lunedì 10 novembre 2014

RECENSIONE : DAMIEN RICE (My Favourite Faded Fantasy)

DAMIEN RICE   My Favourite Faded Fantasy (Atlantic, 2014)




Ti attacca quando hai la guardia abbassata. Quando il sistema immunitario del cuore ha finito il suo turno giornaliero, lasciando l'entrata incustodita per pochi attimi. Basta poco e tac, ti penetra dentro. E' facile entrare e impossessarsi delle emozioni quando sono lasciate incustodite, rivoltarle come un calzino usato da mettere in lavatrice, centrifugarle e farle uscire quasi come nuove, pronte di nuovo all'uso fino a renderle nuovamente lise dopo un altro ascolto, e poi un altro ancora. Da principio. E' facile se ti chiami Damien Rice, hai una voce cristallina ed emozionante, hai una delle migliori opere prime degli anni 2000 in tasca, quel O (2002) che fece prima spalancare le orecchie di tanti, poi lanciare il suo nome in alto nell'olimpo dei grandi paragoni (il nuovo Tim Buckley? il nuovo Jeff Buckley?), infine diventare a sua volta qualcuno da imitare, è facile se vivi la musica in modo apparentemente distaccato in un mondo che invece vuole tutto e subito, dove la quantità supera molto spesso la qualità, e raramente viaggiano insieme. Qui sì. E' facile per lui, difficile per molti altri. L'ultimo Rhythm and Repose (2012) di Glen Hansard ci va vicino, soprattutto nelle tematiche: l'abbandono.
E' tutto quello che è successo dopo l'ascolto di My Favourite Faded Fantasy e dire che queste canzoni non fanno  assolutamente nulla  per  compiacere più di tanto l'ascoltatore-anche quello più distratto-arrivano a toccare gli otto minuti di durata (la folkie innalzata al gospel Trusty And True), tanto che qualcuno ci ha già visto dietro la noia (siete dei bugiardi). Ascoltare i nove minuti e trentadue secondi della seconda traccia It Takes A Lot To Know A Man è puro godimento: inizio pianistico, l'entrata degli archi a sbuffare aria fredda, la voce cullante, i silenzi, un fuoco che brucia, le onde in lontananza, e poi nuovamente  pianoforte e archi a condurre verso un crescendo finale che brucia. Il piccolo capolavoro del disco.
L'irlandese triste Damien Rice è un puro di natura, un'anima semplice e sfuggente a cui piace lavare i panni dell'anima in solitudine, in contemplazione e intimità, senza fretta, con tutta la calma concessagli dalla parte più slow di questo mondo (tre album in dodici anni, il terzo disco uscito a ben otto anni dal secondo 9).  Perché il marciapiede da condurre con lentezza esiste ancora, non è un caso che si sia autoesiliato per anni dal mondo (lui la chiama "transizione") e sia poi giunto in Islanda per scrivere e suonare, l'oasi meno contaminata d'Europa, e poco importa se di mezzo c'è un volo di andata e ritorno nella convulsa Los Angeles ai piedi di Rick Rubin. E' stato un viaggio di lavoro. Il barbuto vate dei produttori moderni ha fatto uno straordinario lavoro di bilanciamento tra il soffuso e quasi silenzioso lato folk e i convulsi crescendo orchestrali, un leitmotiv di quasi tutte le otto canzoni (Colour Me In, Long Long Way), che diventa facile bersaglio per i detrattori in cerca di difetti: la ripetitività, i testi non eccelsi. Ma cazzo se funzionano bene messi insieme (l'ipnoticità del singolo I Don't Want To Change You).
Un sarto che ama cucire le ferite con meticolosa pazienza, e le ferite amorose vengono in superficie con evidenza fin dall' apertura My Favourite Faded Fantasy dove la voce in falsetto squilla rimpianto, e proseguono in The Greatest Bastard (...sono il più grande bastardo che conosci, l’unico che ti ha lasciato andare, l’unico a cui non sopporti di far tanto male...). La sua musa e partner in musica Lisa Hannigan lo ha lasciato, non è più parte integrante della sua vita, ha lasciato un buco che Damien riempie con il talento compositivo, e anche quando pare eccedere in melodramma, c'è una molla che fa tornare tutto a posto. "A volte devi andare via da ciò che ami, per provare ad amarlo di nuovo. Darei via tutto, carriera, canzoni, fama per poter riavere Lisa " dichiara Rice.
Ha maturato la propria arte con discrezione, con piccoli passi, senza snaturarsi troppo da quell'ormai lontano esordio, continuità che le incisive ma sobrie copertine dei suoi dischi suggeriscono. Quei piccoli passi che vorresti compiere anche tu nell'ascolto, ma tramortito e rapito ti ritrovi a volerne ancora, preda di quella bulimica voglia di farsi del male. In questo periodo va così.
Damian Rice è un quarantenne alla continua ricerca di se stesso. Non è nemmeno l'unico. Non guardate me. Forse il segreto è proprio lì: quando centri l'obiettivo e malauguratamente raggiungi il sogno, finisce tutto.
Arrivi a Novembre con le tue certezze musicali dell'anno già impresse in testa come fa il calcare in una lavatrice, e poi tutto viene spazzato via dalla purezza di un bicarbonato di sodio bianco e naturale. My Favourite Faded Fantasy è una leggera carezza sulle ferite aperte e sanguinanti che immediatamente brucia ma poi lenisce, lasciando limpidezza e purezza. Ce n’è bisogno. Ne ho bisogno. Long long way…



vedi anche
RECENSIONE: GLEN HANSARD-Rhythm and Repose (2012)
RECENSIONE: EDDA-Stavolta Come Mi Ammazzerai? (2014)
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO- Faithless World (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG- Storytone (2014)

lunedì 3 novembre 2014

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Storytone)

NEIL YOUNG  Storytone (Reprise Records, 2014)



