I due dischi precedenti avevano già contribuito ad inquadrare il personaggio (Jake Smith) che si cela dietro all’ingombrante nome The White Buffalo, l'ambientazione musicale e geografica entro la quale si muoveva, i suoi pregi ed i pochi difetti. Questo terzo disco, ne sono certo, sarà quello della consacrazione. Tutto viene amplificato, aumentato di spessore, di qualità, pur abbassando e smorzando i toni rock rimasti come rari ma abbaglianti lampi in poche tracce (When I’m Gone, la diretta ed elettrica Joey White, Joe And Jolene), soprattutto grazie al contributo dello stesso songwriter dell'Oregon che si supera, mettendo in piedi un concept compatto ed omogeneo, emotivamente coinvolgente dove confluiscono le caratteristiche peculiari della sua visione musicale tutta a stelle e strisce. Il suo è l'ideale ponte tra la vecchia America cantata da Townes Van Zandt e dagli outlaw country men degli anni settanta, ancora appesa attraverso un sottilissimo filo al "sogno americano" e l'America della generazione degli anni novanta culminata con l'esplosione grunge e il funerale di tutte le vecchie speranze. Tutto è contenuto all’interno del narrativo concept che ci fa addentrare nell'appassionato amore di una giovane coppia di amanti: Joe e Jolene, divisa dalla guerra con i suoi orrori ben descritti nelle drammaticità acustiche di Redemption #2 e Fire don’t Know, dagli eventi della vita non meno violenti, dal difficile ruolo di un reduce all'interno degli schemi vitali della quotidiana routine, ma riunita, redenta e salvata (forse) dalla fede come testimonia la finale Pray To You Now. Tante domande esistenziali, con le risposte lì, in sospeso, affidate all'ascoltatore.
Con l’aiuto di Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, con la presenza "ospite" del veterano batterista Jim Keltner nella metronomica Don’t You Want It, l'irsuto Jake White amplia ulteriormente il suo spettro sonoro introducendo tra le dolenti ballate country: spietati temi sonori di stampo western (Set My Body Free), arrangiamenti per archi incastrati alla perfezione nell'iniziale Shall We Go On, nelle brevi 30 Days Back e #13 con violino e viola suonati da Jessy Greene, ma soprattutto una maggiore attenzione alla costruzione delle canzoni che culminano in The Whistler, con quel fischiettio iniziale che pare preso in prestito da The Stranger (la canzone) di Billy Joel ma si dipana in una triste ballata con un emozionante crescendo che diviene il centro d’enfasi della storia-unitamente a This Year- grazie anche alla straordinaria vocalità di Smith che lascia il segno, graffia e lacera, a volte così facilmente accostabile a quella di Eddie Vedder.
Meno immediato del suo predecessore Once Upon The Time In The West, più impegnativo e ambizioso, ma con la forza di uscire vincitore alla lunga distanza, confermando Jake Smith come uno dei più interessanti songwriters di “americana” degli ultimi anni, con tutte le credenziali per arrivare anche al (grande) pubblico più distratto che evidentemente sta ancora sonnecchiando. Meglio così o lo svegliamo?
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Once Upon The Time In The West (2012)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio 2016 a Brescia
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