domenica 20 novembre 2011
RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS ( Best Of 1999-2011)
DAVIDE VAN DE SFROOS Best Of 1999-2011 (Pdt Sa Universal, 2011)
Il momento per tirare le somme è quello giusto. Gli anni di carriera stanno diventando tanti, così come le sue uscite discografiche, sempre comunque oculate e fatte uscire quando c'è veramente qualcosa da dire. Tante esperienze, riconoscimenti e concerti hanno portato il nome di Davide Bernasconi dalle prime esperienze a suon di punk rock nei Potage(sua prima band rock) a diventare il Davide Van De Sfroos, musicista, scrittore e poeta che l'Italia intera ha tardivamente scoperto solo quest'anno con la sua inaspettata partecipazione a Sanremo.
Anni in cui la sua musica è riuscita a legare così bene la poetica tra visione e realtà dei suoi testi in lagheè con le influenze musicali più svariate e cangianti durante gli anni. Dai Clash a Bob Marley, da Dylan a Johnny Cash, dai Pogues ai Ramones dal combat folk al cantautorato, tutti convivono e rivivono nelle sue canzoni, dentro alle balere del sabato sera, ai bordi del lago di Como in giornate autunnali di nebbia, nei prati e nei boschi di collina durante le giornate di sole, nei sapori di feste di paese, nelle navi e barche nelle storie degli emigranti, negli stabilimenti balneari estivi, dentro ad una buia miniera o in una lontana New Orleans sprofondata nell'acqua.
Da Caino e Abele a Yanez, c'è un'arca piena di personaggi comuni salvati dal loro dimenticato destino e riportati alla ribalta, rilucidati a nuovo e consegnati alla pubblica diffusione come assoluti protagonisti con i fari di scena puntati : l'autista della curiera, il Genesio, El Bestia, El mustru, lo ziu Gaetan, nona Lucia, il Cimino, il costruttore di motoscafi, il reduce e Maria. Un campionario vario di umanità che diventa protagonista. La rivincita di chi sta in seconda linea, quando si dà ai gregari il giusto e meritato riconoscimento.
Come sempre Davide Van De Sfroos pensa ai suoi fans. Quelli nuovi a cui questa raccolta è principalmente rivolta e a quelli di vecchia data che lo seguono con fede quasi maniacale. E' lo stesso Van De Sfroos nel DVD incluso a raccontarci il perchè di questa raccolta.
Due CD, 30 canzoni, tra cui due inediti registrati in solitaria a casa sua(Live fron cà mia), un DVD di un'ora e per non far mancare nulla anche due racconti inediti nascosti nel libretto. Cinque album presi in esame: Brèvà e tivàn(1999), E seem partii(2001), Akuaduulza(2005), Pica!(2008) e Yanez(2011), lungo 12 anni di attività discografica. Manca solo Manicomi .Questi sono i numeri ed è tanta roba come sempre, racchiusa in una bella confezione dalla copertina di stoffa.
I venti delle sue zone, i luoghi, le leggende di provincia che scalpitano per diventare metropolitane e i personaggi del primo disco sopravvivono in canzoni come Cauboi, Il duello, La balera, e Pulenta e galèna frègia; l'amaro viaggio in cerca di speranza e vita di E semm partii in Grand Hotel, E semm partii, L'omm de la tempesta.
Van De Sfroos dà il primo scossone forte alla sua carriera con Akuaduulza, uscito nel 2005, un disco carico di ombre, con una accurata ricerca sonora che lo porta in America. Un disco dove il lago di Como diventa il suo Mississippi, dove le leggende del Delta diventano quelle racchiuse nella sua provincia dentro a Akuaduulza, Il libro del mago e Nona Lucia.
E poi la consacrazione nazionale con Pica! con i suoi personaggi quasi mitologici: Il minatore di frontale, La ballata del Cimino, Il costruttore di motoscafi. Con il primo grande concerto evento al Forum di Assago nel 2008 che il prossimo 25 Febbraio 2012 verrà ripetuto con la sua schiera di fans che in questo solo anno, dopo la partecipazione a San Remo e il disco Yanez si è moltiplicata. Il camionista Ghost Rider, El carnevaal de Schignan e La machina del Ziu Toni stanno viaggiando in tutto lo stivale.
I due inediti sono due canzoni folk per sola voce e chitarra acustica, la splendida ed autunnale Foglie, quando la natura diventa anche specchio della vita umana e la più giocosa e divertente Lettera da Marte, registrate in solitaria dentro le mura domestiche. Anticipo del carattere del prossimo disco?
I due brevi ed introspettivi racconti:"Il cedro del libano” e “Retha Mazur il vento” che continuano sulla scia dei libri che Davide ha già scritto e che gli hanno garantito una discreta fama anche come originale scrittore:Le parole sognate dai Pesci e Il mio nome è Herbert Fanucci.
Infine il DVD,dove sono catturate immagini live e prese dal backstage dell'ultimo fortunato tour estivo: il rapporto con i suoi musicisti e i suoi fans vecchi e nuovi(fantastico un signore toscano che la prima volta che lo vide in tv a Sanremo ha esclamato:"ma chi è quel pirla!", per poi iniziare a seguirlo rapito in giro per l'Italia); Van De Sfroos che racconta il perchè dell'uso del dialetto( che tanto ha fatto discutere in chiacchere fondate nel nulla politico) , Van De sfroos ripreso nei suoi luoghi: da casa sua al bar sottocasa, di fronte al lago e alle sue amate onde. Infine il perchè di questa raccolta("i Desfans sono pazzi, hanno tutti i dischi ma ne comprano anche dieci copie , anche da regalare") e la scelta della copertina e delle foto.
Tutto il "piccolo-grande" mondo di Van De Sfroos. Per chi c'era e per chi no. Perchè no?
TRACKLIST: BEST OF 1999-2011
CD1-Cau Boi, Pulènta e galèna frègia, Il duello,La balàda del Genesio, La balera, Ninna nanna del contrabbandiere (live), Il figlio di Guglielmo Tell,Sugamara, Grand Hotel, E semm partii,Ventanas, El mustru, San Macau & San Nissoen, L’omm de la tempesta, Foglie (Bonus track )
CD2-Akuaduulza, Il libro del mago, Nona Lucia, Il minatore di Frontale, La ballata del Cimino, Il costruttore di motoscafi, New Orleans, 40 pass, Yanez, La machina del Ziu Toni, Il camionista Ghost Rider, El Carnevaal de Schignan, La figlia del tenente, Dove non basta il mare, Lettera da Marte (Bonus Track)
DVD- Fronteretro- onde su Onde- Glottologia- Dettagli- I musicanti
Vedi anche:
RECENSIONE "YANEZ":
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/03/recensione-davide-van-de-sfroos-yanez.html
RECENSIONE concerto Koko Club, Castelletto Cervo(BI),7 Maggio 2010:
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
RECENSIONE concerto Castagnole delle Lanze(ASTI),20 Agosto 2011:
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/08/recensionereportage-davide-van-de.html
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venerdì 18 novembre 2011
RECENSIONE: 99 POSSE ( Cattivi Guagliuni)
99 POSSE Cattivi Guagliuni ( NoveNove, 2011)
"Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere
credo che apparteniamo tutti ad una stessa famiglia
che è la famiglia umana " Vittorio Arrigoni
Dieci anni di pausa dopo aver corso e poi ancora corso sono tanti. Quando ti accorgi, però, che poco è cambiato, se non in peggio, capisci perchè il guaglione che correva(forse scappava?), adesso si è moltiplicato ed è diventato anche cattivo ma si poteva anche rischiare un "incazzato" o "indignados" per rendere ancor meglio l'idea e entrare meglio nei tempi.
