martedì 29 ottobre 2013

RECENSIONE: GREG TROOPER (Incident On Willow Street)

GREG TROOPER  Incident On  Willow Street  (Appaloosa Records, IRD, 2013)


Doveroso, prima di tutto, dare un nuovo benvenuto all'etichetta indipendente italiana Appaloosa Records specializzata in "roots" americana fondata nel lontano 1979 dal compianto Franco Ratti che torna, dopo uno stop di alcuni anni, grazie alla passione musicale di Tommaso Demuro, Simone Veronelli (cugino di Ratti) e Andrea Parodi (cantautore e musicista).
A festeggiare nel migliore dei modi ci pensa il nuovo disco del cinquantasettenne songwriter nativo del New Jersey ma girovago per vocazione (New York, Texas e Kansas tra le sue mete di gioventù, poi anche Nashville e soprattutto tanta Europa ad ispirare le liriche), un cantautore tanto rispettato e osannato dai colleghi musicisti (si sono serviti delle sue liriche e hanno speso parole d'elogio personaggi come Steve Earle, Tom Russell, Billy Bragg) quanto con una onesta carriera condotta inspiegabilmente ai margini del successo e della notorietà, nonostante undici dischi sulle spalle dopo l'esordio We Won't Dance del 1986 ed una capacità di scrittura con pochi eguali.
Incident On Willow Street, già uscito in Olanda, ha visto la luce dopo un lungo travaglio, finanziato anche grazie ad una raccolta fondi a New York che la dice lunga sul carattere indipendente che ha sempre caratterizzato la carriera di Trooper, ma che ora, grazie al lavoro dell'etichetta italiana, è nobilitato da un prezioso booklet che riporta le traduzioni in italiano dei testi ed una speciale bonus track: Ireland, canzone registrata live a Houston, in origine presente su Ewerywhere, disco del 1992; un trascinante ballo condotto dalla fisarmonica che ci culla fino all'oscurità, svelando tutto l'amore di Trooper per i suoni della vecchia Europa.
La forza di Trooper è proprio nei testi, ricchi di quella quotidianità da instancabile girovago sempre pronto a scattare fulgide e poetiche istantanee di quello che lo circonda. Un osservatore attento a quel che succede dentro e fuori il cuore dell'umanità.
"Sto Camminando per gli scuri e freddi vicoli della città/Alla ricerca di un uomo onesto/Sto portando una Lampada per i vicoli della città/Alla ricerca di un uomo onesto" canta in One Honest Man. Come nella ballata alla Tom Petty che apre il disco All The Way To Amsterdam (quando una ragazza americana sogna l'Olanda, oppressa da una famiglia che le va troppo stretta); o pieni di autentica introspezione messa in musica, che si tratti di rimpianti verso amori finiti male nella bella giga irlandese Mary Of The Scots In Queens, o sempre amori, finiti, ma affrontati senza versamento di lacrime, con fiducia e ottimismo nella "vanmorrisoniana" Everything's A Miracle, lento valzer notturno che galleggia nel soul. Stregante.
Canzoni che non perdono mai di vista la melodia sia che serpeggi in mezzo al fiume di parole riversate nel talkin' rock'n'roll (Living With You), nelle trascinanti ballate folkie (Good Luck Heart), nelle country songs (Diamond Heart, la tresca amorosa di This Shitty Deal, l'omaggio a tutte le donne in The Girl In The Blue), tra le pedal steel che conducono Amelia e Steel Deck Bridge, o negli affreschi in bianco e nero che sanno di vecchio Grenwich Village (The Land Of No Forgiveness), palestra di strada da frequentare per ogni buon folk singer.
Suonato insieme all'onnipresente Larry Campbell, Kenneth Blevins, Jack Saunders, Oli Rockberger, Stewart Lerman (anche produttore), e con il figlio Jack alla batteria e Lucy Wainwright Roche ai cori.
Dodici canzoni perfette che compongono un album lineare, tradizionale e piacevole, prodotto senza sbavature e senza inutili filler. Canzoni che sanno legare cento anni di musica americana con quel prezioso filo dorato che non tutti possono permettersi, e che, a fine disco, lasciano ancora quella speranzosa fiducia nel futuro. Potere della bellezza. Consigliato.





vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)




vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)




vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)



vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013) 
 
 


vedi anche RECENSIONE: JOE GRUSHECKY-Somewhere East Of Eden (2013)



venerdì 25 ottobre 2013

RECENSIONE: EVASIO MURARO (Scontro Tempo)

EVASIO MURARO   Scontro Tempo ( Dischi VoloLibero, 2013)



