giovedì 17 aprile 2014

RECORD STORE DAY 2014


RECORD STORE DAY 2014/2015 revisited (ossia: l'articolo dello scorso anno ampliato con nuovi artisti, dischi e racconti)
Un ringraziamento collettivo a tutti i musicisti che hanno riaperto lo scrigno dei ricordi, rovistato tra i dischi della loro memoria, soffiato tra la polvere del tempo, estratto la nostalgia dalla busta, posato la puntina tra un sogno e una canzone; condividendo le loro primissime emozioni legate alla musica, ad un vinile che girava, una copertina che li ammaliava, un testo che li rapiva. A tutti quelli che hanno varcato nuovamente la porta di quel vecchio negozio di dischi, quello che esiste ancora e tiene duro e quello che nel frattempo è diventato un dispersivo e freddo centro commerciale.
Leggendo questi racconti si possono trovare tracce del proprio passato: cambiano gli anni, cambia il disco, cambia la copertina, cambia il negozio...la passione è la stessa per tutti. Intanto, il disco continua a girare...


MASSIMO PRIVIERO
Sono nato nei primi sessanta e mi ritrovai dunque ragazzino a metà dei settanta. Dunque, con la prima chitarra in mano, mi trovai a realizzare a poco a poco che tanto era già successo a partire da dieci, quindici anni prima. Il classico fratello più grande di un mio coetaneo mi aveva venduto il suo usato, giusto qualche mese prima di quella prima chitarra e che di quello strumento era stato causa diretta, BOB DYLAN The Freewheelin’. Il destino ha voluto che non ci sia mai stato un album più importante di quello per la mia vita, anche se ne puoi mettere a fianco un’altra decina che spostarono tante cose della mia esistenza. Al riguardo, parlo di dischi che mi portarono a scegliere di provare a vivere della mia musica, come poi ho fatto, e che fissarono emozioni, forza esistenziale e amore assoluto per quel che volevo fare dei miei giorni. Ma il mio pensiero e il mio sogno di adolescente, ben prima di scrivere ed incidere i miei album, era quello di suonare per le strade le canzoni di Freewheelin’. Questo feci pochi anni più tardi, intorno ai miei venti, vagabondando per l’Europa e facendo spesso il menestrello alle stazioni di metropolitana e dei treni. E non posso, pensando a quei momenti, chiamarli in modo diverso da quel che potresti definire vera libertà. Anche per questa ragione, al di là della clamorosa perfezione poetica di quel disco, ancora oggi lo amo a pure qualche volta mi capita come di parlargli. Come se avessi uno splendido debito con lui al quale devo render conto. E ancora oggi mi capita quasi a regola di suonare Hard Rain’s a Gonna Fall nei soundcheck dei miei concerti. Chiudo gli occhi. Sorrido. E spesso trovo un po’ di ragioni in più dentro alla mia strada.





IACOPO MEILLE (TYGERS OF PAN TANG/GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS)
QUEEN 'A Night At The Opera' (Emi - 1975)
Era il giorno di Natale. L'anno il 1975; di lì a pochi mesi la mia famiglia si sarebbe trasferita a New Delhi, in India. Mio padre aveva accettato un'offerta a cui non poteva dire di no. Mia madre non era del tutto convinta ma fingeva una tranquillità che le faceva onore. Eravamo ospiti dell'allora capo di mio padre, colui che aveva suggerito il suo nome per quel lavoro. Eravamo stati invitati per cena. Mio fratello di due anni era stato lasciato dagli zii, mentre io era stato ritenuto “grande” abbastanza per poter andare con loro. Ricordo poco della casa, solo che le luci erano soffuse ed il salotto era pieno di mobilia e soprammobili. Non c'erano bambini con cui giocare: la figlia del “capo” di mio padre era molto più grande di me. C'era però uno stereo nella stanza; appoggiato vicino, un vinile dalla copertina bianca che sembrava volersi far notare a tutti costi, malgrado le luci basse. Cecilia, la figlia del “capo” mi chiede gentilmente se voglio ascoltarlo ed io, senza esitazioni le rispondo di sì. Accende lo stereo, alza il coperchio del piatto, estrae il vinile dalla copertina e me la porge mentre appoggia la puntina.... 'Dead On Two Legs' parte ed io sono letteralmente rapito. “You can kiss my ass goodbye” canta Freddie ed io, che non conosco una parola d'inglese, capisco però che deve essere una frase “fica” e che non posso chiedere ai miei che cosa significhi.
 'I'm In love With My Car' cantata da un'altra voce, roca e sgraziata, la dolcezza di ''39' e quel suono per me allora sconosciuto di Fender Rhodes che apre 'You're My Best Friend' mi ipnotizzano e di quella serata non ricordo altro. Quando è il momento di girare lato, sono al tempo e stesso eccitato e nervoso: “E se poi le altre canzoni non mi piacciono?” penso tra me. Il tempo che 'Prophet's Song' parta ed i dubbi svaniscono: sono rapito. Voglio sapere tutto di questa band. 'Bohemian Rhapsody' è solo l'ultimo tassello di un mosaico di emozioni che ancora oggi porto con me. Quella prima emozione nell'ascolto 'A Night At The Opera', quella ho cercato da quel 25 dicembre 1975 e, per mia fortuna, l'ho provata di nuovo... anche adesso mentre ascolto 'Croz' di David Crosby in quella che io continuo a chiamare “sala da pranzo” ma che sembra più un magazzino di un negozio di dischi con una muraglia tra CD, 45 giri e vinili che la riempiono e nei quali mi immergo.
Negozio preferito: YELLOW RECORDS - Via Torcicoda, 157 - 50142 Firenze


ANTHONY BASSO (W.I.N.D.)
E' davvero una scelta ardua, ma credo che il disco che mi abbia cambiato la vita sia un bel classicone... Made In Japan dei DEEP PURPLE è stato il disco o meglio, l'audio cassetta (essendo io dell'89, era il periodo delle audio cassette) che mi ha fatto innamorare intanto del rock e poi della musica in generale. Lo ascoltai da piccino piccino proprio ed ho sempre un meraviglioso ricordo legato a quel live. I primi calli sulle dita, la prima chitarra ed i primi riff strozzati di Smoke On The Water e Black Night. Con l'arrivo dei primi soldini frutto dei primi mini-concerti qui in Friuli alla tenera età di dieci anni, mi comprai Night Moves di Bob Seger a "L'Angolo Della Musica" di Via Aquileia, a Udine, e fu Amore poi per sempre.. Ahahah! Ad ogni modo anche se può sembrare un po' scontato, probabilmente fu proprio Made In Japan a farmi appassionare. Ascoltato, riascoltato e letteralmente consumato, tanto che la classica matita per riavvolgere il nastro rimasto incastrato nel registratore ad un certo punto non mi fu più d'aiuto...

FRANCO GIORDANI  (LUIGI MAIERON BAND/ME PEK E BARBA)
Tra tutti i "migliori dischi della mia vita" io scelgo il primo album dei DOORS, che acquistai naturalmente in vinile. Forse non cambiò la mia vita, ma senz'altro cambiò il mio modo di amare la musica. La voce di Jim Morrison entrò subito nella mia anima, stravolgendola. Si, da lì in poi ho capito (sempre citando Jim) che la musica è l'unica tua amica, fino alla fine.






MATT WALDON
Il mio primo disco ascoltato da bambino fu Full Moon Fever di TOM PETTY, me lo prestò mio cognato e passai un'intera estate ad ascoltarlo. Il mio primo acquisto invece fu Southern Accents sempre di Tom Petty , lo acquistai alla Gabbia di Padova, era il periodo in cui una volta al mese si partiva per un "cd tour" a Padova e le 2 tappe fisse erano sempre il 23 Dischi e la Gabbia. Volevo un disco di Tom Petty dopo aver ascoltato allo sfinimento Full Moon Fever, avevo bisogno di nuova linfa, e la copertina di quel disco mi conquistò! Non esiste un disco che m' abbia cambiato la vita , ce ne sono molti che hanno contribuito ad accompagnarmi durante periodi buoni o cattivi del mio percorso. Attualmente non ho un negozio fisico di riferimento per l'acquisto dei dischi, oramai per comodità e convenienza internet non ha competitors!

ALESSANDRO BATTISTINI (MOJO FILTER)
Il mio primo vinile è stato “Bluesbreakers, JOHN MAYALL with Eric Clapton”... il famigerato "Beano album". ... era una versione originale del 1966 regalatami da un vicino di casa che non sapeva cosa farsene! Io avevo 14 anni... ai tempi non avevo nemmeno il giradischi (che ho comprato proprio per quell'occasione)... ricordo che la prima cosa che mi stregò fu la copertina: quattro inglesi vestiti in maniera strana, seduti chissà dove... uno di loro aveva in mano un fumetto e sembrava leggerlo con grande interesse… o forse fingeva per vincere l’imbarazzo… non so….Poi, finalmente, riuscii a sentirlo e le cose cambiarono per sempre: impazzii letteralmente per Hideaway, All your Love, Ramblin On My Mind… per Eric Clapton e la sua Les Paul che, dentro quel Marshall 1962, aveva un suono che non avevo mai sentito prima …. Avevo scoperto il “british blues”, quella musica che gli inglesi scopiazzavano dagli americani aggiungendoci quel certo non so che … avevo scoperto la swingin’ london degli anni sessanta… love at first sight. Ancora oggi il beano Album è uno dei miei dischi preferiti, il primo di una lunga serie di edizioni più o meno rare a cui ho dato la caccia in questi anni. L’ultimo è stato la prima stampa inglese di “Let It Bleed “ degli Stones che ho comprato il mese scorso a Norimberga.


LUCA ROVINI
Ero un ragazzino, lavoravo per comprarmi i dischi. Ancora oggi, che ho 41 anni, in effetti è così. Ci sono tantissimi artisti che amo alla follia, nella mia storia di amante della musica, di ascoltatore giornaliero, ci sono dischi che mi hanno accompagnato, che mi hanno sconvolto, che mi hanno fatto rinascere, dischi che quando li ascolto mi catapultano improvvisamente in un preciso istante della mia vita. In questo mio contributo ne dovrei scegliere uno soltanto ed è una scelta ardua ma posso farcela. Ma prima devo dare una breve introduzione agli “altri”. Come potrei scordarmi il primo disco che ho comprato, era Chet Baker, un disco dal vivo, bellissimo, sognante, all’epoca sognavo molto più di adesso. Potrei citare i miei autori preferiti in assoluto, WILLY DEVILLE, Steve Earle, Allman Brothers Band, John Hiatt, Elliott Murphy, Bob Dylan ovviamente e Townes Van Zandt. Potrei dire Night Lights o Blood On The Tracks o Shut Up And Die Like An Aviator o Bring The Family o Live At Fillmore East o Live At The Old Quarter. Se devo scegliere un’artista, uno solo, scelgo Willy. Perché io proprio senza la sua voce non posso stare, la più bella che abbia mai sentito. Willy era il miglior cantante che potevi aver la fortuna di vedere dal vivo. Non mi ha mai deluso, quando lo vidi la prima volta ero sotto il palco, mi spaventai quando entrò. Quando sentii quella meravigliosa voce dal vivo capii che Willy era il più grande, per carisma, per voce, le canzoni. Ringrazierò sempre il mio Babbo che mi portò a vederlo a Nonantola, ero un bambino, che regalo pazzesco. Da quella volta ho visto Willy ogni volta che è venuto in Italia, l’ho anche incontrato, ci ho parlato, era un gigante, era fatto, era comunque il migliore. E’ veramente dura scegliere un disco solo di Willy ma se proprio devo scelgo Le Chat Bleu.
Un capolavoro che ancora oggi ascolto spesso. Lì dentro ci sono le ballate, c’è il rock’n’roll, c’è il cajun, c’è il blues e c’è quella magnifica voce che non ho più smesso di amare. Ricordo bene dove lo comprai, come quasi tutti i dischi di quel periodo. Erano 3 i miei negozi di dischi preferiti. Uno era il Contempo di Firenze, un altro era un piccolo negozio di Pietrasanta di cui non ricordo il nome ed un altro era il mitico Magic Sound di Pisa. Se devo scegliere il mio preferito dico senza dubbio il Macig Sound. Era in piazza Garibaldi, centralissimo. Andavamo lì tutte le sere, ragazzi che fumavano e ascoltavano le nuove uscite, e dibattevano, era piccolissimo, aveva tutto. Lì ho comprato una miriade di dischi, aspettavamo il giorno in cui arrivava il fax che diceva cosa sarebbe arrivato il giorno dopo e potete scommetterci che il giorno dopo eravamo lì ad aspettare i pacchi con i vinili e volevamo vedere mentre venivano aperti e volevamo toccare subito quello che aspettavamo. Poi i tempi cambiarono, aprirono le grosse catene come il Media World, una truffa, e tutto fu risucchiato senza possibilità di sopravvivenza. I proprietari chiusero ma amavano talmente tanto la musica che aprirono un locale, il Borderline, dove per diversi anni ci fecero ascoltare concerti stupendi, grazie anche all’amico e mai dimenticato Carlo Carlini. Li abbiamo visto tanti de i nostri idoli, li abbiamo suonato tanto, abbiamo aperto concerti importanti, li ci siamo ubriacati alla follia con Tom Pacheco (birra e tequila per la precisione) e con tanti altri. Poi anche quello è stato risucchiato dal vile denaro.
Oggi il Borderline è un locale per metallari, non credo ci siano più le copertine di Townes appese ai muri. Oggi dove era il Magic Sound c’è un’agenzia immobiliare del cazzo. Mi capita di passare da Piazza Garibaldi, ogni tanto mi volto, getto lo sguardo lì dove c’era quella minuscola vetrina, non la vedo l’agenzia immobiliare, mi vedo io a 20 anni, con l’impermeabile chiaro lungo, i capelli lunghi, la sigaretta accesa, appoggiato al muro, con mille sogni, che magari ascolto questi sconosciuti Havalinas che nessuno sapeva chi cazzo fossero ma che ci eccitavano, mi vedo a guardare le ragazzine della mia età. Tutte cose che non esistono più, tutto morto. Eppure se metto sul piatto Le Chat Bleu il tempo si ferma di nuovo e posso decidere di essere ovunque. Io con le mie rughe e lui con i suoi rumori di fondo, non comprerò mai una ristampa, così siamo, così ci siamo incontrati e così invecchieremo, in quella piazza di Pisa dove giovani bulletti passano ignari del fatto che 20 anni fa lì c’era la vita.