Alcuni versi di I Want To Drive My Car ritraggono splendidamente ciò che è, e non è, Neil Young oggi. Perché ancora nessuno di noi l'ha capito bene. Diciamo la verità. Un uomo, un anziano rocker-se vogliamo esagerare ed essere cinici e realisti-di 69 anni che vive la sua vita dentro ad un vortice creativo in  continuo sconquassamento ma che va a pari passo con la sua vita sociale, le sue idee e la più intima vita privata. Un tutt'uno. Un blocco da prendere per intero così com'è. In I Want To drive My Car, un bel blues, canta: "voglio guidare la mia auto, voglio guidare la mia auto, sempre più avanti lungo la strada, voglio guidare la mia auto, ho bisogno di un posto dove andare...devo trovare la mia strada". Versi semplici, ingenui, ma c'è tutto. C'è l'amore per le automobili, ben rappresentato dall'acquerello in copertina e nei disegni che illustreranno la seconda parte di biografia in uscita (Special Deluxe: A Memoir of Life & Cars) che partirà proprio dalla sua collezione di automobili per snocciolare aneddoti di carriera, percorsi di strada e amici; c'è la continua ricerca del posto ideale dove poter vivere serenamente, luogo che nella sua testa esiste già ed è dipinto di ecologico verde; c'è il tormentato amore che dopo 36 anni di matrimonio con Pegi Young ha imboccato la strada che porta verso una nuova fiamma, l'attrice Daryl Hannah che condivide con lui l'impegno ambientalista; c'è la voglia di mettersi continuamente alla prova come artista, assecondando tutte le idee che passano tra la sua testa: l'altro ieri era la cabina sforna 45 giri di Jack White, un posto bizzarro dove poter registrare (volutamente male) un intero disco di vecchie cover, oggi è un'orchestra di 92 elementi sotto la regia di Michael Bearden e Chris Walden a cui ha dato carta bianca per rimpolpare le sue canzoni all'osso, nate acustiche naturalmente.
Altro doppio come Psychedelic Pill (dieci canzoni acustiche e dieci canzoni, le stesse, risuonate con l'orchestra, ma solo nella deluxe edition, consigliata), altro ambizioso progetto ma interessantissimo per poter saggiarne lo stato della  vena creativa (buona) e vedere lo sviluppo delle canzoni, dieci buone canzoni. Nel primo disco, il più tradizionale e meno sorprendente per alcuni versi, troviamo il lato primitivo e solitario in bilico tra la tesa drammaticità al pianoforte di un album epocale come After The Goldrush  (i rimpianti amorosi della bella Plastic Flowers, tutto il nuovo amore in I'm Glad I Found You e Glimmer) e la bucolica passeggiata tra i campi di Harvest prima, di Harvest Moon dopo, accompagnata da pianoforte, voce, chitarra e armonica che tingono il quadro di lievi colori, con alcune piccole gemme dove canta di nuove albe e nuovi amori: All Those Dreams , la commovente e "younghiana che più younghiana" non si può When I Watch You Sleeping e la ancor più leggera Tumbleweed.
"Quando ti guardo dormire, non c'è nulla che tu possa nascondere, quando ti sento respirare, c'è dolcezza intorno..." canta in When I Watch You Sleeping
La presenza dell'orchestra, invece, poteva spaventare, perché se i rimandi a A Man Needs A Maid e There’s A World  evocano i piacevoli ricordi di Harvest  (altro pathos aleggiava nel ’72 comunque), dietro l'angolo incombeva minacciosa la mannaia della magniloquente pomposità che se ripetuta per dieci volte, poteva trasformarsi in un pesante martellata data alle parti basse. " Sapevamo che era un'esagerazione ma lo avevamo fatto e lo adoravamo" scrive in Il Sogno Di Un Hippie a proposito di quelle registrazioni datate 1972 con la London Symphony Orchestra e Jack Nitzsche. Oggi, potrebbe ripetere le stesse parole.
Nulla di tutto questo però, anzi, anche il drammatico crescendo del nuovo inno ecologista Who’s Gonna Stand Up sembra acquistare il giusto valore, rispetto alla più tamarra versione presentata nei live estivi con i Crazy Horse (per me ha pagato lo scotto di essere l'ultima canzone in scaletta). Piace perfino quando si infila il vestito tutto paillettes e lustrini da sabato sera, si trasforma in crooner, e in  Say Hello To Chicago ritorna al R&B con tanto di big band al seguito, facendo riferimento a un disco da rivalutare assolutamente come This Note's For You. In quel 1988 dietro al bancone di regia c'era Niko Bolas, oggi pure, e i due si conoscono bene anche se si nascondono da sempre dietro al nome "Volume Dealers". I Want To Drive My Car diventa un trascinante e affascinante blues con chitarre elettriche (le poche presenti lungo tutto il disco), e fa coppia con Like You Used To Do.
Sintetizzato, questo è un atto d'amore verso la vita, sincero e pure ingenuo in molti punti, ma sempre vero. L'ennesimo. Un contrasto vincente-e confuso- come lo è stata tutta la sua carriera: Neil Young è innamorato come un ragazzino ma ha un ingombrante peso dentro da espiare dopo una relazione importante finita, la terra su cui vive gli sta a cuore ma la vede continuamente minacciata, i suoi hobby lo tengono talmente impegnato da diventare i fari guida delle sue autobiografie. In pochi mesi ha portato a termine un tour elettrico con i Crazy Horse, si è rinchiuso dentro ad una cabina di un metro quadrato  con una chitarra acustica, ha aperto i portoni ad un'orchestra, ha finito un altro libro, e chissà cos'altro che non sappiamo. Tutto questo mentre deve ancora trovare la sua strada. Ecco il segreto: non stancarsi mai di macinare chilometri di esperienze.
O stai dalla sua…o lo hai abbandonato da tempo.
Voi da che parte state?


vedi anche RECENSIONE:NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Americana (2012)




vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)



vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)




vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)




vedi anche NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, Collisioni, 21 Luglio 2014


vedi anche COVER ART#4: NEIL YOUNG (On The Beach, 1974)












lunedì 27 ottobre 2014

RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO (Faithless World)

MARY CUTRUFELLO Faithless World (Appaloosa/IRD, 2014)



Tra le migliori rocker femminili sulla piazza: voce graffiante e vissuta di quelle che non passano inosservate, blue collar rock diretto ed evocativo di quelli pieni e tosti, testi onesti e credibili di quelli che arrivano diretti. Mary Cutrufello ha dimostrato di avere forza e carattere per inseguire i suoi miti musicali e perché no, eguagliarne lo spirito, quello antico, quando le terre erano ancora quelle lontane e promesse, i soldi erano pochi, e il rock'n'roll aveva buona memoria per non dimenticare.  I migliori anni di Bruce Springsteen, Bob Seger, Willie Nile, John Mellencamp (Joan Armatrading, Tracy Chapman, Melissa Etheridge rimanendo in campo femminile) rivivono nelle sue canzoni, rinascono con le peculiarità migliori messe in evidenza in prima pagina e poco importa se la sua carriera invece ha avuto il destino segnato e scritto nel trafiletto a fondo pagina. A volte il giornale si inizia a leggere proprio da lì. E' più sfizioso. Bisogna avere tanta fede in un mondo pieno di infedeltà è il suo messaggio. Cosa si darebbe oggi per risentire Bruce Springsteen lanciato in un rock'n'roll all'ultimo respiro come quello che esce dall'urgente Fool For You.
Non si è persa d'animo la quarantaquatrenne cantautrice originaria del Connecticut. Dopo un avvio di carriera fulminante e carico di aspettative, nel debutto When The Night Is Through uscito nel 1998 per una major c'erano musicisti di primo piano della scena americana come Benmont Tench, Jim Keltner, Kerry Aronoff, Bob Glaub, nel 2001 ci fu lo stop forzato dovuto ad una gola malandrina, la lenta guarigione dai fastidiosi noduli, la paura di non poter più cantare come prima, e poi il ritorno nel 2008 con il maturo 35, perchè il DNA è quello vincente, nella musica come nella vita-il destino a volte si può indirizzare dalla parte giusta-e allora sotto di tosto rock'n'roll con le nuove  Cold River, Worthy Girl, Promise Into Darkness, brani senza troppi fronzoli, urbani, da sudore sotto il palco e pieni di immagini vissute e chitarre elettriche. Forza che esce anche quando i ritmi calano: la voce soul della bella e "solitaria" Lonesome And The Wine, la swingata Three Broken Hearts, il veloce e corale  country rock di Fools And Lovers condotto dal banjo suonato da Kenny Wilson, quello più placido e da viaggio di Santa Fe Railroad con la pedal steel di Mike Hardwick.
Anche dieci anni di lavoro in FedEx per sbarcare il lunario possono lasciare un buon segno come canta, scherzandoci su, nel finale e ironico folk The FedEx Song.
La grinta, l’urgenza, la voce e la passione sono quelle di chi continua a scalciare per riprendersi la meritata rivincita sulla sfortuna. Di giorno il lavoro, di notte la passione che ripaga di tutto. Un truck lanciato a fari spenti ma guidato con consapevolezza e passione rare. Un “fiume” in piena. Per gli orfani di quelle sonorità create ai Power Station Studios di New York tra il 1979 e il 1980 (e non solo). Assolutamente da ascoltare.



vedi anche
RECENSIONE: SCOTT H. BIRAM-Nothin' But Blood (2014)
RECENSIONE: EILEEN ROSE-Be Many Gone/CARRIE NEWCOMER-A Permeable Life/ELIZA GYLKISON-The Nocturne Diaries (2014)







giovedì 23 ottobre 2014

RECENSIONE: EDDA (Stavolta Come Mi Ammazzerai?)

EDDA Stavolta Come Mi Ammazzerai? (Niegazowana, 2014)




