatamente all'interno del Fabrique l'atmosfera sembra diversa e già riscaldata a dovere. Pubblico delle grandi occasioni e a giovarne è il gruppo di spalla BITERS. Un quartetto di Atlanta poco originale musicalmente, in verità (divertente cercare i rimandi: ad un certo punto sembra spuntare 'You Ain't Seen Nothing Yet' dei BACHMAN TURNER-OVERDRIVE, invece no, era una loro composizione) che pur avendo in scaletta una canzone dal titolo '1975' sembra rifarsi alla scena street glam losangelina di metà anni ottanta e a quella scandinava compresa tra gli Hanoi Rocks e gli Hardcore Superstar piuttosto che a quella più rozza, malata e scollacciata dei  settanta. Presenza, look e una buona dose di divertimento e portano ugualmente a casa la loro serata.

 

Quando cala il telone, raffigurante la copertina dell'ultimo, ottimo  album LIKE AN ARROW, sono le 22:00. Guardo l'orologio: gran puntualità. Ci vorranno però almeno due canzoni (la sacrificate 'Fire In The Hole' e 'Six Ways To Sunday') prima che la band di Atlanta, nuova stella del southern rock americano, riesca a colpirmi. I suoni sono ovattati, il basso di Richard Turner sembra coprire tutto e la voce di Charlie Starr arriva debole e lontana. Fortunatamente tutto si sistema al meglio in gran velocità e già da 'Good One Comin' On' i Blackberry Smoke iniziano quello che, a fine serata, risulterà un concerto straordinario, intenso e vario, in grado di riportare le lancette del tempo indietro fino alla migliore stagione del rock confederato compresa tra i fine anni sessanta e il 1978, con una lacrimuccia che scende pensando ai più recenti Black Crowes dei fratelli Robinson, gruppo al quale i Blackberry Smoke sembrano guardare per cercare di occuparne il posto lasciato libero da un paio d’anni, senza possederne però i tanti fuoriclasse.Sì peché la vera e unica star nei Blackberry Smoke è proprio il cantante e chitarrista Charlie Starr: intorno a lui (completano la formazione il barbuto batterista Brit Turner, il secondo chitarrista Paul Jackson e il tastierista Brandon Still ) una schiera di importanti gregari che fanno squadra, pestando duro di possente hard, giocando con il divertente boogie ('Rock'N'Roll Again',     'Let  It Burn') svolazzando su canzoni ariose, melodiche  e country come 'One Horse Town', e perdendosi in lunghe jam quando necessario, senza mancare di omaggiare 
 il passato, dai Led Zeppelin di 'Your Time Is Gonna Come', ai Little Feat di 'Fat Man In The Bathtub' al reggae di Bob Marley che compare a sorpresa nel lungo finale jammato. 

"Too country for rock too rock for country" cita la scritta sul retro di una t-shirt in vendita al banchetto marchandise. In mezzo ci stanno comodamente i Blackberry Smoke. E come scrissi qualche anno fa dopo il disco della svolta WHIPPOORWILL: per avere il quadro clinico del southern rock odierno, è obbligatorio passare per le strade della Georgia calpestate dai Blackberry Smoke. Sui cartelli stradali leggerete: ancora in salute. Un concerto da ricordare.

 

SETLIST: Fire In The Hole/Six Ways To Sunday/Good One Comin' On/Wish In One Hand/ Waiting For The Thunder/Rock And Roll Again/Let It Burn/Sleeping Dogs/Shakin' Hands With The holy Ghost/The Good Life/Restless/Whippoorwill/Up In Smoke/Lay It All On Me/Ain't Got The Blues/One Horse Town/Like An Arrow/Eden/Fat Man In tHe Bathtub (Little Feat cover)/Ain't Much Left Of Me (with Everythings Gonna be Alright-bob Marley)


RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Like an Arrow (2016)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Leave A Scar (2014)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-The Whippoorwill (2012)

 

venerdì 10 marzo 2017

RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & the HONEYBEARS (Backlash)

BLACK JOE LEWIS  & the HONEYBREARS    Backlash (2017)





A volte alcune copertine ammazzano i dischi prima del tempo. Questa è un killer spietato. Basta passare oltre, perché nelle undici canzoni che costruiscono il quarto disco di Black Joe Lewis con i suoi Honeybears c’è tutto quello che ci aveva già presentato in precedenza, ossia la sua personale miscela dove oltre al contagioso R&B, esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta, in verità maggiormente esplorata con il precedente ELECTRIC SLAVE del 2013: vocalità che a volte sfiora Iggy Pop (ascoltate ‘Freakin’ Out’, ‘Prison’ e la finale ‘Maroon’ che si perde oltretutto nella psichedelia), due chitarre che intrecciano il serpeggiare dei sempre presenti fiati e il personale garage soul carico di groove è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate. Anche se lui ama liquidare il tutto con un semplice: "è solo rock’n’roll". Il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la dimensione ideale sopra ai palchi. Dall'essere "iguana" a "macchina del sesso" come quella guidata dai migliori interpreti soul alla James Brown" (nel funky di ‘Sexual Tension’) il passo è brevissimo e la sua lingua sa essere velenosa sia quando si preoccupa della salute della terra in ‘Global’, quando si prende a cuore la situazione degli afro americani nel soul di ‘Nature’s Natural’, quando invita a suo modo gli ‘Hipster’, figli di papà, a cercarsi un lavoro o come quando sta dalla parte del potere, quello vero: ‘PTP’, ossia Power To Pussy, e qui non c’è bisogno di nessun chiarimento.






martedì 7 marzo 2017

It's Just Another Town Along The Road, tappa 3: PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS (Hangin' On A Wire)

PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS  Hangin' On A Wire (2016)