FRANK GET (TEX MEX/RESSELL BROTHERS)
Domanda da un milione di dollari… diciamo che devo fare alcuni distinguo, (ho avuto la fortuna di avere dei genitori musicisti..): il primo vinile che ho ascoltato da piccolo (avevo cinque anni…1969) è stato una raccolta dei Beatles, il primo vinile che ho acquistato è stato Ziggy Stardust di David Bowie, quello che mi ha cambiato la vita è stato Born To Run (regalo dei miei cugini di Westwood N.J.) …però devo dirti che il disco che porterei sulla famosa isola deserta è Live Bullet di BOB SEGER (ad un’ incollatura “Live at Fillmore East” Allman Bros) ma purtroppo hai detto uno solo. Il motivo è identico per entrambi, essendo” live”, non ci son scuse, quello si suonava, quello si sentiva, pura adrenalina!! Riguardo ai negozi di dischi apriamo un capitolo tristissimo, parliamo di una specie estinta. Ricordo con piacere due baluardi oramai chiusi da anni The Musical Box, e Wom (Word of music) entrambi gestiti da appassionati di musica. In entrambi oltre all’atto dell’acquisto del vinile, poi del cd (sappiamo bene, poi, come si sia persa la poesia dell’ “oggetto” disco) c’era condivisione e complicità nel giudizio sul disco appena uscito e soprattutto tanta passione per la Musica. Direi che la cosa fondamentale era il dialogo ed il rapporto umano che si veniva a creare. Sicuramente un ottimo contributo alla diffusione della cultura e dell’arte. Purtroppo come ben sappiamo le ragioni economiche han fatto scomparire la bottega in favore della grande distribuzione….ma qui spalanchiamo un abisso, (da cui mi sa che è difficile risalire).

GUY LITTELL
Il mio disco della vita, per quanto riguarda il vinile potrei dire che è On The Beach di NEIL YOUNG. E anche il suo acquisto fu singolare: lo comprai per pochi euro un venerdì o sabato sera, intorno ai 23 anni...un mio amico mi disse che lo zio gli aveva regalato una bella raccolta di vinili, gli dissi che volevo On The Beach  e lui me lo portò la sera stessa, nel bel mezzo di un'ubriacata collettiva che in quel momento stava coinvolgendo una ventina di persone nella Villa Comunale di Torre del Greco (Na) dove sono nato e cresciuto. Mi meraviglio che l'indomani fosse ancora con me e soprattutto intatto! Per quanto riguarda il negozio...scelgo Tattoo Records, situato nel bellissimo centro storico di Napoli. Ho davvero un bel ricordo legato a Tattoo: andai a comprare Jacksonville City Nights di Ryan Adams & The Cardinals e credo fossero un po' di mesi che non compravo dischi...ero stato preso da altre cose e forse non avevo poi tanti soldi, comprare quel disco diede di nuovo il via alla mia voglia di spendere in dischi che amavo e presto ne cantavo le canzoni mentre lavoravo come lavapiatti il sabato sera in un pub locale. Magia.



DARIO SNIDARO (RUSTED PEARLS)
 In vinile direi Gold di RYAN ADAMS, l'ho comprato recentemente e ha un quarto lato, che nel cd non c'è, con delle canzoni splendide secondo me, come Rosalie Come And Go, The Bar Is A Beautiful Place, The Fools We Are As Men... non che il resto del disco sia da meno...anzi. Sono molto affezionato a questo artista, non è il primo disco che ho sentito, la prima canzone è stata Hotel Chelsea Nights, ma è sicuramente il disco che nel complesso mi piace di più per cantautorato, suoni e impatto live della band, nonostante lui lo abbia visto solamente due volte negli ultimi tour acustici, prima Brighton poi Bruxelles. Purtroppo un negozio di dischi a cui sono affezionato non c'è perché in realtà qui vicino, a parte quanto si trova nei centri commerciali non c'è tanto. C'era però...ed era proprio nella strada parallela a dove vivo ora io a Codroipo, si chiamava Dischi Eugenio, recentemente ho messo un paio di foto su Instagram di com'era appena chiuso e com'è adesso senza più la scritta...abbastanza triste. C'ero stato un paio di volte da quando avevo iniziato a vedermi con la mia ragazza qui e aveva una clientela molto fidelizzata a cui trovava cose di importazione e fuori catalogo, purtroppo l'ho scoperto tardi e l'unico disco comprato è stato 'Hard Candy' dei Counting Crows.

RICCARDO STURA (TAG MY TOE/BUFFALO TRIO)
Il primo disco fondamentale (rigorosamente in vinile), anche il primo che ho avuto, è stato Born In The USA del BRUCE SPRINGSTEEN. Avevo 12 anni e mio papà me lo regalò alla fine di un anno scolastico. Ricordo che durante l'estate non smettevo mai di ascoltarlo, chiamavo papà in ufficio per chiedergli quante volte si poteva ascoltare un vinile prima che si rovinasse, e lui che mi diceva, vai tranquillo che devi ascoltarlo un bel pò di volte, e così feci! Che disco, che sound, che pezzi! Bruce come sai, è l'artista che mi ha cambiato la vita: grazie a lui pochi anni dopo iniziai a suonare la chitarra (primo brano The River), grazie a lui la lingua inglese divenne sempre più fondamentale nella mia crescita, leggevo e traducevo i testi di BitUSA, cercavo di comprendere le liriche e tutto ciò che Bruce voleva comunicarmi. Devi sapere che a Rueglio (piccolo comune del canavese) tutti i miei amici più grandi ascoltavano già il Boss, noi ruegliesi siamo sempre stati ultra fanatici del Jersey Devil e mi piace sempre dire che in rapporto alla popolazione abbiamo il maggior numero di fans! Da quel vinile in poi tutta la mia vita e migliorata, avevo scoperto musica che mi comunicava sensazioni e emozioni (papà possedeva già allora 300 vinili circa di Jazz, ma diciamo che non è mai stato il mio genere, anche se devo ringraziare il babbo per avermi trasmesso la passione nell'ascoltare), un paio di anni dopo comprai Tunnel Of Love e poi tutti gli altri....grazie Bruce!
Riguardo al negozio di dischi ai tempi non ne avevo uno favorito mentre ora devo dire Paper Moon (Biella), ho arricchito tantissimo il mio catalogo con chicche e dischi difficilmente reperibili grazie a Marco, Paolo e Andrea.


CRISTIANO CARNIEL (LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS)
The Joshua Tree degli U2 perché coincide con i miei 18 anni. E poi perché lo amai e lo amo ancora così tanto da pensare che a nessuno potrebbe piacere quanto a me (vi capita mai?). Lo comprai il giorno che uscì, era il 1987, da Buzzi Dischi di Busto Arsizio, il negozio che ricordo con più piacere perché ci spesi molti dei soldi delle paghette per iniziare la mia personale discoteca. 10.000 lire circa a LP. Il sacrificio era tale che un disco che avevi comprato non poteva non piacerti. Non esisteva che non ti piacesse. Lo ascoltavi così tante volte che alla fine ti entrava dentro, bello o brutto che fosse.



MAX ARRIGO (NANDHA BLUES BAND)
Potrei dire Deja Vu di CSN & Y che al primo ascolto mi trasportò a Woodstock o Born In The USA che mi diede un motivo per tenere duro negli anni '80, ma il mio primo 45 giri fu proprio questo:

Il negozio di dischi al quale sono più affezionato è Rock & Folk a Torino. Per anni il sabato pomeriggio ci si incontrava li con gli amici, ancora oggi resiste ma a fatica...

GINO GIANGREGORIO (VIA DEL BLUES)
Il primo vinile che acquistai fu il primo disco 33 giri di Elvis Presley, dal titolo omonimo ed in seguito, quello a cui sono molto legato è Aftermath dei ROLLING STONES, anche Undead dei Ten Years After, quest'ultimo mi ha sconvolto in senso positivo sotto l'aspetto chitarristico, senza contare il primo 33 vinile di Hendrix, ascoltato per 15 ore al giorno, su al Nord e precisamente in Biandronno in provincia di Varese, dove lavoravo ai tempi.





CARLO LANCINI (MOJO FILTER)
Nell’ultimo periodo sto rivalutando i primi anni Novanta, fino al 1996, l’anno del mio servizio militare. Li sto rivalutando perché sono stati gli anni della mia formazione musicale. In quegli anni ero un ragazzo un po’ particolare, e a dirlo erano i miei gusti musicali. Fuori ce n’era per tutti i gusti: il grunge con band di spessore e side projects vari, gli ultimi colpi del glam, il metal, le boy bands e – solo per amore della gnocca – le truzzaggini da discoteca. Ma io impazzivo per quello che è stato definito “Americana”. Come del resto il tutta Italia, anche a Bergamo esistevano ancora i negozi di dischi, alcuni specializzati e altri un po’ meno. Io andavo da Vittorio in Città Alta, il sabato pomeriggio. Prendevo il mio Piaggio Sì grigio, mi mettevo il casco Nolan rosso con sul retro la lisca di pesce bianca, omaggio artigianale ai californiani Fishbone, e correvo “veloce” lungo Viale Papa Giovanni, salivo le mura, facevo l’ultimo curvone prima di Colle Aperto rigorosamente pedalando (il motore era alla frutta!), parcheggiavo alla cazzo solo con il bloccasterzo (altri tempi!) e poi correvo nel negozietto di 20 mq. Lì Vittorio mi ha spacciato, per me a scatola chiusa, Perfectly Good Guitar di John Hiatt, Hollywood Town Hall dei Jayhawks, il primo album di Todd Snider e un sacco di altri dischi fondamentali per la mia crescita. La forza di Vittorio è stata soprattutto quella di alimentare un fuoco acceso però dal fato. Lui non mi ha dato in pasto agli artisti del momento, non ha tentato di vendermi quello che piaceva a lui. Vittorio ha “solo” scelto quello che era giusto per me, quello che era giusto per un adolescente, introverso ma non troppo, con l’aria da secchione ma con una pagella tipica del ripetente, che in una serata primaverile di un anno prima era entrato per acquistare un vinile di Bruce Springsteen, Nebraska.