Edda, sei anche mia mamma. Ricordatelo. Te lo avevo già detto. Quella mamma che oggi è preoccupata per un marito sotto i ferri. Com'è che i tuoi dischi solisti, e son già tre da quando ti sei rifatto vivo -no non "ri-farti" più di quell'altra cosa, ti supplico-escono sempre in periodi delicati della mia vita? Com'è che li ascolto sempre con il groppo in gola e i calci negli stinchi? Cosa c'è sotto? Mi vuoi male? Tu vuoi male a tutti, in primis te stesso. Vero? Eppure io ti adoro. Tanti ti adorano. Ti adotterebbero, figurati. Una mamma non può odiare un figlio. Un figlio non può odiare una madre. Ricordatelo. Non mi hai mai tradito quando sei stato presente: ho adorato i RitmoTribale, ho cercato la tua assenza (e qui mancavi), venero il tuo inaspettato ritorno. Cosa vuoi di più da me? L'unico tradimento è stata la tua scomparsa nel nulla, dove il nulla era droga, la droga era il tuo amore e gli amori non si discutono. Ma è acqua passata sotto i tuoi ponteggi. Che poi anche lì: che cazzo ci trovavi in quei ponteggi? Ti sei fatto perdonare: Semper Biot era il ritorno nudo e crudo che raschiava le ossa e scaldava il cuore, Odio i Vivi era un' altra parte di te, bella o brutta non so, Stavolta Come Mi Ammazzerai? mi sa che sei te con la corazza, il casco e un carrarmato sotto il culo. Ora hai pure la patente e il cingolato lo guidi tu, dove vuoi, contro chi vuoi. Fuoco! Come non è vero sei te... cantava quello là.
Edda pare pronto per tornare al gruppo madre: quante madri in questo disco, quante madri ha questo disco? Tante come tutte le donne amate carnalmente, odiate metaforicamente e citate nelle tue canzoni.
Orfani dei Ritmo Tribale, questo disco è anche per voi (noi). E' un ritorno alle famiglie che hanno svezzato la sua vita, ma allo stesso tempo un distacco da alcune certezze: c'è il rock minimale e scheletrico fatto di batteria, basso e chitarra che tanto ricorda i bei tempi dei Ritmo Tribale (Mademoiselle, il punk di Ragazza Meridionale, Ragazza Porno, HIV), c'è il papà (Pater), c'è la mamma (Mader) che aprono e chiudono questa raccolta di 17 canzoni registrate in soli due mesi con urgenza assassina insieme a Fabio Capalbo. Ma Edda ha anche abbandonato tutto il suo recente passato per registrarlo. Niente più costruir ponteggi come lavoro (l'avevo detto io), da Arona si è spostato ad Arezzo dalla sua (santa) donna; Walter Somà, il nome-quasi l'alter ego-che fino ad oggi abbiamo letto di fianco al suo come fossero i nostri Lennon/McCartney, Jagger/Richards, i già nostri Mogol/Battisti, o i fratelli La Bionda, lo leggiamo solamente poche volte ma è sempre spiritualmente presente (l'assalto di Dormi E vieni); non c'è più il produttore Taketo Gohara ma c'è tantissimo altro. Ed è presente anche l'artista schietto, sincero e senza parafanghi che abbiamo imparato a conoscere, colui che vuole vendicarsi di tutto nel crescendo spasmodico di Pater (...tutte le volte che vedo mio padre, esco di casa con la voglia di ammazzare, non capisco perché ma io c'ho voglia di uccidere. E un giorno voglio anche essere Dio: vi inculo tutti. Sono contenta perché io c'ho voglia di uccidere. Voglio la carne di chi mangia carne e voglio il sangue di chi beve sangue. Sono contenta così, oggi è Pasqua ed è lunedì. Voglio vedere chi mi ha violentata a dodici anni...), ma anche vittima di vendette altrui mentre ci presenta l'altra metà della sua famiglia (i fratelli Rampoldi) in Coniglio Rosa: un fratello gemello ma diversissimo e distante e una povera sorella scomparsa troppo giovane. Tutto in piazza. Cose intime e private snocciolate sopra al tappeto jazzato di Tu E Le Rose (...io e l'amore non c'ho mai voluto niente a che fare. Ho il dolore di non aver saputo amare te. Nessuno però potrà portarmi via l'amore di averlo fatto davvero con te, tu e le rose. Conviene? A Cristina voglio bene...). Da lacrime.
Stellina è la canzone che vorresti sentire ora dagli Afterhours. Se ascoltate ancora Manuel Agnelli, ascoltate questa. Fate due più due e ditemi cosa è meglio oggi, nel 2014? "Andate affanculo è bellissima!" dice Edda a fine canzone. Questa l'hai detta giusta!
Un disco che viaggia veloce tra assalti di rock metropolitano e quiete pubblica, tra i beat elettronici e gli spasmi vocali in Puttana Da 1 Euro, tra la liquidità scarnificata di Yamamay e i loop industrial di Piccole Isole, tra le citazioni '80 di Bellissima e il finale pianistico e armonioso di Saibene. Una ballata con tutti i crismi.
Un disco di contrasti vincenti: tra carnalità e spiritualità, pornografia onanistica ed eroina come vecchio passatempo, sbocco e inadeguatezza, caos e crudezza istintiva, "killerismo" spietato e vittimismo innocente, genitori e figli. Poco tempo per il respiro. Salivazione azzerata. Un mantra da recitare tutto d'un fiato, tutto il giorno, tutto l'anno, tutta la vita. Grazie mamma. Grazie Edda. Questo disco è un viscerale capolavoro (poco) annunciato di un artista unico e senza eguali in Italia, e ci aggiungo pure l'estero.



vedi anche
RECENSIONE: EDDA-In Orbita (2010)
RECENSIONE: EDDA-Odio i Vivi (2012)
INTERVISTA a EDDA
LIVE EDDA, Tronzano Vercellese, 8 Gennaio 2011
RECENSIONE: RITMO TRIBALE-Bahamas
RECENSIONE: NO GURU-Milano Original Sountrack (2010)
INTERVISTA NO GURU (Alex Marcheschi)
RECENSIONE: ILVOCIFERO-Amorte (2013)
RECENSIONE: UOMINI-I Ritmo Tribale, Edda e la scena musicale milanese. Di ELISA RUSSO (2014)
EDDA live @ Torino, Blah Blah, 22 Novembre 2014




martedì 21 ottobre 2014

RECENSIONE: RICHIE KOTZEN (The Essential Richie Kotzen)

RICHIE KOTZEN The Essential Richie Kotzen (Loud & Proud Records, 2014)



Tempo di bilanci
Non invidio Richie Kotzen. Deve essere stata un’ardua impresa scegliere le 23 canzoni da inserire in questa raccolta: manca molto. Il guitar hero della Pennsylvania vanta una carriera lunga 25 anni, spalmata su 18 dischi solisti e sulle numerose collaborazioni, dai Poison di “Native Tongue” che grazie a lui acquisirono spessore blues, ai Mr.Big dove ebbe l’arduo compito di sostituire Paul Gilbert, fino ai recenti The Winery Dogs, super gruppo messo in piedi con Mike Portnoy e Billy Sheehan. Due i CD, con estratti dai dischi solisti, due inediti (“War Paint”, “Walk With Me”), rivisitazioni unplugged, rarità, demo, più un DVD con i video della carriera. Il miglior consiglio che posso darvi, però, è assistere ad un concerto: entri cercando la chitarra, esci e hai un talento completo in costante crescita nonostante l'età che avanza, capace di passare dall’hard, al calore blues, soul, southern (ottimo “Mother Head’s Family Reunion”, qui ingiustamente snobbato), passando da jazz e fusion (anche questi progetti non ci sono), ma anche una voce strepitosa e buone “canzoni”, punti deboli quando si è davanti a virtuosi delle sei corde come lui. (Enzo Curelli) 7,5



vedi anche
RECENSIONE/LIVE report RICHIE KOTZEN live @ Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO), 20 Marzo 2012
RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)




sabato 18 ottobre 2014

RECENSIONE:ADAM COHEN (We Go Home)

ADAM COHEN We Go Home (Cooking Vinyl/Edel, 2014)



Alle radici
Se il segreto per ritrovare l’ispirazione era tornare nei luoghi dove trascorse l’infanzia, prima la casa natia a Montreal in Canada, poi nell’isola ellenica Hydra, buen retiro scelto dal padre negli anni settanta per esiliarsi dal resto del mondo, l’esperimento può dirsi altamente riuscito. Spossato da un paio d’anni in tour e dai discreti successi raggiunti con i precedenti tre album, Adam Cohen aveva bisogno di riallacciarsi con l’ingombrante cordone ombelicale per ricaricare le pile, e se tuo padre si chiama Leonard e di professione è "poeta", tra i più grandi viventi (ma quanto è bello il nuovo Popular Problems di papà?), qualcosa d’interessante lo porti sempre a casa. Registrato direttamente tra le mura delle abitazioni che lo hanno visto crescere, respirando e attingendo nei ricordi (ben impressi in “Fall Apart”), questo quarto album è il frutto della maturità raggiunta di un figlio che la propria strada, tra folk, pop e confidenziale soul, la sta trovando pur senza rinnegare la calda e raffinata poetica di famiglia, dedicata anche al giovane figlio di sette anni. Tre generazioni: il cerchio che si chiude. Tra le sorprese piacevoli dell'anno. (Enzo Curelli) 8





lunedì 13 ottobre 2014

RECENSIONE: UOMINI-I RITMO TRIBALE, EDDA E LA SCENA MUSICALE MILANESE di ELISA RUSSO

UOMINI-I RITMO TRIBALE, EDDA E LA SCENA MUSICALE MILANESE di ELISA RUSSO (Odoya, 2014, 460 pagine, prezzo 22 euro)