Questa terza tappa del mio viaggio tra l'Italia musicale con l'accento internazionale si ferma a Torino. Con un po' di fortuna, girando per i locali cittadini che hanno il coraggio di non mettere tribute band in cartellone, potrete imbattervi in Paolo Ambrosioni e i suoi Bi-Folkers: ossia Davide Trombini alle chitarre e mandolino e Roberto Necco alle chitarre e banjo. Già dalla formazione (a cui si aggiungono comunque tanti ospiti tra cui Renato Tammi e Thomas Guiducci nella finale Folk'N' Roll) si può capire a cosa va incontro la musica di Ambrosioni: un country folk ragionato, intimo, introspettivo, mai sopra le righe, dominato da strumenti a corda, dove si mette in mostra la buona
capacità di cucire i vecchi songwriters americani, l'old time roots con la nuova ondata di bluegrass band provenienti dagli Stati Uniti. Con un po' di attenzione però, leggendo tra le righe dei testi, c'è un aspetto che salta subito in primo piano, rendendo HANGIN' ON A WIRE, il secondo disco dopo NO PLACE TO HIDE uscito nel 2014, unico e interessante: il vissuto del suo autore. Non c'è finzione tra i solchi di queste dieci canzoni, niente viene raccontato per sentito dire, non c'è lo scopiazzamento di prose altrui o lo scimmiottamento di qualche idolo a stelle e strisce: sia quando prende spunto dal suo lavoro di assistente sociale in  Social Worker Blues, quando denuncia vigliacchi soprusi (Nothing Will Change), quando mette in musica esperienze personali legate alla musica (Share The Same), quando apre il cuore a situazioni più intime e private come l'omaggio al piccolo figlio in Shine, ma più in generale, come suggerisce il titolo dell'album, nelle sue canzoni riesce a dare voce alle persone deboli e indifese, tutte quelle che vivono nell'ombra con l'esistenza appesa ad un sottilissimo filo a cui basta veramente poco per spezzarsi senza ritorno. E per chi ha fatto anche solo un anno di servizio civile come me, queste canzoni sono indispensabili e un chiaro segno di rinnovata fiducia verso la razza umana. It's a brand new light.



In viaggio con Paolo Ambrosioni

1)I km nel tuo disco. IL viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Viaggiare è una delle mie più grandi passioni, ho avuto la fortuna e la possibilità di viaggiare molto, un po’ meno da quando è nato mio figlio, ma cercheremo di recuperare. Le canzoni del disco risentono in parte della mia attività lavorativa di assistente sociale ove ho cercato di dare voce a persone con le loro storie ma anche di situazioni/ricordi legate a dei viaggi, per cui direi sì, il viaggio ha in parte contribuito nella fase di scrittura dei pezzi. Credo comunque che, oltre al viaggio in sé, una delle parti più belle sia la fase di “preparazione” del viaggio stesso e scrivendo canzoni si viaggia con la mente e con la fantasia, si immaginano e scrivono storie
2)Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Al momento abbiamo suonato prevalentemente nel nord-ovest tra Piemonte, Liguria e Lombardia con qualche puntata in Romagna (Glory Days in Rimini). Speriamo di poter espandere il nostro “territorio” nel prossimo futuro. Gli aspetti positivi sono legati anche semplicemente al fatto stesso di poter viaggiare, vedere posti nuovi ed incontrare altre persone (per me la musica è comunione e condivisione, di emozioni e di buone vibrazioni), riuscire a presentare le mie canzoni ad un numero sempre maggiore di ascoltatori. Capita spesso di suonare fuori Torino in locali pieni o quasi e di percepire l'attenzione e l'ascolto della nostra musica. E' molto emozionante e gratificante ma anche responsabilizzante, nel senso positivo del termine. Gli aspetti negativi sono più relativi alla fatica logistica, di tempo, di conciliare i lavori (e le relative famiglie) di ognuno con la musica, di suonare in posti dove c’è poca accoglienza, pochissima attrezzatura o dove si aspettano che la promozione la faccia solo il musicista che deve portare gente. Questo capita più nella città dove vivo, Torino, che fuori. Ci piace tornare quindi nei posti dove c’è una buona accoglienza umana e rispettosa, dove c'è calore, ove il pubblico è abituato ad una programmazione musicale di un certo tipo e dove possano esibirsi artisti con una propria proposta musicale e non esclusivamente tributi; dove il cachet, sebbene magari ridotto, viene regolarmente versato, segno di rispetto e chiarezza
3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Nato a Milano, cresciuto a Torino, origine maremmane. Vivo da 30 anni a Torino per cui mi piace avere radici ma con la possibilità di poter un po’ vagabondare.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Un qualsiasi concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band negli anni ’70, per poter poi esserci a sentire il concerto loro. Avrei voluto assistere a qualsiasi concerto nel Mississippi negli anni '20 o '30 del secolo scorso. Tutto ha avuto origine da lì alla fine. Tra vent’anni avrò 64 anni e spero di non essere così lontano dalla pensione (facciamo finta di crederci…) per poter avere più tempo a disposizione da dedicare alla musica. Tra vent’anni spero di essere capace a suonare meglio la chitarra e magari riuscire ad accompagnarmi in qualche pezzo al piano.
5)La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
This Hard Land - Bruce Springsteen, Wagon Wheel - Old Crow Medicine Show




IT'S JUST ANOTHER TOWN ALONG THE ROAD tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNAN:DEZ & SAMPEDRO
tappa2: LUCA MILANI

lunedì 6 marzo 2017

RECENSIONE: DANKO JONES (Wild Cat)

DANKO JONES   Wild Cat  (AFM, 2017)




