giovedì 1 ottobre 2015

RECENSIONE: GLEN HANSARD (Didn't He Ramble)

GLEN HANSARD Didn’t He Ramble (2015)






In principio, a tredici anni, c'era la musica di strada per le vie di Dublino (l'attività di busker continua ancora adesso che è famoso come forma di divertimento e autoanalisi), poi ci fu The Commitments, celebre film di Alan Parker, affresco illuminato di una Dublino dove i giovani cercavano nella musica il sollievo che la società non riusciva dare loro. Tra i tanti musicisti e attori non professionisti che contribuirono a rendere The Commitments un film di culto, molti si sono persi, ma tanti altri, proprio da quel 1991, hanno iniziato una nuova carriera. Tra questi ci fu il rosso Glen Hansard che nella pellicola interpretava il simpatico Outspan Foster, chitarrista della band soul protagonista del film di Parker. Hansard che non ama parlare troppo di quel film, da allora ha continuato una carriera in crescendo: ha inciso sette dischi con il suo primo e principale gruppo rock The Frames e tre con il duo The Swell Season, insieme a Markèta Irglovà (che diventerà sua compagna) arrivando a vincere con questi ultimi, nel 2008, un oscar per la miglior colonna sonora con Falling Slowly, canzone contenuta nella soundtrack del film indipendente Once-recentemente diventato un musical- che ha avuto un gran successo in America e che lo vede impegnato anche come attore protagonista insieme alla stessa Irglovà. Poi, ancora tante soddisfazioni: come aprire i concerti australiani di Bob Dylan, uno dei suoi idoli musicali di sempre insieme a Van Morrison; la collaborazione con Eddie Vedder per UKULELE SONGS (voce in Slepless Nights); aver conosciuto un giovanissimo Jeff Buckley che faceva il roadie per i suoi Frames.
Bene. Fino a qui ho fatto un semplice e sbrigativo copia incolla (dannata pigrizia) di parole già spese per presentare il suo primo disco solista RHYTHM AND REPOSE uscito nel 2012. Era un disco dolente, sincero, romantico e interamente influenzato dall’allora recente separazione dalla compagna. Un disco carico di phatos, intimo e rarefatto. Hansard sembra essersi ripreso alla grande da quella batosta e questa volta, pur mantenendo fede alle sue caratteristiche peculiari: gran scrittura dei pezzi (My Little Ruin e Just To Be The One sono esempi di canzoni perfette) e voce che sa toccare le corde giuste, sostituisce l’uniformità musicale e d’intenti che caratterizzavano RHYTHM AND REPOSE con dei guizzi da fuoriclasse che riescono a mettere in fila tutte le influenze di una vita. Dal fantasma di Dylan che appare più volte (Winning Streak con Sam Beam-Iron And Wine- e Sam Amidon ospiti alle voci), a Van Morrison nel soul/gospel di Her Mercy che esplode nella girandola di fiati finale, a Springsteen (ma anche Mellencamp) in Lowly Deserter che pare uscita da una serata passata a suonare le Seeger Sessions, all’amata Irlanda di McCormack’s Wall che nasce spoglia dai tasti di un pianoforte e muore come una giga indemoniata con il violino di John Sheahan dei Dubliners protagonista, al folk crepuscolare e solitario della finale Stay The Road. Se il precedente fu registrato nella sola New York e ritraeva la figura di un uomo solo e disperato, DIDN’T HE RAMBLE è nato in giro per il mondo, tra New York, la Francia, Chicago e Dublino e disegna il profilo di un uomo in pace con il mondo, ma sempre profondo ed viscerale quando si tratta di mettere nero su bianco i propri sentimenti. Il resto scopritelo voi. Un bollino guadagnato per i miei dischi dell'anno.



RECENSIONE: GLEN HANSARD-Rhythm & Repose (2012)
RECENSIONE: DAMIEN RICE-My Favourite Faded Fantasy (2014)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (2015)
RECENSIONE: JACKIE GREENE-Back To Birth (2015)
RECENSIONE: LUCERO-All A Man Should Do (2015)
RECENSIONE: KEITH RICHARDS-Crosseyed Heart (2015)


giovedì 24 settembre 2015

RECENSIONE: KEITH RICHARDS (Crosseyed Heart)

KEITH RICHARDS Crosseyed Heart (Virgin, 2015)