Ci sono panchine e panchine. Quella in piazza Grandi a Milano è stata importante, il fulcro intorno a cui, negli anni ottanta, è nata una bella storia; ritrovo di amici, giovani studenti liceali in libera uscita con la musica in comune ed un futuro tutto da scrivere. Meno importante quella dove ero seduto io nel 1992, quasi ventenne, mentre sfogliando le pagine del defunto HM (tra le prime riviste Heavy Metal italiane dell'epoca, un mix tra una vecchia fanzine in bianco e nero e un periodico a colori) mi imbattei nel nome di un gruppo italiano. Arrivai un po' in ritardo, è vero. Era appena uscito Tutti Vs. Tutti, il loro terzo album, se ne parlava talmente bene che il giorno dopo corsi a comprarmi il vinile da quello che all'epoca, a Biella, era già divenuto il mio spacciatore preferito di dischi. A scatola chiusa, senza aver mai ascoltato una nota, d'altro canto anche volendolo, a quei tempi (e sono solo vent'anni fa) non c'era nemmeno la possibilità di farlo tanto facilmente. Da quel giorno alla domanda: qual è la tua band italiana preferita? Iniziai a rispondere sempre e solo con un nome: Ritmo Tribale.
Ho sempre sperato, anche dopo lo scioglimento, soprattutto dopo, che qualcuno tentasse di ripercorrere e raccontare la loro storia, riportare la band milanese al centro delle cronache musicali, di (ri)dare loro la giusta importanza e visibilità all'interno della scena rock italiana. Il tassello di "gruppo di culto" lo occupano ormai da molti anni ed è sempre più stretto. Ora il capitolo è completo, o quasi. Non crediate che sia finita qui però...
A raccontare quella storia ci è riuscita, e molto bene, Elisa Russo, triestina, attiva come giornalista in campo musicale proprio da quei primi anni novanta fino ad arrivare ai giorni nostri: web, Radio e  TV Capodistria, Il Piccolo di Trieste. Elisa la trovate lì se volete conoscerla. Io, invece, la incontrai via MySpace-ma esiste ancora?-intorno al 2007, quando cercando notizie sullo strepitoso concerto di reunion dei Ritmo Tribale al Fillmore di Cortemaggiore
(il famoso "il ritorno"), chiesi qualche delucidazione che lei mi diede gentilmente. Da allora, la seguo abitualmente grazie a Facebook-ecco perché MySpace non è più quello di prima-ed insieme a Zymbah, il tuttofare della tribù "tribale", è diventata un piccolo faro che illumina tutti i die-hard fans della band milanese. Seguire i suoi post e gli scambi di battute scritti in dialetto con il fratello Ricky Russo è uno vero spasso. Lo stesso Ricky, che ora vive a New York, ha scritto un intero libro in dialetto (Per Bon, For Real) raccontando le sue avventure turistico/musicali nel "grande pomo". Capisco tutto-anni di estati passate in Friuli aiutano-ma non oso interagire. Per scrivere nel loro dialetto ci vogliono le scuole!
"Lo misi sul giradischi (parlando dell'LP Kriminale) e fu amore a primo ascolto. Non avevo sentito mai nulla del genere. Di musica ne ascoltavo tantissima mi piacevano i Litfiba e i Negazione, ed entrambi mi emozionavano parecchio, li sentivo in sintonia con ciò che ero. Ma i Ritmo Tribale mi travolsero, mi entrarono dentro ma in maniera differente. E' difficile da spiegare, ma è una sensazione fisica, proprio come l'innamoramento. Dei Ritmo Tribale mi sono innamorata e la fiamma non si è mai spenta..." racconta Elisa nell'introduzione a pag.25.
Leggendo le 460 pagine si percepisce tutto. Non costruisci un libro del genere se non hai quel vero interesse che nasce dal cuore. Elisa ha fatto un "lavorone", frutto di anni di ricerca e di passione: tante nuove interviste con i protagonisti e con le persone che li hanno conosciuti nel tempo (fidanzate e mogli, vecchie e nuove, musicisti, amici ed ex amici, collaboratori, giornalisti), vecchie dichiarazioni estrapolate dai giornali dell'epoca, stralci di recensioni dei dischi, testi, tante foto inedite. Non manca nulla. Partiti sotto la spinta del ricco sottobosco hardcore/punk italiano (Negazione, Indigesti, Raw Power, Wretched erano un'istituzione in Italia ma anche e soprattutto all'estero) e poi una lenta e costante acquisizione d'identità grazie all'uso dei testi in italiano che faranno scuola (chiedere a Manuel Agnelli, qui intervistato), un crossover musicale d'impatto, un cantante carismatico, disturbato e fuori da ogni catalogazione-per me è sempre stato il nostro Mike Patton, prima ancora di Mike Patton-e poi uno sguardo approfondito sulla scena musicale milanese degli anni 80/90 (Afterhours, Karma, Casino Royale, La Crus); l'incredibile esperienza dello studio di registrazione Jungle Sound messo in piedi dal chitarrista Fabrizio Rioda; l'affascinante storia, la resurrezione e la carriera solista di Edda-quasi una favola a lieto fine-che prossimamente si arricchirà di un nuovo album ben presentato in un intero capitolo del libro (Stavolta Come Mi Ammazzerai? in uscita il 27 Ottobre); il presente targato No Guru, il gruppo che vede riuniti i restanti Andrea Scaglia, Alex Marcheschi, Andrea "Briegel" Filipazzi, Luca "Talia" Accardi con Xabier Iriondo (Afterhours) e Bruno Romani (Detonazione).
Per presentare un romanzo lungo trent'anni che ha attraversato in corsa le striscie pedonali della Milano degli anni '80, scalciato i preziosi calici in vetro della "Milano da bere" per approdare sul marciapiede scivoloso della Milano più viva, barricadera e pulsante, quella dei centri sociali dove poter suonare, ma anche quella marcia e insidiosa (le droghe giravano indisturbate e disturbavano) ci sono volute ben tre prefazioni a firma di Federico Guglielmi, Christian Zingales e Vittorio Bongiorno.
Un tuffo al cuore per i fan, una bella storia da conoscere per chi vuole avvicinarsi al gruppo per la prima volta. Nel 1992, io sarò arrivato in ritardo, ma molti non ci sono arrivati ancora oggi. Questo è il momento giusto. Forza.
Uomini cattura. Ho iniziato a divorarlo ingordamente appena l'ho avuto fra le mani, poi ho rallentato. Pure bello e sostanzioso anche solo al tatto e alla vista. Sto centellinando la lettura per godermelo più a lungo, ma mancano una manciata di pagine, due, una, finito. Ma in fondo la vera storia non è ancora giunta a conclusione...giusto? to be continued




vedi anche
RECENSIONE: EDDA-In Orbita (2010)
RECENSIONE: EDDA-Odio i Vivi (2012)
INTERVISTA a EDDA
LIVE EDDA, Tronzano Vercellese, 8 Gennaio 2011
RECENSIONE: RITMO TRIBALE-Bahamas
RECENSIONE: NO GURU-Milano Original Sountrack (2010)
INTERVISTA NO GURU (Alex Marcheschi)
RECENSIONE: EDDA-Stavolta Come Mi Ammazzerai? (2014)


mercoledì 8 ottobre 2014

RECENSIONE:BLACKBERRY SMOKE (Leave A Scar-Live In North Carolina)

BLACKBERRY SMOKE Leave A Scar-Live In North Carolina ( 3 Legend Records, 2014)



Alla vecchia maniera
Non è At Fillmore East e nemmeno One More From The Road, ma Leave A Scar, doppio album live della southern band di Atlanta (anche in versione DVD per chi vuole tenere gli occhi impegnati), è quello che più si avvicina, oggi, alle atmosfere seventies di dischi epocali come quelli, monumenti insuperati di un modo di suonare e intendere il rock che hanno fatto scuola e tanti discepoli. Se le vecchie band ancora in piedi, anche grazie a cerotti e comparse, corrono dietro al moderno per tenersi a galla, le nuove generazioni giocano sul sicuro, risultando spesso più credibili e convincenti. La dura gavetta aprendo per mostri sacri come ZZ Top, Lynyrd Skynyrd e The Marshall Tucker Band trova la giusta e meritata ribalta in queste 22 canzoni (con l’inedito Payback’s A Bitch) che esaltano i tre lavori in studio prodotti fino ad oggi con l’ultimo The Whippoorwill a testimoniarne la maturità acquisita. Ingredienti vecchi ma sempre gustosi: trascinanti e alcolici honky tonk, country rock, epiche rincorse hard blues. La migliore band sudista degli anni 2000? (Enzo Curelli) 7,5 da CLASSIC ROCK Lifestyle #22,
Settembre 2014



vedi anche
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-The Whippoorwill (2012)
RECENSIONI: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Phosphorescent Harvest (2014) THE CADILLAC THREE-Tennessee Mojo (2014) WHISKEY MYERS-Early Morning Shakes (2014)
RECENSIONE: MARC FORD-Holy Ghost (2014)
RECENSIONE: CORY BRANAN-The No-Hit Wonder (2014)






lunedì 29 settembre 2014

RECENSIONE:SCOTT H.BIRAM (Nothin' But Blood)