Se fossi donna potrei dire che Danko Jones non mi fa più bagnare come ai tempi di BORN A LION (2002). Quel garage blues vizioso e scollacciato-che faceva già pensare ad un nuovo John Spencer Blues Explosion- è stato via via coperto, disco dopo disco, da un hard'n'heavy rock molto più potente ma anche più prevedibile e scontato, portato avanti con quel pilota automatico di nome mestiere. Eppure il canadese (con John “JC” Calabrese e Rich Knox in formazione e Eric Ratz alla produzione) continua a rimanere quell'irriverente figlio di buona donna con la giusta attitudine, l’urgenza e la sfrontatezza di chi suona vero rock’n’roll senza inutili orpelli, con basso, batteria e chitarra come se non ci fossero altri giorni dopo questo. In studio come nei live. Gli stereotipi del rock’n’roll che piacciono tanto sono tutti presenti (è la sua forza), nei titoli, nei testi, nei chorus, nella forma, ma dopo vent’anni e otto dischi, Danko Jones rimane uno dei venditori più credibili in materia, sia quando ritorna al blues abrasivo (‘Revolution’), strizza l’occhio al punk più melodico (‘Diamond Lady’), si veste da quindo Kiss (‘My Little RnR’) o riga dritto per le strade aperte dall’amico Lemmy (‘Let’s Start dancing’). Il tutto con il chiodo fisso del sesso sempre ben piantato in testa. Poi ti piazza una canzone come ‘You Are My Woman’, un dichiarato omaggio ai Thin Lizzy di Phil Lynott, e allora, sotto sotto, proprio lì, vorresti essere veramente donna. C'è ancora la vecchia formula: Watt, sudore e "gnocca" (a volte con eccesso maniacale di machismo, ma con tutto il rispetto possibile) sono ancora ingredienti basilari per divertirsi senza dare o chiedere troppo in più. Basta saperlo. Divertimento comunque, e sempre, assicurato in un disco che fila liscio dall'inizio alla fine senza rallentamenti.





mercoledì 1 marzo 2017

RECENSIONE: SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES (The Fever, The Remastered Epic Recordings)

SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES    The Fever, The Remastered Epic Recordings (Real Gone Music/Epic Records, 2017)




“Southside Johnny veniva da Ocean Grove, una cittadina vicino ad Asbury Park fondata nell’ottocento dai metodisti. Era il re del blues nell’area, il che spiega il soprannpome Southside. Cripto-intellettuale suscettibile e bisbetico, era un uomo profondo con qualche rotella fuori posto, ma conosceva vita, morte e miracoli di tutti gli artisti blues e soul. La sua famiglia aveva una straordinaria collezione di dischi, grazie alla quale era diventato un luminare della musica.” Così Bruce Springsteen presenta Southside Johnny nelle pagine del’autobiografia Born To Run.
Nulla di nuovo (o quasi) lungo le strade del New Jersey  ma aspettavo questi dischi rimasterizzati in cd da molto tempo. Il meglio dei primi anni di mister John Lyon spalmato in due cd (40 canzoni, 160 minuti e libretto di venti pagine con note, aneddoti e commenti dello stesso Southside Johnny e di Chris Morris) comprendenti i primi tre album usciti per la Epic Records: l’esordio fulminante I DON’T WANT TO GO HOME (1976), il secondo THIS TIME IT’S FOR THE REAL (1977) pieno di mitici gruppi doo-wop ospiti e HEARTS OF STONE (1978) tanto acclamato dalla critica ma bocciato dalle vendite (dopo questo disco passerà alla Mercury), più, per la prima volta in CD, il live promozionale JUKES LIVE AT THE BOTTOM LINE, registrato a New York nell’Ottobre del 1976 e il singolo ‘Havin’ A Party’ uscito nel 1977.
Autentica leggenda del Jersey Shore Sound svezzato a pane e Sam & Dave, cresciuto tra le assi dello Stony Pony e dell’Upstage, inutile raccontarvi della bilanciata presenza di cover e canzoni scritte appositamente per gli album, della massiccio peso degli amici di vecchia data Miami Steve Van Zandt come produttore e autore, di Bruce Springsteen autore di ‘The Fever’, ‘You Mean So Much To Me’ (con Ronnie Spector ospite), ‘Hearts Of Stone’, ‘Talk To Me’, dei fedeli e numerosi Asbury Jukes con la possente sezione fiati guidata da Richie "La Bamba" Rosenberg e dei tanti ospiti come Lee Dorsey, The Coasters, The Five Satins, The Drifters. Qui dentro c’è tanto da ascoltare e tanto per muoversi. Stop.
“Southside Johnny…una delle persone più strane che abbia mai incontrato. Si vestiva come il mio vecchio. La prima volta che lo vidi suonava il basso per una vecchia leggenda di Asbury chiamata Sonny Kenn. Johnny era terribile. Era una di quelle persone che non potevano suonare il basso. Ma poteva cantare e suonare l’armonica, in più conosceva molto bene il blues.” Così Bruce Springsteen, da sempre il miglior sponsor, racconta il suo primo incontro con Southside Johnny, nelle note originali che accompagnavano I DON’T WANT TO GO HOME del 1976, riportate integralmente nel libretto.
Ed è come trovarsi dentro a un piccolo club dall'insegna esterna tanto luminosa e sgargiante quanto buio e fumoso all'interno, affollato di gente festante, con il calore e il sudore che diventano un tutt'uno sotto la voce calda e avvolgente di Southside e l’irresistibile miscuglio tra Soul, R&B di casa Motown/Stax e ruspante Rock'n'Roll urbano che gli Asbury Jukes portavano in giro, con pochi eguali, in quegli anni settanta. E pure oggi, mentre l’amico continua a riempire stadi, fa cantare chiunque sopra al palco e si concede ai selfie, Southside Johnny continua a bazzicare locali fumosi dei circuiti minori, tergendosi i il sudore sotto gli immancabili occhiali come una volta, forte anche di una vena creativa da studio per nulla scalfita visto lo splendido ultimo album, SOULTIME!, uscito nel 2015, degno di stare accanto a questa tripletta d’esordio.




lunedì 27 febbraio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 30: RITMO TRIBALE (Bahamas)

RITMO TRIBALE   Bahamas  ( Edel Records, 1999)