MARCO DIAMANTINI (CHEAP WINE)
Uno solo non ce la posso fare. Sarebbe non veritiero. Dovrei indicarne minimo una decina. Ma visto che è un gioco: Highway 61 Revisited. Comprato alla fine degli anni 70 ('78 o '79) alla Dimar Dischi di Pesaro che adesso non esiste più.






JAIME DOLCE
Quando ero piccolo guardavo e ascoltavo 3 dischi (veramente ce n' erano tanti...) nella collezione di vinili di mio padre: c'era Band Of Gypsys di Jimi Hendrix , c'era THE ALLMAN BROTHERS BAND Live At Fillmore East e c'era anche Eat A Peach...Dentro Eat A Peach dove c'era questo bellissimo quadro psichedelico..l'adoro ancora...il fatto che potevo aprirli & leggere mentre ascoltavo...leggere chi ci aveva suonato...chi ha scritto...dove e' stato registrato..,quando lessi su Eat A Peach: "dedicated to a brother"(dedicato a un fratello). Questi dischi mi hanno cambiato la vita, mi hanno influenzato tanto...forse e' il suono di quell' auditorio/teatro Fillmore East...per me, quei dischi sono le Bibbie...
Jimi Hendrix e Duane Allman sono ancora i miei due chitarristi preferiti: mille percento anima...Jimi con il suono della Fender...Duane con la Gibson...mille percento BLUES...mille percento SOUL...mille percento ROCK&ROLL.

LUCA MILANI
Erano appena iniziati gli anni novanta ed erano appena passati gli anni ottanta dove l'immagine e "l'apparire" avevano un ruolo fondamentale nella musica (cosa che purtroppo è tornata negli ultimi anni). Un pomeriggio apparve in tv un ragazzo biondo che mi assalì con la sua rabbia, la sua voce e la sua sincerità, vestito come un ragazzo qualunque ma con energia capace di spazzare via in due minuti tutti i bambocci vestiti a festa del decennio precedente. Finalmente era arrivato qualcuno capace di urlare a nome di chi fino a quel momento era stato a guardare in un angolo. Il giorno stesso andai nel negozio di dischi del mio paese, negozio che ora non esiste più e comprai la cassetta di Nevermind dei NIRVANA.



FEDE SPANGHERO (GO GO DIABLOS)
Il disco che mi ha cambiato la vita è stato Some Girls dei ROLLING STONES, nel lontano 1978, il primo che mi sono fatto comprare è stato "Ob-la-di-ob-la-da" nel 1968 (avevo 3 anni)...il negozio a cui sono emotivamente più legato è la vecchia Standa di Monfalcone che aveva un assortimento infinito di musicassette della Joker e della Columbia con tutte le incisioni vecchie di blues e jazz, John Lee Hooker, Jimmy Reed, Lightnin' Hopkins, Robert Johnson, Billie Holiday...una figata!




PAOLO BONFANTI
Disco della vita: forse Blood on The Tracks di DYLAN...perchè mi ha fatto capire come procedere nel mestiere e nella vita; negozio di dischi sicuramente Disco Club a Genova. Un vero punto di riferimento! Dentro c'è una foto di Giancarlo Balduzzi il proprietario insieme a Nick Hornby, che è un suo grande amico e ha presentato lì il suo famoso libro sull'amore per i vinili. Imprescindibile!


ALESSANDRO NUTINI (BANDABARDO'/GENERAL STRATOCUSTER & THE MARSHALS)
Il mio primo vinile è stato il live degli AC/DC "If You Want Blood", lo comprai dopo aver visto in tv, in una meravigliosa giornata in cui non andai a scuola, il film "Let There Be Rock". Lo comprai in un negozio che oggi non esiste più, purtroppo, che si chiamava Nardi Dischi. Quello a cui sono stato più affezionato è stato Led Zeppelin III, che ancora ritengo fenomenale...


 
 
STEFANO GALLI
La mia "carriera musicologica" è iniziata tendenzialmente tardi. Sono cresciuto, come tutti i bambini del paesello, con il sogno e la passione per il calcio. La Musica si è intromessa piano piano a partire da 14 anni, in prima superiore, periodo in cui il vinile aveva già lasciato il posto alla prepotente ascesa del cd. Comprai il mio primo lettore e ci abbinai immediatamente 3 dischi: Creedence C.R., Nevermind dei Nirvana e Stone Free (un tributo a Hendrix da parte di grandi artisti).Li consumai letteralmente cercando di suonarci sopra con la mia chitarrina acustica "ZeroSette" e diventai l'incubo dei miei genitori soprattutto per quella Territorial Pissing che faceva vibrare i vetri delle finestre. Poi arrivò l'Unplugged di CLAPTON e BOOM!!!... folgorazione.
Quello è il mio disco, quello che mi ha indirizzato verso il Blues e tutte le sue sfumature e che ha segnato il mio percorso musicale. Ne tengo 2 copie, una ancora chiusa.
Sono nato nell'era del digitale e i miei genitori non mi hanno lasciato in eredità una gran collezione di vinili; a loro piaceva la musica e ricordo che mio padre ci svegliava sempre con dei dischi di musica classica ma non erano di certo dei gran collezionisti. Conservo però un 45 giri di Folsom Prison di Cash ed è in bella mostra nel mio salotto, unico reperto veramente interessante della loro discografia.

DANIELE TENCA
Il mio "disco della vita", quello che mi ha cambiato la vita, e mi ha fatto decidere di diventare musicista, e' "Live 75-85" di BRUCE SPRINGSTEEN. Per essere precisi, audiocassetta n. 3. Inizia col boato del pubblico al saluto di Springsteen, e poi Born in the USA live. E poi Seeds, The River, eccetera. Probabilmente, senza quella cassetta, sarei una persona diversa, la mia vita sarebbe diversa. Il negozio a cui sono più affezionato invece non è legato a pomeriggi di affannosa ricerca a rarità, bootlegs o dischi appena usciti, ma è Zig Zag Dischi, a San Donato Milanese, dove il sabato pomeriggio ti può capitare di entrare (se riesci...), bere del buon vino e ascoltare artisti presentare i loro lavori dal vivo in un'atmosfera rilassata e familiare, ma attenta e rispettosa. Subito dietro a Zig Zag, Psycho, a Milano, altro luogo speciale di resistenza musicale. Mi troverete li', il 19 aprile pomeriggio, con altri artisti, a far due note per il Record Store Day.

ANDREA POGGIO (GREEN LIKE JULY)
Blonde on Blonde” - BOB DYLAN. Ho comprato questo disco mosso da quella sorta di imperativo del collezionista diffidente “caro Andrea che ti piaccia o no in ogni collezione di dischi che si rispetti Dylan non può mancare”. Ho iniziato ad ascoltare “Blonde on Blonde” distrattamente, ad una camera di distanza dall’impianto stereo. Da “Visions of Johanna” in poi la mia vita da ascoltatore è cambiata per sempre. Ancora oggi, a quindici anni di distanza, i brani di “Blonde on Blonde” suonano come la prima volta che li ho ascoltati. Ancora oggi sono alla ricerca di un disco che eguagli quella sensazione di meraviglia e sbigottimento che provai all’ascolto di brani come “Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again”, “I Want You” e “Absolutely Sweet Marie”.
“W Dabliu” di Roberto Mocca - via Mondovì 4, Alessandria. In questo luogo, nell’autunno del 2003, sono nati i Green Like July. “May This Winter Freeze My Heart”, il nostro primo disco, è uscito dieci anni fa esatti per una piccola etichetta gestita da Roberto Mocca e chiamata, per l’appunto, “W Dabliu”. Roberto ha rappresentato e rappresenta un punto fermo per ogni collezionista di dischi dell’alessandrino. Nelle stanze del suo negozio ho passato interi pomeriggi ed è lì che ho incontrato Diego Cestino per la prima volta. Senza Diego i Green Like July non esisterebbero. Diego è il nostro Ian Stewart.



THOMAS GUIDUCCI
 Il primo disco che ho comprato nella mia vita è stato Der Kommissar di Falco, ero bambino e quella canzone stranissima di cui non capivo nulla mi piaceva. Poi fortunatamente mi sono redento.
Se dovessi scegliere un solo disco che mi ha cambiato la vita (è durissima) direi "Irish Tour" di RORY GALLAGHER. Poi però a ruota ne arriverebbero altri:
1.Rory Gallagher Irish Tour
2.Townes Van Zandt Live at the Old Quarter, Houston, Texas
3.The Band The Band
4.Ray Lamontagne Till The Sun Turns Black
5.The Beatles Hard Day’s Night
Poi ovviamente c'è Johnny Cash, ma lì non potrei scegliere un disco. Ogni cosa che canta mi strappa il cuore.
Il mio negozio di dischi è "Backdoor" di Torino. Patria del vinile e pieno di gente simpatica. Però ho lasciato il cuore nel piccolo "Rockville" oramai chiuso purtroppo.


CATERINO "WASHBOARD" RICCARDI (THE FIREPLACES)
E' durissima ma scelgo Sticky Fingers. E' in assoluto l'album che mi ha depurato dalla pop music nel senso più basso e mi ha traghettato nel rock/blues. Ho letteralmente consumato due musicassette. (2014)
Visto il mio precedente rollingstoniano contributo, ed essendo sempre più innamorato della chiesa elettrica del sud degli Stati Uniti, questa volta vorrei col mio intervento celebrare la mia seconda band preferita di sempre. THE BLACK CROWES. Potrei calare al primo colpo come minimo tre carichi, ovvero: Southern Harmony Musical Companion, Warpaint e Before The Frost Untill the Freeze (registrato presso gli studi del mai abbastanza celebrato Levon Helm).  In soccorso alla mia indecisione viene un raccolta di pezzi che poteva limitarsi ad essere una greatest hits, invece per far si che la mia anima continui a cantare, i miei uccellacci preferiti, confezionano CROWEOLOGY.
Una pista guidata atta ad agire su due fronti: portare un potenziale pubblico nuovo a conoscerli meglio, 2) emozionare con qualcosa di fresco e accattivante chi già li ama. Lo fanno attraverso le loro canzoni, rivisitate in chiave elettroacustica. Il compito di aprire le danze è affidato a Jealous Again, dove il piano e cori la fanno da padrone. Ma il brano che più che una canzone è la testimonianza scritta di ciò che i Crowes sono è MY MORNING SONG.
Già mi fa impazzire la versione in studio, per non parlare della resa live in FREAK'N ROLL INTO THE FOG (registrato al Fillmore a San Francisco). Ma qui, in questa versione la band riesce a superare se stessa, e lo fa rovesciando sul pubblico un pentolone di gospel e sudore. Lo special centrale è il crossroad per definizione. Dove tutto ciò che è Crowes arriva e riparte. Ora c'è solo da sperare che la pausa presa sia solo motivo per re incrociare i becchi e tornare alla grande a farci viaggiare e godere. (2015)

 
 
 


SANDRO PEZZAROSSA (ME PEK & BARBA)
Il primo disco che mi ha veramente emozionato è stato "the Velvet Underground &NIco" che mi ha fatto conoscere un mondo nuovo! Quelli che mi hanno segnato e rovinato a forza di ascoltarli: "Breva e tivan" di Davide Van de Sfroos e "We shall Overcome" del Boss!!