SCOTT H. BIRAM  Nothin' But Blood (Bloodshot Records/IRD, 2014) 



Se il successo di un musicista si misurasse dal numero di ossa rotte in vita, il quarantenne Scott H. Biram sarebbe in cima alle classifiche. Sfortunatamente per le sue tasche sdrucite non è così, e il texano continua ad incidere dischi (nove in tredici anni), con fierezza e rara passione, camminando e talvolta correndo troppo con il suo vecchio Ranchero 65 lungo quella linea zigzagante, poco trafficata ma pericolosa, che divide il bene dal male, il sacro dal profano, la redenzione dal peccato, e dove country, blues, punk e metal viaggiano allineati in contemporanea lungo le sei corde delle sue vecchie chitarre. Ossa spezzate in episodi marginali alla vita artistica ma capaci di inquadrare il personaggio: prima l’incidente stradale in Texas nel 2003 che gli lasciò intatto un arto su quattro ma non gli impedì, un paio di mesi dopo, di salire sul palco in sedia a rotelle con una flebo al seguito, poi in Francia nel 2009, quando scivolò nei pressi di una pompa di benzina. Cicatrici e protesi al titanio lo tengono unito. Uno scavezzacollo sporco e genuino, “ho imparato a sputare e menar pugni prima di imbracciare una chitarra”, che in giovane età, prima di essere conquistato dal blues (Doc Watson e ‘Vol.4’ dei Black Sabbath tra i suoi preferiti) e poi dal punk, accontentò pure la famiglia prendendo la sua meritevole laurea in arte che ora viene bene solamente per disegnare t-shirt con grande spirito DIY, lo stesso che gli bolle in corpo quando ha una chitarra in mano, quando sbuffa dentro un’armonica, batte il piede su una stomp box amplificata e sale sul palco a ringhiare. Tutto insieme. Un “The Dirty Old One Man Band” (anche titolo del suo miglior disco) capace di unire Leadbelly e Motorhead, Merle Haggard e Black Flag, incendiare fienili con litri di alcol etilico, sfidare la morte provocandola pericolosamente e pregare per ringraziare d’essere ancora su questa terra.

Il nuovo album ‘Nothin’ But Blood’ lo ritrae immerso in un mare di sangue per un battesimo che in apparenza sa di nuova rinascita “ho un piccolo lato spirituale e amo la musica gospel, dico preghiere e cose del genere, ma non so di chi diavolo sto parlando”, anche se durante l’ascolto non sembra prevalere nessun lato della musica (country, bluegrass e iconoclastia punk si intrecciano ancora) e nemmeno della sua personalità: ha ancora la bottiglia di Whisky saldamente in una mano e il vangelo nell’altra. Cosa cadrà prima? “Sono un fottuto depresso, lo sono da sempre”. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #39 (Aprile/Maggio 2014)



lunedì 22 settembre 2014

RECENSIONE: CHEAP WINE (Beggar Town)

CHEAP WINE   Beggar Town  (CheapWine Records/IRD, 2014)



Mentre stavo scartando il pacco appena arrivato, contenente questa nuova preziosa opera dei pesaresi Cheap Wine (e con l'aggettivo "preziosa" mi sono già bruciato la valutazione finale), Marco Diamantini, cantante e autore dei testi del gruppo, sulla sua bacheca facebook postava la copertina del disco con questa frase promozionale di contorno: "lo so che alla Apple e gli U2 fanno diversamente. Ma noi siamo all'antica. Noi siamo dinosauri. E, soprattutto, siamo mendicanti". C'è chi ha avuto le nuove undici, fredde, gelide-e pure bruttine- canzoni del gruppo irlandese sull'iPod "a sua insaputa" e chi queste avvolgenti dodici canzoni nello stereo, impacchettate con la cura di sempre dentro ad una confezione curatissima con testi in inglese e relative traduzioni in italiano, e artwork (splendido, non trovate?) a firma dell'artista Serena Riglietti come nel precedente Based On Lies . Mi sento fortunato, un po' dinosauro e mendicante anch'io: gli U2 (onore al passato) li ho scaricati al primo ascolto-nel senso più dispregiativo del termine-i Cheap Wine li ho salvati alla  prima, anche se loro stessi dicevano che era difficile entrare in sintonia con l'album al primo ascolto. Niente di più sbagliato. Ho amato queste canzoni da subito, perché hanno la forza di catturare e portarti lontano, immediatamente. Non hanno date di scadenza e la pretesa di arrivare subito, la sintonia nasce da qui, dal sapere che dovrai dare loro un po' del tuo tempo per venire ripagato adeguatamente. Se non è oggi sarà domani, ma sai che dovrai ripassarci. C'è tanto lavoro, passione e vita dietro. Si percepiscono.
Cose che non possono sfuggire al primo ascolto. Gli altri ascolti serviranno a cercare i particolari-e sono tanti, ve lo assicuro-capire i testi, mettere insieme i pezzi del concept. "Beggar Town è un disco ambizioso, scorbutico, anarchico, ribelle. Che non tiene conto di nulla, se non della nostra anima e dei nostri umori". Raccontano loro.
Il precedente Based On Lies era un' impietosa e pessimistica istantanea della realtà costruita sulle menzogne, questo è un manuale di resistenza ma anche  soprattutto di fuga dal passato nero e dalla grigia quotidianità, fuga che a volte va a compimento trovando le giuste vie di scampo (la corale positività di Your Time Is Right Now con la sua lunga coda finale), altre no e la metafora del mare come via alternativa fa spesso capolino ("Tempo fa, tutto il mare era calmo e silenzioso, quando navigavo, la notte era illuminata dal faro" nella ondigava  Lifeboat). L'importante è provarci. Sempre. Disco intenso, a tratti rarefatto, compatto e notturno dove le tastiere di Alessio Raffaelli tessono bene la tela, le belle chitarre di Michele Diamantini irrompono, pungono e allungano spesso, come nell'apertura Fog On the Highway. L'incrocio tra tastiere e chitarre caratterizza l'intera opera. Muddy Hopes ha il passo che mi ricorda l'ultimo Leonard Cohen di Old Ideas, la voce di  M. Diamantini sussurra in sordina, i tempi diventano lenti e quasi jazzati con le chitarre che vanno nuovamente a riprendersi il crescendo finale, diversamente dallo straniante up tempo chitarristico di Beggar Town. Qui è tutta una fuga.
In Claim The Sun la voce di Diamantini si fa ancora più intensa, una ballata amara e coinvolgente, esortazione a lasciarsi indietro il passato. Rinascere. Tra le migliori.("Sono Tempi duri, ma saprò resistere. Tu sei il girasole sbocciato nella sabbia. Ora risvegliati e pretendi il sole. Ora risvegliati e trova la forza per cancellare tutto il grigio e per scoprire un colore nuovo, ogni giorno").
Keep On Playing è la prova di squadra perfetta: diciotto anni di attività e dieci album incisi sono un traguardo non da poco per una band che non ha mai ceduto ai "grossi e loschi affari" pur avendo tutte le carte-nazionali e internazionali- in regola, preferendo la tortuosa ma sempre appagante strada dell'indipendenza tout court. Con l'irruenza del passato messa da parte ma non abbandonata del tutto (con pazienza: il finale sta per arrivare), ora a prevalere è una coesione fatta di tante sfumature, macchina "umana" perfetta con pochissimi eguali in Italia, costruita di album in album, di concerto in concerto, di sacrificio in sacrificio. Una continua progressione che si nota se mettete in fila i loro album, dal debutto del 1997 fino ad oggi. Le tastiere in primo piano e la sezione ritmica formata da Alan Giannini alla batteria e Alessandro Grazioli al basso sono lezione da imparare in Keep On Playing. Quasi progressive nel suo procedere.
Utrillo'Wine è un'altra ballata pianistica, una mini opera che mi ricorda certe cose di Bill Fay, e ci presenta un episodio tragicomico pescato dalla bizzarra vita di un personaggio realmente esistito: Maurice Utrillo, pittore francese nato a fine '800, compagno di sbronze e fedele amico di Amedeo Modigliani, caduto in disgrazia, vittima di disturbi psichici e alcolismo. Le sue opere verranno rivalutate solamente dopo la morte.
Destination Nowhere, è un blues rock funkeggiante che tira la volata finale, caratterizzata dall'innalzamento della tensione: Black Man è il primo vero scatto rock del disco, questa volta sono le chitarre a condurre il gioco (Michele Diamantini sale in cattedra) mentre il pianoforte insegue e bene: c'è una la voce maledetta che vuole farti sbagliare strada portandoti tra la  perdizione, ma quando non hai più nulla da perdere vedi e punti i nemici con più acume.
I Am The Scar segue a ruota e ne è la degna continuazione. Sono i tempi della rivincita, e poco importa come si concretizzerà: "vagavo da solo, tenevo il mio fucile in vista. Verrò a prendervi tutti. Vi ammazzerò uno alla volta. Dicevate che ero fuori di testa. Adesso sapete che avevate ragione. Mi avete ridotto alla fame".
The Fairy Has Your Wings (For Valeria) si stacca da tutto e chiude con accorata grazia ricordando un'amica che non c'è più. Miglior finale non poteva esserci.
Prezioso. L'ho già detto?