Il sole, le spiagge e la tranquillità delle isole Bahamas stridono nel pensare alla musica dei vecchi Ritmo Tribale, ma si adattanno bene alle soluzioni musicali di questo disco, l'ultimo capitolo (se si esclude la raccolta del 2007) del gruppo milanese. Le Bahamas: le isole felici, lontane e mai viste, che ognuno di noi conserva da qualche parte dentro alla propria testa. Il posto dove si vorrebbe fuggire quando si è nei guai. E per un gruppo che aveva appena perso il proprio carismatico frontman, i guai erano dietro l’angolo. Cosa fare? Continuare? Cambiare nome? Cambiare musica? “Siamo l’unico gruppo distrutto dalla droga che non è diventato famoso per questo. In genere i gruppi, quando c’è quello che si fa perché pippa, perché beve, diventa famoso. Noi no. Noi ci siamo solo distrutti! Avevamo litigato con tutti, avevamo scazzato con la casa discografica anche se avevamo trovato un contratto con la Edel che non era niente male. Facemmo un disco completamente di rottura, musicalmente, con ciò che eravamo prima. Fare un disco in cui scimmiottavamo i Ritmo Tribale con Edda sarebbe stato assurdo. Uscimmo con un disco secondo noi molto bello però molto introspettivo, intimo e diversissimo dagli altri mentre venne promosso come se fossimo ancora quelli di MANTRA.” Così Andrea Scaglia sulle pagine di UOMINI, il libro di Elisa Russo, uscito nel 2014, che racconta la storia dei Ritmo Tribale. Suoni fluidi, elettronica, loop e campionamenti che si incastrano alla perfezione con i tradizionali strumenti rock e Andrea Scaglia, nuovo cerimoniere dopo l'uscita dell'istrionico e (quasi) insostituibile Edda, sono i tratti fondamentali di questo lavoro. Uscito nel 1999 dopo PSYCORSONICA (1995), ultimo lavoro con Edda che di fatto rappresenta la chiusura di una prima parte di carriera di uno dei gruppi basilari del rock italiano a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Il gruppo cambia pelle, mantenendo inalterate coerenza e spirito. Bahamas doveva essere un nuovo inizio ma si tramutò anche nel disco di addio. Il punto a capo. Con il nuovo ritorno ancora adesso seguito da un grande punto interrogativo. Proprio per questo rimane un'opera preziosa, unica e purtroppo poco capita, sottovalutata, soprattutto da chi pensava che i Ritmo Tribale senza Edda, non avessero ragione d'esistere. La smentita è un disco che oggi, a diciotto anni dall’ uscita, suona ancora fresco, guadagnando i classici punti alla distanza. Devo ammettere che fu dura entrare nella nuova strada intrapresa dai Ritmo Tribale.
La rivalutazione avvenne per gradi, con canzoni fluide, dai testi quasi ermetici, che ti giravano attorno, ti scrutavano e poi ti penetravano. Registrato in gran parte lontano dagli storici studi Jungle Sound, loro casa naturale, i cinque tribali abbandonano la quotidianità metropolitana per tuffarsi e rifugiarsi nella tranquillità delle campagne romagnole del "castello" di Pieve Salutare, una frazione di Castrocaro Terme, in provincia di Forlì. A beneficiarne sono dieci canzoni compatte, unitarie, collegate tra loro dai testi quasi visionari di Scaglia, anche produttore dell'intero lavoro. Se i contatti con il rock del passato si possono scorgere in alcune tracce come ‘Meno Nove’ o la bonus track ‘Cuore Nero’, il resto viaggia tra partiture liquide e psichedeliche con le chitarre di Andrea Scaglia e Fabrizioo Rioda impegnate a tessere intrecci sfuggenti e la base ritmica composta da Andrea Briegel Filipazzi e Alex Marcheschi sempre pulsante e vivace. Un disco d'impronta quasi progressive che amalgama anche i nuovi suoni elettronici del trip-hop con il rock (grande lavoro del tastierista Luca Talia Accardi), giocando con i testi mai banali o scontati ma aperti a qualunque interpretazione. Esempi del nuovo corso sono le bellissime ‘Il Centro’, ‘Lumina’, ‘Diamante’, il singolo ‘2000’ che apre il disco, ‘Musica’, e la title track che chiude con tanto di violino e moog. Se questo doveva essere l'ultimo disco a nome Ritmo Tribale, mai commiato fu migliore. Poi: undici anni dopo, il cerchio chiuso (riaperto momentaneamente per la reunion live del 2007) si riaprirà totalmente sotto nome NO GURU. E oggi, anno 2017?
L'appuntamento è per Venerdì 24 Aprile 2017 al Pub Centrale Rock di Erba (Como) , per un unico concerto di reunion , proprio con la formazione di Bahamas, disco che verrà suonato per intero.






DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

mercoledì 22 febbraio 2017

RECENSIONE: TINARIWEN (Elwan)

 TINARIWEN  Elwan (Wedge Records, 2017)







Chi è stato almeno per una volta nell' Africa sahariana e ha avuto modo di percorrere alcune strade lontane dai centri turistici, ha trovato un mondo al rallentatore, fatto di persone che camminano, apparentemente senza meta, lungo infinite strade polverose e altre, ferme a gruppetti ai bordi di queste strade ad aspettare non si sa chi o cosa. Qualcosa di inconcepibile nella nostra assurda frenesia giornaliera. È qui che pensi : "a volte ci sarebbe bisogno di un lungo passo indietro". E di passi indietro, i Tinariwen continuano a farne, tanto che, per assurdo, sembrano essere ancora una volta lì, davanti a tutti, a tirare la fila, come appare chiaro nello splendido scatto di copertina.
La musica della band, originaria del Mali, non è più la sorpresa di alcuni dischi fa (di quando venivano chiamati guerriglieri con le chitarre), eppure l’ascolto di ogni nuovo lavoro libera sabbia ricca di purezza e magia, pur contenendo ancora messaggi forti e chiari dove luoghi (‘Tenere Taqqal’), fede, appartenenza (i Tuareg hanno vita difficile in Mali), unità (‘Ittus’) ma anche la libertà delle donne (‘Assawt’) sono gettati in pasto alle nostre orecchie occidentali senza troppi filtri, anche se un velo di nostalgia sembra affiorare sempre più frequentemente. Al resto ci pensano l’ipnotico ritmo delle canzoni, un blues costruito su un suono di chitarra unico, un groove circolare, continuo e trascinante, e i cantilenanti testi in lingua madre (Tamasheq) che in concerto diventano pura droga in grado di rapire, stordire. Mandarti al tappeto. Da provare almeno una volta nella vita. Una delle esperienze live più lisergiche a cui ho assistito.