Perdoniamogli tutte le cazzate che ha sparato ultimamente: se per lui Sgt.Peppers è spazzatura, voglio fare il netturbino a Roma e spararmelo in cuffia alle cinque di una domenica mattina tra cartacce, pisciate e cocci di bottiglia, se i Black Sabbath sono uno scherzo, voglio essere un mago e tirare fuori Ozzy e Iommi da un cilindro e giocarci tutto il giorno nel soggiorno di casa. Taci Keith. Suona la chitarra e canta con quella vociaccia che ti ritrovi che non sarà quella di Jagger ma penetra tre volte in più, giù in profondità. Perché sto vecchio figlio di buona donna tira fuori un disco di rock’n’roll quasi perfetto (il quasi si toglie solo per i capolavori), sporco il giusto, di quello sporco che gli ultimi Rolling Stones puliscono troppo spesso con colpi di straccio a casaccio. Quali siano gli ultimi Rolling Stones non lo so ancora: dovevano essere quelli degli anni ‘80, poi sono arrivati i ’90, oggi è il 18 Settembre del 2015.
Keith è aiutato dagli X-Pensive Winos appena lì dietro e da Steve Jordan, produttore e batterista. L’intro acustica Crosseyed Heart è l’adunata dei vecchi fantasmi del Delta, spoglia, solitaria, quasi si stesse esercitando prima di un concerto, il blues battente e torbido in Blues In The Morning sembra arrivare pure lui da epoche lontane e remote (anche le sue in definitiva), Nothing On Me è il suo credo quasi fosse la sua brillante ed epocale autobiografia Life, il rock di Heartstopper e di Trouble è tutto quello che vorremmo sempre sentire dagli Stones. Ancora un volta. Anche il vecchio amore per il reggae è sempre presente in  Love Overdue di Gregory Isaacs. Il blues sbilenco e schizzato di Substantial Damage pare invece uscito da un disco dell’amico Tom Waits. A proposito: lo standard  Goodnight Irene viene bene pure a Keith.

Quando poi fa il confidenziale, anche spesso e volentieri, ti accarezza prima e dopo ti scortica alle spalle (la ballata Robben Blind e nell’avventata  Illusion con Norah Jones). Sul R&B di Amnesia ricompare, magicamente, anche il sax di Bobby Keys, scomparso quasi un anno fa. Magie di Keith. Potrebbe anche essere il suo terzo e ultimo disco solista visto tempistiche e carta d’identità. Quindi: un testamento anticipato, da leggere e rileggere. All'infinito. Una lezione da imparare. “Guardo alla vita come se fosse 6 corde e 12 tasti. Se non riesco a immaginare tutto quanto c’è lì dentro, come posso immaginare qualsiasi altra cosa?” K.R.
Per ora, non si è rotta ancora nessuna di quelle vecchie e impolverate sei corde (che naturalmente per Keith sono cinque).


RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (2015)




lunedì 21 settembre 2015

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON (Very Extremely Dangerous)

EDDIE HINTON Very Extremely Dangerous (Capricorn,1978)





Disco di una categoria superiore. Eddie Hinton fu tanto forte con la sua voce nera-il tag “l’Otis Redding bianco” campeggia ovunque, meritatamente ma anche ingabbiante-quanto debole nell’affrontare i problemi incontrati lungo la breve strada della sua esistenza. Very Extremily Dangerous fu il debutto solista che arrivò nel 1978 dopo anni dedicati come session man per i più grandi: Aretha Franklin, Joe Tex, Solomon Burke, Boz Scaggs, Percy Sledge, Wilson Pickett, Otis Redding, The Staple Singers, Johnny Taylor, Elvis Presley, The Box Tops, Evie Sands,Toots Hibbert e tantissimi altri si sono serviti della sua chitarra, delle sue canzoni, del suo talento.
‘Very Extrenely Dangerous’ è una bomba di intensità southern soul (copertina inclusa), registrato ai Muscle Shoals, che dovrebbe esplodere nelle case di tutti, nessuno escluso.
Paradossalmente il più grande successo fu anche la sua rovina: la mitica etichetta Capricorn chiuse i battenti proprio dopo questo disco e la vita di Eddie, destinata a migliorare, iniziò invece a sprofondare negli abissi poco sani della depressione a cui andò ad aggiungersi una vita famigliare tormentata e poco stabile. Il resto della carriera fu un’altalena con bassi (di vita) e alti (musicali) tra cui spicca ancora Letters From Mississippi del 1985.
La morte arrivò prestissimo nel 1995 a soli 51 anni. Un infarto rapì il suo debole cuore, troppo sensibile e blues per questo mondo irrispettoso.