in uscita il 4 Ottobre





vedi anche RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
RECENSIONE & INTERVISTA : MATT WALDON-Learn To Love (2014)
RECENSIONE & INTERVISTA: GUY LITTELL-Whipping The Devil back (2014)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitiful Blues (2014)
RECENSIONE: CORY BRANAN-No-Hit Wonder (2014)



lunedì 15 settembre 2014

COVER ART # 7: EDOARDO BENNATO (La Torre di Babele-1976)

artista: Edoardo Bennato
opera: La Torre di Babele
anno: 1976
artista disegno: Edoardo Bennato
canzoni da ricordare: Venderò, Cantautore, La Torre di babele

Nel precedente disco Io che non sono l'Imperatore(1975), l'architetto/urbanista Edoardo Bennato piazzò in copertina il progetto/proposta sulle linee ferroviarie dell'area metropolitana di Napoli da lui stesso creato, che in qualche modo cercava di opporsi criticamente a quello realmente scelto dalla città partenopea. La fervida fantasia che accompagnava i testi delle sue canzoni, dove fiaba e realtà si mischiavano in modo assolutamente originale iniziava a tramutarsi ed esprimersi anche graficamente. Bennato dopo ver conseguito il diploma a Napoli, si trasferì a Milano per studiare architettura. Esperienza che riuscì anche a trasportare nella sua carriera di musicista.
Dopo l'invenzione del suo logo, composto dal nome scritto con caratteri fumettistici accompagnato dall'inseparabile armonica e un groviglio di fili elettrici-che comparve per la prima volta su I Buoni e i Cattivi(1974)- per il successivo La Torre di Babele(1976) ci volle un'idea geniale che potesse rappresentare la canzone omonima che diede il titolo all'album, prendendo spunto dalla leggendaria costruzione di bitume e mattoni di cui si narra nel libro della Genesi nella Bibbia. Una torre costruita dagli uomini sul fiume Eufrate in Mesopotamia che doveva servire da tramite a Dio che però ne impedì la fine per punire la superbia umana in terra.
Il disco uscito nel 1976 è tra i vertici musicali del Bennato anni settanta: La Torre di Babele, Venderò, Viva la Guerra, Franz è il mio nome, Cantautore sono rappresentative della scrittura del cantautore napoletano. Metafore che mettevano in risalto la ricerca della libertà attraverso la condanna delle guerre, del perbenismo imperante, dell'arrivismo sfrenato, di tutti i dogmi politici e religiosi in modo ironico e sarcastico. Un monito lanciato all'uomo. Una sveglia al non svendersi mai, al non cedere davanti ai potenti e dittatori, a quei capi della guerra (citando il maestro Dylan) che ci vogliono come (Quante) brave persone. Musicato sulla veemenza acustica che sa toccare il folk, il blues e il rock'n'roll americano bagnato dentro alla mediterraneità della sua terra.
La copertina raffigura una ipotetica torre di Babele composta esclusivamente da un vasto ed assortito campionario di soldati in tenuta da guerra, raffigurati nel trascorrere dei secoli: dall'uomo primitivo munito di clava, passando all'antico egizio, il soldato romano, i crociati e via salendo fino al moderno 900, alle guerre mondiali, culminando con un missile in punta, lanciato verso l'incognita "futuro".
"Un giorno gli uomini, accecati dalla loro presunzione, cercarono di costruire una torre così alta da raggiungere il cielo e sfidare Dio, ma Dio li punì confondendo le loro lingue, e non comprendendosi più l'un l'altro, finirono per farsi la guerra.
La torre appena cominciata, interrotta e diroccata, divenne il simbolo dell'insoddisfazione ed impotenza dell'umanità intera.
Nella trasposizione grafica della "Torre di Babele" ho appunto cercato di rappresentare il racconto biblico con un'impalcatura di uomini in armi (da quello Neanderthaliano con la rudimentale clava, via via fino a quello moderno con armi sofisticate), tutti rivolti verso l'obiettivo di un immaginario flash, in posa come in una foto ricordo, la foto dell'umanità che fa la guerra.
Inizialmente avevo differenziato i vari livelli della torre con relativi ordini architettonici, ma toglievano comprensibilità all'impianto grafico. Anche cavalli ed animali sono stati eliminati dal disegno finale perché volevo che l'impalcatura della torre fosse composta solo da uomini in guerra." da http://www.bennato.net/page.php?section=babele&lang=it

"E quella stella sarà il quartier generale per conquistare quello che c'è ancora da conquistare e da quella stella per tutto l'universo l'uomo si spazia, per superare se stesso." da La Torre di babele

Bennato spese parecchio tempo alla ricerca delle sagome dei soldatini da rappresentare in copertina. Un lavoro certosino che si completa con il disegno all'interno del disco originale, apribile, che raffigurava tutti i partecipanti alla realizzazione del disco ed amici (dal fratello Eugenio, Lucio Fabbri, Roberto Ciotti, Tony Esposito...) in tuta spaziale, protagonisti e forse "salvi" all'interno di un paesaggio lunare.
Nel 2009, Edoardo Bennato contribuì alla campagna "Io pretendo dignità" di Amnesty International donando una litografia autografata dell'immagine originale della copertina. La litografia venne messa all'asta su ebay ed il ricavato andò in beneficenza.

vedi anche COVER ART

 

lunedì 8 settembre 2014

RECENSIONE: BLUES PILLS (Blues Pills)

BLUES PILLS  Blues Pills (Nuclear Blast, 2014)



La band rivelazione dell'anno? Sì, probabilmente lo è. Un po' perché sostenuta da un battage pubblicitario ben mirato e diramato che sta toccando le riviste e i siti di ogni genere musicale, merito dell' ottimo lavoro della Nuclear Blast, veramente, fin troppo ed esagerato tanto da far nascere strani pregiudizi (siamo i soliti malpensanti), molto perché dietro al loro retro rock  c'è freschezza, sostanza, bravura, genuinità e determinazione. Qualità vere e inconfutabili. Originalità? No, quella per ora latita ancora e si spera arrivi in seguito, quindi pazienza se i paragoni e i rimandi abbondano, si gode di qualcos'altro: in primis della passione sincera per quelle sonorità ascoltate e accumulate attraverso i vecchi vinili rubati alle discografie dei genitori. Un lavoro di gestazione lungo tre anni, preceduto da due EP (molte canzoni si ripetono e compaiono anche qui), ma è valsa la pena aspettare questo debutto. Una giovanissima band multietnica ma di casa a Orebro (Svezia) che manda avanti a dare il benvenuto, ad aprire la porta di casa, l'avvenenza, il talento e la bravura della cantante svedese Elin Larsson, voce soul/blues come quelle di una volta, tanto che i paragoni si sprecano (da Janis Joplin a Aretha Franklin, è già stato detto di tutto, ma lei adora Etta James), ma immediatamente dopo ti travolge dalle retrovie  grazie alla compattezza d'esecuzione della sezione ritmica tutta americana (Zack Anderson al basso e Cory Berry alla batteria, anche se appena uscito dal gruppo e sostituito da André Kvarnström ) e dalla ispirata chitarra del francese Dorian Sorriaux, piccolo talento con le dita di un veterano, alimentate dal fuoco hendrixiano che affondano ma poi sanno lavorare così bene nei dettagli della superficie e perdersi nell'acidità degli assoli. L'apertura con il botto di High Class Woman è un viatico esemplare di quello che le dieci tracce ci proporranno lungo tutto il disco: sezione ritmica tuonante che spara pesantemente groovy, la voce della Larsson che si staglia su tutto ed un break centrale lisergico e sognante. Componenti semplici quelli del rock, se usati a dovere funzionano sempre, anche se ripetono la stessa lezione all'infinito.
Ci sono tutti gli ingredienti che sanno colpire il cuore di ogni rocker nostalgico dei bei tempi andati. L'hard blues cavalcante e chitarristico alla Fleetwood Mac di Ain't No Change;  il vortice hard rock psichedelico di Devil ManJupiter con il wah wah esasperato della chitarra che lasciano trasparire anche tutto l'amore per la scena stoner rock '90; la psichedelia californiana '60 di River; gli anfratti zeppeliniani della finale Little Sun; la bella e vivace cover di Gypsy brano scritto nel 1973 da Chubby Checker; gli umori cangianti di Black Smoke che parte lenta e sulfurea per diventare serpeggiante e imprendibile; la sognante No Hope Left For Me; la cadenzata, più nera, fumosa, dall'approccio sabbathiano Astralplane.  Non manca nulla. Tutto ben fatto, registrato in analogico ma come deve essere  nel 2014 (lavorone del produttore Don Alsterberg), facendo prevalere la resa live. Impeccabile per un debutto, tanto che il seguito sarà una bella gatta da pelare, anche solo per eguagliarne il risultato.
La versione deluxe oltre a presentare il buon artwork-ripescato direttamente dall'epoca d'oro dei tardi '60- dell' artista e  madrina psichedelica Marijke Koger-Dunham, aggiunge un bonus DVD live registrato al Hammer Of Doom Festival nel 2013, con 7 tracce più un 'intervista.