Confesso di peccare spesso di superbia con gli amici. Succede quando ci si mette intorno ad un tavolo a disquisire di musica italiana: al fronte dei loro soliti e pochi nomi noti (si proprio quelli!), io snocciolo nomi che loro ignorano ed è quasi un piacere guardare lo sguardo che si tramuta in smorfia a forma di punto di domanda. "Sì ok, ma chi è?". Evasio Muraro rientra nella mia lunga lista. Cantautore che qualcuno ricorderà nei Settore Out, gruppo che insieme a moltissimi altri popolava il bello e prolifico sottobosco del rock italiano nei primi anni novanta, passato poi nei Groovers ed infine, da alcuni anni, come solista dove continua a non sbagliare un colpo, e l'ultima trilogia (Canzoni Per Uomini di Latta-2009 e O Tutto O l'Amore-2010) che questo Scontro Tempo (il quarto in assoluto) va a completare non fa eccezione, a partire dalla confezione in digipack, ricca di un ampio e pantagruelico libretto di circa cento pagine con foto, testi e un bel racconto (Radar) scritto da Marco Denti, ispirato al trascorrere del tempo e alle stesse canzoni di Muraro. Un piccolo concept che mette in fila i giorni, nel teso incedere chitarristico di Scontro Tempo, in Giorni, nell'avanzare tribale di Contiene Il Cielo (un'idea di libertà) che contiene un estratto di Strade Blu di William Least -Heat Moon recitato da Gianni Del Savio; corre incontro alle speranze in Venti Volte e si allontana dalle tristi realtà in Infinito Viaggio (" corro in direzione opposta/da quei fulmini insistenti/e mi lascio alle spalle l'aria umida e inquieta/e mi trovo inaspettatamente all'inizio/del mio viaggio/infinito viaggio"); si fa domande esistenziali (Il Mondo Dimentica).
Cantautore attento e intuitivo, che non si lascia sfuggire nulla di quello che lo circonda ma anche con la spiccata sensibilità nel riversare in testi ad alta gradazione poetica la sua più profonda intimità (Lettera Da Spedire Prima O Poi). Succede così che i temi sociali di fresca attualità come Puzzo di Fame, un rock/blues incisivo che scava tra la dignità perduta di chi ha perso lavoro e stipendio ("...se la sveglia non strilla/ se la luce non brilla/con che coraggio ti guarderò negli occhi domattina...") vada ad affiancarsi a desolati e plumbei affreschi acustici come le memorie personali di Il Maestro E La Sua Chitarra dedicata a Mario Zucca, suo primo maestro di chitarra scomparso pochi anni fa, e di Un Grido, canzone che chiude un disco che proprio di questa alternanza ne fa un valore aggiunto.
Accompagnato dal gruppo FaNs, composto da Fabio Cerbone alle chitarre (belle, presenti e incisive su tutto il disco), Lorenzo Rota al sax, Cucu al basso e Cesare Bernasconi alla batteria, dai cori  dei Gobar, e prodotto in modo magistrale da Chris Eckman dei Walkabouts che attraverso un pregevole lavoro di sottrazione riesce a dare risalto ad ogni componente strumentale facendo suonare il disco in modo asciutto, deciso ma estremamente moderno e avvolgente.
Alla fine, il più grande pregio di Evasio Muraro è proprio quello di riuscire a collocarsi esattamente in mezzo alle due maggiori correnti musicali del panorama musicale italiano: tra il classico cantautorato tricolore ed il rock alternativo. Una posizione privilegiata che meriterebbe ben altri numeri di ascoltatori, anche a scapito di  ridurre la mia superbia con gli amici, magari ci guadagnerei in simpatia.





vedi anche RECENSIONE: MASSIMO PRIVIERO-Ali Di Libertà (2013)




domenica 20 ottobre 2013

RECENSIONE: JOE GRUSHECKY (Somewhere East Of Eden)


JOE GRUSHECKY  Somewhere East Of Eden   (Schoolhouse Records, 2013)

Joe Grushecky ha sempre avuto il passo dei grandi songwriter americani, solo la fama è corsa più veloce, lasciandolo indietro. Troppo indietro. I veri misteri del rock sono anche questi. Ma poco importa, perché a chi lo segue fin dal suo esordio solista, passando ancor prima per i dischi insieme agli Iron City Houserockers (il vero debutto è Love's So Tough del 1979), questo diciassettesimo lavoro consente di segnare un'altra piccola tacca nella lavagna che ci ricorda i duri e puri con le palle e il cuore grandi così. Il cantautore di Pittsburgh ha tagliato il traguardo dei sessant'anni e si vede costretto a dare un'occhiata intorno e dietro a sé: prende il titolo dall'amato romanzo East of Eden di John Steinbeck, rimane colpito dai seri problemi di droga e alcol di un veterano della guerra in Iraq, ci scrive una canzone dal taglio rock (Somewhere East Of Eden) che diventa anche il titolo dell'album-già in odor di classico- e da lì in avanti non si ferma più. Nascono canzoni sincere, sudate, viscerali e genuine, coerenti con la sua carriera da "duro e puro", come sempre, scritte con il braccio che sconfina dalla parte dei più deboli, gli ultimi, gli emarginati: c'è il veterano, ma anche il working class hero che si fa un sedere tanto al lavoro mentre quello che ottiene indietro dalla vita è il diavolo che gli bussa continuamente alla porta, ci sono i bambini ai quali insegna (la solitaria e acustica The First Day Of School), ci sono le nuove generazioni di musicisti come quella del giovane figlio ventenne in cui si immedesima e lascia idealmente il testimone (Changhing Of The Guard), c'è lui stesso nell'autoironico rock'n'roll/doo-wop acustico I Still Good (For Sixty), c'è la crisi dei tempi duri.
"Sono nato per il rock" canta in modo inequivocabile in I Was Born To Rock dal taglio diretto e "garagista", e capisci che ha ragione, ascoltando tutti quei tosti blue collar rock-la sua specialità- (I Can Hear The Devil Knocking, Who Cares About Those Kids) con le chitarre elettriche in primo piano, quelle che vorremmo tanto sentire nelle canzoni dell'amico fraterno Bruce Springsteen (che gli produsse uno dei migliori dischi in carriera, American Babylon del 1995).
Ma non solo, Somewhere East Of Eden è tra i lavori più vari della sua discografia, "il migliore" dice lui, peccando in buona fede della famosa sindrome da "elogio all'ultimo nato", tanto che già alla terza traccia piazza una spiazzante versione a cappella con percussioni in loop del traditional blues/gospel John The Revelator, e poi il soul di Save The Last Dance For Me  portata al successo dai Drifters, il funk di Prices Going Up, oppure come in When Castro Came down From The Hills dove nasconde tracce di musica cubana nelle percussioni ed in una tromba che serpeggiano tra le strade dell'Havana nel lontano e seppiato 1958, anno della rivoluzione. Canzone stupenda dal taglio cinematografico.
Non lo troverete mai nelle grandi arene rock, ma più probabilmente nel pub sotto casa, dalle undici di sera in avanti. Lo stivale che batte il tempo sulle assi è il segnale d'inizio. Non perdetevelo.




vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013) 




vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)




vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)



vedi anche RECENSIONE/REPORT Live GRAHAM PARKER live@ Suoneria, Settimo Torinese(TO), 11 Ottobre 2013



vedi anche RECENSIONE: GREG TROOPER-Incident On Willow Street (2013)





giovedì 17 ottobre 2013

RECENSIONE: KINGS OF LEON (Mechanical Bull)

KINGS OF LEON  Mechanical Bull  (RCA Records/Sony Music, 2013)

Abbandonato o superato lo status di "band sull'orlo di una crisi di nervi" che ne ha caratterizzato gli ultimi due anni di travagliata carriera, la famiglia Followill si rimetta nella giusta carreggiata, riuscendo anche a dare una piccola scossa (comunque senza troppe esagerazioni, chi non li ha mai amati continuerà a farlo, sia chiaro) alla pochezza musicale degli ultimi due lavori in studio. Il grande ed inaspettato successo mondiale sembrava essere piombato quasi a sorpresa sui testoni dei tre fratelli  Caleb, Nathan e Jared e su quella del cugino Matthew, cogliendoli impreparati, sommersi da troppi impegni promozionali e attratti dai più convenzionali vizi delle rockstar cattive e "arrivate" che alla lunga hanno portato più danni che benefici (una "malattia" contagiosa che sta colpendo anche i Mumford & Sons che hanno appena annunciato una lunga pausa "purificatrice" per gli stessi identici motivi-non tutti nascono Keith Richards) piuttosto che seguire umilmente il buon percorso intrapreso fin dal debutto che prometteva strade meno mainstream, artificiose e "poppeggianti" ma più malconce e polverose. Strade presto interrotte per lavori in corso. Incapaci di portare in giro per il mondo l'ingombrante titolo di band planetaria che qualcuno voleva cucire loro addosso, sono riusciti a smarcarsi, prendendo le distanze in estremis-almeno apparentemente- dalla compagnia delle più acclamate pop e rockstar mondiali che occupano stabilmente le grandi arene. E dire che un po' erano andati a cercarsele le grane: dopo un paio di dischi (il debutto Youth And Young Manhood-2003 ed il seguito Aha Shake Heartbreak-2004), sì derivativi e poco originali, ma comunque puri e genuini che sembravano proiettarli sulle stesse vie vintage e terrose del southern rock'n'roll come la loro terra natia, il Tennessee, imponeva, le stesse che il padre e zio, predicatore pentecostale, avrà percorso mille volte in vita. Entrarono invece dalla porta principale del successo con tormentoni indie/pop viziosi come  Sex On Fire (da loro stessi ripudiato in tempi recenti) e Use Somebody. Ecco, le hits: i tormentoni sono quelli che mancano in questo sesto lavoro della band che riesce a recuperare un po' del passato, con il ritorno delle chitarre incisive e rock, quelle che escono prepotenti fin dall'avvio Supersoaker, ma soprattutto da Don't Matter dal tiro garage punk diretto e senza fronzoli quasi alla QOTSA, nell'accattivante blues con le buone chitarre di Rock City, dalla melodia  in crescendo di Temple, ma anche da una sezione ritmica che martella a dovere nel funkettone Family Tree che si imparenta con il soul e il gospel.
Il resto sono notturne ballads: qualcuna riuscita come Wait For Me, altre come Comeback Story puntellata da arrangiamenti orchestrali troppo melensi, Tonight e Coming Back Again fanno l'occhiolino un po' troppo agli U2, On The Chin sfiora il country senza mai incontrarlo.
Purtroppo gli scossoni non bastano a cancellare del tutto quello che reputo uno dei maggiori difetti della band: quella piattezza che si trasforma-alle mie orecchie- in calo d'interesse che da metà disco in avanti inizia a prevalere (sarà  una loro scelta ponderata?) e che non riesce a convincermi in modo totalitario. I segni di ripresa ci sono, cercateli tutti nella prima parte di disco, ma ci sono.




vedi anche RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)




vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)




sabato 12 ottobre 2013

RECENSIONE/REPORT LIVE: GRAHAM PARKER live @ Suoneria, Settimo Torinese (TO) 11 Ottobre 2013