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time




giovedì 17 settembre 2015

RECENSIONE: JACKIE GREENE (Back To Birth)


JACKIE GREENE  Back To Birth (yep ROC Records, 2015)




Qualcuno di voi lo ricorderà alla chitarra dei BLACK CROWES nell’ultimo (?) tour della band dei fratelli Robinson. All’Alcatraz di Milano nel 2013 ebbe il difficile compito di rimpiazzare Luther Dickinson e ci riuscì egregiamente. Oppure avrete letto il suo nome tra i componenti dei Trigger Hippy, band formata da Steve Gorman, batterista dei Black Crowes, e dalla cantautrice giramondo Joan Osborne. In verità il californiano Jackie Greene è un cantautore e polistrumentista con cinque album solisti alle spalle, votati al folk, che ottennero anche buoni riscontri di critica all’uscita. Dopo cinque anni di assenza ritorna con quello che si può definire il classico album della maturità. Il  bagaglio delle esperienze si è arricchito negli ultimi anni, permettendogli di esplorare diverse strade contemporaneamente, con risultati sempre sopra la media: dal carezzevole vento  west coast ’70, seguendo la stella di Jackson Browne (A Face Among The Crowd) a episodi ancora più leggeri (Now I Can See For Miles), dagli umori sudisti, ora soul (Trust Somebody, Where The Downhearted Go) ora gospel/blues nella pianistica a due atti  ‘Hallelujah’ , caracollanti passeggiate nel country  (Motorhome), fino alla più tirata e rock The King Is Dead. Un disco essenzialmente di ballate, dalla scrittura limpida e cristallina (a volte fin troppo pulito), ben prodotto dal Los Lobos, Steve Berlin. Un quieto e onesto traghettatore verso l’arrivo dell’autunno…



RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (2015)



sabato 12 settembre 2015

RECENSIONE: CHRIS STAPLETON (Traveller)

CHRIS  STAPLETON Traveller (Mercury, 2015)





Sì, viaggiare
Chris Stapleton ha viaggiato per buona parte dei suoi trentasette anni nel retro bottega della musica americana, come componente degli SteelDrivers e dei Jompson Brothers, ma soprattutto come autore per numerosi cantanti country del giro di Nashville, ricevendo anche buoni riscontri commerciali. Nel 2013, sulla strada della vita, invece, incontra l’ostacolo più grande, la perdita del padre: carica i bagagli, fa salire la moglie su una grossa Jeep e parte alla ricerca di se stesso e nuove ispirazioni. Lungo il viaggio dall'Arizona al Tennessee ha raccolto 14 canzoni (due le cover tra cui spicca una perfetta Tennessee Whiskey ) che si è tenuto per sé, e registrato con Dave Cobb, uno dei produttori più in voga del momento. Ne è uscito un debutto sorprendentemente intenso e profondo dove l’amore per l’outlaw country ’70, lo scarno folk e il soul trovano un collante nella voce, vera arma vincente di questo nuovo fuorilegge errante tra i grandi spazi americani.
Enzo Curelli 8 da Classic Rock # 34 (Settembre 2015)



vedi anche
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (2015)


mercoledì 9 settembre 2015

RECENSIONE: LUCERO (All A Man Should Do)

LUCERO  All A Man Should Do  (ATO Records, 2015)






La maturità
La stella brillante continua ad illuminare il percorso della band di Ben Nichols. Se la decisa virata verso il Memphis sound del precedente WOMEN & WORK aveva fatto storcere il naso ai fan della prima ora, con l’ottavo album prodotto ancora da Ted Hutt, fanno solo mezzo passo indietro a favore della varietà che concentra i diciotto anni di carriera che li ha visti protagonisti dell’alt country. Anche se manca la rabbia giovanile, quella si è persa: i fiati persistono in un poker di coinvolgenti R & B (Can’t You Hear Them Howl ), le ballate dolenti (la springsteeniana My Girl And Me In ’93) e descrittive (I Woke Up In New Orleans) continuano a dipingere romantici quadri per losers. Per la prima volta in un loro disco compare pure una cover: I’m In Love With A Girl dei Big Star con Jody Stephens ospite. A fare la differenza ci sono sempre la voce tagliente e i testi di Nichols e quando ci prende per mano in Went Looking Warren Zevon ‘s Los Angeles per una nostalgica passeggiata per le vie della città degli angeli è meglio di qualsiasi guida turistica in commercio. Enzo Curelli 7 da Classic Rock # 34 (Settembre 2015)






venerdì 4 settembre 2015

RECENSIONE: MARK LANEGAN (Houston-Publishing Demos 2002)