Anche ELWAN (elefanti) è stato registrato tra i deserti californiani di Joshua Tree (Rancho De La Luna), la Francia, e il Marocco, tenendo fede alla loro natura nomade e ancora una volta i tanti ospiti sembrano inghiottiti e calati perfettamente tra i deserti africani. Vi sfido a trovare le tracce di Mark Lanegan, Kurt Vile, Matt Sweeney e Alain Johannes (QOTSA). Felicemente inghiottiti come chi ascolta.






RECENSIONE: SON VOLT-Notes Of Blue (2017)
RECENSIONE:JOHN GARCIA -The Coyote Who Spoke In Tongues (2017)
RECENSIONE: SCOTT H. BIRAM- The Bad Testament (2017)


 

venerdì 17 febbraio 2017

RECENSIONE: SON VOLT (Notes Of Blue)

SON VOLT  Notes Of Blue (2017)





Due strade ben distinte. Quando gli Uncle Tupelo hanno cessato di esistere-era il 1994- dopo una breve ma intensa carriera, è scomparsa una grande band ma magicamente ne sono apparse altre due, altrettanto grandi. Pure differenti, proprio come lo erano i caratteri e gli istinti musicali di Jeff Tweedy e Jay Farrar, due che insieme facevano faville ma anche scintille e qualche volta pure a cazzotti. Se i Wilco di Tweedy hanno continuato nella personalissima crescita, puntando sempre in direzioni diverse, sfaccettate e sperimentali (solo ultimamente le uscite discografiche paiono un po’ stanche e in ribasso, contrariamente ai live: sempre eccelsi), i Son Volt di Farrar hanno sempre mantenuto i piedi saldi nella tradizione americana, meno avventurosa, e NOTES OF BLUE, il ritorno dopo quattro anni di assenza (l’ultimo album fu HONKY TONK del 2013), non tradisce in tal senso. Un equo bilanciamento tra la parte country folk più sognante e melodica che mette in mostra la riconoscibile voce e l’istinto da songwriter di Farrar, in perenne rincorsa verso l'amato Neil Young (‘Promise The World’ guidata dalla pedal steel,’The Storm’,’Cairo And Southern’) e quella più diretta, rock e corrosiva con le chitarre ben piantate davanti in prima linea (‘Static’, ‘Lost Souls’) con una bilancia, che questa volta, si abbassa più frequentemente verso il lato blues inseguendo Mississippi Fred McDowell e Skip James (“lo spirito del blues, ma non il blues standard che conosce la maggior parte della gente” dice Farrar) come l’oscura e tenebrosa ‘Midnight’, la battente ‘Sinking Down’ e lo stomp incalzante di ‘Cherokee St.’. Solo mezz’ora, immersa nei nostri duri tempi bui, ma che vale la pena di essere vissuta. Anche più di una volta.



mercoledì 15 febbraio 2017

RECENSIONE: JOHN GARCIA (The Coyote Who Spoke In Tongues)

JOHN GARCIA- The Coyote Who Spoke In Tongues (Napalm Records, 2017)







Il ritorno di John Garcia con il secondo album solista THE COYOTE WHO SPOKE IN TONGUES più che ricordare i cingoli di un carro armato poggiati sulle quelle sabbie scaldate dal sole cocente nei deserti di Palm Springs, pare nascere a tarda notte quando c’è bisogno di un fuoco a scaldare e di una chitarra a far compagnia, con i volumi bassi per non disturbare troppo i coyote assonnati della zona. A proposito del titolo, in una recente intervista al sito echoessundust.com, dice: “è una sorta di ode al posto da cui vengo. Vivo ancora nel bel mezzo del deserto, e ho tutti questi animali intorno a me. Sin da quando l'ultimo disco dei Kyuss è stato registrato , ognuno dei miei dischi ha avuto una specie di animale in copertina. Io sono un veterinario di giorno e un musicista da notte – così come un padre e un marito! Il titolo è davvero un'ode ai miei posti, sono orgoglioso di vivere ancora del deserto”.
Un disco acustico, ma le pennate sono ben decise e pesanti, che l’ex cantante dei Kyuss (ma anche Unida, Slo Burn, Hermano, Vista Chino) covava da parecchio tempo: l’impalcatura la fanno le vecchie canzoni dei Kyuss, smontate dei cingoli, addomesticate e rimodellate coraggiosamente in chiave acustica (‘Green Machine’, ‘Space Cadet’, ‘Gardenia’, ‘El Rodeo’), mentre alle nuove composizioni (la più energica del disco ‘Kylie’ che apre, 'The Hollingsworth Session’, ‘Argleben II’, la strumentale ‘Court Order’ che chiude il disco) spetta il compito di segnalarci lo stato di salute del cantante. Direi stabile, tendente al buono. Garcia è aiutato dalla chitarra del fedele Ehren Groban (War Drum), dal bassista Mike Pygmie (Mondo Generator, You Know Who) e dal percussionista Greg Saenz (The Dwarves, You Know Who), e il disco pur costruito solo per i fan duri e puri di vecchia data, potrebbe servire a far conoscere l’iconico cantante (47 anni) del movimento stoner a un pubblico poco avvezzo a amplificatori tarati a mille e lunghe jam session tra la sabbia. Il disco è figlio diretto dei tour acustici fatti recentemente, e a detta dell’ autore è stato uno dei più importanti e difficili da portare a termine di tutta la sua carriera. Intanto, pare aver rimesso in moto i Slo Burn per un nuovo tour. I coyote sono avvisati.