"Non fatemi domande". Se proprio volete farne una, chiedetemi come è andata la serata. Volete farne un'altra? Chiedete alla gente là fuori, perché Graham Parker non è mai diventato la grande star che meritava d'essere: veramente tutta colpa delle etichette discografiche? O ha pagato a caro prezzo-quello della impopolarità sulla lunga distanza perché i suoi esordi fecero un grande eco- la sua sanguigna perseveranza nel non scendere a compromessi, infischiandone sempre di tutto e tutti, in primis delle etichette, quelle musicali questa volta. Alla prima domanda saprò rispondervi, all'altra nessuno ci riuscirà; durante la serata anche lo stesso Parker ci scherzerà su, presentandoci ironicamente una canzone (non ricordo più quale) come il suo più grande successo in Italia, la "numero uno" come dice lui simpaticamente, pretendendo le giuste ovazioni  ed esultanze, quelle che si concedono solamente agli evergreen immortali. Costringendoci a bluffare al suo comando.
Abbandonata per una volta la solita "routine" del venerdì sera al pub, mi abbandono tra la musica di qualcuno che in Inghilterra nella seconda metà degli anni settanta, del "pub rock"(che vuole dire tutto e niente, soprattutto oggi) ha fatto il suo vessillo e che i fine settimana li trasformava in esibizioni incandescenti dove rock'n'roll, punk, RnB, soul, pop, reggae e la nascente new wave si univano in una miscela esplosiva di carica, urgenza, energia, sfrontatezza, sudore, romanticismo e genuinità che in quegli anni non avevano tanti eguali. In anticipo sul nascente punk inglese con il suo debutto Howlin'Wind (1976), ma troppo musicista per rientrare in quella scena, è spesso accomunato ad altri due notevoli personaggi del periodo, quasi fossero una sacra triade: Elvis Costello, Joe Jackson e Graham Parker. Parker è lo spirito santo, quello che c'è ma non si vede. Un inglese arrabbiato, romantico e disincantato che sognava l'America, il successo a stelle e strisce. Rimarrà solo un sogno, tanto che perfino Bruce Springsteen (che prestò la sua voce in Endless Night, canzone contenuta nel perfetto The Up Escalator del 1980)  si è spesso domandato il perché di tutta questa indifferenza. Ci andò poi a vivere in America, sul finire degli anni '80.
Alex Seel
2013. Poteva essere il momento giusto per vedere all'opera Parker con i suoi Rumour. Il disco della reunion dopo trent'anni di silenzio, il più che buono Three Chords Good uscito solo l'anno scorso meritava di toccare anche l'Italia. Non è stato così: il sessantaduenne artista londinese, assente dai nostri palchi da una quindicina d'anni, si presenta da lupo solitario (come avvenne già con Live! Alone In America del 1989) in un concerto che non sarà di quelli sudati e tirati come in quei fulminanti esordi, ma quello di un maturo e autoironico signore dal carattere spigoloso limato dal trascorrere degli anni, con tantissimi dischi alle spalle, diciamo pure una infinità-lo stesso Parker scherzerà sulla sua prolificità durante la serata- una voce ancora più caratterizzante e marchiata in positivo dal tempo, tante storie ed un bel presente da raccontare, tanto che l'ultimo disco con  i Rumour è ben rappresentato in scaletta (Stop Cryin' About The Rain, Old Soul, Long Emotional Ride) e fa una buonissima figura incastrato tra i vecchi successi durante i due set (acustico ed elettrico) che hanno dato vita  ai 90 minuti dell'esibizione, preceduta dal talento chitarristico del britannico Alex Seel che ha avuto il tempo di dimostrare la sua bravura di virtuosista in acustico ma anche di compositore gentile, poetico e crepuscolare, dalla voce sognante. Notevole la sua riproposizione di There's A Rhythm di Ron Sexsmith. Spero di sentirne parlare ancora. Merita.
Parker, dal canto suo ci mette poco per conquistare l'audience, dopo Watch The Moon Come Down che apre alla grande, alla terza canzone ha già fatto breccia nei nostri cuori: ringranziando il pubblico-alla fine numeroso e partecipe-che in una serata da tregenda segnata da tuoni, fulmini e secchiate d'acqua, ha abbandonato il tepore domestico per venire da lui nella accogliente e bella sala-a misura di musica-"Combo" del centro polivalente Suoneria di Settimo Torinese, alla porte di Torino e che farà lo stesso, armato di coraggio ma con il sorriso stampato, per fare ritorno a casa. Per tutta la serata le sue spiccate doti ironiche da entertainer usciranno prepotenti, accompagnando le canzoni: vecchi ricordi, divertenti battute su quanto sia difficile suonare il kazoo per un "vecchietto" come lui, strumento che per una canzone, la countryeggiante Last Bookstore In Town, sostituisce l'armonica, sketch sulla personalizzata chitarra elettrica color rosa "la sua parte femminile" dice, sbeffeggia pure i suoni plastificati degli anni ottanta, "grandi anni per il rock" ironizza, imitando con la voce il suono tipico delle batterie "synthetizzate" dell'epoca da cui, alla fine, sono passati tutti, ed esorcizzando il tutto tirando fuori un rock'n'roll alla vecchia maniera estrapolato dal suo album uscito in pieni anni ottanta, Steady Nerves (1985).
Tra il reggae di Problem Child,  una stupenda Lady Doctor, un breve accenno a Here Comes The Sun (i Beatles furono la scintilla primordiale come per gran parte della sua generazione) sul finire di Don't Let It Break You Down,  Life Gets Better, il finale, dopo una breve uscita, è tutto per Heat Treatment, e l'immancabile Don't Ask Me Questions.
Un venerdì da incorniciare, e se mi avete fatto la domanda "come è andata la serata?", vi rispondo con sole tre parole, parafrasando i"tre accordi buoni" nel titolo del suo ultimo album: prezioso, anima e cuore. Ci aggiungo un enorme "rispetto".

lunedì 7 ottobre 2013

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Peace)

ANDERS OSBORNE  Peace  (Alligator Records, 2013)