MARK LANEGAN Houston-Publishing Demos 2002 (Ipecac Recordings, 2015)




Come un becchino d'altri tempi, Mark Lanegan sputa a terra, impugna nuovamente la pala con le sue manone tatuate e scava alla ricerca di un passato perduto, così lontano dalle sbandate electro/rock proposte negli ultimi dischi solisti. Anche se lui, alle due ultime prove in studio, ci crede parecchio. Massimo rispetto. Blues Funeral è al top. Quasi volesse rimarcare con fermezza la linea che divide il passato dal presente. E il futuro quale sarà? Lo aveva già fatto l'anno scorso con i dodici inediti presenti nella raccolta Has God Seen My Shadow?. Lo fa nuovamente, a distanza di pochi mesi, e quello che trova sembra ancora terra umida, viva, buona per essere utilizzata e data in pasto ai fan, perché a loro è indirizzata questa uscita. Ecco quindi altre dodici canzoni che ci ricordano il suo tempo migliore, immediatamente dopo la rottura con gli Screaming Trees ma con già cinque dischi solisti alle spalle e prima di un turbinio di collaborazioni che gli hanno fatto guadagnare il titolo di stakanovista del rock. In questo disco ci sono delle versioni demo, ma in alcuni casi sembrano complete e buone così, registrate in soli sette giorni nell'Aprile del 2002 al Sound Art Recording Sudio di Houston in Texas, insieme a Keni Richards (batteria), Steve Bailey (basso), Mike Johnson (chitarre), Ian Moore (chitarra e sitar), Bukka Allen (tastiere) e Mickey Raphael (armonica). Alcune verranno riprese e lavorate successivamente per altri album (vedi la spartana versione di Grey Goes Black che andrà a finire, con qualche cambiamento, in Blues Funeral), alcune vedono il cielo nero e terso per la prima volta.
Poteva diventare un album ufficiale, e sarebbe stato un  album eccellente e perfettamente incastonato tra Field Songs (2001) e la svolta musicale che prenderà corpo di lì a poco con Bubblegum (2004), anche se caratterialmente è più vicino alla prima parte di carriera. Pur con quel senso di incompiutezza che aleggia qua e là-ma che ci piace tanto- questo è il Lanegan tenebroso, solitario e beffardo che preferiamo: il pistolero western di nero vestito, nipote dei nonni Johnny Cash e Ennio Morricone, nella gelida e malinconica passeggiata di High Life, il bluesman decadente in The Primitives, il folker solitario e disperato in A Suite For Dying Love e nella orientaleggiante Two Horses, il crooner che canta per il popolo che affolla i cimiteri con la voce che sembra arrivare dall'aldilà in I'll Go Where You Send Me e Nothing Much To Mention, il rocker dimesso nell'apertura No Cross e nelle chitarre acide e pressanti di When It's In You che diventerà poi Methamphetamine Blues, il cerimoniere ossianico nella conclusiva e ipnotizzante Way To Tomorrow.
Certamente non indispensabile, ma ottimo per i nostalgici, e bello per chi volesse approcciarsi ora, in gran ritardo, alla musica di Lanegan.




RECENSIONE: MARK LANEGAN-Blues Funeral (2012)
RECENSIONE: MARK LANEGAN-Dark Mark Does Christmas  (2012)
MARK LANEGAN BAND live @ Alcatraz, Milano, 5 Marzo 2015





venerdì 28 agosto 2015

RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO (Love And The Death Of Damnation)

THE WHITE BUFFALO Love And The Death Of Damnation (Unison Music/Earache Records, 2015)