I 99 Posse sono mancati. La loro assenza mi sembrava una sconfitta di fronte alle derive etico/sociali e politiche che hanno caratterizzato l'ultimo decennio della repubblica italiana.
La loro voce di dissenso e denuncia ha fatto la rivoluzione nei primi anni novanta. Il fenomeno delle posse (in compagnia di Bisca ma anche di Isola Posse All Star, Assalti Frontali e tutte quelle voci nate dall'underground di tutte le grandi città italiane, non solo Napoli) furono la vera rivoluzione "punk italiana", la voce con le "mani Pulite" che usava il rap e l'hip hop( ma non solo, visto il crossover totale che mischiava punk, reggae e rock) come linguaggio di attivismo e propaganda che nel nostro paese mai si era visto così forte; lontano da quello dei cantautori un pò snob degli anni settanta.
La discesa in campo di certi personaggi da bagaglino e la corruzione politica dilagante del periodo furono manna per certi gruppi, forse taggati superficialmente di retorica, ma che a conti fatti avevano visto lungo, molto lungo. Anche chi non era della scena subiva censure e tagli: vi ricordate il famoso primo Maggio con Elio e le storie tese?
Qualcuno ha fatto finta di non accorgersene ma il segno che hanno lasciato è profondo. Come tutti i "forti" movimenti musicali di rottura, la stagione è stata breve ma intensissima.
Gli stessi 99 Posse per stare in vita hanno dovuto fare le loro scelte artistiche, che hanno dato loro ragione senza mai mancare quell'estremismo che caratterizzò i primi anni e la sfilza di denunce collezionate parlano da sè e fanno impallidire i vari Fabri Fibra di oggi.
Luca O Zulù Persico, Sascha Ricci, Marco Messina e Max Jovine si sono ritrovati dopo tanti anni con troppe cose da raccontare tutte insieme. Anni fatti di tante esperienze musicali e personali. Un ritorno che musicalmente e testualmente guarda più ai primi anni che non a quelli insieme a Meg(unica assente di questa reunion) che arrisero loro anche i primi posti delle classifiche e video in heavy rotation.
Gli ingredienti ci sono sempre tutti e tanti amici, anche più giovani, hanno contribuito a dare un aiuto. Scelta l'indipendenza anche discografica, si riparte.
Un manifesto programmatico per capire il perchè del loro ritorno che poi è lo stesso della loro nascita è Canto pè dispietto. Perchè là fuori, a certi personaggi, certe parole danno ancora fastdio.
Un disagio che nasce dal basso dai quartieri di Napoli e di tutte le grandi città, dove l' università di vita è la strada University of Secondigliano, e i carceri sono un set di anime dimenticate con poca voce: Morire tutti i giorni (con Daniele Sepe) e Cattivi Guagliuni (...Cundannate, cundannate in primo grado a commettere i reati/nati dint'a certi quartieri ca tutto chello ca tenimmo/è chello c c'ammo arrubbato/concentrati invogliati sedotti abbandonati/po' l'appello 'a cassazione e jammo tutte quante carcerate/niente clemenza e se non fosse abbastanza/dopp' si pregiudicato sospettato delinquente abituale sorvegliato...)..
Musica usata ancora come veicolo combattivo e punto di ritrovo per chi alle risposte politiche di questa Italia non ci crede( Massimo Troisi introduce :Italia Spa), da qualunque lato arrivino. La dissacrante Yes Weekend, con i campionamenti di politici di sinistra, appropiatosi di slogan altrui e pronti all'opposizione, quasi a tempo perso:
(...Lo sai come si fa l'opposizione all'italiana/Si va tutti in vacanza per ilo fine settimana...).
Il ritorno al punk di La Paranza di san Precario per denunciare il precariato lavorativo, i protagonisti cambiano (Marchionne) ma i problemi sono sempre quelli e peggiorati. Abbiamo creduto alla favola del lavoro interinale ma qui non si campa senza la sicurezza di uno stipendio.
Tracce del progetto Al Mukawama(progetto post -scioglimento) nei veloci beat ragamaffin' di Antifa 2.0; il ricordo di un piccolo eroe degli anni duemila in Resto Umano , costruita con i samples della voce di Vittorio Arrigoni.
Se Zulù era la voce "contro" degli anni novanta, Caparezza, in qualche modo è diventato quella degli anni duemila, i suoi messaggi travestiti da canzoni quasi da cabaret sono forti e diretti. Chi vuole non capire, continui pure. Il matrimonio è quindi d'obbligo, visto anche il rispetto reciproco e avviene in Tarantelle pè campà.
Ma poi arrivi alla fine e il messaggio di resistenza più forte arriva con Penso che non me ne andrò.
(...Resto qua/ho ancora da fare un poco di cose anch'io/e in più c'ho/ancora da fumare le piante da curare/devo ancora andare in giro per il mondo/voglio perdere di vista il giorno/e poi non posso andare via perché/il mio cane ha bisogno di me/voglio vedere come va a finire/questo paese vuole un bel finale/io casomai vorrei contribuire qualche cosa troverò da/fare qua/mi trovo bene qua/tiro annanz a campa'/fra i viali di cemento je provo a respirà...)
Il guagliò che prima correva e scappava, ha trovato la soluzione:"io resto" e combatto...ad andarsene saranno altri. Sembra stia iniziando a funzionare!!!
mercoledì 16 novembre 2011
RECENSIONE: SAXON/ANVIL Live@Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia(NO),15 Novembre 2011
Concerto d'altri tempi questa sera al Rock'n'Roll Arena di Romagnano Sesia(NO).
Un sold out annunciato che ha lasciato fuori al freddo dell'incombente inverno chi è arrivato in ritardo e non ha potuto timbrare il cartellino con la storia dell'heavy metal. Perchè i Saxon, nonostante non abbiano mai raggiunto il successo planetario dei compagni di inizio avventura, Iron Maiden, rappresentano ancora oggi, più di Steve Harris e soci , la vera anima stradaiola che caratterizzò il movimento NWOBHM che animava i sobborghi inglesi nei fine anni settanta. Nonostante tutte le beghe legali e i conflitti personali con gli ex componenti, i Saxon sono ancora quei "son of a bitch"(primo nome della band) di inizio carriera.