MARCO  PYTHON FECCHIO
Nel 1973 avevo 10 anni e un piccolo mangiadischi su cui, dall'età di 4 cantavo a squarciagola tutte le canzoni di Adriano Celentano. La mia cuginetta appena più grande di me andava a scuola dalle suore e impazziva per Gesù. Era un Gesù molto bello e cantava una musica per me sconosciuta, addirittura ne avevano fatto un film. Così, al primo Natale a tiro mi feci regalare "lo stereo", un giradischi di "Selezione dal Reader's Digest" che oltre a vendere per corrispondenza aveva un suo negozio in via Della Moscova a Milano. Era meglio di niente ma non certo all'altezza dei primi Pioneer e Marantz che alcuni miei compagnetti esibivano fieri nel loro salotto. Insieme al giradischi arrivarono i due primi LP: E tu (Claudio Baglioni) e Jesus Christ Superstar (Original Soundtrack). D'obbligo a quel punto la visione del film che fu come aver visto Dio in persona, uno schock che diede un imprinting direi primordiale ai miei gusti e ascolti futuri. Oggi, a 51 anni suonati posso affermare che in quell'opera c'era già tutto quello che poi avrei scoperto nel corso di questa vita e che ancora oggi ascolto con devozione e un po' di commozione. Inutile dire che ne fu di Baglioni…



LUCA HERNANDEZ (HERNANDEZ & SAMPEDRO)
Come succede ancora oggi, con alcune band e con alcune sonorità è amore a prima vista, anzi a primo ascolto. E sono amori che non svaniscono mai. Cambiano, si trasformano, evolvono, ma mai deludono. Ricordo che poco dopo la metà degli anni 90 feci il primo vero passo verso la musica. Prima solo canzonette da adolescente, da radio, non avevo ancora capito che la musica mi avrebbe cambiato e colorato la vita, non avevo ancora scoperto il rock, quello sanguigno, fatto di sogni, sudore, lacrime e passione. Mi sono sempre piaciute le riviste mensili musicali, non c'è un motivo, forse mi attiravano le foto delle copertine, così come accade spesso anche per le copertine dei dischi. Un giorno comprai una di quelle riviste con la paghetta settimanale, e chi c'era in copertina? I PEARL JAM. Un articolo mi incuriosì molto. I PJ in realtà erano già nel pieno della loro attività, probabilmente era un articolo sull'uscita di Yeld , ma da quell'articolo lessi qualcosa riguardo Ten. La cosa mi incuriosì molto, tanto da andare nel negozio di dischi vicino casa poco dopo per ordinare quel cd. Chi l'avrebbe mai detto che dall'istante in cui di nascosto ascoltai quelle canzoni nelle cuffie del lettore portatile, la mia vita sarebbe cambiata. Ebbene sì. Tutto cambiò. Perchè la mia passione cresceva sempre più, tanto da spingermi a formare un gruppo, imparare a suonare la chitarra sulle note di Even Flow e iniziare a strillare le parole di Alive. Se ora ancora ho passione, amore per la musica e un sogno in cui credere, una buona parte del merito deriva da quel disco.


MANUELE ZAMBONI
Il disco al quale sono maggiormente legato, è legato a sua volta nella mia mente ad un fatto di cronaca nera datato 12 febbraio 1996. Il giorno seguente l'articolo del corriere della sera recitava così:
"Apocalisse nella nebbia: 11 morti.
Mega tamponamento sulla A4: 100 feriti, 300 mezzi coinvolti, esplode una cisterna presso Soave visibilità ridotta a zero. Alcune vittime carbonizzate nel rogo. Forse la "curiosità" alla base della tragedia."

All'epoca io ero un ventiduenne camionista.
Non fui coinvolto nell'incidente, ma rimasi bloccato nei 20 km di coda che si crearono, per 8 ore. Quel giorno mi misi in viaggio con una sola musicassetta a bordo. Ascoltai quel nastro per 8 ore filate, chiuso nella cabina del camion.
Anidride Solforosa.
Dieci canzoni su testi di Roberto Roversi.
Musiche di LUCIO DALLA.
Comprai il disco su consiglio indiretto di Federico Fiumani.
Dieci canzoni, non un ritornello. Eppure cantabilissimo. Ascoltato ancora oggi , un disco senza tempo. Musicalmente molto americano, anzi Newyorchese. Con uno sguardo alla baia sull'oceano opposto. San Francisco.
"Anidride Solforosa" (sono andata via perché rimanere sempre a Faenza non è che mi interessasse troppo....)
"La borsa dei valori"
(vendo Richard Ginori, compro Button....)
"Ulisse coperto di sale"
(Nebbia non c'è, il cielo c'è....)
Avevo sete. Nel frattempo la nebbia si era alzata. Gli accodati mettevano il naso fuori dall'auto.
"Carme Colon"
(con i suoi dieci anni, con i suoi piedi nudi sull'asfalto dell'autostrada....)
" Tu parlavi una lingua meravigliosa"
(le volpi con le code incendiate non parlano ma gridano pazze tra gli alberi per il dolore....)
Cominciavano ad arrivare le prime notizie.
Alcuni raccontavano il rumore delle lamiere e le grida disumane.
"Mela da scarto"
(dovevo starci tre mesi invece è passata una vita....)
"Merlino e l'ombra"
(voglio giocare con la tua sorte....)
"Non era più lui"
(sempre in stazione a guardare i treni veloci partire....)
"Un mazzo di fiori"
(passa un'onda la donna si butta, corre l'onda la donna è annegata....)
"Le parole incrociate"
(attenzione dentro ci siamo tutti, è il potere che offende....)
Alle 17 : 30, ci fecero uscire al casello di Montebello. Tornai a casa.


LUKE DUKE (THEE JONES BONES)
Dato che facendo una scelta sui famosi dischi da portare nella famosa isola deserta figurano i vari Tonight’s the Night di Neil Young, If I could only remeber my name di Crosby, Sticky Fingers degli Stones, Fillmore East degli Allman, di cui ci saranno sicuramente ampie recensioni, ho deciso di scrivere due righe sul mio personale quinto disco da portare sulla fantomatica isola:
The Very Crystal Speed Machine dei THEE HYPNOTICS
Pubblicato per la Def American nel 1994 come quarta produzione della band, «...Speed Machine» rappresenta anche il capitolo finale della storia del mitico quartetto anglosassone. Se Live’r than God e Come Down Heavy  delineavano un approccio tanto garage-rock (il primo, registrato dal vivo) quanto psichedelico nel suo scarno blues revival (il secondo), tanto da farli paragonare a gruppi come MC5 e Stooges, con Soul Glitter & Sin del ‘91 la band si addentrava in mondi musicali più scuri e neri, quasi da una colonna sonora di un pulp movie primordiale.
Dopo anni di pausa, e resuscitati da Chris Robinson dei (defunti!) Black Crowes che gli procura un contratto negli USA, si siede in consolle di produzione portandosi appresso gli amici Marc Ford a «slidare» e Ed Harsch a picchiare sui tasti del piano, esce appunto «...Speed Machine» da molti considerato il loro disco più commerciale e «facile», ma a mio avviso più ispirato. La chitarra fuzz di Ray Hanson scrive dei riffs e solo tanto classici  quanto indelebili nella loro melodica semplicità, e Jim Jones che in seguito assaporerà altri successi con Black Moses e Jim Jones Revue si rivela il grande screamer soul che alla fine è ed è sempre stato.
L’intro di Keep Rollin’ On e Heavy Liquid (che per molti segna l’inizio di una certa musica chiamata Stoner)  sono una pesantissima botta di elettricità totale che aprono ad un mondo «Hypnotic» rock con richiami ai grandi classici degli anni ‘70, Stones (Goodbye, Look what you’ve done), Zeppelin (If The Good Lord Loves You)  e Free (Down In The Hole) su tutti.
Tra intervalli strumentali ritagliati ad hoc a mettere in risalto le doti dei vari i membri della band, spicca poi Caroline Inside Out, vero e proprio gioiellino,  che il sottoscritto annovera tra le best song di tutti i tempi (!). Peccato solo non averli potuti mai sentire e vedere dal vivo, e parlando con il «reverendo» Jim, occasione mai ci sarà.


ANDREA VAN CLEEF (VAN CLEEF CONTINENTAL)
A onor del vero, il primo disco acquistato in vita fu "Arena" dei Duran Duran (sì, facevo il tifo per loro, gli Spandau mi sembravano roba da vecchi). Il disco che riuscì a cambiare però la mia vitaccia di ragazzo di provincia fu in realtà una musicassetta da 90 minuti. Nella preistoria dei supporti discografici, la cassetta si colloca più o meno nel Giurassico medio, sapete, giovani barbari con telefonino? In quel periodo la mia collezione era arricchita, oltre che dagli originali faticosamente acquistati con i pochi risparmi che racimolavo, dalle numerose cassette duplicate da mio fratello (avere un fratello maggiore appassionato di buona musica rock fu uno dei privilegi che compensarono la mia condizione di provinciale). Fu così che un giorno, tra Jethro Tull, Pink Floyd, Van Halen, Neil Young e Led Zeppelin, mi venne recapitata una splendida TDK SA90, una di quelle belle, riservate alle occasioni speciali. Sul lato A (su quelle cassette ci stavano due album, solitamente, se non troppo lunghi; uno per lato) un inquietante nome e un inquietante titolo: BLACK SABBATH - Paranoid. Fu, istantaneamente, la folgorazione: il big bang emotivo che ancora oggi risuona nella percezione e nella sensibilità della musica che con fatica scrivo, suono, incido e tento di portare in giro. "War Pigs", con la sua partenza lenta e strascicata, mi aveva già conquistato anche prima di esplodere. "Paranoid" di contro mi aveva fatto scoprire l'headbanging (io lo chiamavo "fare l'agitato"). "Planet Caravan" era il viaggio cosmico che nella mia testa si fondeva in qualche maniera con Guerre Stellari e Star Trek; sarebbe in realtà diventato presto la colonna sonora di molte e "stupefacenti" estati future, nonché, per quello che può valere, uno dei miei pezzi preferiti di sempre. Il quartetto di partenza era chiuso da "Iron Man": oggi come oggi lo trovo un po' sciocchino, come pezzo, ma all'epoca ero già partito per la tangente pensando a Tony Stark, chiuso nella sua armatura invincibile, che menava il Mandarino. Le ultime quattro, pur non essendo hit, erano insieme un altro viaggio fantastico e inquietante: "Electric Funeral", "Hand of Doom", "Rat Salad", ma soprattutto "Fairies Wear Boots", che mi faceva rimandare indietro più volte il nastro per riascoltare l'intro di chitarra, che pensavo avesse qualcosa di magico che non riuscivo a capire (non conoscevo ancora l'esistenza del delay). Ci sono state tante band che ho amato, nel corso degli anni, che ho seguito, che ho conosciuto e ho risuonato. Ma niente ha mai risuonato nella mia mente come il viaggio di Planet Caravan e come gli altri pezzi di questo disco. Ah, sul lato B c'era "No Sleep 'til Hammersmith" dei Motorhead. Non male, la cassettina.



IL MIO
Come fai a dimenticare il primo disco acquistato? Ricordo anche tutti quelli che giravano per casa, non molti in verità, ma il primo…quello che comprai nel primo negozio di dischi che miei occhi videro in vita: “La Discoteca di Valerio” a Biella, situato nella allora popolata e vivace galleria della vecchia Standa. Un posto imboscato per aprire una attività. Un posto che non ti veniva incontro, dovevi andare a cercarlo, come succede con tutte le passioni più grandi: ci vuole impegno. La Standa è sparita da tempo, rimangono ancora i locali vuoti e desolati da anni (magari non è più così?), in pieno centro, il negozio anche: se n’è andato insieme al padrone, qualche anno fa, insieme a tutti i dischi con il tempo diventati cd e svenduti dal figlio, poco temerario nella sua scelta di abbandonare tutto. Rimane una scritta “in vendita” ormai sbiadita dal tempo e che nessuno legge più e le vetrine tappezzate da pagine di giornale che raccontano notizie, vecchie (magari non è più così?). Ricordo che prima di riuscire ad entrare in quel negozio dovetti aspettare che il mio numero di scarpe aumentasse di quel tanto da permettermi di viaggiare da solo, di andare a cercare la mia passione. Da solo, io e le mie scarpe. Prima mi accontentavo di guardare la vetrina durante le classiche passeggiate domenicali con mamma e papà, li trascinavo sempre lì, sotto a quella galleria. Il negozio era sempre chiuso alla domenica, le poche luci della vetrina lo facevano apparire quasi tetro, aumentando ancora di più la mia curiosità.
Quando le scarpe furono arrivate al numero giusto, non ricordo bene il perché ma puntai tutto sul vinile di Crosby, Stills & Nash. Conoscevo già Neil Young, ma qui il suo nome non c’era, non chiudeva la fila. Molto probabilmente erano i tre quarti che mi mancavano, probabilmente quel divano in copertina mi trasmetteva quella serenità che l’ascolto mi confermò dopo, e che ancora adesso provo specchiandomi negli occhi blu di Judy Collins, viaggiando in Africa con il Marrakesh Express o sognando su Wooden Ships e Guinnevere. Probabilmente la foto interna con i tre infreddoliti e avvolti nelle pellicce doveva farsi guardare e diventare tra le mie icone preferite di sempre. Probabilmente era un destino che le mie scarpe già conoscevano. A volte spero che il mio numero di scarpe, da anni fermo sulla ruota del 42, possa diminuire e riportarmi indietro nel tempo, solo per vedere se farei la stessa scelta. Poi desisto. Long Time Gone.

