lunedì 10 novembre 2014

RECENSIONE : DAMIEN RICE (My Favourite Faded Fantasy)

DAMIEN RICE   My Favourite Faded Fantasy (Atlantic, 2014)




Ti attacca quando hai la guardia abbassata. Quando il sistema immunitario del cuore ha finito il suo turno giornaliero, lasciando l'entrata incustodita per pochi attimi. Basta poco e tac, ti penetra dentro. E' facile entrare e impossessarsi delle emozioni quando sono lasciate incustodite, rivoltarle come un calzino usato da mettere in lavatrice, centrifugarle e farle uscire quasi come nuove, pronte di nuovo all'uso fino a renderle nuovamente lise dopo un altro ascolto, e poi un altro ancora. Da principio. E' facile se ti chiami Damien Rice, hai una voce cristallina ed emozionante, hai una delle migliori opere prime degli anni 2000 in tasca, quel O (2002) che fece prima spalancare le orecchie di tanti, poi lanciare il suo nome in alto nell'olimpo dei grandi paragoni (il nuovo Tim Buckley? il nuovo Jeff Buckley?), infine diventare a sua volta qualcuno da imitare, è facile se vivi la musica in modo apparentemente distaccato in un mondo che invece vuole tutto e subito, dove la quantità supera molto spesso la qualità, e raramente viaggiano insieme. Qui sì. E' facile per lui, difficile per molti altri. L'ultimo Rhythm and Repose (2012) di Glen Hansard ci va vicino, soprattutto nelle tematiche: l'abbandono.
E' tutto quello che è successo dopo l'ascolto di My Favourite Faded Fantasy e dire che queste canzoni non fanno  assolutamente nulla  per  compiacere più di tanto l'ascoltatore-anche quello più distratto-arrivano a toccare gli otto minuti di durata (la folkie innalzata al gospel Trusty And True), tanto che qualcuno ci ha già visto dietro la noia (siete dei bugiardi). Ascoltare i nove minuti e trentadue secondi della seconda traccia It Takes A Lot To Know A Man è puro godimento: inizio pianistico, l'entrata degli archi a sbuffare aria fredda, la voce cullante, i silenzi, un fuoco che brucia, le onde in lontananza, e poi nuovamente  pianoforte e archi a condurre verso un crescendo finale che brucia. Il piccolo capolavoro del disco.
L'irlandese triste Damien Rice è un puro di natura, un'anima semplice e sfuggente a cui piace lavare i panni dell'anima in solitudine, in contemplazione e intimità, senza fretta, con tutta la calma concessagli dalla parte più slow di questo mondo (tre album in dodici anni, il terzo disco uscito a ben otto anni dal secondo 9).  Perché il marciapiede da condurre con lentezza esiste ancora, non è un caso che si sia autoesiliato per anni dal mondo (lui la chiama "transizione") e sia poi giunto in Islanda per scrivere e suonare, l'oasi meno contaminata d'Europa, e poco importa se di mezzo c'è un volo di andata e ritorno nella convulsa Los Angeles ai piedi di Rick Rubin. E' stato un viaggio di lavoro. Il barbuto vate dei produttori moderni ha fatto uno straordinario lavoro di bilanciamento tra il soffuso e quasi silenzioso lato folk e i convulsi crescendo orchestrali, un leitmotiv di quasi tutte le otto canzoni (Colour Me In, Long Long Way), che diventa facile bersaglio per i detrattori in cerca di difetti: la ripetitività, i testi non eccelsi. Ma cazzo se funzionano bene messi insieme (l'ipnoticità del singolo I Don't Want To Change You).
Un sarto che ama cucire le ferite con meticolosa pazienza, e le ferite amorose vengono in superficie con evidenza fin dall' apertura My Favourite Faded Fantasy dove la voce in falsetto squilla rimpianto, e proseguono in The Greatest Bastard (...sono il più grande bastardo che conosci, l’unico che ti ha lasciato andare, l’unico a cui non sopporti di far tanto male...). La sua musa e partner in musica Lisa Hannigan lo ha lasciato, non è più parte integrante della sua vita, ha lasciato un buco che Damien riempie con il talento compositivo, e anche quando pare eccedere in melodramma, c'è una molla che fa tornare tutto a posto. "A volte devi andare via da ciò che ami, per provare ad amarlo di nuovo. Darei via tutto, carriera, canzoni, fama per poter riavere Lisa " dichiara Rice.
Ha maturato la propria arte con discrezione, con piccoli passi, senza snaturarsi troppo da quell'ormai lontano esordio, continuità che le incisive ma sobrie copertine dei suoi dischi suggeriscono. Quei piccoli passi che vorresti compiere anche tu nell'ascolto, ma tramortito e rapito ti ritrovi a volerne ancora, preda di quella bulimica voglia di farsi del male. In questo periodo va così.
Damian Rice è un quarantenne alla continua ricerca di se stesso. Non è nemmeno l'unico. Non guardate me. Forse il segreto è proprio lì: quando centri l'obiettivo e malauguratamente raggiungi il sogno, finisce tutto.
Arrivi a Novembre con le tue certezze musicali dell'anno già impresse in testa come fa il calcare in una lavatrice, e poi tutto viene spazzato via dalla purezza di un bicarbonato di sodio bianco e naturale. My Favourite Faded Fantasy è una leggera carezza sulle ferite aperte e sanguinanti che immediatamente brucia ma poi lenisce, lasciando limpidezza e purezza. Ce n’è bisogno. Ne ho bisogno. Long long way…



vedi anche
RECENSIONE: GLEN HANSARD-Rhythm and Repose (2012)
RECENSIONE: EDDA-Stavolta Come Mi Ammazzerai? (2014)
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO- Faithless World (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG- Storytone (2014)

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