lunedì 13 febbraio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 29: STEPHEN STILLS

STEPHEN STILLS   Stephen Stills (1970)



Quando uscì il suo primo album solista, Stephen Stills aveva venticinque anni e i suoi credits erano già impressi in almeno un poker di dischi che entreranno nella storia del rock americano: con i BUFFALO SPRINGFIELD (è sua la hit del gruppo ‘For What It’s Worth’), con CROSBY & NASH (il primo con divano in copertina e il secondo DEJA VU con YOUNG) e con SUPER SESSION insieme a Al Kooper e Mike Bloonfield.
Febbraio/Marzo 1970: Crosby, Stills, Nash e Young stanno per uscire con il nuovo disco quando Stills decide di passare un mese in Inghilterra in cerca di nuove esperienze. Forti esperienze. Stills ritornerà da Londra con due pesanti valige in mano: una piena di importanti scambi musicali che saranno la colonna portante del disco solista che uscirà a Novembre, l’altra piena di cocaina, altrettanto pesante e abbastanza decisiva per rovinare alcuni rapporti umani e artistici.
“Stephen tornò dall’Inghilterra con il pretesto di cantare AFTER THE GOLDRUSH, ma anche per rientrare all’ovile. Vivere all’estero lo aveva proprio scombinato. Aveva jammato con Jimi Hendrix ed Eric Clapton. Aveva suonato nel singolo di Ringo Starr ‘It don’t come easy’. E aveva partecipato a venticinque session in ventisette giorni, lavorando al suo disco, in cui aveva suonato un’incredibile varietà di strumenti. Per cui, il suo ego era grande come Urano. Stava portando al limite la sua follia per la cocaina.” Scrive NASH nella sua autobiografia.
Nonostante Stills avesse messo le mani su numerosi strumenti, scorrere la lista degli ospiti è estremamente gratificante: dai già citati Jimi Hendrix che suona la chitarra, ma ci si aspettava qualcosa in più, nell’incalzante e incendiaria ‘Old Times Good Times’ che comunque saldava una vera amicizia ("una volta abbiamo jammato per cinque giorni di fila, una lunga maratona nella mia casa sulla spiaggia a Malibu. Lo sceriffo sentì il suono delle nostre chitarre. Quando ci trovò ci chiese se poteva parcheggiare la macchina della polizia appena fuori casa mia in modo potesse sentire le chiamate dalla radio. Ci disse di non preoccuparci, era lì solamente per ascoltare noi") e Eric Clapton nel blues elettrico ‘Go Back Home’ (forse la migliore), a Ringo Starr nascosto dietro al semplice nomignolo Richie, fino ai compari David Crosby e Graham Nash, e poi ancora John Sebastian, Booker T Jones, Mama Cass Elliot, Dallas Taylor.
Partendo da ‘Love The One You’re With’, ispirata da una conversazione con Billy Preston avvenuta a Londra, e che diventerà un punto forte della sua carriera e di CSN (nel live FOUR WAY STREET) nonché il primo passo verso i ritmi latini che troveranno libero sfogo nella mossa successiva a nome MANASSAS, al folk ‘Do For The Others’ in cui fa tutto da solo, il blues acustico di ‘Black Queen’ dove sale in cattedra la sua tecnica fingerpicking, il flauto jazzato in ‘Cherokee’, il R&B che si sfoga nel gospel in ‘Church’, l’orchestrale ondeggiamento di ‘To A Flame’, l’epicità finale di ‘We Are Not Helpless’. Nessuna sbavatura in queste dieci canzoni in grado di mostrare la colorata varietà compositiva del suo autore, in bilico tra malinconia e forte passionalità. Stills non raggiungerà mai più queste vette compositive se non in modo sporadico nel secondo disco che uscirà un anno dopo, con il primo Manassas del 1972, in alcuni episodi con Neil Young in LONG MAY YOU RUN e in canzoni sparse in altri progetti, non ultimi i RIDES. Ma cito anche il bello e sottovalutato MAN ALIVE! del 2005 che ha negli undici minuti di 'Spanish Suite' il colpo del fuoriclasse.
18 Settembre 1970: muore Jimi Hendrix. Stills farà in tempo a dedicare il disco all’amico con questa nota inclusa nei credits: “dedicated to James Marshall Hendrix”.





martedì 7 febbraio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 28: JUNKYARD (Junkyard)

JUNKYARD   Junkyard (1989)





Il grunge doveva ancora esplodere e per gruppi come i Junkyard la strada era ancora lunga e libera. Così sembrava. Nati a Los Angeles ma dall’incontro di due texani, il cantante David Roach e il chitarrista Chris Gates (ex Big Boys), il debutto, prodotto da Tom Werman (Cheap Trick, Ted Nugent, Motley Crue, Molly Hatchet) arriva con forza grazie alla firma con la Geffen Records che nello stesso periodo mise sotto contratto anche i Guns N' Roses, con più fortuna commerciale. I Junkyard non hanno le canzoni di Axl Rose e soci (anche se il singolo ’Hollywood’ potrebbe essere la loro ‘Welcome To The Jungle’) ma possono guardare tutti dall’alto in basso grazie ad un’attitudine rock’n’roll giusta che non si piega a nessun compromesso musicale ed estetico: hard rock, sleaze, southern blues (‘Texas’ parla chiaro in puro ZZ Top style) e punk nati e vissuti pericolosamente sulla strada. “Non siamo di quei gruppi che pensano a produrre roba buona solo per andare sul mercato e per fare soldi. Ci viene da dentro, ti viene spontaneo e hai bisogno di fare musica come di mangiare e bere”. Raccontò David Roach all'epoca. La prima traccia, l’alcolica ‘Blooze’, viaggia veloce e selvaggia sulle coordinate dettate dal chitarrista Brian Baker, un ex di lusso con il passato nel punk (Minor Threat e Dag Nasty) e il futuro pure (Bad Religion). David Roach è un cantante spigoloso con l’ugola che graffia sia nel boogie rock’n’roll ‘Hot Rod’ che nella veloce ‘Life sentence’ dal riff spaccaossa. Da menzionare gli ospiti di tutto riguardo: EarlSlick, chitarrista di David Bowie che lascia le sue impronte slide nella southern ballad ‘Simple Man’ (non quella dei Lynyrd Skyrd ma la strada è la stessa) e nel blues ‘Long way Home’, Al Kooper al pianoforte e Hammond nella finale ‘Hands Off’ e Duane Roland dei Molly Hatchet in ‘Shot In The Dark’. Dopo questo debutto seguiranno tour importanti con Dangerous Toys e gli allora sconosciuti Black Crowes che apriranno per loro, e un secondo, meglio prodotto e più maturo disco SIXES, SEVENS AND NINES (1991) in cui compare pure Steve Earle. Poi…poi i tempi cambieranno veramente e il terzo disco in preparazione non vedrà mai la luce. I Junkyard si riformeranno negli anni 2000 per arrivare fino ai nostri giorni.





