lunedì 23 gennaio 2017

RECENSIONE: SCOTT H. BIRAM (The Bad Testament)

SCOTT H. BIRAM    The Bad Testament (Bloodshot Records, 2017)






Se il successo di un musicista si misurasse dal numero di ossa rotte in vita, il quarantaduenne Scott H. Biram sarebbe in cima alle classifiche. Sfortunatamente per le sue tasche sdrucite non è così, e il texano continua ad incidere dischi (questo è il decimo), con fierezza e rara passione, camminando e talvolta correndo troppo con il suo vecchio Ranchero 65 lungo quella linea zigzagante, poco trafficata ma pericolosa, che divide il bene dal male, il sacro dal profano, la redenzione dal peccato, e dove country, blues, punk e metal viaggiano allineati in contemporanea lungo le sei corde delle sue vecchie chitarre. Ossa spezzate in episodi marginali alla vita artistica ma capaci di inquadrare il personaggio: prima l’incidente stradale in Texas nel 2003 che gli lasciò intatto un arto su quattro ma non gli impedì, un paio di mesi dopo, di salire sul palco in sedia a rotelle con una flebo al seguito, poi in Francia nel 2009, quando scivolò nei pressi di una pompa di benzina. Cicatrici e protesi al titanio lo tengono unito. Uno scavezzacollo sporco e genuino, “ho imparato a sputare e menar pugni prima di imbracciare una chitarra”, che in giovane età, prima di essere conquistato dal blues (Doc Watson e ‘Vol.4’ dei Black Sabbath tra i suoi preferiti) e poi dal punk, accontentò pure la famiglia prendendo la sua meritevole laurea in arte che ora viene bene solamente per disegnare t-shirt con grande spirito DIY, lo stesso che gli bolle in corpo quando ha una chitarra in mano, quando sbuffa dentro un’armonica, batte il piede su una stomp box amplificata e sale sul palco a ringhiare. Tutto insieme. Un “The Dirty Old One Man Band” (anche titolo del suo miglior disco) capace di unire Leadbelly e Motorhead, Merle Haggard e Black Flag, incendiare fienili con litri di alcol etilico, sfidare la morte provocandola pericolosamente e pregare per ringraziare d’essere ancora su questa terra. Nel precedente NOTHIN’ BUT BLOOD, uscito nel 2014, si era fatto ritrarre in un mare di sangue per quello che sembrava un nuovo battesimo, ma che in verità cambiava poco le carte nella sua disordinata tavola da garage dove prende forma il suo lavoro. Questa volta impugna il personale libro del cattivo testamento ma in verità continua a camminare tra peccato, redenzione e amori persi. Come sempre: “ho un piccolo lato spirituale e amo la musica gospel, dico preghiere e cose del genere, ma non so di chi diavolo sto parlando”, disse una volta. Registrato nel suo studio casalingo ad Austin, Texas, ancora una volta Biram mantiene fede al suo status di One Man band e registra tutti gli strumenti con le proprie mani. Cambia veramente pochissimo nella sua musica dove a prevalere sono sempre la pura genuinità e l’urgenza sia nei momenti country (‘Set Me Free’), negli oscuri folk (‘Still Around’, ‘Righteous Ways’), nelle tracce blues (‘Red Wine’, ‘Crippled & Crazy’ con l’hammond dietro), nell’ honk tonk che cavalca il vecchio west (‘Long Old Time’), nell’ assalto all’arma bianca di ‘Trainwrecker’ (l’unica concessione punk del disco), nel gospel solo cantato di ‘True Religion’, per concludere con tre strumentali con una slide rumorosa e l’armonica (‘Hit The River’,‘Pressin On’ e ‘What Doesn’t Kill You…’). Questa volta Biram sembra ringhiare meno del solito ma la partita la porta sempre a casa, anche facendo prevalere il lato country blues, più accomodante e addomesticato.



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