vedi anche
RECENSIONE: GRAVEYARD-Hisingen Blues (2011)



lunedì 1 settembre 2014

RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND (No Bells On Sunday)

MARK LANEGAN  BAND No Bells On Sunday (Flooded Soil/Vagrant Records, 2014)



Non so più come leggere i suoi dischi. Forse bisognerebbe limitarsi ad ascoltare e basta, ma anche questo è diventato un problema vista la massa di canzoni che Mark Lanegan ha riversato sui fan negli ultimi due anni, investito da una bulimia difficilmente controllabile: il più che ottimo Blues Funeral (2012), album vario e coraggioso nel cercare ed esplorare impervie vie elettroniche senza risultare troppo demodè, Black Pudding (2013) con Duke Garwood, una immersione a due nel folk in punta di piedi, la seconda trance di cover in Imitations (2013), viaggio nella sua memoria  fanciullesca, l'inaspettato EP natalizio Dark Mark Does Christmas (2012), dissacrante e riuscito passatempo. E dire che l'anno lo aveva fatto partire più che discretamente con la doppia raccolta Has God Seen My Shadow? An Anthology 1989-2011, arricchita da ben dodici e scuri inediti. Nonostante l'annuncio, l'uscita del nuovo disco Phantom Radio, prevista in autunno (21 Ottobre), sembrava ancora abbastanza lontana per assimilare tutto e riprendere fiato. Ma al Lanegan targato 2.0 piace intasare il mercato e soffocarci. Se questo anticipo di cinque canzoni è solo un divertissement aspettando l'uscita autunnale dell' intero disco, il tutto si può considerare quasi piacevole e sopportabile (sempre nei limiti degli umori "laneghiani", ancora cupi e invischiati nelle acque torbide della vita), se invece vuole essere un assaggio e la linea guida delle prossime canzoni, ci sarà da preoccuparsi un pochino. Il troppo stroppia se non è supportato da un'ispirazione costante e tarata sull'ottimo, ma lo stakanovismo lavorativo prevale su tutto, anzi non accenna a diminuire "adoro lavorare, anche se scrivere e registrare canzoni non lo considero un lavoro".
Lanegan estremizza il lato elettronico presente in Blues Funeral, posseduto da una enfatuazione per Echo And The Bunnymen, Gun Club, Rain Parade come lui stesso ha ammesso, il dubbio che siano scarti di quest'ultimo rimane, salvo poi arrendersi alla realtà: sono scarti del prossimo disco. Ma non era meglio farli uscire dopo? Aumenta l'uso di synth (se fossino ancora negli '80 i rocker girerebbero alla larga) giocando e abusando con il trip hop, usa  marchingeni moderni (applicazione per smartphone chiamata Funkbox) e a risentirne maggiormente è la malata profondità umana delle sue canzoni, percettibile solamente nella persistente tenebrosità post biblica dei testi. Di Leonard Cohen però, ne esiste già uno. Se Sad Lover è un martellante electro rock '90, la più convincente ed esuberante nella sua linearità dritta e sparata, l'inconseuta Jonas Pap si piazza come il suo contraltare folk e minimale. Nel resto il blues diventa contorno sbiadito e la sola inarrivabile voce non basta più a sollevare la noia musicale di tracce lunghe e pedanti (Dry Iced, Smokestick Magic che raggiunge addirittura gli otto minuti). Canzoni allungate come un elastico che quando ritorna in posizione è sfatto e da buttare, arriva pure qualche sbadiglio di troppo, e calcolando che sono solo cinque canzoni, non è cosa bella.
L'unica certezza-e da fan mi spiace pure dirlo- è l'inutilità di questo EP che si trova solo in versione vinile 12 pollici, per ora. EP che avrei bypassato a favore di qualche mese sabbatico (chiedere un anno sarebbe troppo). Il riposo fa bene. Comunque sia, ci si rivede in autunno.




vedi anche
RECENSIONE: MARK LANEGAN-Blues Funeral (2012)
RECENSIONE: MARK LANEGAN-Dark Mark Does Christmas  (2012)
RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)

martedì 26 agosto 2014

RECENSIONE: CORY BRANAN (The No-Hit Wonder)

CORY BRANAN  The No-Hit Wonder (Bloodshot Records, 2014)



Cory Branan è un songwriter dal passo lento, apparentemente distaccato dalla vorace velocità dell'odierno music business, capace di tenere un piede nel pericoloso outlaw country dei seventies, uno appoggiato sull' acceleratore del presente che schiaccia a suo piacimento senza compiacere nessuno, ma riuscendo a stare ben in equilibrio sulla linea della migliore tradizione rock americana, risultando persino sfuggente ad ogni etichetta musicale si voglia appiccicargli addosso. Ne sono testimoni le quattro uscite discografiche ben distese nel tempo: dal debutto The Hell You Say del 2002, passando per 12 Songs (2006) fino al buon Mutt di due anni fa che a tratti giocava nello strizzare l'occhio al miglior Springsteen di metà 70. Poi ci sono le storie: nato tra il Mississippi e Memphis, rapito da Nashville e dalle vecchie canzoni di John Prine a cui ha aggiunto la giusta dose d'irruenza, la sfacciataggine rock della sua generazione, e l'ironia sbeffeggiante a cui queste nuove undici tracce non sfuggono. Negli ultimi tre anni è diventato marito e padre ma la scrittura non ne ha risentito più di tanto, acquistando piuttosto le tenui sfumature della maturità. Maturo sì ma sempre arcignamente guascone (The Only You) e irriverente: uno tipo sempre piuttosto scomodo e da prendere con le molle. Arricchito dalle nuove esperienze, forse più convenzionali e romantiche ma ugualmente eccitanti se raccontate  come succede nell' honky tonk  d'apertura You Make Me, dedicata alla fresca moglie e cantata insieme all'ospite Jason Isbell, o in quella Daddy Was A Skywriter che allunga la mano verso il Ry Cooder di frontiera, le sonorità zydeco con l'armonica a serpeggiare e il testo a declamare l'importanza che i genitori hanno avuto nella sua vita. La famiglia è completa.
Disco più rootsy rispetto al precedente. Il country di All The Rivers In Colorado si adagia sulla steel guitar e vede Caitlin Rose e Austin Lucas ai cori, C'mon Shadow è un altro lieve acquerello country suonato in punta di dita; All I Got And Gone, un soffuso valzer notturno; mentre la finale Meantime Blues è un folk acustico e solitario, The Highway Home è un folk rock corale dove ai prestigiosi musicisti della band viene dato il giusto spazio per mettersi in mostra. Suonano: John Radford (Justin Townes Earle) alla batteria, Sadler Vaden (400 Unit, Drivin N Cryin) alle chitarre, Audley Freed (The Black Crowes) alle chitarre e Robbie Turner (Waylon Jennings, Charlie Rich) alla steel guitar.
Non mancano comunque le veloci scorribande in discesa senza freni: l'irriverente attacco cow punk della tittle track, un cavalcante manifesto suonato con i membri dei The Hold Steady Craig Finn e Steve Selvidge, un omaggio alla vita "on the road" di tutti quei musicisti che lottano ogni giorno per arrivare o Sour Mash con Tim Easton alle voci, un veloce trenino che sbuffa fumoso e alticcio hillbilly country, quello che piacerebbe a Johnny Cash, tanto da aspettarsi la materializzazione del man in black alla prima fermata.
Disco vario e piacevole che conferma il quarantenne Branan come uno dei migliori narratori  del moderno ma eternamente "vecchio" cantautorato americano.