 
 
 
 
 
 
 
 



 
 

 

martedì 15 aprile 2014

RECENSIONE: LEON RUSSELL (Life Journey)

LEON RUSSELL  Life Journey (Universal Music, 2014)



A leggere le note di retro copertina pare di trovarsi di fronte ad una sorta di testamento musicale in cui il settantaduenne Leon Russell allinea i suoi "maestri", un tributo a tutti i musicisti che ne hanno segnato la carriera (più due nuove composizioni scritte di suo pugno). Esce adesso che il viaggio-di vita-è quasi arrivato alla fine, come ripete più volte, evidentemente affranto dai tanti problemi fisici che lo perseguitano. Facendo i dovuti scongiuri si spera non sia così- anche se qualche buontempone, recentemente, ha pure messo in giro la "bufala" della sua presunta morte-perché il carismatico musicista dell'Oklahoma sta vivendo una seconda brillante giovinezza che sembra quasi una continuazione degli anni d'oro gravitanti intorno al carrozzone messo in piedi con Joe Cocker prima e dalle cause umanitarie promosse da George Harrison dopo, che lo videro protagonista e che lo portarono al centro della scena musicale americana tra il 1969 e il 1973, facendolo diventare il più grande turnista americano dell'epoca ma anche con un paio di dischi solisti da enciclopedia rock sul groppone ed un passato remoto di tutto rispetto alla corte di Phil Spector. Non esiste più lo straripante e fantasioso performer di quegli anni, ma è rimasto l'ineguagliabile feeling del saggio fuoriclasse capace di portare le canzoni-e che canzoni- verso i suoni che hanno caratterizzato tutta la carriera: blues, swing, R & B, country, jazz, dixieland (la sua contagiosa Down In Dixieland, posta in chiusura e suonata con la Dixieland Band di John Clayton è un omaggio al genere di New Orleans. Più che riuscito numero da big band.).
Già lo splendido The Union (2010) condiviso con sir Elton John aveva lasciato intravedere segnali positivi e l'ispirazione dei vecchi tempi andati, facendo dimenticare i tanti anni di oblio-la stessa cosa che sta succedendo all'ispiratissimo Elton John degli ultimi lavori. Con il baronetto inglese ancora dietro alle quinte come produttore esecutivo e con il veterano produttore di estrazione jazz Tommy Lipuma a dare consigli ("il miglior produttore con cui abbia mai lavorato" dice Russell),  Life Journey è a suo modo un piccolo classico-costruito sui classici dell'american songbook-che ammalia da cima a fondo senza mai stancare, tenuto legato dall'inconfondibile voce strascicata e arrochita che serpeggia, graffia ancora nei momenti up-tempo, quasi commuove quando ci si rilassa, mettendo in campo il classico blues riletto e modificato (Come On In My Kitchen di Robert Johnson), trascinanti rock'n'roll guidati da un piano barrellhouse (la sua Black Lips), confidenziali evergreen che più classici non si puo' come Georgia On My Mind portata al successo dal suo mito di gioventù Ray Charles, I Really Miss You di Paul Anka e I Got It Bad And That Ain't Good, tutte arricchite dalla presentissima sezione fiati della Clayton Hamilton Jazz Orchestra.
Fever ha l'indole rock'n'roll con la voce di Russell scatenata e protagonista assoluta che un solo attimo dopo sa veleggiare lentamente sopra alla sonnacchiosa pedal steel di Greg Leisz in Think Of Me e nella solarità country/soul/gospel di That Lucky Old Sun. E poi ancora numeri di alta classe come The Masquerade Is Over e New York State Of mind  di Billy Joel, anticipata da una personale intro e riletta con  devozione e bravura, non perdendo per strada nulla dello skyline metropolitano dipinto da Joel a suo tempo, nonostante Russell abbia dichiarato di conoscere solo vagamente la canzone, prontamente propostagli dal produttore Lipuma.
Classe infinita. "Master Of Space And Time" ancora una volta, non l'ultima. Vero
Russell?


vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)



vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)



vedi anche RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)



giovedì 10 aprile 2014

RECENSIONE: BIGELF (Into The Maelstrom)

BIGELF Into The Maelstrom (Insideout Music, 2014)




La creatura di Damon Fox cresce come un fungo allucinogeno lasciato sotto il sole californiano (loro sono di Los Angeles): le radici nel passato, le nefaste conseguenze, per chi lo coglierà e lo assaggerà, nel futuro. Sono passati ben sei anni e tanti problemi (cambi di formazione, problemi con l'etichetta discografica) dall'ultimo album in studio Cheat The Gallows, e venti dalla nascita, ma la vena compositiva deviata è rimasta ben salda dentro il cilindro calato nella testa di Fox, ormai diventato un one man band assoluto, dopo la dipartita degli altri membri storici del gruppo che lo hanno lasciato solo al momento della stesura delle canzoni, ma comunque sostituiti su disco da Luis Maldonado alle chitarre (buon lavoro il suo) e Duffy Snowhill al basso (comunque in formazione dal 2000). L'arrivo in soccorso di Mike Portnoy (ex batterista di Dream Theatre e mille altri progetti), un presenzialista a cui non si può certamente negare la passione musicale e un posto in squadra, ha riportato la voglia di ripartire in quarta, unitamente agli studi di registrazione Kung-Fu Gardens messi a disposizione da Linda Perry (ex 4 Non Blondes) che ha collaborato anche alla stesura di Already Gone e agli occhi vigili in produzione di Alain Johannes (Queens Of The Stone Age, Them Crooked Vultures tra i suoi lavori).
La musica dei Bigelf è rimasta la stessa tinozza piena e strampalata di sempre, forse meno sorprendente e a volte perfino (fintamente) confusionaria nell'eccesiva ricerca del grandeur d'effetto (chi? i Queen?) che rischia di perdersi o anche farci perdere le mille intuizioni sparse un po' ovunque, ma sempre affascinante e con un po' di attenzione si potranno cogliere tutte le sorprese nascoste dietro ad ogni angolo di questo lungo viaggio temporale all'interno della mente umana: le care melodie beatlesiane sparse un po' ovunque (Already Gone, Theater Of Dreams), teatralità glam grandguignol (The Professor & The Madman, Mr. Harry McQuhae) e allucinata (Vertigo), crescendo progressive/psichedelici che riportano alla mente King Crimson e Genesis (gli otto minuti del viaggio finale ITM), la nuova direzione fantascientifica e apocalittica (l'accoppiata iniziale Incredible Time Machine, Hyperspeed), tastiere e il groove dettato dalla pesantezza delle chitarre sabbathiane (Alien Frequency, Control Freak), schegge indefinibili di pazzia musicale (High, Edge Of Oblivion) si prendono per mano ed iniziano a girare in tondo veloci, sempre più veloci fino a portare allo stordimento, lanciando la follia compositiva in ogni direzione.
I Bigelf sono creatura non per tutti, da maneggiare con cautela, da prendere a piccole dosi inizialmente. Quello che in principio potrebbe sembrare uno spocchioso calderone vintage ha le capacità di tramutarsi in una esperienza esaltante e letale. Se vi lasciate coinvolgere nel vertigo è finita.



vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS- The Winery Dogs (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE NASHVILLE PUSSY- Up The Dosage (2014)


giovedì 3 aprile 2014

RECENSIONE: MATT WALDON (Learn To Love) & INTERVISTA a MATT WALDON

MATT WALDON Learn To Love  (Arkham Records, 2014)




Dopo Ottobre arriva Novembre. Sempre Autunno è. La stagione delle sfumature più belle e intense è ancora una volta la preferita di Matt Waldon, schietto cantautore veneto con la spiccata dote dell'introspezione e l'onestà del buon ragazzo che non pretende di sgomitare troppo per farsi largo, lasciando alle sole canzoni il compito di parlare. Il primo singolo Under Your Breath ha la lingua giusta per farlo: un lieve violino ad allungare le lettere delle parole (Micol Tosatti), la sua voce doppiata (da Samanta Gorda) e la chitarra elettrica di Kevin Salem a mettere la punteggiatura finale. Le radio americane già se ne sono accorte.
Questo suo secondo lavoro, concepito lungo l'infinita strada che da Padova e Rovigo porta a Woodstock, NY, dove è stato effettuato il missaggio ad opera di Kevin Salem, si presenta in modo ancor più omogeneo rispetto al precedente e già ottimo Oktober (2012). Mancano i graffi rock che grattavano la superficie ma quest'ultima si è fatta più compatta, distesa e accomodante e tutto si concentra nei trenta minuti costruiti con dovizia e bravura su acustiche ballate che sembrano nate lungo i pochi minuti che separano le amare passeggiate tra la tranquillità dell'alba e l'arrivo frenetico del giorno, tra i pensieri persi in un tramonto e la misteriosa pace notturna dell'oscurità. Un tempo ristretto della sua vita messo in musica. Un attimo fuggente, colto, masticato e suonato con strumentazione quasi totalmente acustica e gravitante tra i pianeti dell'amato Ryan Adams più introspettivo e le stelle mai cadenti di alcuni passaggi che mi hanno ricordato Steve Earle o le ultime produzioni del vecchio giaguaro John Mellencamp, quelle targhate T Bone Burnett, come nella bella You Can Run As Far, con la slide di Enrico Ghetti, la batteria di Giampietro Viola, il basso di Damiano Marin e la fisarmonica di Walter Sigolo che giocano intimamente-ma intensamente-di squadra. Nella sua pur breve mezz'ora di durata, il disco è ricco di buoni spunti: a partire da un ospite di prim'ordine come l'amico Neal Casal (lunga carriera solista ma anche nei Cardinals di Ryan Adams, nei lisergici Chris Robinson Brotherhood e gli ultimi arrivati Hard Working Americans) che presta la sua chitarra elettrica e accompagna Learn To Love verso l'alta perfezione. Per Matt un bel sogno che si avvera, per noi una bella canzone da ascoltare.
L'aspetto acustico che pervade tutte le canzoni (gli umori cangianti di Fast Clouds, l'opener Broken, la notturna e tesa Devils On The Feeway)  ha un sussulto nel tenebroso e riuscitissimo border folk che ispira l'armonica di Kevin Salem, riportando alla mente il vecchio Tom Russell, ma anche il primo e ruspante Ryan Bingham di Mescalito.
Mi piace sottolineare, inoltre, la bella rilettura a tutta band di New York City, canzone di Keith Caputo (ora Mina Caputo, dopo il cambio di sesso), ex cantante dei Life Of Agony che iniziò la sua carriera solista con Died Laughing-disco che consiglio sempre vivamente (vedi riquadro sotto)- e da cui è estratta questa cruda ode alla città di New York, che Matt ha fatto sua dopo un viaggio nella grande mela. Completano due bonus track: l'intima e folkie per sola voce e chitarra Moon Kills Sun e la particolare Sweetness con il piano di Mrmichael in primo piano.
(Enzo Curelli)


INTERVISTA  a MATT WALDON
Finito l’ascolto, è chiara la differenza con il precedente ‘Oktober’. Questo è un disco più compatto, omogeneo e quasi esclusivamente acustico, figlio, credo, di un tempo ristretto e delimitato della tua vita. Come è nato?
È nato un po’ per caso, avevo brani pronti per 2 dischi, brani completamente diversi tra di loro, metà acustici e di stampo chiaramente folk e metà molto più rock e chitarristici. L’idea iniziale era di fare il disco rock e più commerciale, poi riflettendoci bene l’idea dell’acustico ha finito con il conquistarmi, forse più azzardata come scelta ma i brani di questo Learn To Love rispecchiano di più quanto vissuto personalmente durante quest’ultimo anno.

Quindi possiamo attenderci un altro disco a breve?
A breve non penso, questo disco e' stato veramente sofferto e mi ha proprio spremuto molto a livello di risorse, i brani ci sono ma non e' matematico che debba usare proprio quelli per un nuovo disco! Vedremo insomma, comunque qualcosa a breve certamente no.