Dietro al nome White Buffalo continua a nascondersi Jake Smith, un omone grande e grosso, un po’ Warren Haynes, un po’ il grande Lebowski, che qualcuno di voi avrà conosciuto attraverso la serie tv Sons Of Anarchy. LOVE AND THE DEATH OF DAMNATION è il suo quarto disco. Anche se non è propriamente un concept album come il precedente e ambizioso Shadows, Greys, and Evil Ways uscito nel 2013, le canzoni che lo compongono, pur vivendo tutte di vita propria, sembrano ancora una volta seguire un percorso narrativo ben preciso dove i personaggi protagonisti lottano contro la diabolica oscurità che gravita intorno alle loro strade, ma non tutti riescono ad arrivare all’agognato traguardo dove, ai bordi dei marciapiedi meno battuti, nuove luci irradiano chiarezza sull’esistenza. Buio mimetizzato negli accadimenti di tutti i giorni (‘Dark Days’, ‘Modern Times’ accompagnata da un divertente video), nelle disperata ricerca di fede e redenzione (‘Where Is Your Saviour’), nei complicati meccanismi delle relazioni umane: nei rapporti d’amore (‘Go The Distance’, ‘I Got You’ cantata in coppia con Audra Mae), tra genitori e figli, tra uomini in perenne conflitto e prevaricazione.
"Musicalmente e liricamente, questo è l'album più diversificato che abbia mai fatto. Amore, morte, luce e oscurità. Vi farà ridere e vi farà piangere. Un concentrato di emozioni." Racconta Jake Smith a PopMatters.com
Un concentrato di alta drammaticità serpeggiante dentro ai repentini e sbuffanti attacchi cow/rock (‘Rocky’) ben sostenuti dalla sezione ritmica (Matt Lynott alla batteria, Bruce Witkin al basso), alle eteree ballate pianistiche (‘Radio With No Sound’), alle trombe mariachi che colorano gli spietati confini geografici delle terre del sud in ‘Chico’, allo strepitoso gospel/soul condotto dall’hammond di Mike Thompson nella finale ‘Come On Love, Come On In’ e al traditional folk americano (‘Home Is In Your Arms’) che si fa anche scuro e tenebroso come un abito da giorno del giudizio in ‘Last Call To Heaven’, dove a ergersi protagonista è ancora una volta la sua inconfondibile voce. Ricca, profonda, intensa e sincera come la parte nascosta di quell’ America raccontata in queste nuove undici canzoni.




vedi anche
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Once Upon The Time In The West (2012)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: BUDDY GUY-Born To Play Guitar (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessings And The Curse (2015)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia







martedì 25 agosto 2015

RECENSIONE: BUDDY GUY (Born To Play Guitar)

BUDDY GUY Born To Play Guitar (RCA Records, 2015)





Quando Muddy Waters era sul letto di morte, quasi sconfitto dalla malattia, sembra che Buddy Guy lo chiamò informandolo che sarebbe corso al suo capezzale. Waters rispose senza esitare: ”non venire qui, è tutto a posto, l’importante è che tu tenga in vita il blues”. Il ragazzo lo ha preso in parola e oggi, che anche il maestro B.B.King non c’è più da un paio di mesi, a 79 anni è rimasto uno degli ultimi esponenti puri e originali di una schiera di musicisti pazzesca e irripetibile. A Waters dedica la chiusura del disco con l’esplicita ‘Come Back Muddy’, a King una straordinaria ‘Flesh & Bone’ con un lusso come Van Morrison alla voce, a se stesso e alla musica tutta la celebrativa title track. Dopo tanti anni, una buona fetta di blues è tutta qui, racchiusa in tre canzoni. Prodotto e scritto insieme a Tom Hambridge, BORN TO PLAY GUITAR si presenta più snello e scorrevole rispetto al precedente pur buono ma lungo e ambizioso RHYTM & BLUES. Meno ospiti ma di peso: Billy Gibbons (ZZ TOP) su ‘Wear You Out’, Joss Stone in ‘(Baby) You Got What It Takes’ e Kim Wilson dei The Fabulous Thunderbirds in un paio di pezzi. Il 30 Luglio, Buddy Guy ha compiuto gli anni-AUGURI!- ma il regalo più grande lo ha fatto a noi. Il blues continua a scorrere liscio nelle sue vene. Tra le uscite imperdibili dell'anno.








giovedì 20 agosto 2015

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 3: THE NOTTING HILLBILLIES (Missing...Presumed Having A Good Time)

THE NOTTING HILLBILLIES-Missing…Presumed Having a Good Time (1990)



Quattro musicisti inglesi giocano a fare i cowboys, divertendosi e divertendo. Un set ben preparato: vestiti, luci, fondali con saloon in evidenza e chitarre dobro protagoniste. Traditionals country/blues e qualche originale con la chitarra di Mark Knopfler che inizia lentamente il distacco dalle grandi arene rock, ormai frequentate con i Dire Straits, per prepararsi all’imminente carriera solista alla ricerca della sua musica, tra folk, blues e country (bello anche ‘Neck And Neck’ in coppia con Chet Atkins che uscì sempre nel ‘90) che culminerà con ‘Privateering’, ottimo doppio album di studio (il suo migliore? Sì il migliore), e con l’ultimo ‘Tracker’, un po’ sottotono (sì sottotono a mio avviso). Sono seduti nel saloon anche il fido Guy Fletcher, Steve Phillips e Brendar Croker . Un disco che penso di aver consumato, prima in cassetta rigorosamente registrata da chi all’epoca ritenevo “vecchio”, poi originale quando finalmente lo trovai in qualche angolino dell’usato. Nulla di veramente nuovo in questo atto unico, ma va tutto giù che è un piacere.