mercoledì 1 febbraio 2017

It's Just Another Town Along The Road, tappa 2: LUCA MILANI & THE GLORIOUS HOMELESS (Fireworks For Lonely Hearts)

La seconda puntata di IT'S JUST ANOTHER TOWN ALONG THE ROAD fa tappa a Milano. Di seguito una breve introduzione al disco e le risposte di Luca Milani ad alcune domande orbitanti intorno al pianeta viaggio, di cui il disco è un buon satellite.



LUCA MILANI & THE GLORIOUS HOMELESS-Fireworks For Lonely Hearts (Hellm Records/IRD, 2016)





Il 2016 è stato un anno ricco di meritati riconoscimenti per Luca Milani. In estate, davanti al numeroso pubblico di The White Buffalo, presentò alcuni brani del disco in uscita, il quarto dopo l'EP SCARS AND TATTOO (2009), SIN TRAIN (2011) e LOST FOR ROCK AND ROLL (2011), e subito si era capito d'essere difronte a un album dall'anima rock e notturna, dove fughe, viaggi, eroi, città bagnate dalla pioggia, cuori spezzati e speranza trovavano una via comune nell'urgenza compositiva, anche quando a prendere la scena sono toste ballate come 'Heroes Have Gone'. In conclusione dell'anno (sempre il 2016) c'è stata la quasi unanime consacrazione in quelle classifiche che tutti odiano, tutti fanno, ma che alla fine finiscono per dare indicazioni importanti. Mi aggiungo in colpevole ritardo, FIREWORKS FOR LONELY HEARTS lo merita.
Nove canzoni che confermano quanto il rocker milanese sia ormai un esponente di punta di quella scena italiana con eliche e ali puntate verso il rock a stelle e strisce. E qui dentro il rock potrete trovarlo  in quasi tutte le sue forme anche grazie all'apporto determinante dei GLORIOUS HOMELESS che lo accompagnano: Giacomo Comincini (batteria), Enrico Fossati (basso), Federico Olivares (chitarre), Riccardo Maccabruni (piano, hammonmd).
Dall'amato grunge dei novanta da cui eredita chitarre e cantato ('The Best In Town'), dal punk californiano caro a Mike Ness e imbottito di mitologia rock'n'roll ('Buddy's Plane'), al rock tout court di 'The Road' con il suo riff alla 'All Along The Watchtower' e della più orecchiabile 'Jukebox' che sembra essere la canzone che a Brian Fallon e i suoi  Gaslight Anthem non riesce più da qualche tempo, fino al country rock  di 'Dead Eyes' e  arrivare al folk solitario di 'Every Goodnight Is A Goodbye' rivestito di quel poco che basta (chitarra acustica, pianoforte e armonica) per accompagnarci verso le ore più scure e silenziose. Non manca nulla. FIREWORKS FOR LONELY HEARTS ha il pregevole merito di dare tutto nello spazio di quaranta minuti. La durata giusta dei dischi giusti. Un botto fulmineo che lascia a bocca aperta proprio come ha fatto il malinconico e notturno incedere della title track quando l'ho ascoltata per la prima volta. La mia preferita.



In viaggio con Luca Milani

1) I km nel tuo disco. IL viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Alcune canzoni di Fireworks hanno iniziato a prendere forma mentre macinavo km per il tour di "Lost for rock'n'roll". Il viaggio e la strada a volte possono rappresentare un addio, un ritorno, una speranza andando verso una nuova meta o un fallimento tornando verso casa dopo aver perso "una guerra", tutte cose presenti nelle mie canzoni. Senza dimenticare il viaggio più importante, quello attraverso il tempo, le varie stagioni della vita, gli incontri e gli addii, guardando avanti ma restando perennemente perso in qualche lontana notte d'estate dove si era così illusi da poter pensare di poter esistere per sempre, quella canzone nel jukebox non si è mai fermata.
2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Sicuramente tra gli aspetti positivi c'è il fatto di poter conoscere gente sempre diversa e il fatto di poter suonare e cioè fare la cosa che ti riesce meglio potendo essere te stesso nell'unico posto dove hai veramente senso, il palco. Il lato negativo è il fine serata, quando si spengono le luci e torni ad essere uno "fuori posto" nel mondo. Ci sono alcuni posti dove torno o tornerei volentieri ma spesso quando fissano programmazione del locale non stanno a guardare se tu hai fatto un bel disco ma si basano su quanto sei loro "amico", quanti favori devono restituire, quanto sei "simpatico" ecc.. e io non sono "simpatico" Un posto dove sono quasi di casa è Spaziomusica a Pavia.
3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Entrambe le cose, il mio problema è che sono un vagabondo molto ossessionato dal passato... Non ho ancora trovato l'interruttore del famoso jukebox e la canzone continua a girare.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Avrei voluto suonare con i Nirvana per poter parlare con Kurt Cobain... Ma di base mi sarebbe piaciuto aprire per molti dei gruppi provenienti da Seattle nei primi anni 90. Come mi vedo tra vent'anni? Non ne ho idea, forse cerco di non pensarci... Ecco mi hai fatto salire la depressione.
5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
"Hunger Strike" (Temple of the dog)