Una candidatura per la copertina dell'anno se l'è assicurata. Per il disco dell'anno, la lotta è più dura, ma il songwriter e (ottimo) chitarrista Anders Osborne-già abituato a premi e riconoscimenti-ci prova con il dodicesimo disco in carriera, il quarto consecutivo uscito per la Alligator Records, prodotto insieme a Warren Riker: undici canzoni multiformi e piacevoli, da centro al primo ascolto, che seguono a breve distanza il recente buonissimo EP acustico Three Free Amigos uscito a inizio anno. Un buon periodo di vita che lo stesso cantautore svedese, di casa a New Orleans da più di venticinque anni, indica come uno dei più solari e "cool" della carriera: "la pace è la luce dalle tenebre. Sto scrivendo da una prospettiva più luminosa. C'è meno crepuscolo e oscurità, molta più luce solare. I risultati sono più grandi di quanto mi aspettassi...". Difficile contraddirlo. Bastano le due tracce iniziali per verificare la marcata eterogeneità del lavoro e di una carriera tutta: l'iniziale elettro-acustica Peace, sembra portata a riva dalle stesse profonde onde chitarristiche di Neil Young che bagnavano acidamente On The Beach, la stessa chitarra istintiva ricama i sette epici minuti necessari a Osborne per  ritrovare la tanto agognata pace interiore che va cercando e che ci conducono alla successiva e ugualmente autobiografica 47 (i suoi anni), canzone lanciata come singolo che, come tale, viaggia tranquilla sul rassicurante groove funk, anche un po' gigione, puntellata dalla suadente voce, fino all'assolo di chitarra piazzato nel finale. La vocalità sardonicamente soul (Let It Go), la sempre presente e ficcante stratocaster, il campionario musicale continua ad essere quella visionario di sempre ma concretamente aggrappato alla terra e ai sentimenti più umani e terreni, come il racconto di una vera sparatoria, uscente come fresca cronaca nera da Five Bullets o le tante dediche alla famiglia: alla adorata moglie in  Sarah Anne, alla madre in Sentimental Times, e al figlio nella esplicita My Son; cartine al tornasole che ci confermano quanto il cantautore domiciliato in Lousiana stia attraversando una fase estremamente positiva della propria vita. Positività che non ha inficiato per nulla la sua arte, creando invece nuovi spazi da cui attingere creatività. Anche il sole può ispirare. 
Non più la sorpresa di Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), ma sulla stessa linea delle conferme come i recenti molto più cupi e scuri American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy(2012), con un ampio caleidoscopio da funamboliere della musica che gli permette di passare dal rock acido di Let It Go, agli scarabocchi da studio di registrazione di Brush Up Against Me, all'accecante trip solare dentro all'oscurità di Windows, al pop beatlesiano di Dream Girl che si prolunga ottimamente nella jam finale, al crossover "boombastico" in pieno stile '90 alla RHCP della già citata Five Bullets, alle atmosfere solari, caraibiche, in levare di Sarah Anne , i ricordi estremamente personali sulla madre scomparsa  dieci anni fa nella sentimentale e sixties-con quelle tastiere a ricordare 'A Whiter Shade Of Pale'- Sentimental Times, la semplicità acustica di I'm Ready. Tutto, con la capacità innata di stupire grazie a soluzioni musicali mai scontate e sorprese presenti dietro ogni piccolo angolo: che siano i fiati (il sax in Windows), fiammate di B3 o suoi assoli. 
Versatilità e profondità in un corpo solo. Anche se Anders Osbourne inizia a fare i conti con gli anni che se ne vanno ed un certo smarrimento da "giro di boa imminente" ("...non succede nulla a 47 anni/ Sto camminando nel grande, grande parco/Scavando nel mio profondo cuore debole/ Sto cercando aiuto" canta in 47), riesce ad aggrapparsi agli affetti più cari e ce ne rende partecipi, con somma gioia per le orecchie. Ancora una volta.


vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)




vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)


mercoledì 2 ottobre 2013

RECENSIONE: MASSIMO PRIVIERO ( Ali Di Libertà)

MASSIMO PRIVIERO  Ali Di Libertà (MPC Records, 2013)

Nella bella confezione che accompagna il disco, c'è la presentazione di Massimo Priviero, uno scritto semplice, sentito e profondo-come i suoi testi- che spiega quanto  Ali Di Libertà sia uno dei suoi dischi più autobiografici in carriera. Ma una frase mi ha colpito più di altre: "tante volte in questa vita sono caduto ed altrettante mi sono rialzato". Poche parole che sembrano racchiudere anche il mio rapporto da ascoltatore con il cantautore veneto, un incontro fatto di alti e bassi, interesse e amnesie. Dopo lo sfolgorante esordio San Valentino (1988) seguito da Nessuna Resa Mai (1990), quello prodotto da Little Steven (E Street Band), dischi che aprirono più di una porta a tutti quei cantautori italiani con la musica americana nel cuore, lo persi di vista, facendomi bastare la sua seconda opera che, ancora oggi, venero e considero uno dei migliori dischi italiani usciti negli anni novanta. Uno di quei dischi da "avere", e Dio solo sa che fatica fu ritrovarlo in CD dopo aver consumato una vecchia e logora musicassetta. L'interesse è tornato prepotente in tempi recenti con Dolce Resistenza (2006) disco "impegnato" che ha rappresentato anche una forte rinascita artistica. Negli ultimi anni è stato prolifico in quantità e qualità: Rock And Poems (2007) è un disco di cover che rileggeva i suoi miti musicali, Sulla Strada (2009) un best of con inediti e vecchi brani risuonati, Rolling Live (2010) un monumentale live -ed io che lo vidi per la prima volta durante un sabato sera qualunque in un piccolissimo locale sperduto tra le risaie vercellesi-fino a FolkRock (2012), ultimo ed ottimo lavoro in compagnia di Michele Gazich (presente anche qui con il suo violino) che sembra rappresentare il  nuovo punto di partenza musicale per affrontare il futuro con tutta la libertà artistica che lo ha contraddistinto, permettendogli di smarcarsi dalle logiche di mercato, certamente più remunerative, ma imprigionanti. Il folk ed il rock si mischiano e si contagiano fin dall'apertura Ali Di Libertà, toccando il culmine in Libera Terra-a)La Forza b)Il Sogno (con tanto di cornamusa suonata da Keith Eisdale).
In Ali Di Libertà ci sono tutte le tracce della carriera di un cantautore coerente, passionale, onesto che è andato sempre diritto per la sua strada- con relative cadute e passi falsi (Priviero del 1998 non l'ho mai digerito)- seguendo le orme dei grandi modelli americani ma riuscendo a creare il solco per una propria via al rock, con il tempo diventata riconoscibilissima, mai assservita a facili e illusorie scorciatoie per arrivare al grande pubblico-come meriterebbe-ma andando incontro ai fan senza scendere a compromessi, avvicinandoli e spronandoli con la sola forza della passione e facendo leva sui veri valori della vita.
Ecco che rock elettrici e diretti: gridano rabbia e libertà a voce alta come In Verità (con la chitarra di Paolo Bonfanti), ricca dei suoi sapori irish, diventano nuovi inni da palcoscenico come Alzati, un urlo forte e chiaro, un invito a farsi sentire in mezzo ai ruderi morenti di tutte le speranze, con la chitarra elettrica di Alex Cambise a graffiare. " Ho visto un vecchio al mercato, chiedere il costo della pazzia, ho visto figli chiedere sogni che dare a loro tu non potrai, ho visto padri senza più voce, dire che l'alba non nasce mai...".
Tutta l'intimità esce invece dalla forza delle ballate: preghiere come Madre Proteggi, legata tanto alla fede quanto al cordone ombelicale degli "ultimi", cartoline d'amore sbiadite dal tempo nella pianistica e springsteeniana Il Mare, i ricordi interiori, narrativi e autobiografici  di La Casa Di Mio Padre, la folkie e solitaria bonus track Bacio D'Addio.
foto: Cristina Arrigoni
E poi c'è Occhi Di Bambino, un folk in crescendo che mano a mano sale di intensità, indicando la strada ed i giusti valori da seguire a tutte le nuove generazioni tra cui quella del giovane figlio Tommy che partecipa suonando la chitarra acustica: "non l'amore, non i soldi, non la fede, non la fama, datemi...la libertà". Credo sia la canzone che rappresenti meglio Massimo Priviero oggi, mi sbilancio nell'indicarla come una delle sue migliori canzoni di sempre.
Partendo dai "marciapiedi di una città" fino ad arrivare alla sua parte di cuore più intimamente nascosta, il cammino è stato lungo ed impegnativo, ma il cartello con la scritta arrivo è ancora lontano e le ali non hanno ancora smesso di sbattere.




vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake UpNation (2013) 




vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)



venerdì 27 settembre 2013

RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO (Shadows, Greys & Evil Ways)

THE WHITE BUFFALO  Shadows, Greys & Evil Ways (Unison Music, 2013)


I due dischi precedenti avevano già contribuito ad inquadrare il personaggio (Jake Smith) che si cela dietro all’ingombrante  nome The White Buffalo, l'ambientazione musicale e geografica entro la quale si muoveva, i suoi pregi ed i pochi difetti. Questo terzo disco, ne sono certo, sarà quello della consacrazione. Tutto viene amplificato, aumentato di spessore, di qualità, pur abbassando e smorzando i toni rock rimasti come rari ma abbaglianti lampi in poche tracce (When I’m Gone, la diretta ed elettrica Joey White, Joe And Jolene), soprattutto grazie al contributo dello stesso songwriter dell'Oregon che si supera, mettendo in piedi un  concept compatto ed omogeneo, emotivamente coinvolgente dove confluiscono le caratteristiche peculiari della sua visione musicale tutta a stelle e strisce. Il suo è l'ideale ponte tra la vecchia America cantata da Townes Van Zandt e dagli outlaw country men degli anni settanta, ancora appesa attraverso un sottilissimo filo al "sogno americano" e l'America della generazione degli anni novanta culminata con l'esplosione grunge e il funerale di tutte le vecchie speranze. Tutto è contenuto all’interno del narrativo concept che ci fa addentrare nell'appassionato amore di una giovane coppia di amanti: Joe e Jolene, divisa dalla guerra con i suoi orrori ben descritti nelle drammaticità acustiche di Redemption #2 e Fire don’t Know, dagli eventi della vita non meno violenti, dal difficile ruolo di un reduce all'interno degli schemi vitali della quotidiana routine, ma riunita, redenta e salvata (forse) dalla fede come testimonia la finale Pray To You Now. Tante domande esistenziali, con le risposte lì, in sospeso, affidate all'ascoltatore.
Con l’aiuto di Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, con la presenza "ospite" del veterano batterista Jim Keltner nella metronomica Don’t You Want It, l'irsuto Jake White amplia ulteriormente il suo spettro sonoro introducendo tra le dolenti ballate country: spietati temi sonori di stampo western (Set My Body Free), arrangiamenti per archi incastrati alla perfezione nell'iniziale Shall We Go On, nelle brevi 30 Days Back  e  #13 con violino e viola suonati da Jessy Greene, ma soprattutto una maggiore attenzione alla costruzione delle canzoni che culminano in The Whistler, con quel fischiettio iniziale che pare preso in prestito da The Stranger (la canzone) di Billy Joel ma si dipana in una triste ballata con un emozionante crescendo che diviene il centro d’enfasi della storia-unitamente a This Year- grazie anche alla straordinaria vocalità di Smith che lascia il segno, graffia e lacera, a volte così facilmente accostabile a quella di Eddie Vedder.
Meno immediato del suo predecessore Once Upon The Time In The West, più impegnativo e ambizioso, ma con la forza di uscire vincitore alla lunga distanza, confermando Jake Smith come uno dei più interessanti songwriters di “americana” degli ultimi anni, con tutte le credenziali per arrivare anche al (grande) pubblico più distratto che evidentemente sta ancora sonnecchiando. Meglio così o lo svegliamo?