Poi per questa serata erano in accoppiata con un'altra leggenda del metal degli anni ottanta, i canadesi Anvil e molti erano qui per non perdersi quel mattacchione di "Lips".
Ad aprire la serata i giovani britannici Crimes Of Passion, sponsorizzati dagli stessi Saxon e con all'attivo un album ed un ep, il loro old school metal, nonostante parecchi problemi tecnici abbiano infestato la mezz'ora di esibizione, ha conquistato. Il biondo e simpatico cantante Dale ci ha messo del suo e a fine concerto si sono meritati l'ovazione.
Vidi i canadesi Anvil circa quindici anni fa e devo dire che ero qua, come tantissimi altri anche per loro. Gli Anvil hanno attraversarto fasi alterne di carriera, dai fasti scollacciati dei primi anni ottanta con i poco nascosti riferimenti sessuali che strabordavano dalle liriche-alla faccia dei benpensanti- e veri e propri prime movers dello speed and thrash metal(prima ancora di quel Kill'em all da prima pagina), fino ad arrivare alla rinascita di questi ultimi anni, grazie anche al divertente documentario che tanto successo ha avuto(Anvil: the story of Anvil) e all'ultimo album Juggernaut of Justice che ne hanno rilanciato la carriera. Chi non è mai cambiato è Steve "Lips" Kudlow, un vero monello dalle mille smorfie che passa dai spettacolari assoli impossibili, anche con l'immancabile vibratore usato come bottle neck, a rasoiate chitarristiche che definiscono il suono "in your face" della sua creatura. La formazione a tre con Glenn Five al basso e il "vecchio"Robb Reiner che dietro le pelli è un martello pneumatico, ha avuto modo di mettersi in mostra tra una gag e l'altra di Lips.
Il loro set ha goduto del miglior suono della serata, ed ha alternato vecchi successi come 666, Mothra, March of the Crabs, la terremotante Winged Assassins, l'inconfondibile Metal on Metal ai più recenti Juggernaut of justice e la bluesata New Orleans Voo Doo. Gli Anvil rimangono una piccola istituzione, lontana dai grandi circuiti, da preservare e sostenere.
Un peccato è aver assistito alla prima parte del concerto dei Saxon, con dei suoni veramente boombastici che ne hanno penalizzato il set. Fortunatamente, questa volta è da dire, l'impianto audio salta alle prime battute di Rockn'n roll Gypsy e quello che poteva essere un disasto si trasforma nella salvezza del concerto che proseguirà con i giusti suoni fino alla fine e con i Saxon ancora più micidiali.
I britannici presentano il loro nuovo e buon album Call to Arms(2011). Tanti gli estratti che si sono incastonati con i vecchi cavalli di battaglia, dall'apertura del concerto con Hammer of the Gods, passando per Mists of Avalon, all'epica Call to Arms fino a When Doomsday comes(Hybrid Theory).
Il sempre più regale Biff Byford, dall'inconfondibile e unica voce, rimane quel catalizzatore che è sempre stato, un uomo che ha raggiunto i sessant'anni d'età e che da quasi quaranta porta avanti le sue battaglie e la sua creatura Saxon(raccontato così bene nel suo libro autobiografico "Never Surrender"), tra alti e bassi ma con immutata passione.
Il working class metal degli esordi sopravvive in anthems entrati di diritto nella storia della musica pesante: Heavy Metal Thunder, l'inno "bykers" Motorcycle Man, Dallas 1Pm e Denim and Leather non hanno bisogno di troppi commenti e spiegazioni. La band poggia sulle chitarre del pirata Paul Quinn(fantastici alcuni suoi assoli), l'altro superstite della prima line-up del lontano 1976 e dell'ultimo entrato(ormai da quindici anni nella band) Doug Scarratt , sulla strabordante esuberanza ed headbanging instancabile del rosso bassista Nibbs Carter e sul drumming preciso del veterano Nigel Glockler, nascosto dietro alla sua faraonica batteria.
Una carriera rivisitata guardando soprattutto agli anni ottanta, fino ad arrivare a quei dischi che cercavano l'America e il glam, al tempo poco digeriti dai die-hard fans, qui rappresentati bene da Rock the Nations.
La velocissima e squassante 20.000 Ft, l'immancabile e ormai "fatta loro" cover di Ride like the wind di Christopher Cross e Wheels of Steel (“She’s got wheels… wheels of steel!”) portano al caldo ed incandescente finale con Byford che cerca sempre più il contatto con i suoi fans e si appropria di una maglietta da calcio azzurra che si lega intorno al collo. Dopo 747(Strangers in the night) e l'anthemica Power and the Glory arrivano le finali ed immancabili Strong Arm of the Law e Princess of the Night, assurte a veri e propri inni e stile di vita, che chiudono la serata vintage all'Arena.
I primi anni ottanta si sono rimaterializzati per una sera, ma senza effetto nostalgia perchè Anvil e Saxon, "kick some ass", come direbbero Lips e soci, a molte novelle e pretenziose band di oggi.
And the band played on...
VIDEO di "HEAVY METAL THUNDER":
martedì 15 novembre 2011
RECENSIONE/Reportage: BOB DYLAN/MARK KNOPFLER Live@ Forum di ASSAGO(MI) 14 Novembre 2011
"Da bambino pensavo che Dio assomigliasse a mio nonno; da adulto penso che assomigli a Bob Dylan." PERRY MEISEL, The Times Literary Supplement
Venghino signori e signore, il Never Ending Tour passa anche quest'anno in città. Quattro città, per l'esattezza.
Bob Dylan è un Dio che non si nasconde, ma che ama travestirsi da diavolo, che ogni anno, ogni mese e quasi ogni giorno dell'anno, ha bisogno di sentire la sua comunità riunita ad acclamarlo. Di guardare i suoi fedeli e farsi guardare e giudicare, farsi misurare lo stato di salute, di giorno in giorno, come un bollettino medico redatto da chi teme per lui e la musica tutta.
Il suo status da quasi premio nobel(prima o dopo arriverà)imporrebbe palchi da mille e una notte, celebrazioni e fuochi d'artificio di ogni sorta. Quest'anno poi, ci sono da festeggiare le settanta candeline. Ma a lui, tutto questo contorno, interessa veramente poco. Basta solo salire sul palco, come esigenza primaria di sopravvivenza, potrebbe essere anche un pub se fosse possibile. Cerimoniere attento a scuotere e rovesciare le sue canzoni, divertirsi a suo modo, anche se guardandolo non credi sia possibile. Così come negli ultimi anni non può fare a meno di condurre programmi radiofonici, offrire le sue canzoni a pubblicità e fare dischi natalizi. La musica placa la sua bulimia. Un vuoto(?) che solo la musica può colmare.