Tempo fa, se non ricordo male, su facebook facesti anche un gioco/referendum chiedendo ai tuoi contatti come avrebbero voluto il tuo prossimo disco: acustico o elettrico. E’ stato determinante anche questo esito o era solo un gioco, appunto?
Vedo che mi segui e hai una buona memoria! Ah ah... Volevo tastare un po’ il polso della gente che ascolta la mia musica per capire un po’ in che versione piacevo di più, ma il referendum non è stato per nulla decisivo, lo è stato forse il consiglio di un amico nonché gran musicista che poi ha collaborato al disco (Neal Casal).

Ecco Neal Casal. Dopo anni di amicizia, Neal Casal ha suonato in un tuo disco. Soddisfatto? Hai ascoltato le sue ultime collaborazioni con Chris Robinson e con gli Hard Working Americans, cosa ne pensi?
Soddisfatto? Diciamo che ho realizzato un mio sogno! Siamo sempre rimasti in contatto in questi anni ed è sempre stata una persona splendida e disponibile con me, disponibilità che mi ha spiazzato anche in questo caso. In realtà ci eravamo sentiti anche quando stavo registrando “Oktober” ma in quel periodo lui era presissimo nel progetto con Chris Robinson e non aveva tempo materiale per collaborare al mio disco. Inizio a godermi ora piano piano questo suo immenso regalo, ascolto dopo ascolto, quando mi arrivarono le sue registrazioni di chitarra non transitavo attraverso uno splendido periodo personale e non ebbi modo di godere a pieno. Si certo che lo seguo, i due progetti che ha intrapreso sono molto differenti a livello musicale tra di loro, con Chris esplora sonorità musicali che ci riportano un po’ alle atmosfere psichedeliche dei Grateful Dead & degli Allman Brothers con gli Hard Working lo stampo è più classico e tipico della country roots music sudista.

Tra le canzoni che più mi hanno colpito,c’è The Heart Is A Lonely Hunter. Sembra staccarsi dal resto, una border song che mi ha ricordato il vecchio Tom Russell, ma anche il primissimo Ryan Bingham, c’è qualche bella storia dietro?
Non sei il primo tra le poche persone che hanno già ascoltato il mio nuovo disco ad accostare questo brano a Tom Russell, in realtà non ho seguito molto la sua musica e di quel poco che ho ascoltato in realtà nulla mi ha attratto in maniera così decisa, in ogni caso mai dire mai! Bingham invece lo seguo e l’ho ascoltato molto di più ma penso che questo brano sia figlio un po’ di un esigenza mia di voler provare ad esplorare sonorità e situazioni musicali non abitualmente praticate

Keith Caputo. Con me tocchi un nervo scoperto. Adoro il suo primo disco solista Died Laughing (vedi riquadro sotto), ma lo seguo fin dai tempi dei Life Of Agony (il mio periodo pane e metal), mentre ora sembra giunto ad un bivio importante della sua vita, il cambiamento di sesso. Perché hai scelto la sua New York City?
Adoro anch’io quel disco, è da li che l’ho conosciuto/a musicalmente ed ho continuato poi a seguirlo/a. E sempre stato/a un cantautore che con le sue canzoni ha saputo trasmettermi carica in un condensato di rabbia e rivalsa toccando temi ed aspetti della vita a volte scomodi. Ho scelto New York City perché forse tra i suoi tanti brani scritti era quello che più si adattava al contesto acustico del mio disco e a come volevo riarrangiarla, e poi quando decisi di inserirla nel disco arrivavo da una splendida mia prima volta nella Grande Mela e la saudade da metropoli ha in parte influito su questa scelta.

Come promuoverai il disco?
Sulla strada, on the road come si dice, su palchi, club conosciuti e meno conosciuti, perché è li che vive la vera musica.


KEITH CAPUTO-Died Laughing (2000). Un’esistenza scandita da tante cicatrici mai rimarginate completamente. Prima mimetizzate dal pesante suono HC/Metal della sua band, i newyorchesi Life Of Agony, poi lasciate in solitaria evidenza nella superficie ingannevole del trascorrere del tempo, in seguito curate dai suoi dischi solisti, che si staccano completamente dal suono della band, rifugiandosi nel cantautorato rock, acustico, intimistico, a tratti anche beatlesiano, pop e west costiano, con qualche fulmine elettrico, lascito della "sua" poco fortunata e depressa generazione grungy. I testi autobiografici sono quelli di una persona cresciuta sola che ha perso entrambi i genitori in giovane età, divorati dall’eroina e di chi non è mai riuscito a trovare il proprio io ('Selfish'), confermato dal recente cambio di sesso. Ora Keith Caputo è diventato Mina Caputo. Ora forse è felice. Una vocalità straordinaria e canzoni che toccano i nervi scoperti: la terribile infanzia negata ('Brandy Duval', 'Razzberry Mockery'), la cruda dedica alla sua città ('New York City'), un riuscito omaggio a Kurt Cobain, dove punta il dito anche sui fan, nella quasi jazzata 'Cobain (Rainbow Deadhead)'. Un disco “confessione”, intenso e sofferto che rispecchia fedelmente i tormenti del suo autore. (Enzo Curelli)






vedi anche RECENSIONE: MATT WALDON- Oktober (2012)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)
vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS-J.A.B./CRISTIANO CARNIEL (2014)

lunedì 31 marzo 2014

RECENSIONE: JOHN GORKA (Bright Side Of Down)

JOHN GORKA Bright Side Of Down (Red House Records/IRD, 2014)




John Gorka è uno dei migliori impressionisti folk dell'America d'oggi. Un songwriter dall'andatura sempre prudente. Gentile, nostalgico, intimo, raffinato e meticoloso che non ha mai messo fretta alla sua vena compositiva, un coerente, uno che si trova bene ai margini, davanti alla vetrata di un diner a tarda sera ad osservare, riflettere e contemplare dopo una giornata di lunghi spostamenti, dopo aver visto paesaggi, neve, sole, uomini, donne e colori. Bright Side Of Down è il suo dodicesimo disco in carriera e non sfugge alle caratteristiche dei predecessori: voce calda e rassicurante, tenui impianti acustici, semplici arrangiamenti ad accompagnare liriche di vissuto (le vere protagoniste nella sua musica)  nate sulla strada, cresciute con la spada del tempo puntata, seguendo gli umori e i colori dettati dalle stagioni. Si parte dallo spigoloso inverno, si arriva alla tenue primavera (Really Spring), dalla morte delle speranze alla rinnovata rinascita. "Penso che questa nuova raccolta di canzoni possa aiutare il corpo ad attraversare il freddo per arrivare alla primavera". "Ogni primavera è una vittoria quando gli inverni sono così freddi" canta in Thirstier Wind.
Il suo vissuto nel freddo Minnesota questa volta è stato ancora più determinante per creare l'intimità folk delle undici canzoni che non hanno la pretesa di farci fare un sussulto ma chiedono solamente di essere ascoltate, comprese, lette nei tanti dettagli lasciati dall'autore.
Saggi di vita per sola voce e chitarra (Don't Judge A Life) raccontati in prima persona (Outnumbered), positività quotidiana trainata dal violino (Mind To Think), corti e spensierati inni d'amore scritti per la figlia (Honeybee), la solarità contagiante di More Than One, l'aiuto di fidati amici (Eliza Gilkyson-appena uscito anche il suo The Nocturne Diaries- , Lucy Kaplansky in Bright Side Of Down, Claudia Schmidt in Procrastination Blues), la rilettura di She's That Kind Of Mystery di Bill Morrissey (un altro amico scomparso solo tre anni fa) fanno da contorno ai pensieri più profondi e attuali di High Horse ma soprattutto ai colpi di spazzola e fisarmonica che introducono Holed Up Mason City, canzone che da il via a tutto, narrandoci di un Gorka in balia di una bufera di neve nella città di Mason City, nello Iowa, tristemente famosa per essere stata la città da dove partì l'ultimo volo aereo che condusse Big Popper, Buddy Holly e Richie Valens verso il paradiso del rock'n'roll. Canzone che diventa pretesto per riflessioni e visioni: "At the Big Bopper Diner there's bunch of stranded refugees/ And nobody's talking or looking very eager to please/ In a booth I saw Buddy Holly's ghost, writing to the girl he loved the most/ Holed up in Mason City, the future isn't ready tonight".
Se la coerenza in musica molto spesso viene scambiata per ripetitività, fino a diventare un difetto, nel suo caso è un sigillo al valore. Chi lo segue fin dall'esordio I Know (1987) vuole questo. Un disco rassicurante e sincero, specchio dell' autore, solo per questo vero e meritevole di un ascolto.



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lunedì 24 marzo 2014

RECENSIONE: JOHNNY CASH (Out Among The Stars)

JOHNNY CASH  Out Among The Stars (Columbia/Legacy, 2014)


L'uomo in nero sbiadito che si presenta agli albori degli anni ottanta è un Johnny Cash che stava precipitando ancora in disgrazia: inciampa nuovamente nelle rovine della bulimica dipendenza da sostanze chimiche, confermando che tra gli inarrivabili alti vi erano ancora i tanti profondi abissi che lo accompagnarono lungo tutta la carriera, tanto che la famiglia lo convinse persino al ricovero presso la clinica di riabilitazione Betty Ford Center a cavallo tra il 1983 e il 1984. Lui ne uscì quasi rinato. Non solo, l'allontanamento di Marshall Grant, da trent'anni fedele compagno musicale come bassista nei Tennessee Three, lascerà tanti strascichi personali ma anche legali. In più: i tanti problemi fisici che il suo corpo deve sopportare-incidenti vari, ricoveri e operazioni sembrano diventare routine quasi giornaliera nella sua vita- e non ultima una scampata rapina nel 1981 dipingono nell'insieme un quadro non propriamente esaltante attorno ad un uomo che dietro gli abiti neri pareva nascondere nefaste striature che solo la sua smisurata fede in Dio riusciva a raddrizzare, mitigare e spiegare.
Nonostante tutto, alcuni dischi dell'epoca come Silver (1979), Rockabilly Blues (1980), e soprattutto Johnny 99 (1983), un primo vero anticipo delle American Recordings che arriveranno dieci anni dopo e costruito frugando tra il bianco e il nero contenuti in Nebraska di Bruce Springsteen, sono piccole perle degne dei tempi migliori, quanto meno il segnale che l'allora cinquantenne artista era ancora vivo e vegeto (gli occhi della morte, in quegli anni, lo avevano puntato più volte). Quello che mancò veramente fu il grande pubblico. Johnny Cash non era più l'eroe di vent'anni prima, la casa discografica sembrava averlo abbondonato al suo destino con poco rispetto, le sue trasmissioni televisive non avevano più i numeri di un tempo, MTV stava prendendo le sembianze di un uragano spazza tutto (pure Cash ci cascò nel terribile ma ironico video di Chicken In Black del 1984), altri personaggi, altri suoni e altra musica catalizzavano l'attenzione, e nemmeno l'unione delle forze fra vecchi "eroi" e "sopravvissuti" riuscì nell'intento di riportare in auge certe sonorità e antichi fuorilegge: prima, nel 1981 con i concerti insieme a Jerry Lee Lewis e Carl Perkins che diventeranno un disco, poi il più riuscito progetto Highwaymen con Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson nel 1985, che fu bissato qualche anno dopo e molto probabilmente sarà triplicato prossimamente, stando alle voci (naturalmente senza le insostituibili pedine Cash e Jennings, ma con un Merle Haggard della partita) .
Il ritrovamento di questo "disco perduto" per mano del figlio John Carter Cash, ci dimostra quanto, a undici anni dalla morte, la musica di Jonny Cash riesca ancora a catalizzare l'attenzione, accendere gli animi e far sanguinare i cuori. Sembra l'uscita di un artista ancora in vita. Altro che anni ottanta. Le dodici canzoni furono registrate tra il 1981 (solo due escono dalle session del deludente The Baron negli studi Columbia) e il 1984-la maggioranza con un Cash ripulito e brillante- lavorato insieme al produttore Billy Sherrill, e musicisti quali l'allora giovanissimo Marty Stuart (alla chitarra e al mandolino), Jerry Kennedy (chitarra), Pete Drake (steel guitar), Hargus "Pig" Robbins, Bobby Wood (pianoforte), Kenny Malone (batteria), Terry McMillan (armonica) e Henry Strzelecki (basso), a cui è stata aggiunta una pennellata di moderna post produzione da parte di Steve Berkowitz che ha visto coinvolti in studio lo stesso Marty Stuart, il grande Buddy Miller, Jerry Douglas, Laura Cash, Carlene Carter e molti altri. Canzoni che vanno a tappare un piccolo buco della sua carriera artistica, dimostrando quanto i brani che all'epoca furono messi in stand-by e dimenticati chissà dove dopo la brutta rottura con l'etichetta Columbia avvenuta dopo trent'anni di collaborazione, ora, nell'anno 2014, sono una benedizione dal cielo. Indispensabili per riconnetterci con il personaggio-anche un po' influenzati dall'effetto nostalgico e di deja vu in cui ci fanno cadere, ammettiamolo-e ridare una nuova pennellata di nero ai suoi abiti.
Pur se l'inconfondibile imprinting dato all'epoca dal produttore Billy Sherrill è ancora percettibile, nonostante sia stato anche smussato in post-produzione, in queste dodici canzoni, (tutte riletture tranne due autografe) c'è tutto l'universo di Cash. Il classic country di Out Among The Stars, Tennessee, la sua Call Your Mother, il talkin' che cresce If I Told You Who It Was con un cameo dell'attrice Minnie Pearl; i celeberrimi duetti con l'adorata moglie June Carter nella veloce, rutilante e riuscitissima Baby Ride Easy di Richard Dobsone e in Don't You Think our Time Will Come; c'è il Johnny Cash esistenzialista e solitario vicino alle American Recodings di Rick Rubin in She Used To Love Me A Lot (già incisa dal suo autore David Allan Coe), anche se sembra di averla ascoltata mille volte all'interno della sua sconfinata discografia, la profonda voce arriva diritta al cuore con tutta la forza per diventare un nuovo classico da ricordare, la canzone è pure uscita come singolo in vinile, presentando, nella facciata B, un remix curato da Elvis Costello; c'è l'indomito animo rock della vecchia Memphis in Rock And Roll Shoes, quello polveroso e da strada in I'm Movin On di Hank Snow, canzone che non ha bisogno di troppe presentazioni se non dire che qui è cantata con l'amico Waylon Jennings e che il solo di chitarra sembra tagliato troppo in fretta nel finale; c'è l'amore, l'immancabile fede e la redenzione in After All e l'atuobiografica I Came To Believe. "Sono arrivato a credere ad un potere molto superiore a me".
Quando escono dischi come questo, ci si chiede spesso: ce n'era bisogno? Sì, è la mia risposta, tanto che le stanche rughe che appaiono nel video di Hurt (2002), una delle ultime testimonianze pubbliche in video di Cash prima di morire, sembrano dissolversi lasciando spazio ad un acciaccato ma ancora baldanzoso cinquantenne di nero vestito. Un nero luccicante.




