giovedì 18 ottobre 2018

RECENSIONE: COLTER WALL (Songs Of The Plains)

COLTER WALL  Songs Of The Plains (Young Mary Records, 2018)




quel vecchio ventitreenne
Colter Wall è la voce scura, baritonale, profonda e quasi vecchia che riempie i grandi spazi silenziosi e poco popolati della sua parte di Canada, quelle infinite praterie dalle parti di Saskatchewan fatte di dune sabbiose e foreste. È quel puntino giallo e blu immerso tra le verdi colline, come appare nella foto interna della copertina. Sembra un punto perso ma Colter Wall sa benissimo quello che vuole e dove sta andando, e stare lontano dal music business sembra sia una delle sue più grandi doti: la scelta di cover poco convenzionali lo dimostra. Un po’ Johnny Cash, un po’ John Prine, un po’ Waylon Jennings, un po’ Ramblin Jack Elliott a parte quando ulula come un coyote nel tetro folk di ‘Wild Dogs’ di Billy Don Burns, canzone scelta tra le tante che l’outlaw gli propose dopo essersi congratulato con lui dopo un concerto e quando canta a cappella nel traditional ‘Night Herding Song’, registrata in presa diretta davanti a un fuoco. Ma non solo:”un album come Drifter (1966) , è stato un grande disco western di Marty Robbins che ha avuto molto a che fare con il modo in cui questo album è nato” aggiunge Wall in una intervista. Non c’è nulla che sembri datato 2018 in queste undici canzoni, tutto rimanda a date indefinite di un passato in bianco e nero che il giovane canadese non ha mai vissuto ma che sa raccontare come pochi,oggi. "Il nuovo disco è, per riassumere, una lettera d'amore a casa mia. Da dove vengo, riguarda il Nord-Ovest e le pianure, le cose che facciamo lassù e il tipo di persone che siamo ". Una seconda prova che cavalca le stesse orme lasciate dal debutto, aggiungendo al folk minimale qualche strumento in più: pedal steel (suonate da Lloyd Green), armonica (Mickey Raphael, l’armonica di Willie Nelson) , basso, una leggera batteria e poco altro, grazie alla comunque parca produzione di David Cobb al mitico RCA Studio A. Un concept album antico, fatto di inediti, cover e traditional ma dove non si sa chi appartiene a chi (ecco un merito), lento e rassicurante, dedicato alla sua terra, ai suoi abitanti, ai contadini e i rodei (‘Saskatchewan 1881’ e ‘Calgary Round-Up’, una cover di Wolf Carter con tanto di yodel finale), agli operai (‘The Trains Are Gone’) ai vecchi cowboy che abitavano in quelle terre (‘Night Herding Song’) ai camionisti (‘Thinkin’ On A Woman’). Poi nel finale il piccolo sussulto con il traditional ‘Tying Knots In The Devils Tail’ cantato insieme a Corb Lund e Blake Berglund che spezza in netto ritardo il mood del disco che si apriva in modo superbo con l’evocativa western song ‘Plain To See Plainsman’ così diversa dal finale, ma che lascia aperta la porta verso il futuro terzo e importante album per capire, se mai qualcuno avesse ancora dei dubbi, chi sia questo vecchio ventritrenne canadese con il cappello da cowboy incollato perennemente in testa.







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