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #1: FRANCESCO DE GREGORI-Titanic
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4

RECENSIONE:NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL (The Monsanto Years)

NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL
The Monsanto Years
(REPRISE RECORDS, 2015)





Canti di protesta
Se volete bene a Neil Young accetterete di buon grado anche questo nuovo disco, nato sì d’istinto, ma incentrato su tematiche care al canadese da più di quarant’anni, fin da quei versi “guarda Madre Natura in fuga” inclusi in After The Gold Rush del 1970, proseguite poi negli anni 80 con i concerti Farm Aid, messi in piedi con John Mellencamp e Willie Nelson in difesa degli agricoltori, e ribadite con forza anche durante l’ultimo tour con i Crazy Horse. L’attacco alla multinazionale agrochimica Monsanto, rea di mettere in commercio sementi OGM, è duro, liricamente ingenuo, ma non fa sconti. Anche se i dischi che ascolteremo fra un mese ritorneranno ad essere HARVEST, ON THE BEACH e RUST NEVER SLEEPS e questo sarà ricordato solamente quando dovremo riporlo al giusto posto all’interno della discografia, Neil Young merita, ancora una volta, totale rispetto. La prolificità di questi ultimi anni, anche nella sfera privata, non sempre è stata sinonimo di brillantezza artistica quanto invece di libertà e genuinità. Sulla scia dei suoi instant records più recenti, da LIVING WITH WAR che si scagliava contro la politica guerrafondaia di George W. Bush all’ambientalista FORK IN THE ROAD , THE MONSANTO YEARS colpisce duro musicalmente fin dai messaggi di speranza e amore dell’apertura A New Day For Love : “è un nuovo giorno per il pianeta , è un nuovo giorno per il sole”. Ok, poche novità: country garage/rock grezzo e puro fatto di chitarre, feedback infiniti (Big Box) e slogan travestiti da cori che sembrano già sentiti mille volte (People Want To Hear About Love), ma basta la libertà d’espressione e di movimento all’interno del music business (nella strafottente A Rock Star Bucks A Coffee Shop canta: “le madri vogliono sapere cosa mangiano i loro figli”) per fare dell’idealista Young e dei suoi dischi un esempio, ancora poco imitato, da seguire. La linea che lo divide dall’essere un predicatore rompipalle è spesso vicina, ma la forza del rock tiene tutto a debita distanza: linee e rompipalle veri (il miliardario Donald Trump l’ultimo della fila).
I figli di Willie Nelson, Lukas e Micah con i loro Promise Of The Real, accompagnano l’amico di papà come farebbero dei giovani cavalli pazzi alle prime armi con qualche pausa per tirare il fiato come nella sbilenca ballata country Wolf Moon che si riallaccia ad HARVEST MOON. Se volete bene a Neil Young già sapete che a parlare, nei suoi dischi, non è la voce dell’artista ma quella dell’uomo. E questo fa spesso la differenza quando la qualità non è più quella dei tempi migliori. Enzo Curelli 7 da Classic Rock #33 (Agosto 2015)



vedi anche
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014


giovedì 13 agosto 2015

RECENSIONE: LANCE CANALES (The Blessing And The Curse)

LANCE CANALES  The Blessing And The Curse (Music Road Records/IRD, 2015)