I beni informati lo davano in buona salute e allegro.
Stasera erano presenti: i vecchi devoti che conoscono parole, scalette e movimenti, tanto da sapere con precisione svizzera se quella o questa canzone l'ha suonata al centro palco o di lato, con le mani sulla tastiera , sulla chitarra o intente a tenere l'armonica; i fans nostalgici fermi a Desire; chi lo vede per la prima volta e chi continua a rifiutarsi di vederlo per non rovinarsi l'immagine che porta nel cuore e negli occhi;tutte le sere ci sono anche loro con Dylan.
Al di là di tutto, questo Tour con Mark Knopfler ha assunto l'appellativo di evento, il giorno dopo l'annuncio. I motivi sono qui:http://enzocurelli.blogspot.com/2011/07/bob-dylan-mark-knopfler-untour-insieme.html
Poveri gli spettatori delle prime date europee(primissima a Dublino) che dell'evento poco hanno percepito, visto che Dylan e Knopfler non si sono mai visti insieme sul palco- sarebbe altresì bello vedere cosa succede nel retropalco. Con il proseguio del tour le apparizioni dell'ex Dire Stratits si sono moltiplicate come i pani e i pesci, fino ad arrivare a presenziare sul set di Dylan per 6 canzoni o solo per tre come avvenuto qui a Milano, stasera. Quarta ed ultima tappa italiana, dopo Padova, Firenze e Roma. Accontentiamoci, poteva andar peggio o non andare proprio come a Dublino.
Il Forum di Assago si riempie lentamente, ma il colpo d'occhio a inizio concerto c'è! Tanti giovani, famiglie e irriducibili fans tra cui tanti attempati tedeschi.
Alle chitarre di Mark Knopfler, cambiate in modo ossessivo quasi ad ogni canzone, il compito di aprire il concerto. Chitarre che mantengono quel tocco inconfondibile di quando i già radi capelli erano tenuti fermi da una fascia di spugna e i colori dei suoi abiti erano quelli improponibili degli anni ottanta. Ora viaggia sul caldo e rassicurante territorio folk/country con qualche puntata blues. Territori che iniziò a calpestare sempre più assiduamente già con i Dire Straits finali di "Calling Elvis" e con il progetto The Notting Hillbillies.
Crede a quello che fa, Mark, potrebbe campare a vita con una decina di estratti dal catalogo Dire Straits. Non lo fa. Si gode la sua vecchiaia. Lo apprezzo. Le note della sua chitarra aleggiano nel Forum meglio di quanto potrebbe avvenire con il rock da stadio del suo vecchio gruppo.
Le influenze irlandesi e scozzesi si sono quasi impadronite della sua musica e la band di sette elementi suona cristallina, senza sbavature. Contrabbasso(Glen Worf), violino(John Mc Cusker), flauto(Mike Mc Goldrick) e tante chitarre.
I momenti forti: l'iniziale What it is, Sailing to Philadelphia la nuova e trascinante irish folk Privateering, le suggestioni american-western di Speedway at Nazareth e le due uniche concessioni al suo passato nei Dire Straits: Brothers in Arms e la conclusiva So far Away, dopo un finto accenno d'uscita che si poteva evitare.
Un cambio palco veloce. Le luci si riaccendono, fioche. Sembra di essere in una vecchia sala da ballo degli anni cinquanta con un tendone rosso a fare da cornice. Rimarrà così tutta la sera.
Dylan, di nero vestito, con un cappotto da guerra di secessione, cappello di ordinanza ed un accenno di pizzetto che gli contorna il viso è circondato dal grigio della sua band. Con loro sul palco, per le prime tre canzoni, c'è Mark Knopfler e la sua chitarra si fa sentire. Il "seghilineo" e bravo Charlie Sexton gli lascia la ribalta che si riprenderà dopo. Leopard-skin Pill box hat apre senza sorprese. La prima delle due chicche delle date italiane è It's all Over Now, Baby blue estratta da quel capolavoro che fu"Bringing it All back Home(1965). L'altra sarà Simple twist of fate da Blood on the tracks(1975).
Dopo la "premio oscar" Things have changed, Knopfler di defila silenziosamente nel retro palco, senza presentazioni e cerimonie.
D'ora in avanti, il suono sarà un torrenziale blues che marcia incontrastato come un cingolato. Dylan comanda la sua band e si prende i suoi spazi, presenziando spesso a centro palco con le sue armoniche che riesce a perdere una volta usate, non riuscendole più a trovare quando gli servono nuovamente. Si alterna tra chitarra e tastiere, sorprendendo per alcune sue timide pose, quasi a ritmo di danza e alcuni accenni di sorriso.
A parte la ciondolante Spirit of Water e Desolation row, tutto viaggia pesante, con la sua voce che riesce ad essere rantolo e lamento, grido e sofferenza, poetico tramite tra gioventù e vecchiaia, rumore assente e palpabile esaltazione cavernosa. Là dove la band di Knopfler aveva suoni puri e cristallini, quella di Dylan è torrida e grezza in Honest with me, Highway 61 e Thunder on the Mountain. Ciniche riletture blues alla Dylan. Studio di rivisitazione del suono americano intrapreso da circa venti anni.
Non poteva mancare All Along the watchtower, pachiderma gettato in pasto ai suoi fans, quasi hard nel suo incedere. Dylan arrivato a fine concerto, pronuncia le sue uniche parole e sono per presentare la band, ormai fida e collaudata: Donnie Herron, George Receli, Charlie Sexton, Tony Garnier e Stu Kimball.
La chiusura è tutta per Like a Rollihg Stones, con il pubblico che finalmente può cantare con il suo idolo, anche se con estrema difficoltà nel seguirlo: "How does it feel, to be without a home,like a complete unknown, like a rolling stone".
Niente bis. Va bene così. Chissà cosa spinge Dylan a fare un bis una sera sì e due no?
Si esce consapevoli di aver visto un pezzettino di storia. Riletta e modificata ma pur sempre storia. Tra chi rimprovera a Knopfler di non aver fatto abbastanza canzoni dei Dire Straits, giovani che volevano sentire da Dylan, Hurricane e Knockin' on Heaven's door e chi, utopisticamente si immaginava di vederlo ancora in acustico nei panni del menestrello folk.
Io che volevo fortissimamente Man in the long black coat che stasera ha saltato.
Il Dylan di oggi è questo:cinico e spietato, quasi violento. Prendere o lasciare.