RECENSIONE: CORY BRANAN-Mutt (2012)
RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
RECENSIONE: BILLY JOEL-A Matter Of Trust-The Bridge To Russia (2014)
RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
RECENSIONE: TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitiful Blues (2014)

lunedì 18 agosto 2014

RECENSIONE: JACKSON BROWNE (Late For The Sky)

JACKSON BROWNE  Late For The Sky (Inside Recordings/Rhino Records/Warner, 1974/2014)


Quando un disco è perfetto c’è dopo da aggiungere. E’ quello che deve aver pensato Jackson Browne quando ha messo mani a questa riedizione del suo capolavoro (rimasterizzata dai nastri analogici originali), nata per celebrare  i quarant’anni dall’uscita e fortemente voluta dallo stesso autore, nell’anno in cui egli stesso è stato tributato dai colleghi (Bonnie Raitt, Lyle Lovett, Ben Harper, Bruce Springsteen, Lucinda Williams, Bruce Hornsby tra i tanti) nel bel doppio disco Looking Into You, e che vedrà l'uscita (7 Ottobre) del nuovo album in studio Standing In The Breach atteso fin dal 2008, quando uscì l'ultimo Time The Conqueror.
Nessun proclama altisonante, nessuna bonus track, nessuna traccia live del periodo a rimpolpare. Bastano le canzoni e la iconografica copertina di Bob Seidmann, arrivata in ispirazione a Browne prendendo spunto dall' opera L'Empires Des Lumieres del pittore belga  Rene Magritte, e divenuta simbolo di un periodo florido dal punto di vista musicale quanto amaro da quello personale. Quel poco in aggiunta sono i testi, mai apparsi in nessuna edizione precedente anche se da sempre ben vividi nella memoria dei fan. E qui i testi contano, perché dietro a canzoni che potrebbero nascondere le debolezze sentimentali dell’autore, le perdite (amorose nella struggente title track, le amicizie in For A Dancer) si nascondevano le sconfitte-un anno dopo, sua moglie si tolse la vita- le incertezze ("non mi è chiaro quello che voglio dire" canta in Farther On) di una intera generazione che aveva smarrito la via maestra e all’orizzonte vedeva il nero di una apocalisse travestita anche da incubo nucleare, la finale Before The Deluge diverrà un inno in tal senso, traghettando Browne verso la creazione del movimento MUSE (Musicians United For Safe Energy) e gli importanti concerti No Nukes del 1979 che coinvolsero tanti amici musicisti.
Tutto scorreva su canzoni che troppo frettolosamente qualcuno battezzerà soft rock, ma che pesavano come macigni. Altro che leggerezza. Ballate amare dove la chitarra di David Lindley era in grado di far uscire il sole californiano (il graffiante rock'n'roll da viaggio di The Road And The Sky, il funk/reggae di Walking Slow) o far cadere amara pioggia di lacrime (The Late Show). Jackson Browne fu uno dei più fulgidi poeti di quel periodo, capace di mantenere, nel tempo, il fisico e quell’aria da eterno ragazzo californiano (anche se nato in Germania) ma lasciare gran parte dei sogni e un po’ dell’ispirazione migliore (che continuerà almeno fino a Hold Out-1980, con gli splendidi The Pretender-1976 e Running On Empty-1977 in mezzo) impacchettati nel sedile posteriore di quella chevrolet eternamente parcheggiata in quel tipico viottolo americano di L.A.-ma con i cieli del Messico (fotomontaggio ahimè)-davanti a quel lampione dalla luce sempre più fioca, ma non ancora spento del tutto.

 

vedi anche
RECENSIONE: BILLY JOEL-A Matter Of Trust-The Bridge To Russia (2014)
RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
RECENSIONE: TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitiful Blues (2014)



lunedì 11 agosto 2014

RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE (Pitiful Blues)

 MALCOLM HOLCOMBE  Pitiful Blues  (Gypsy eyes Music/IRD, 2014)



Puoi alzarti una mattina d'agosto con poca voglia di mettere i piedi fuori da casa. Con la noia in primo piano, fastidiosamente appiccicata agli occhi. Guardare fuori dalla finestra e vedere nuvoloni neri, minacciosi, presagio di tempesta, portatori insani di mal vivere. No grazie, resto in casa. Poi ti ricordi di aver messo da parte un disco per l'ascolto, forse attendendo l'arrivo del suo momento. Vi succede mai? Quando partono le visioni quasi bibliche di Pitiful Blues (la canzone) ti accorgi che il momento giusto per ascoltarlo era proprio quello: alle sei di mattina, le braccia allungate per un pigro stiracchio, i piedi nudi sul pavimento, lo sguardo perso, la finestra sul balcone è ancora aperta e lascia entrare una brezza troppo fresca per essere estiva, troppo calda per essere autunnale, ma abbastanza troppo di tutto per creare un certo smarrimento complessivo, una bussola impazzita che non vuole trovare la stabilità, mentre dietro una voce grezza, tormentata, baritonale e vissuta canta: "I sit around the table pray down on the floor/swear i'm gonna go to war and suffer nevermore/it's an eye for an eye and a tooth for a tooth/i aint learned nuthin' but the poor me pitful blues/i aint learned nuthin' but the poor me pitful blues". Ok, mi dico, c'è gente messa peggio di me, ci sono soldati impegnati in battaglie ben più dure da portare a casa. E non sto parlando di sole guerre armate. Affrontiamo la giornata. Malcolm Holcombe la sa lunga sulla vita, nonostante una carriera decollata solo in prossimità dei quarant'anni, con la sola voce potrebbe mangiarsi in un boccone metà di tutti quei cantautori che spuntano come funghi fuori stagione, soprattutto nei giorni piovosi di un' estate nefasta come questa. Troppo falsi e in anticipo per essere buoni. Quei funghi, quei cantautori. Holcombe ha la scorza dura di chi ha sceso le verdi colline delle Blue Ridge Mountains in North Carolina per cercare più fortuna in città (Nashville), trovando spesso più disagi che beltà (l'alcolismo è stata una piaga dura da sconfiggere, la depressione pure) ma le tante verità che ha raccolto riesce a raccontarle con la naturalezza dei puri. Sopravvissuto all'illusione del successo promesso, ma mai arrivato concretamente,
Holcombe ha sia l'onestà che la sapienza concessa a pochi, la capacità di non costruire arsenali davanti alla voce che potrebbe bastarsi da sola: una chitarra fingerpicking, belle chitarre dobro, un banjo, un violino costruiscono ballate folk/country nella struttura, ma blues giù fino al profondo dell'anima. Tanto scure, amare quanto raggianti e speranzose. Non ci sono arsenali nemmeno a dividere le esperienze di vita dalle canzoni. E' un tutt'uno che si percepisce all'istante, senza traduzioni, nonostante la complicata enigmaticità di alcuni testi. Registrato in presa diretta tra la sua casa a Swannanoa e gli studi di Tulsa con l'inseparabile produttore e musicista Jared Tyler (anche al dobro) così come deve essere fatto con canzoni come le sue, pure come flusso d'acqua corrente  e dirette come frecce d'amore puntate al centro del cuore: l'attacco politico nel desolante western By The Boots, la solitudine nella desertica Savannah Blues, i sogni infranti di Another Despair, il gioco di squadra strumentale nei rimpianti amorosi lunghi come il corso del Mississippi in Sign For A Sally. Tutto funziona a meraviglia. Che meraviglia.
Canzoni come Roots, le antiche pagine di ricordi in bianco e nero nell'appalachian spoken folk di Words Of December, la finale For The Love Of A Child lasciano dietro di loro le scie del vissuto come una lumaca lascia la scia di viscoso muco dietro di sè. Potrai cancellarne i segni con la forza, strofinando forte con un colpo di suola, ma il percorso è già stato fatto: impresso indelebile nel corpo, sfatto e consumato dall'usura, e tatuato nell'anima, ancora brillante e dorata. Sembra quasi estate. Oggi esco. Un dieci più che meritato.





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