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(2014)



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mercoledì 19 marzo 2014

RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO (Images 13)

DEX ROMWEBER DUO  Images 13 ( Bloodshot Records /IRD, 2014)


Inquietudine. Di quella positiva, se mai esistesse in qualche piega nascosta delle nostre menti. Questo è lo stato in cui mi fa cadere Images 13, terzo lavoro del progetto Dex Romweber Duo e la canzone finale Weird (Aurora Borealis) (scritta da Harry Lubin ed estrapolata dalla colonna sonora di un vecchio show televisivo), è una intima, minimale e inquietante traccia strumentale, quasi tribale nel suo ipnotico incedere, che congeda l'ascoltatore e conferma la mia ansia. Il buio e la luna piena che scorgo dalla finestra amplificano il tutto all'ennesima potenza. Sento ululati sulla collina.
Il chitarrista Dex Romweber è un veterano con carisma da vendere, anche se giovanissimo nei suoi quarantasette anni d'età, di quelli che hanno girato di notte i più malfamati sottoboschi musicali, quelli dove la luna piena entrava dalle finestre di un sottoscala e perforava le menti solo per far danni, quelli dove rockabilly, country e surf scorrevano come rigoli di sangue amaro sopra i palchi e scendevano giù dalle scale che conducevano ai maleodoranti cessi di qualche locale infimo. Uno con una cultura musicale immensa, capace di ripercorrere la storia americana ma anche attraversare l'oceano e approdare in Gran Bretagna: si parte da Eddie Cochran e Johnny Cash, si passa dal sempre dimenticato Link Wray, i Blasters e i Cramps, si arriva a Kinks e Who. E poi, vuoi lasciare fuori l'Australia di Nick Cave?
Uno a cui Jack White e Black Keys dovrebbero erigere un monumento: in verità, White già lo fa, indicandolo come uno dei suoi punti di riferimento musicali. Dex Romweber insieme alla versatile sorella Sara-che siede dietro alla batteria- si è inventato questo duo che ha il maggior pregio nell'approccio  secco e minimale alla musica, pur seguendo quanto già fatto con la sua vecchia band Flat Duo Jets, attiva dal 1990 al 1999 e nata sulle ceneri ancora ardenti della scena post-punk  di Athens e dedita ad un psycho punk travolgente ed energico che comunque rimane in scaletta, diventando solo una parte dei suoi nuovi orizzonti musicali, costruiti su: abbondanti dosi di garage suonato senza fronzoli, gothic blues, oscuro country'n'roll (Beyond The Moonlight), caldi sipari latineggianti, e sinistri temi surf (la strumentale Blackout! con l'immancabile riverbero della chitarra "alla Dick Dale", anticipata da un altro nero strumentale Prelude In G Minor) che farebbero faville nelle pellicole di Quentin Tarantino (la frizzante-ancora strumentale-Blue Surf).
Difficile non farsi conquistare dalla rocambolesca e ringhiosa apertura (Roll On), riscaldamento per la sua chitarra; dalle atmosfere pop '60 della conosciuta So Sad About Us degli amati e fonte d'ispirazione The Who che vede la partecipazione di Mary Huff alla voce; dalla ballata dark a ritmo di lento valzer in stile '50 di I Don't Want To Listen cantata con voce baritonale da consumato crooner; da We'll Be Togheter Again, altro lento con più luce, composto da Sharon Sheeley, compagna del povero Eddie Cochran. La canzone fu scritta dopo la morte di Cochran, ma mai nessuno la pubblicò. Romweber ne è venuto in possesso e l'ha fatta sua in maniera splendida.
Ma anche la nostalgica Baby I Know What It's Like To Be Alone, gli inserti calypso che si introducono tra le pieghe rock'n'roll di Long Battle Coming, e il folk di One Sided Love Affair, ballata scritta da Johnny Burnette. Lasciano tutte il segno. La lunga linea compresa tra romantico dramma e alta tensione che percorre l'intero disco (sono solo trenta minuti e una decina di minuti in più li avrei apprezzati) scorre piacevole e veloce. Il mio disco rock'n'roll di Marzo.




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venerdì 14 marzo 2014

RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS (English Oceans)

DRIVE-BY TRUCKERS English Oceans (ATO, 2014)



Un altro bel passo in avanti che non ti aspetti. Non musicale-da loro sappiamo cosa aspettarci- ma di solidità e longevità. Sono passati tre anni-tanti per i loro canoni-dal rilassato, nero e trascinato (con classe) Go-Go Boots (in verità nato già come un sequel di The Big To-Do), ma la band texana di Patterson Hood e Mike Cooley (ampio il suo apporto in fase di scrittura questa volta) dimostra di non avere ancora le pile completamente scariche dopo vent'anni di onorata carriera e il prestigioso merito di aver tenuto alto il vessillo di un certo modo di suonare e vivere il rock tutto americano, impreziosito da liriche sempre al di sopra della media, anche qualcosina in più come dimostrato anche questa volta nell'attacco politico di The Part Of Him e nei consueti dipinti quasi gotici delle terre del sud (l'up country alla Willie Nelson di First Air Of Autumn). Negli anni duemila, anni poveri e senza veri scossoni musicali, avere tutte queste caratteristiche e qualità è un pregio da difendere con i denti e loro sembrano farlo fin dall'attacco dell'iniziale e dura Shit Shots Count, chitarre che non lasciano il respiro se non nell'irruzione dei fiati, nel finale, che virano la canzone al suono di New Orleans. Fedeli agli stilemi dettati da loro stessi nella monumentale rock opera sudista che ha aperto il nuovo millennio (Southern Rock Opera del 2001) dove southern rock e americana convogliavano a nozze per non separarsi più, English Oceans è un disco che guarda più a quel passato, spogliandosi di tutti gli orpelli superflui e maestosi dell'altro ieri (nuovamente cambi in formazione intorno ai due leader, questa volta ad abbandonare i camionisti sono Shonna Tucker sostituita da Matt Patton proveniente dalla band ‘The Dexateens’ e John Neff , mai sostituito) registrato in pochi giorni e con il groppo in gola dopo la scomparsa di Craig Lieske, roadie tuttofare del loro entourage, a cui il disco è dedicato. La lunga, malata e conclusiva Grand Canyon è tutta per lui.
Ne hanno beneficiato l'immediatezza e la schiettezza. Le chitarre riprendono il comando del suono, correndo nervose come il vecchio "cavallo pazzo" montato da Neil Young (When He's Gone, Hearing Jimmy Loud), il pianoforte è una presenza gradita e sempre vivace nel riempire i pochi buchi della loro musica come avviene in Til He's Dead Or Rising e nel bellissimo e sbilenco honky tonk Natural Light , e quando cala l'oscurità sulle terrose strade del sud, calano anche i ritmi ma non l'intensità: Made Up English Oceans, Hangin On, la pianistica When Walter Went Crazy sono ballate amare, condite dalla consueta ironia, ma distese e pacificanti. Nessuna novità, ma non è questo che ci si aspetta da un gruppo come loro.  Band da tenere stretta stretta.






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martedì 11 marzo 2014

RECENSIONE:LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS (J.A.B.) & INTERVISTA A CRISTIANO CARNIEL

LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS  J.A.B. (autoproduzione, 2014)



Vuoi fare l'americano? Fallo almeno bene. Questa è una regola non scritta che pochi seguono, ma quei pochi che lo fanno sono degni, degnissimi di nota, tanto da meritare lande musicali più vaste dei nostri traballanti e miopi confini nazionali, e gli esempi in questi ultimi anni sono fortunatamente tanti. I Little Angel & The Bonecrashers, band del varesotto attiva dal 2000, arrivano al secondo album con dieci canzoni autografe che sono una piccola lezione di umiltà e rispetto verso un'intera scena musicale talmente vasta  che il rischio di perdersi è alto e sempre in agguato: si  parte dalle radici e si arriva agli albori di quell'alt country che è stato una delle ultime vere novità che ha condizionato, anche per vie traverse, tutte le nuove generazioni di musicisti americani.
In mezzo, a tenere tutto unito, lo swamp rock, la lezione di band universali, buone per ogni occasione, epoca e pubblico, come i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty (ascoltate l'iniziale country/rock Harry's Wife e capirete). I Little Angel &The Bonecrashers sanno fare gli americani, non per puro spirito d'emulazione ma per vero amore verso un suono ruspante (tre chitarre in formazione), caldo e dal fascino incalzante che alza polvere sulle secche strade e che la simpaticissima copertina vuole anticipare prima ancora di leggerne i titoli e ascoltare le canzoni. Ma anche viaggiare a passo lento lungo il nulla del deserto, tra meditazione, sogno e contemplazione del paesaggio: la lentezza ha il suo fascino. C'è il loro cuore che pulsa in queste dieci canzoni. Si sente.
"La cultura, anche se bassa, come la musica che noi suoniamo, ti rende più bello. Dentro (darei un braccio per farvi provare quello che sento quando suono qualcosa che mi piace o quando una canzone mi si aggrappa allo stomaco) e anche fuori (i Little Angel quando suonano insieme sono bellissimi, cieco chi non se ne accorge). Scrivono nel loro profilo facebook.
Difficile etichettarli, perché il gruppo guidato da Cristiano Carniel  sa trottare in solitaria per gli ultimi lunghi e misteriosi viaggi ( My Last Ride con la chitarra ospite di Davide Buffoli) come farebbe un Johnny Cash spirituale davanti alle sue amate ferrovie; adagiarsi pigramente sopra ai tasti di un pianoforte (suonato da Agostino Barbieri) in Birdies; avanzare sardonicamente in Troubled Everyday, canzone che si alza e si abbassa seguendo umori cari a Neil Young; girare intorno ad un valzer western (Cowboy's Prayer); cavalcare il suono rock e ruspante che esce da 1000 Miles Amelia; sprigionare vivacità nell' autobiografica e ironica Just Another Band, nella spensieratezza di Regrets (Sweet Revenge Song); il tutto legato dalle buone armonie vocali (oltre a Carniel, alla voce anche i due chitarristi Stefano Tosi e Andrea Bergamin, completano la formazione: Marco Sola alla batteria, Gianluca Lavazza al basso). Veri, freschi e vivaci: può bastare?