SETLIST MARK KNOPFLER:
1)What it is 2)Cleaning my gun 3)Sailing to Philadelphia 4)Hillfarmer blues 5)Privateering 6)Song for Sonny Liston 7)Donegan's gone 8)Marbletown 9)Brothers in arms 10)Speedway to Nazareth 11)So far away
SETLIST BOB DYLAN:
1) Leopard-Skin Pill-Box Hat (con Mark Knopfler) 2) It's All Over Now, Baby Blue (con Mark Knopfler) 3) Things Have Changed (con Mark Knopfler) 4) Spirit On The Water 5) Honest With Me 6) Tangled Up In Blue 7) The Levee's Gonna Break 8) Desolation Row 9) Highway 61 Revisited 10) Simple Twist Of Fate 11) Thunder On The Mountain 12) Ballad Of A Thin Man 13) All Along The Watchtower 14) Like A Rolling Stone
lunedì 14 novembre 2011
RECENSIONE: GUY LITTELL (Later)
GUY LITTELL Later (autoproduz., 2011)
L'estate scorsa, durante la pausa forzata dovuta ad una estenuante coda di automobili, mi è capitato di perdere lo sguardo in modo malinconico attraverso le maglie quadrate di una rete metallica che dividevano il ponte di un'autostrada con il vuoto apparente di un paesaggio lontano. Gli occhi accecati dal sole superavano i palazzi, grandi come casermoni, di una sonnolenta Genova mattutina e si tuffavano nel mare che si intravedeva in lontananza. Forse stavano già cercando la lontana Napoli e un suo abitante che però con lo stesso gioco di sguardi , gli occhi li ha puntati ancora più lontano.
Lo sguardo di Guy Littell attraversa mari e oceani e sbarca negli States, scrutando il lato meno solare di un continente che troppo spesso identifichiamo come un'isola del tesoro. Il lato ombroso della west coast californiana dei primi anni settanta incontra l'elettrico deserto alternativo degli anni novanta, dove i Giant Sand di Howe Gelb e i Dream Syndicate di Steve Wynn hanno lasciato impronte indelebili. Proprio per Steve Wynn, Guy Littell ha aperto i concerti poche settimane fa. Un biglietto da visita che può valere rispetto e attenzione.
Later è il primo album del napoletano Gaetano di Sarno(il nome d'arte è preso da un romanzo di James Ellroy), dopo l'ep "The Low Light & The Kitchen" uscito nel 2009.
Due cose colpiscono immediatamente l'ascoltatore dopo solo pochi secondi dell'iniziale Tired Of Tellin'. La voce e i suoni grezzi ma al contempo avvolgenti ed incalzanti, grazie anche alla produzione di Ferdinando Farro.
L'America di Guy Littell è quella di chi cammina dalla parte cattiva della strada e sta cercando se stesso, così intrisa di quella velata e rabbiosa malinconia che gli improvvisi scatti elettrici dietro alle acustiche strutture delle canzoni mettono in risalto. Una solitaria camminata contromano verso la folla incalzante e schiamazzante. La solitudine imposta e la solitudine cercata per uscire da meccanismi stritolanti.
Gli spazi dilatati aperti dalle chitarre elettriche dell'iniziale Tired of Tellin' che si apre in acustico, il fervido incedere di Needed That call, dai suoni elettrici e indie trovano la loro controparte nel folk acustico intriso di amarezza ed intimistica malinconia di Within e dagli incubi notturni di The Nightmare Come.
I conflitti interiori che affiorano in What a war(for my soul) e i fantasmi della dimessa Black Water con i loro beat elettronici incastrati alla perfezione sulle canzoni che riportano alla riuscitissima collaborazione tra i Soulsavers e Mark Lanegan..
Proprio la voce di quest'ultimo sembra il metro di paragone più calzante per descrivere la profondità vocale di Guy Littell. Una voce che sembra nascere dal profondo dell'anima che però sa cambiare registro all'occorrenza come in Kill the Winter con il suo andamento pop con una coda elettrica che ricorda il miglior Ryan Adams, altro artista a cui Guy Littell potrebbe essere accomunato. La sua voglia di destrutturare le canzoni che affiora in Small American Town, un'America nascosta e di provincia squassata da improvvise esplosioni elettriche. Particolari, infine, il mood sixty-psichedelico di A Gifted Summer e l'incedere alla Neil young della conclusiva Best Thing ever con un violino che ci lascia in bellezza.
Dopo il disco dei Verily So, altra sorpresa italiana dell'anno, "Later" di Guy Littell sembra viaggiare nella stessa direzione, verso un' America che sembra essere vissuta come solo chi ci è nato potrebbe fare, lontana dai soliti e banali luoghi comuni. Non oso immaginare cosa potrebbe tirar fuori Guy Littell se la terra promessa riuscisse a calpestarla oltre che vederla dalle grate di una rete.
Un conclusivo grazie a chi mi ha fatto conoscere Guy Littell, testimonianza di come il passaparola funzioni ancora in un mondo musicale sempre più superficiale.
INTERVISTA su ImpattoSonoro.it
L'estate scorsa, durante la pausa forzata dovuta ad una estenuante coda di automobili, mi è capitato di perdere lo sguardo in modo malinconico attraverso le maglie quadrate di una rete metallica che dividevano il ponte di un'autostrada con il vuoto apparente di un paesaggio lontano. Gli occhi accecati dal sole superavano i palazzi, grandi come casermoni, di una sonnolenta Genova mattutina e si tuffavano nel mare che si intravedeva in lontananza. Forse stavano già cercando la lontana Napoli e un suo abitante che però con lo stesso gioco di sguardi , gli occhi li ha puntati ancora più lontano.
Lo sguardo di Guy Littell attraversa mari e oceani e sbarca negli States, scrutando il lato meno solare di un continente che troppo spesso identifichiamo come un'isola del tesoro. Il lato ombroso della west coast californiana dei primi anni settanta incontra l'elettrico deserto alternativo degli anni novanta, dove i Giant Sand di Howe Gelb e i Dream Syndicate di Steve Wynn hanno lasciato impronte indelebili. Proprio per Steve Wynn, Guy Littell ha aperto i concerti poche settimane fa. Un biglietto da visita che può valere rispetto e attenzione.
Later è il primo album del napoletano Gaetano di Sarno(il nome d'arte è preso da un romanzo di James Ellroy), dopo l'ep "The Low Light & The Kitchen" uscito nel 2009.
Due cose colpiscono immediatamente l'ascoltatore dopo solo pochi secondi dell'iniziale Tired Of Tellin'. La voce e i suoni grezzi ma al contempo avvolgenti ed incalzanti, grazie anche alla produzione di Ferdinando Farro.
L'America di Guy Littell è quella di chi cammina dalla parte cattiva della strada e sta cercando se stesso, così intrisa di quella velata e rabbiosa malinconia che gli improvvisi scatti elettrici dietro alle acustiche strutture delle canzoni mettono in risalto. Una solitaria camminata contromano verso la folla incalzante e schiamazzante. La solitudine imposta e la solitudine cercata per uscire da meccanismi stritolanti.