 

vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Once Upon The Time In The West (2012)



vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)




vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)




RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)


THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio 2016 a Brescia





martedì 24 settembre 2013

RECENSIONE:ROD STEWART (Rarities)

ROD STEWART Rarities (Mercury)


Apro subito una parentesi: Rod Stewart quest’anno ha fatto un disco, Time, ma sembra che pochi se ne siano accorti (almeno qui da noi, visto che in UK ha raggiunto la vetta delle charts), pur risultando tra le sue opere migliori da almeno vent’anni a questa parte, ritornando alla scrittura e interrompendo la lunga serie degli The Great American Songbook, che gli avranno pure gonfiato ulteriormente il portafogli ma stavano iniziando a sgonfiare qualcos’altro a noi. Chiusa parentesi. C’era un tempo, però, in cui l’eterno biondo cantante di origini scozzesi non era solo l’interprete da ascoltare sotto l’alberello di Natale, ma un cantante stellare dalla voce unica, distintiva, ricercata, che frequentava compagni di bevute poco raccomandabili (tre dei quali, le "facce" Ron Wood, Ronnie Lane e Ian McLagan  compaiono in quasi tutti i credits come musicisti) e che le 24 canzoni di questa raccolta -non imprescindibile per il die-hard fan che avrà già ottenuto tutto per vie non ufficiali, utilissima per tutti quelli che lo associano solamente a Do Ya Think I'm Sexy (una volta tanto va bene il contrario)- vogliono ricordare attraverso il recupero di versioni alternative, b-sides, radio sessions per la BBC mai apparse prima su disco, inediti risalenti al suo periodo Mercury (dal 1969 al 1974), iniziato dopo la felice collaborazione con Jeff  Beck e in simultanea con l’avvio della nuova avventura The Faces, in pratica i primi cinque dischi solisti, il suo apice artistico mai più eguagliato: The R S Album (1969),Gasoline Alley (1970), Every Picture Tells A story (1971), Never A Dull Moment (1972), Smiler (1974). Canzoni che esaltano il lato roots, folk-blues della sua roca voce in contrapposizione con il lato selvaggiamente rock'n'roll che assumeva parallelamente nei Faces. Oltre a due versioni alternative della hit di inizio carriera Maggie May, una con liriche non complete, l'altra registrata live alla BBC Radio One nel 1971, da non perdere la dylaniana Girl From The North Country esclusa da Smiler, l'honk tonk di Jerry Lee Lewis What's Made Milwaukee Famous ( Has Made A Loser Out Of Me), una-a dire il vero-sovraccarica Pinball Wizard (The Who) con la London Symphony Orchestra, Angel di Jimi Hendrix, una Country Comfort della coppia Elton John /Bernie Taupin in una versione live del 1970 alla BBC Radio, e la rilettura del classico di Cole Porter Every Time We Say Goodbye che sembra anticipare la sua futura carriera. Poi, improvvisamente nel 1975, l’aereo volò verso le luci tentatrici della California e di questo Rod Stewart rimarranno solo alcune sporadiche tracce disseminate in una carriera condotta da simpatica rockstar affermata ma con troppe paillettes luccicanti a dar fastidio-non a lui naturalmente- calate sugli occhi. (Enzo Curelli)





 
 
vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Time (2013)

mercoledì 18 settembre 2013

RECENSIONE:GREEN LIKE JULY(Build A Fire)

GREEN LIKE JULY  Build A Fire (La Tempesta, 2013)


Squadra vincente non si cambia, ma si può ancora migliorare. La band lombardo/piemontese doveva ripetere l'eccellenza del fortunato predecessore Four-Legged Fortune (2011), lo fa e si supera, mantenendo invariati gli ingredienti base e aggiungendo solo il tocco necessario che fa la differenza, raggiungendo la meritata eccellenza di caratura internazionale che ormai non può che competerle di diritto. I Green Like July sono internazionali! Stesso gruppo di lavoro base: Andrea Poggio alla "vellutata" voce, chitarra e autore unico, Paolo Merlini alla batteria, più Marco Verna polistrumentista tuttofare e Roberto Paravia al basso, stesso produttore A.J. Mogis (Bright Eyes), stessi studi di registrazione americani, gli Arc Studios di Omaha nel Nebraska, ormai loro seconda casa, e infine l'artwork dalla incisiva semplicità affidato nuovamente alla brava artista Olimpia Zagnoli. Unica defezione rispetto al recente passato: Nicola Crivelli.
I valori aggiunti sono gli arrangiamenti del disco affidati alla bizzarra follia musicale di Enrico Gabrielli, un "moderno" alchimista degli strumenti che sembra provenire dal passato remoto, già conosciuto nelle fila di Mariposa, degli Afterhours, nei Calibro 35 (prossimi all'uscita con il nuovo album), più altri numerosi progetti a cui ha partecipato, i prestigiosi ospiti presenti (Mike Mogis, Jake Bellows dei Neva Dinova), ma soprattutto le nove canzoni- tutte-che viaggiano alla giusta altezza, in perfetto equilibrio tra l'amore, mai nascosto, verso la musica folk/roots americana di fine '60 (The Band, The Byrds), il pop anglosassone dei '60/'70 (con la coppia McCartney-Lennon in testa) ed i rari pixel di modernità (alla XTC o gli attuali Okkervil River) che fanno capolino qua e là in alcune soluzioni anche se ben coperti dagli effetti antichizzanti, gli arrangiamenti orchestrali da sogno ad occhi aperti con qualche rara ma buona svisata glam come succede nella più movimentata Borrowed Time, la più rock della lista.
Una soffice nuvola pop che ondeggia negli alti cieli con spietata gentilezza per poco più di mezz'ora-perché la bellezza non la si misura con l'orologio-lasciando penetrare tiepidi raggi solari che bucano l'aria (Agatha Of Sicily), rassicurano nella pacatezza melodica del quadretto dipinto da An Ordinary Friend, accarezzano nel folkie onirico di Tonight's The Night, asciugano lacrime nella "gentile" rassegnazione segnata dagli archi di Good Luck Bridge con il prezioso intervento vocale di Jake Bellows, e corteggiano tra le note di un carillon e i cori di Johnny Thunders (musicalmente, tutto fuorché quello che il titolo lasci pensare). Le stesse nuvole che lasciano cadere tiepide gocce di pioggia negli episodi più movimentati come la circolare e corale A Well Wellcomed Change, l'ipnoticità catalizzante dell'opener Moving To The City e la già citata Borrowed Time. Una tela senza sbavature, forse fin troppo perfetta per essere vera, si potrebbe obiettare.
Arrivati al terzo disco, il più grande complimento che si possa fare ai Green Like July è dire che "le nove canzoni suonano come i Green Like July".