28 Gennaio 1948, un aereo cadde a Los Gatos Canyon: morirono quattro americani, i membri dell'equipaggio, che vennero tutti identificati immediatamente e ventotto braccianti messicani; di loro, invece, mai nessuno seppe  nomi e cognomi, vennero segnalati solamente come deportati. Caso chiuso. Woody Guthrie ci scrisse una poesia, 'Plane Wreck At Los Gatos' , musicata in seguito da Martin Hoffman e conosciuta anche come 'The Deportee Song' , riproposta negli anni da numerosi cantautori americani, da Bob Dylan a Bruce Springsteen. Solamente nel 2010, lo scrittore messicano Tim Z. Hernandez, al lavoro per un libro, iniziò ad interessarsi della vicenda, arrivando, dopo lunghe ricerche, a capo del mistero riportando in superficie i nomi di tutti e ventotto i contadini periti nell'incidente che, finalmente, ebbero una lapide degna di tale nome. Lo stesso scrittore Tim Z.Hernandez recita l'elenco dei loro nomi mentre Lance Canales ricanta e suona quella canzone.
E basterebbe partire da questa versione di 'Deportee' di Woody Guthrie ( inizialmente uscita come singolo nel 2013) per capire chi è il songwriter californiano, originario di Fresno. Un disco intenso che sette canzoni prima parte cavalcando: 'California Or Bust' galoppa a ritmo di slide selvaggia mentre poco dopo 'Cold Dark Hole', un blues nero come la pece, ci presenta la voce scura e profonda di Canales, un po' Leonard Cohen, un po' Tom Waits e un po' quello che gli estimatori di Mark Lanegan vorrebbero sentire ancora dal loro idolo. Non cercatelo altrove quindi, lo troverete qua.
Un disco fatto di tante chitarre acustiche ora pigre e sonnacchiose (la bella 'Death Got No Mercy' in duetto con Eliza Gilkyson, la dolente 'Sing No More'), con qualche impennata elettrica frizzante e decisa; ballate tese, costruite su storie vissute in prima persona tra il duro lavoro nei campi di frutta e verdura a San Joaquin Valley ('Farmer') e le strade che portano verso tutti i confini, geografici ed umani, senza risparmiare attacchi politici che solamente chi ha le mani sporche di terra può permettersi di fare con dignità. Un folk blues ('Weary Feet Blues') suonato alla vecchia e antica maniera, scarno e diretto e una voce vissuta, credibile, orgogliosa delle proprie umili radici come lo sono state quelle dei più grandi storyteller americani: difficile non riconoscere le stesse strade percorse da Guthrie, Townes Van Zandt, Steve Earle e Tom Russell. Prodotto da Jimmy LaFave e distribuito dalla stessa etichetta, la Music Roads, di proprietà del cantautore texano che quest'anno è uscito con il buon THE NIGHT TRIBE. Il disco può contare sulla partecipazione di numerosi ospiti: dallo stesso LaFave, a Ray Boneville, da Joel Rafael a Eliza Gilkyson.
In questo Agosto di giornate dominate dall'ozio e dedicate a piccoli e piacevoli traguardi di giornata, raggiunti comunque con estrema calma, una copertina anonima e volutamente vintage si è fatta strada tra i tanti ascolti messi da parte nei mesi precedenti.
Una volta c'erano i famosi dischi per l'estate: ebbene, quest'anno, il mio è THE BLESSING AND THE CURSE (in uscita il 28 Agosto). Da ascoltare...anche dopo ferragosto naturalmente.




vedi anche
RECENSIONE: ELIZA GILKYSON-The Nocturne Diaries (2014)
RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
RECENSIONE: THOM CHACON (2013)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)



lunedì 10 agosto 2015

EDDA, SLICK STEVE & THE GANGSTERS, SEDDY MELLORY, PLAN DE FUGA live @ Clear Mountains Festival, Montichiari (BS) 7/8/9 Agosto 2015




Edda
Edda

Edda

Edda
Slick Steve & The Gangters
Slick Steve & The Gangsters

Slick Steve & The Gangsters

Slick Steve & The Gangsters
Seddy Mellory

Seddy Mellory

Seddy Mellory
Plan De Fuga





venerdì 7 agosto 2015

RECENSIONE: JASON ISBELL (Something More Than Free)


JASON ISBELL
Something More Than Free
(SOUTHEASTERN RECORDS, 2015)





Rinato per restare
L’aver militato come chitarrista e autore nei Drive-By Truckers per sei anni, i migliori del gruppo di Athens immediatamente seguenti all’ acclamato SOUTHERN ROCK OPERA del 2002, potrebbe garantirgli un posto nell’enciclopedia rock di questi vuoti anni duemila. Ma Jason Isbell ha sempre saputo mettersi in gioco con talento. Prima inventando i 400 Unit, poi da solo, scrivendo con il precedente SOUTHEASTERN una delle più toccanti pagine di autoanalisi lette negli ultimi tempi: un disco di country/folk, crudo ed essenziale che metteva in mostra dieci anni di cadute nelle tenebre degli abusi (alcolismo ma anche droghe) e la conseguente riabilitazione grazie a ricoveri e all’incontro salvifico con Amanda Shires, la donna diventata sua sposa e violinista, in risalto nel singolo 24 Frames. Questo secondo passo della rinascita è musicalmente più ambizioso, collettivo (il blues rock Palmetto Rose), e alleggerito nelle liriche: “è più celebrativo” come dice Isbell, e la futura paternità  che sembra affrontata in Children Of Children ha influito nella stesura delle nuove undici canzoni, meno pungenti ma sempre di qualità.  Enzo Curelli 7  da Classic Rock #33 (Agosto 2015)