Gli spazi dilatati aperti dalle chitarre elettriche dell'iniziale Tired of Tellin' che si apre in acustico, il fervido incedere di Needed That call, dai suoni elettrici e indie trovano la loro controparte nel folk acustico intriso di amarezza ed intimistica malinconia di Within e dagli incubi notturni di The Nightmare Come.
I conflitti interiori che affiorano in What a war(for my soul) e i fantasmi della dimessa Black Water con i loro beat elettronici incastrati alla perfezione sulle canzoni che riportano alla riuscitissima collaborazione tra i Soulsavers e Mark Lanegan..
Proprio la voce di quest'ultimo sembra il metro di paragone più calzante per descrivere la profondità vocale di Guy Littell. Una voce che sembra nascere dal profondo dell'anima che però sa cambiare registro all'occorrenza come in Kill the Winter con il suo andamento pop con una coda elettrica che ricorda il miglior Ryan Adams, altro artista a cui Guy Littell potrebbe essere accomunato. La sua voglia di destrutturare le canzoni che affiora in Small American Town, un'America nascosta e di provincia squassata da improvvise esplosioni elettriche. Particolari, infine, il mood sixty-psichedelico di A Gifted Summer e l'incedere alla Neil young della conclusiva Best Thing ever con un violino che ci lascia in bellezza.
Dopo il disco dei Verily So, altra sorpresa italiana dell'anno, "Later" di Guy Littell sembra viaggiare nella stessa direzione, verso un' America che sembra essere vissuta come solo chi ci è nato potrebbe fare, lontana dai soliti e banali luoghi comuni. Non oso immaginare cosa potrebbe tirar fuori Guy Littell se la terra promessa riuscisse a calpestarla oltre che vederla dalle grate di una rete.
Un conclusivo grazie a chi mi ha fatto conoscere Guy Littell, testimonianza di come il passaparola funzioni ancora in un mondo musicale sempre più superficiale.
INTERVISTA su ImpattoSonoro.it
sabato 12 novembre 2011
RECENSIONE: DAVID LYNCH ( Crazy Clown Time)
DAVID LYNCH Crazy Clown Time ( Sunday Best, 2011)
Fuga dal cinema. Dice lui. Poche idee da proiettare sul grande schermo si tramutano in suono. David Lynch ha sempre condiviso la sua arte cinematografica con le note, a volte rendendole inseparabili come un lento monolite che catturava anima e pensiero. Le sue collaborazioni con Badalamenti per Twin Peaks e altre mille collaborazioni teatrali (Industrial Synphony N.1) e musicali (soundtracks e produzioni) hanno fatto solo da apripista a un qualcosa che prima o poi doveva accadere. La sua arte ha sempre dovuto liberarsi in qualche altra forma concreta. Se il cinema non accende più in lui la scintilla , sotto con la scrittura, i video musicali, la scultura, la pittura e poi ancora con le chitarre.
Crazy Clown Time, nasconde già nel titolo quello che Lynch vuole far uscire. Il pagliaccio non ha mai fatto ridere nessuno. La solitaria inquietudine di un sorriso sbavato, rosso che cola sul cerone bianco; riccioli biondi ai lati di una stempiatura nascosta da un cappello, specchio di un animo tormentato, nascosto da una risata forzata. Riso forzato per compiacere se stessi e il tempo che inesorabile avanza. Mano che sfida la sorte con un dado truccato.
Crazy Clown Time è ingenua mietitura di idee. Un blues che libera l'anima e i pensieri di Lynch. Oppressione davanti ad un mondo che ha voglia di ribellione. Ribellione davanti ad un mondo oppresso.
Non tutto funziona a meraviglia è bene dirlo. Il vocoder usato su Good Day Today, Strange and unproductive Thinking e Shine Rise Up andava bene per Kraftwerk e Rockets negli anni settanta, iniziava a dare già fastidio e irritava nel 1983 quando Neil Young lo usò su Trans (e lì aveva un almeno un senso molto profondo, si scoprì in seguito) se poi lo si incolla su ripetitivi samples elettronici, il risultato non cambia ma tende a peggiorare.
Cambia tutto quando ci si sposta sulla titletrack Crazy Clown Time. Sette minuti di voci agghiaccianti su un freddo blues dall'incedere marziale. Macchina da presa liberata nel deserto dell'anima alla ricerca di una luce. Buio, tanto buio in questo disco.
Lo spoken word di Speed Roaster ti catapulta dentro un quadro serale di Edward Hopper, illuminato da neon stanchi. Tutto è immobile tranne le ombre, nessuno fiata e il barista continua a tenere la bottiglia in mano, obliqua, ma di versare quel goccio di Whisky che potrebbe riscaldare la scena, non ne vuole sapere.
Football Game è un altro scheletrico blues che piacerebbe a Lanois ma che il collaboratore di Lynch, Dean Hurley riproduce in modo perfetto. Voce impastata e inquietante che narra instancabile così come in I know, lentissima discesa negli inferi scanditi da batteria, hammond e chitarre. Ossessiva ripetizione che ipnotizza come il ticchettio trip hop della liquida e fumosa Noah's Ark.
Tutto sembra comparire e scomparire: come le chitarre nel glaciale incedere di So Glad e Movin On; come la luce nella twinpeaksiana Stone's gone Up, dove sembra intravedersi uno spiraglio di raggio solare che illumina la scena, ma era solamente un raggio vero e proprio. Troppo poco, veramente.
Poi c'è Pinky's dream, piazzata in apertura, chitarre che portano a Twin Peaks e andatura quasi da psychobilly disossato con la voce di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs a elevarsi.
Non tutto è perfetto ma la curiosità riesce a tenerti incollato fino alla fine per chiederti : cosa succederà adesso e come andrà a finire? Se non è un film questo...
Fuga dal cinema. Dice lui. Poche idee da proiettare sul grande schermo si tramutano in suono. David Lynch ha sempre condiviso la sua arte cinematografica con le note, a volte rendendole inseparabili come un lento monolite che catturava anima e pensiero. Le sue collaborazioni con Badalamenti per Twin Peaks e altre mille collaborazioni teatrali (Industrial Synphony N.1) e musicali (soundtracks e produzioni) hanno fatto solo da apripista a un qualcosa che prima o poi doveva accadere. La sua arte ha sempre dovuto liberarsi in qualche altra forma concreta. Se il cinema non accende più in lui la scintilla , sotto con la scrittura, i video musicali, la scultura, la pittura e poi ancora con le chitarre.
Crazy Clown Time, nasconde già nel titolo quello che Lynch vuole far uscire. Il pagliaccio non ha mai fatto ridere nessuno. La solitaria inquietudine di un sorriso sbavato, rosso che cola sul cerone bianco; riccioli biondi ai lati di una stempiatura nascosta da un cappello, specchio di un animo tormentato, nascosto da una risata forzata. Riso forzato per compiacere se stessi e il tempo che inesorabile avanza. Mano che sfida la sorte con un dado truccato.