IT'S JUST ANOTHER TOWN ALONG THE ROAD tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNANDEZ & SAMPEDRO

RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock'n'Roll (2013)

lunedì 23 gennaio 2017

RECENSIONE: SCOTT H. BIRAM (The Bad Testament)

SCOTT H. BIRAM    The Bad Testament (Bloodshot Records, 2017)






Se il successo di un musicista si misurasse dal numero di ossa rotte in vita, il quarantaduenne Scott H. Biram sarebbe in cima alle classifiche. Sfortunatamente per le sue tasche sdrucite non è così, e il texano continua ad incidere dischi (questo è il decimo), con fierezza e rara passione, camminando e talvolta correndo troppo con il suo vecchio Ranchero 65 lungo quella linea zigzagante, poco trafficata ma pericolosa, che divide il bene dal male, il sacro dal profano, la redenzione dal peccato, e dove country, blues, punk e metal viaggiano allineati in contemporanea lungo le sei corde delle sue vecchie chitarre. Ossa spezzate in episodi marginali alla vita artistica ma capaci di inquadrare il personaggio: prima l’incidente stradale in Texas nel 2003 che gli lasciò intatto un arto su quattro ma non gli impedì, un paio di mesi dopo, di salire sul palco in sedia a rotelle con una flebo al seguito, poi in Francia nel 2009, quando scivolò nei pressi di una pompa di benzina. Cicatrici e protesi al titanio lo tengono unito. Uno scavezzacollo sporco e genuino, “ho imparato a sputare e menar pugni prima di imbracciare una chitarra”, che in giovane età, prima di essere conquistato dal blues (Doc Watson e ‘Vol.4’ dei Black Sabbath tra i suoi preferiti) e poi dal punk, accontentò pure la famiglia prendendo la sua meritevole laurea in arte che ora viene bene solamente per disegnare t-shirt con grande spirito DIY, lo stesso che gli bolle in corpo quando ha una chitarra in mano, quando sbuffa dentro un’armonica, batte il piede su una stomp box amplificata e sale sul palco a ringhiare. Tutto insieme. Un “The Dirty Old One Man Band” (anche titolo del suo miglior disco) capace di unire Leadbelly e Motorhead, Merle Haggard e Black Flag, incendiare fienili con litri di alcol etilico, sfidare la morte provocandola pericolosamente e pregare per ringraziare d’essere ancora su questa terra. Nel precedente NOTHIN’ BUT BLOOD, uscito nel 2014, si era fatto ritrarre in un mare di sangue per quello che sembrava un nuovo battesimo, ma che in verità cambiava poco le carte nella sua disordinata tavola da garage dove prende forma il suo lavoro. Questa volta impugna il personale libro del cattivo testamento ma in verità continua a camminare tra peccato, redenzione e amori persi. Come sempre: “ho un piccolo lato spirituale e amo la musica gospel, dico preghiere e cose del genere, ma non so di chi diavolo sto parlando”, disse una volta. Registrato nel suo studio casalingo ad Austin, Texas, ancora una volta Biram mantiene fede al suo status di One Man band e registra tutti gli strumenti con le proprie mani. Cambia veramente pochissimo nella sua musica dove a prevalere sono sempre la pura genuinità e l’urgenza sia nei momenti country (‘Set Me Free’), negli oscuri folk (‘Still Around’, ‘Righteous Ways’), nelle tracce blues (‘Red Wine’, ‘Crippled & Crazy’ con l’hammond dietro), nell’ honk tonk che cavalca il vecchio west (‘Long Old Time’), nell’ assalto all’arma bianca di ‘Trainwrecker’ (l’unica concessione punk del disco), nel gospel solo cantato di ‘True Religion’, per concludere con tre strumentali con una slide rumorosa e l’armonica (‘Hit The River’,‘Pressin On’ e ‘What Doesn’t Kill You…’). Questa volta Biram sembra ringhiare meno del solito ma la partita la porta sempre a casa, anche facendo prevalere il lato country blues, più accomodante e addomesticato.



mercoledì 18 gennaio 2017

RECENSIONE: CHRIS STALCUP & THE GRANGE (Downhearted Fools)

CHRIS STALCUP & THE GRANGE-Downhearted Fools (Dirtlegs Records, 2016)



Mi è entrato in casa solo ora, ma Downhearted Fools di CHRIS STALCUP con i suoi THE GRANGE, uscito nel 2016, mi ha fatto lo stesso effetto di Traveller di Chris Stapleton nel 2015: buono alla prima. Se osservate la foto di copertina che pare lo scarto di un quadro di Hopper, e liberate tutto il vostro immaginario legato all’America più nascosta, lavoratrice e silente, otterrete pure il contenuto. Aggiungete tutto quello che può starci dentro tra Gram Parsonsm i Drive-By Truckers, Steve Earle e Ryan Bingham e il gioco è quasi fatto. Un disco di storie ordinarie e di realtà di provincia poco eccitante, in bilico tra country e rock’n’roll, tra strade e amori finiti, tra la lentezza della malinconica quotidianità e gli scatti pigri ma repentini rivolti ad una promessa di futuro migliore ma solo immaginario nei fatti. Un disco che non rivoluzionerà un bel nulla ma che cattura morbosamente come farebbe l’insegna di quel Motel in copertina, quando, dopo aver viaggiato tutta la notte per le strade della Georgia, si è in cerca di un rifugio temporaneo, ma comunque sicuro. Almeno per una notte. Si mette la freccia, si spengono l’autoradio e le luci, e si parcheggia davanti all’entrata. Intanto un altro giorno è quasi passato. Nuovamente.