INTERVISTA
Due parole con Cristiano Carniel, voce e chitarra del gruppo.
Come è nata la band?
"I Little Angel & the Bonecrashers nascono sul border Milano-Varese nel 2000. Cinque amici di lunga data con diverse collaborazioni in band musicali della zona del varesotto. L'idea di partenza è, dopo molti anni passati a suonare nei locali quello che piace alla gente, di suonare finalmente quello che piaceva a noi: Los Lobos, Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Eagles, Creedence Clearwater Revival, Neil Young e la per noi bellissima musica che in quegli anni arrivava dal movimento alt-country. Quindi le prime scalette vedevano brani degli Uncle Tupelo, tra gli altri, vicino a pezzi dei mostri sacri di cui sopra. Nel 2003 registriamo un demo di  sei cover e a marzo 2006 esce il primo cd che contiene 6 brani originali e 3 cover. Nel novembre 2008  abbiamo aperto il concerto della cantautrice americana Sarah Pierce e nell'ottobre 2009 partecipiamo per la prima volta al Townes Van Zandt Tribute (bis nel 2013).

 Una delle cose che si notano maggiormente è la vostra totale immersione nella tradizione musicale americana, tanto che è difficile inquadrarvi in un solo genere, quindi vi ho inquadrato in un gruppo: i Creedence Clearwater Revival. Totalizzanti. Cosa ne pensi?
Penso che hai fatto centro. Come puoi ben immaginare, è difficile che cinque persone abbiano gli stessi gusti musicali. E così è per noi. Qualcuno è appassionato di country, qualcuno predilige il punk e qualcuno addirittura l'heavy metal (penso che l'ultimo concerto a cui sia stato Totò (Stefano Tosi) sia stato quello degli Slipknot o dei Ramstein, non ricordo bene, 'not my cup of tea'. Però ci sono tre o quattro gruppi/artisti per cui tutti e cinque nutriamo una passione sfrenata: Creedence Clearwater Revival, Uncle Tupelo, Los Lobos e Johnny Cash. Quando qualche anno fa John Fogerty venne all'Alcatraz eravamo tutti e cinque sotto il palco. Fu una messa celebrata dal reverendo Fogerty. Noi i suoi adepti. Non ti nascondo che ogni volta che predo in mano la chitarra per vedere se c'è un pezzo nuovo pronto ad uscire, l'idea è quella della "3 minutes song" dei Creedence. Semplice ma non banale e che faccia cantare e ballare tutti quelli che l'ascoltano".

E’ ormai un obbligo chiedere ad una band con il proprio repertorio originale, che difficoltà incontra nel trovare date e locali per suonare in Italia senza essere una cover band. Voi come siete messi? Il brano Just Another Band sembra collegarsi anche a questo.
Noi abbiamo iniziato come cover band. Solo pezzi che piacevano a noi però. Abbiamo poi iniziato a inserire qualche pezzo nostro e adesso abbiamo una scaletta con il 75% di brani originali e il 25% di cover (sempre riarrangiate e ripensate "a modo nostro" comunque). Siamo stati fortunati perché sul nostro cammino abbiamo incontrato due persone senza le quali non saremmo riusciti ad arrivare fino qui. Una è Max, il proprietario del Nidaba Theatre di Milano, a cui abbiamo inviato il nostro primo cd, senza conoscerlo di persona e senza nessuna "raccomandazione". Lui se l'è ascoltato e ci ha chiamato a suonare nel suo locale. Le serate al Nidaba, davanti a un pubblico che viene per ascoltare quel tipo di musica, diciamo un pubblico competente, sono state una delle migliori palestre per il gruppo e per il suono. L'altra è Claudio Giuliani del Buscadero che crede in noi più di quanto ci crediamo noi stessi. E ci ha dato la possibilità di aprire per qualche artista americano che si esibiva dalle nostre parti, più di una volta. In questo momento trovare date è molto difficile. I locali cercano la via più semplice per fare incasso (le tribute band per esempio) e di gestori appassionati ce ne sono sempre meno. Tieni conto poi che paradossalmente in un momento in cui la comunicazione dovrebbe essere semplice, visti i mezzi a nostra disposizione (mail, facebook, ecc.), tutto diventa più difficile. Passi i giorni a mandare mail o cd che nessuno leggerà, né ascolterà.

Due parole sull’originale e intrigante progetto grafico...
"La grafica del cd è opera di Dario Arcidiacono, un mio ex collega di lavoro, (http://www.darioarcidiacono.org/) che su FB usa lo pseudonimo di Nom Couture e che già aveva disegnato il logo della band per il disco precedente. Ha questo stile "splatter" apocalittico con cui illustra temi di attualità internazionale. E ha anche ottimi riscontri. A maggio inaugura a Milano una sua esposizione. Il suo stile descrive efficacemente il modo ironico e scanzonato con cui scriviamo e ci presentiamo"


Tra le canzoni più particolari, mi ha colpito 1000 Miles Amelia. Come è nata?
"L'Amelia, chiamata anche la Millemiglia o la Bersagliera, era una signora che dagli anni '50 occupava ogni giorno una postazione fissa, qualsiasi tempo facesse, lungo una strada che collegava Castellanza (il paese da cui veniamo) a Busto Arsizio e "donava a tutti la stessa rosa". Dai nostri nonni a noi, tre generazioni l'hanno vista sempre là, sotto il sole o sotto la pioggia. Ci ha lasciato circa cinque anni fa. I giornali locali ne hanno tutti parlato. Non mi sorprenderebbe sapere che ai funerali ci fosse anche il sindaco. Un'istituzione delle nostre parti. La canzone è ispirata a lei".

Tra gli ospiti in My Last Ride (una delle mie preferite) c'è Davide Buffoli. Come vi siete conosciuti?
Davide Buffoli è ormai un amico di lunga data. Quando ancora i Little Angel non esistevano lo vedevo aprire i concerti di artisti americani organizzati da Carlo Carlini nella nostra zona. Non aveva ancora vent'anni, ma aveva già quel suono e quel tocco sullo strumento che fanno di lui, secondo me, uno dei più bravi chitarristi italiani. Grazie a Claudio Giuliani, i Little Angel e la Davide Buffoli Band hanno condiviso spesso lo stesso palco. È risultato naturale, nel momento in cui ci siamo ritrovati a volere un suono di chitarra diverso dalle nostre in una canzone (My Last Ride) del disco, rivolgerci a lui. E lui ha preso in mano la canzone, l'ha riarrangiata e gli ha dato quella veste che si può sentire sul disco. È stato poi un preziosissimo aiuto in fase di missaggio dove ha affiancato Atos Travaglini, il tecnico del suono dei Nomadi.

La classica domanda finale: progetti futuri a corto e lungo termine?
La domanda più difficile. In fin dei conti siamo dei dopolavoristi. Siamo già sorpresi di essere arrivati a incidere due dischi. Mai avremmo pensato di poter continuare a suonare insieme per quattordici anni. Prendiamo quello che viene. Qualche data nell'immediato futuro per promuovere il disco e poi sotto a scrivere i pezzi per il terzo cd.



vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)

vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)



 

lunedì 3 marzo 2014

RECENSIONE:JONO MANSON (Angels On The Other Side)

JONO MANSON  Angels On The Other Side (Appaloosa Records/IRD, 2014)

Jono Manson ha tre case: una negli States, nato e cresciuto-anche musicalmente a fine anni settanta- a New York, da più di vent'anni vive a Santa Fe nel New Mexico dove è stato registrato il disco e dove si porta la maggior parte del lavoro da produttore, una in Italia, sua seconda patria dove ha abitato per tre anni e custode di tanti amici musicisti (e non) sempre pronti ad accoglierlo per suonare, farsi produrre o semplicemente ospitarlo per godere della sua gioviale compagnia e sincera passione, la terza è
nel cuore umile della musica, rifugio dove sta a proprio agio sempre e comunque. Artista ben voluto e cercato, uno che non si tira indietro mai e che si è costruito il percorso musicale con la coerenza dei classici "piccoli passi ma ben distesi"-anche se il suo curriculum potrebbe impressionare- che lo hanno portato a registrare l'ennesimo buon album in carriera ( l'ultimo fu November  del 2008 se si esclude il progetto Barnetti Bros Band con i "fratelli italiani" Massimo Bubola, Andrea Parodi e Massimiliano Larocca) dove la consueta vena soul che abita imperiosa la sua preziosa ugola-caratteristica che lo accomuna e lo porta ad essere paragonato da sempre ad un mostro sacro come John Hiatt- lega il folk con il country, il country al blues, il blues al rock e con i testi (presenti tutte le traduzioni ad opera della meticolosa Appallosa Records) che evocano i fantasmi dei ricordi, gli spettri dell' amore, i misteri che tengono uniti i forti legami famigliari, la fede, i segreti nascosti dei grandi paesaggi naturali, creando un fascinoso concept dove la positività in tutti i suoi aspetti sembra brillare su tutto e penetrare la vita come il raggio di sole fa con il paesaggio in copertina. "Un album dedicato a tutti gli angeli custodi dall'altra parte e a quelli che vivono alla mia destra, qui in terra." Così Jono Manson chiosa nel libretto e canta nel delicato country d'apertura guidato dalla slide di Jay Boy Adams: "Perché ho ali sotto i vestiti/Ho i miei angeli custodi dall'altra parte/E ho abbastanza amore nel mio cuore/Per godermi il viaggio".
Io ci aggiungo: "Un' anima non è mai senza la scorta degli Angeli, questi spiriti illuminati sanno benissimo che l'anima nostra ha più valore che non tutto il mondo" . Lo diceva il monaco francese San Bernardo di Chiaravalle, uno che apparve perfino a Dante nel Paradiso della Divina Commedia.
Un disco positivo, di fede e speranza. Sospinto dall'energia illuminante di alcuni membri del gruppo texano Shurman che lasciano l'impronta soprattutto nei pezzi più tirati e rock: nel bar nascosto e vizioso che popola le nostre menti nel tiro southern di  Honky Tonk In My Mind, nelle chitarre garage di There's a Whole World On Fire, e nel trascinante blues da "american dream" spezzato di I'm Gonna Get It.
Angels On The Other Side è un disco a tre velocità ma con un'unica profondità. Oltre ai già citati episodi più elettrici e terreni, lascia il maggior segno  negli episodi intimistici e rallentati, ballate dove il leggero e arioso country si insinua tra famiglia e fede (Togheter Again, i contorni che contano nella stupenda The Frame la cui stesura risale a qualche anno fa), e tra le salvifiche e intense dichiarazioni d'amore di Angelica e Everething To Me, nella tenue brezza che soffia sopra il lato bello della natura (Silver Lining) sospinta dall'armonica dell'amico di sempre John Popper dei Blues Traveler e sceneggiata come piacerebbe ai suoi cugini registi, i fratelli Coen; ma anche nei mezzi toni melodici di Snowed It, soffice schizzo d'amore invernale lasciato cadere come neve sul tappeto '60, lo stesso che accoglie l'illuminante e speranzosa The Other Yesterday.
Nella finale Grateful tra le maglie di una slide e il vintage sound dell'hammond è scritto tutto il testamento del disco, ma anche la sua appagante filosofia di vita: "non ho niente di romantico da aggiungere/Sono stato sulla strada ma non è andata così male/ho scontato la mia parte di pena/Ho scontato la mia parte d'inferno/Ma sono sempre stato protetto/E sono sempre stato servito bene".
Ma c'è ancora il tempo per una intensa e sentita interpretazione al pianoforte di Never Never Land, rilettura di L'isola Che Non C'è di un altro vecchio amico italiano, Edoardo Bennato, presente come bonus track nella sola versione italiana. Sembra che Bennato abbia già approvato.
Che gli angeli siano con voi e continuino a vegliare sulla musica scritta con passione e onestà.




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