Crazy Clown Time è ingenua mietitura di idee. Un blues che libera l'anima e i pensieri di Lynch. Oppressione davanti ad un mondo che ha voglia di ribellione. Ribellione davanti ad un mondo oppresso.
Non tutto funziona a meraviglia è bene dirlo. Il vocoder usato su Good Day Today, Strange and unproductive Thinking e Shine Rise Up andava bene per Kraftwerk e Rockets negli anni settanta, iniziava a dare già fastidio e irritava nel 1983 quando Neil Young lo usò su Trans (e lì aveva un almeno un senso molto profondo, si scoprì in seguito) se poi lo si incolla su ripetitivi samples elettronici, il risultato non cambia ma tende a peggiorare.
Cambia tutto quando ci si sposta sulla titletrack Crazy Clown Time. Sette minuti di voci agghiaccianti su un freddo blues dall'incedere marziale. Macchina da presa liberata nel deserto dell'anima alla ricerca di una luce. Buio, tanto buio in questo disco.
Lo spoken word di Speed Roaster ti catapulta dentro un quadro serale di Edward Hopper, illuminato da neon stanchi. Tutto è immobile tranne le ombre, nessuno fiata e il barista continua a tenere la bottiglia in mano, obliqua, ma di versare quel goccio di Whisky che potrebbe riscaldare la scena, non ne vuole sapere.
Football Game è un altro scheletrico blues che piacerebbe a Lanois ma che il collaboratore di Lynch, Dean Hurley riproduce in modo perfetto. Voce impastata e inquietante che narra instancabile così come in I know, lentissima discesa negli inferi scanditi da batteria, hammond e chitarre. Ossessiva ripetizione che ipnotizza come il ticchettio trip hop della liquida e fumosa Noah's Ark.
Tutto sembra comparire e scomparire: come le chitarre nel glaciale incedere di So Glad e Movin On; come la luce nella twinpeaksiana Stone's gone Up, dove sembra intravedersi uno spiraglio di raggio solare che illumina la scena, ma era solamente un raggio vero e proprio. Troppo poco, veramente.
Poi c'è Pinky's dream, piazzata in apertura, chitarre che portano a Twin Peaks e andatura quasi da psychobilly disossato con la voce di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs a elevarsi.
Non tutto è perfetto ma la curiosità riesce a tenerti incollato fino alla fine per chiederti : cosa succederà adesso e come andrà a finire? Se non è un film questo...
giovedì 10 novembre 2011
RECENSIONE: WILCO ( The Whole love)
WILCO The Whole Love (dBpm/ANTI, 2011)
Due estremi ben definiti a delimitare l'inizio e la fine di questo ottavo album dei Wilco. Art of almost apre nella maniera che non ti aspetti dopo due dischi come Sky blue Sky e Wilco(the album)-che non mi entusiasmarono moltissimo- e One Sunday morning con i suoi dodici minuti di durata chiude in modo pigro e sommesso.
I beat elettronici che introducono Art of almost ci fanno subito capire, ingannandoci, che The Whole Love abbandona in parte il rassicurante country rock di Sky blue sky e le derive pop del precedente omonimo per cercare strade artistiche che conducono lontano, meno estreme rispetto ai primi lavori ma comunque sperimentali. La mente di Jeff Tweedy rimane materia assai complicata e certi vecchi mostri continuano a nascondersi in modo rassicurante dentro alla sua mente , tanto da uscire in avanscoperta quando meno te lo aspetti. I sette minuti scorrono malati lungo infinite deviazioni fatte di synth, input elettronici, orchestrazioni e sciabolate di chitarra per concludersi con un lungo feedback di chitarre che dal vivo faranno furore. Il tutto in forma estremamente piacevole.
I dodici minuti di One Sunday morning(Song for Jane Smiley's boyfriend) che chiudono il disco sono una delicata ballad acustica con il piano in evidenza, ripetitiva e forse tirata un pò troppo per lunghe nel suo mantra, elegia per una persona passata a miglior vita e cronaca di una triste giornata, dove ci si aggrappa alla fede.
In mezzo cosa c'è? In mezzo c'è un disco che , nonostante i proclami di rivoluzione, viaggia su strade rassicuranti più di quanto l'inizio lasciasse prevedere. I might è il singolo che dietro al cinico testo(...Let it go/I don't know oh.../A cow's neck/Badshave/In the low blow slo-mo/It's alright/You won't set the kids on fire...) presenta un suono pop e sixty di sicuro effetto con una dichiarata citazione di TV Eye degli Stooges.
Whole Love è un delicato affresco lo-fi tra seduta psicoanalista e amore mentre Capitol City è uno spassoso viaggio nel tempo sospeso tra gli anni trenta e gli anni sessanta.
Sunloathe è battagliera negli intenti e psichedelica nella forma, il country/folk a bassa fedeltà di Black moon( con le lap steel ad aprire sconfinati spazi), nei tristi accordi di Rising Red Lung e dalla rassicurante e familiare andatura di Open Mind che ci riconsegnano un Jeff Tweedy che pare aver ritrovato una pace interiore e con il mondo esterno, pur non abbandonando la sua scrittura visionaria che anche l'artwork del disco e del libretto, contenente i quadri dell'artista Joanne Greenbaum, lasciano prevedere.
Sprazzi di rock'n'roll escono da Dawned on me, dalle chitarre dispersive di Nels Cline in Born alone e nella più scatenata Standing O.
Nella Limited Edition c'è ancora spazio per altre quattro canzoni: l'ironica e beatleasiana I love my Label(...guarda caso questo è il loro primo disco che esce per l'etichetta di loro proprietà), l'alt country Message from mid-bar , i sette minuti della strumentale e sperimentale Speak into the rose, quanto di più vicino all'iniziale e spiazzante Art of Almost. Infine, una versione alternativa di Black Moon.
Ritrovarsi ad ascoltare in continuazione questo disco, quasi in loop, come non era successo con nessun altro lavoro dei Wilco , prima. Qui c'è qualcosa di ipnotizzante. Uno dei miei dischi da vetrina dell'anno in corso, giunto quasi alla fine.
Due estremi ben definiti a delimitare l'inizio e la fine di questo ottavo album dei Wilco. Art of almost apre nella maniera che non ti aspetti dopo due dischi come Sky blue Sky e Wilco(the album)-che non mi entusiasmarono moltissimo- e One Sunday morning con i suoi dodici minuti di durata chiude in modo pigro e sommesso.