vedi anche
RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (2015)





martedì 4 agosto 2015

RECENSIONI: FRANCO GIORDANI (Incuintretimp) ME PEK E BARBA (Carta Canta)


FRANCO GIORDANI Incuintretimp (Block nota, 2015
ME PEK E BARBA Carta Canta (autoproduzione, 2015)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non è un caso. INCUINTRETIMP di Franco Giordani e CANTA CANTA dei Mé, Pék e Barba hanno tantissimi punti in comune. Sono due dischi, usciti quest’anno, che viaggiano quasi a braccetto pur essendo completamente slegati da qualsiasi logica di mercato che possa tentare di accomunarli: pensati, costruiti e suonati da persone con la musica che batte nel cuore, gira nella pancia ed esce dal cervello. Franco Giordani è un simpatico e talentuoso strumentista friulano, lo conosco da qualche anno solamente via facebook ma questa è l’impressione- sicuramente veritiera- con il folk che scorre nel sangue e con le scarpe ben sporche della sua amata terra.
Franco Giordani (foto:Gabriele Moretti)
In questo debutto solista ha messo tutto se stesso con il prezioso aiuto di Luigi Maieron, poeta e cantautore carnico (cercate il suo VINO TABACCO E CIELO del 2011) che lascia la firma su parecchi testi, sia in dialetto (friulano e clautano) che in italiano (‘Gente Persa Per La Città’). E poi c’è anche una piacevole parentesi  inglese con la finale rilettura di ‘The Old Triangle’ del drammaturgo e poeta irlandese  Brendan Behan.
I Mé, Pék e Barba, finalmente visti al recente Buscadero Day,  sono una nutrita truppa di sanguigni emiliani che ha lasciato un pezzetto di cuore in Irlanda, proprio come fecero i primissimi vicini di casa MCR.  Amano scavare nel passato dei luoghi, delle persone, degli avvenimenti (per un classe ’73 come me, come non identificarsi in ‘Rossi Gol’?), amano far ballare (‘Niù Folk’) e far pensare (‘Canto Barbaro’ ispirato da ‘Barbarico’ di G.L.Ferretti). CARTA CANTA si spinge anche oltre: è un prezioso concept album con dodici canzoni, anche qui dialetto e italiano si abbracciano, che traggono spunto da altrettanti libri e autori. Partono da Trans Europa Express di Paolo Rumiz e arrivano a Storia di Una Scatola Di sassi di Davide Persico. Strumenti della tradizione (banjo, ghironda, flauto, violino) guidati dal capo banda Sandro Pezzarossa, con la partecipazione di  importanti ospiti musicali tra cui spicca Marino Severini dei Gang che lascia la voce da bandito in  ‘La Tigre D’Ogliastra’.
Mé, Pék e Barba
Sia INCUINTRETIMP che CARTA CANTA sono due album da ascoltare ma anche da leggere: nel bellissimo libretto illustrato con le foto in bianco/nero di Gabriele Moretti ci sono sei brevi racconti di Franco che ci fanno conoscere un po’ del suo (e nostro) passato popolato da quei caratteristici personaggi di paese (in questo caso il paese è Claut incastonato nella vallata friulana Valcellina) sempre più rari e in via d'estinzione; nel disco dei Mé, Pék e Barba, confezionato in un suggestivo booklet, partecipano numerosi ospiti legati alla letteratura italiana contemporanea. Interventi scritti, parlati e recitati di: Erri De Luca (sua l’introduzione), Paolo Rumiz, Mauro Corona e Marcello Fois.
Infine, il legame che mi ha fatto accoppiare questi due dischi: Franco Giordani e i Me Pek e Barba sono buoni amici, si conoscono e hanno collaborato spesso insieme in passato, sia in studio che live.  Non è un caso.

vedi anche:
RECENSIONE: ME PEK E BARBA-La Scatola Magica (2012)
RECENSIONE: LUIGI MAIERON-Vino, Tabacco e Cielo (2011)