vedi anche RECENSIONE: GREEN LIKE JULY -Four-Legged Fortune (2011)




vedi anche INTERVISTA a OLIMPIA ZAGNOLI




vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock 'N' Roll (2013)





vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)




vedi anche RECENSIONE: ILVOCIFERO-Amorte (2013)



mercoledì 11 settembre 2013

RECENSIONE: ILVOCIFERO(Amorte)

ILVOCIFERO   Amorte ( Niegazowana Records, 2013)


Se Edda (Stefano Rampoldi) avesse avuto ragione? Quella volta che alla domanda: "come hai conosciuto Walter Somà?", ironicamente, rispose così: "quel pezzo d’asino era il mio operatore della comunità dove sono stato per tanti anni. Sarei potuto guarire prima, ma lui aveva un sacco di problemi e io ho dovuto seguirlo per sei lunghi anni. Tutto inutile, comunque, visto che dopo la mia dipartita lui è ricaduto nel baratro surreale della sua vita".
Ecco, un po' di quel baratro surreale della vita di Walter Somà  emerge dal suo nuovo progetto IlVocifero, condiviso con la voce narrante di Aldo Romano e i numerosi ospiti/amici coinvolti. Un progetto che ha preso forma negli anni, piano piano, partendo da poche tracce messe nel cassetto dall'autore/musicista torinese, da anni con dimora a Milano. Quello che non è finito nelle canzoni del ritrovato Edda, di cui Somà è stato il gemello"nascosto" dietro ai dischi della rinascita artistica (Semper Biot, Odio I Vivi), è stato condiviso con il concittadino e vecchio amico Aldo Romano, un poeta di strada curioso, folle e surreale, un vagabondo della parola (e di fatto), ritrovato dopo molti anni e con cui si è riaccesa un'antica fiamma che in un paio di giorni ha portato i due a scrivere e completare tutto ciò che occorreva da sottoporre all'attenta "regia" di Fabio Capalbo, batterista nel progetto e mente dietro alla etichetta Niegazowana che li ha accolti. Un disco, come quelli di Edda, che sfugge ad ogni catalogazione possibile: libero di fluire, espandersi, restringersi, dare e riprendere, graffiarti e accarezzarti. Un contenitore "pop" disturbante ma estremamente fruibile, pieno di cose forti, esplosive, gridate, altre più dolci, tenui, sussurrate dalla voce di Romano, e dagli ospiti presenti: lo stesso Edda (Persona Plurale, Non Nel Tempo Né Nel Mondo), dalla triestina Dorina Leka (Lucyd, Nastro Solare) che forse ricorderete, anche se eliminata prima del dovuto, in una edizione di X Factor di qualche anno fa, e che proprio con Somà è al lavoro per un disco solista che stiamo aspettando da tempo. Dai musicisti coinvolti: il gruppo Ensemble Vinaccia, la chitarra di Gionata Mirai (Il Teatro Degli Orrori), Carlo Sandrini che si è occupato di tutti gli arrangiamenti d'archi e fiati.
Amorte non è nient'altro che il teatro della vita-dici poco?-rapresentato con tutti gli sbalzi d'u(a)more esistenti, con tutte le sfumature che altri cantori dell'italica canzonetta non vi canteranno mai in maniera così cruda, sincera e coinvolgente. Vanno in scena l'amore, la morte, le relazioni umane, la fede, le giornate e le notti solitarie (Blu e Amo) passate a vagare tra fioche luci  "...vago ed intono lo sguardo ai lampioni, che fanno una luce gialla che è quasi la mia santità, da solo o dio da solo, io potrei ricominciare, se non torno più a casa, questa volta me ne voglio andare e mi sento così fiero di essere così e non dormo, non dormo..." e sospiri eterni (Alito) che cedono al crescendo cacofonico "...io non ho Dei ma attimi, e nessuna presenza nella realtà, se vuoi sparisco, io non mi preferisco, io non ho idee ma angoli, non sopporto la forza di gravità, se vuoi ti stordisco...".
Tragicità e beltà sono rappresentate dall'interpretazione di un attore navigato "di vita" come Aldo Romano che nuota tra le acrobazie alla Mike Patton di Scagliàti che pare una colonna sonora riveduta dai Fantomas persa tra gli accenni jazz del pianoforte (Tazio Forte) e i fiati R&B da cult movie anni '50; galleggia nelle conversazioni a voce bassa con Walter Somà nel Il Gusto Della Morte, nel pop anni '60 esaltato dal crescendo d'archi di Persona Plurale, nell'atmosfera sospesa da ultimo duello "morriconiano" di Ultima Parola; schizza gocce d'acqua pungente e velenosa dal drum & bass incalzantemente persuasivo dell'opener Lucyd scritta ed interpretata con Dorina e nel rock Nastro Solare; affoga e boccheggia, scuote e incita nel particolare "family affair" del free jazz di Non Nel Tempo Né Nel Mondo, conversazione a due voci tra Romano e Edda.
Per chi è stanco della solita musica italiana, IlVocifero è altamente consigliato, perché ci presenta un nuovo personaggio da seguire con curiosa attenzione (Aldo Romano), ci conferma Walter Somà come uno dei più sensibili e creativi autori di musica italiana (e ama pure apparire poco in prima persona, il che non guasta di questi tempi da social network compulsivo) e ci offre nuove vie d'ascolto: traverse, folli, fascinosamente intriganti, incastrate tra tesa drammacità e sano sberleffo. Insomma, sempre vita è.
Il baratro surreale della vita di Walter Somà è senza fondo. Edda aveva ragione.





vedi anche INTERVISTA a EDDA (Impatto Sonoro), 10 Gennaio 2011





vedi anche RECENSIONE: EDDA-Odio I Vivi (2012)