I beat elettronici che introducono Art of almost ci fanno subito capire, ingannandoci, che The Whole Love abbandona in parte il rassicurante country rock di Sky blue sky e le derive pop del precedente omonimo per cercare strade artistiche che conducono lontano, meno estreme rispetto ai primi lavori ma comunque sperimentali. La mente di Jeff Tweedy rimane materia assai complicata e certi vecchi mostri continuano a nascondersi in modo rassicurante dentro alla sua mente , tanto da uscire in avanscoperta quando meno te lo aspetti. I sette minuti scorrono malati lungo infinite deviazioni fatte di synth, input elettronici, orchestrazioni e sciabolate di chitarra per concludersi con un lungo feedback di chitarre che dal vivo faranno furore. Il tutto in forma estremamente piacevole.
I dodici minuti di One Sunday morning(Song for Jane Smiley's boyfriend) che chiudono il disco sono una delicata ballad acustica con il piano in evidenza, ripetitiva e forse tirata un pò troppo per lunghe nel suo mantra, elegia per una persona passata a miglior vita e cronaca di una triste giornata, dove ci si aggrappa alla fede.
In mezzo cosa c'è? In mezzo c'è un disco che , nonostante i proclami di rivoluzione, viaggia su strade rassicuranti più di quanto l'inizio lasciasse prevedere. I might è il singolo che dietro al cinico testo(...Let it go/I don't know oh.../A cow's neck/Badshave/In the low blow slo-mo/It's alright/You won't set the kids on fire...) presenta un suono pop e sixty di sicuro effetto con una dichiarata citazione di TV Eye degli Stooges.
Whole Love è un delicato affresco lo-fi tra seduta psicoanalista e amore mentre Capitol City è uno spassoso viaggio nel tempo sospeso tra gli anni trenta e gli anni sessanta.
Sunloathe è battagliera negli intenti e psichedelica nella forma, il country/folk a bassa fedeltà di Black moon( con le lap steel ad aprire sconfinati spazi), nei tristi accordi di Rising Red Lung e dalla rassicurante e familiare andatura di Open Mind che ci riconsegnano un Jeff Tweedy che pare aver ritrovato una pace interiore e con il mondo esterno, pur non abbandonando la sua scrittura visionaria che anche l'artwork del disco e del libretto, contenente i quadri dell'artista Joanne Greenbaum, lasciano prevedere.
Sprazzi di rock'n'roll escono da Dawned on me, dalle chitarre dispersive di Nels Cline in Born alone e nella più scatenata Standing O.
Nella Limited Edition c'è ancora spazio per altre quattro canzoni: l'ironica e beatleasiana I love my Label(...guarda caso questo è il loro primo disco che esce per l'etichetta di loro proprietà), l'alt country Message from mid-bar , i sette minuti della strumentale e sperimentale Speak into the rose, quanto di più vicino all'iniziale e spiazzante Art of Almost. Infine, una versione alternativa di Black Moon.
Ritrovarsi ad ascoltare in continuazione questo disco, quasi in loop, come non era successo con nessun altro lavoro dei Wilco , prima. Qui c'è qualcosa di ipnotizzante. Uno dei miei dischi da vetrina dell'anno in corso, giunto quasi alla fine.
lunedì 7 novembre 2011
RECENSIONE: THE CYBORGS (The Cyborgs)
The CYBORGS The Cyborgs (INRI, 2011)
Immaginate Robert Johnson seduto su quella sedia di quel famoso Hotel a San Antonio. La chitarra appoggiata al muro, le gambe distese sotto una scrivania. Le sue dita non stanno ricamando nessun accordo ma sono appoggiate sulla tastiera di un pc di ultima generazione. La connesione internet a banda larga è velocissima e gli consente di comunicare con tutto il mondo. La sua faccia è illuminata dalla luce che proviene dallo schermo del pc. La home page (http://www.thecyborgs.it/), è
di un gruppo distante da lui circa 10.000 km con un oceano di mezzo e 75 anni di distanza proiettati nel futuro. Eresia? Fervida immaginazione? Sogno?
I tanti numeri sono l'unica certezza. Solo numeri. 0 e 1. Sì, solo numeri da codice binario, coperti da una maschera da saldatore per proteggersi da eventuali attacchi, sguardi, scorie radioattive, insulti e come dicono loro per non dare troppa importanza alla faccia e far cadere attenzione e concentrazione sulla musica, anche il contrario è vero e funziona bene, però.
Il blues non ha età, ma ha dato le date di nascita ai generi che sono venuti dopo di lui. I Cyborgs viaggiano in questo tunnel temporale come neutrini impazziti, avanti ed indietro lungo la banda larga. I loro numeri non hanno carta di identità: nessun volto, nessuna età anagrafica, nessuna città di provenienza, nessuno stato apparente. Tutto può apparire pretenzioso. Forse lo è, anche! Ma fa parte del gioco.
Aprire in concerto prima di Jeff Beck questa estate a Vigevano o prima di Eric Sardinas poche settimane fa, ha portato loro gran visibilità. Poco importa se i paragoni portano immediatamente a gruppi contemporanei come White Stripes e Black Keys, tutti e solo: chitarra e batteria. Il blues non ha età. E' vecchio già in partenza, segue la sua parabola del tempo. Guarda al suo passato e corre a ritroso. Parte dai campi di cotone arriva a quell'hotel e al mistero di Robert Johnson, passa attraverso Charley Patton, Elmore James, Howlin' Wolf, John Lee Hooker, Muddy Waters e Buddy Guy contamina l'Inghilterra negli anni sessanta e ogni tanto fa tappa in Italia per poi ripartire e tornare a quel hotel di San Antonio. Bisogna solo preservarlo. Fino ad adesso c'è stato chi ci ha pensato. Ora, ad espandere il verbo alle nuove generazioni italiane, ci sono anche loro, in compagnia di altre interessanti realtà come Bud Spencer Blues Explosion e Samuel Katarro.
Certo, la curiosità morbosa di strappare via le maschere c'è (nel loro futuro potrebbe anche esserci un Lick it up, senza maschera, come i Kiss), la curiosità è parte integrante del progetto ma la musica lo è ancor di più.
Il signor 0 alla chitarra e voce, il signor 1 alla batteria e visto che ha due mani come noi comuni mortali, ogni tanto una la usa per synth e tastiere. Tutto qui.
I Cyborgs giocano bene le loro carte (maschere e mistero) e portano il blues alle masse e ai giovani che di Johnson forse ne conoscono tanti ma nessuno di nome Robert.
3, 2, 1, 0...1, 0. Attacca Cyborg Boogie. E' un blues primordiale il loro. Pecussivo e senza troppi abbellimenti. Blues da strada. Polveroso come i bordi di una vecchia strada di Menphis o metropolitano, alienante e solitario come può essere la sporca periferia di una città.
Alieni sbarcati alla Chess Records, alla scoperta dei terrestri in Human Face e 2110 (il loro anno d'arrivo) e camaleontici, quando da sotto le loro maschere sembrano uscire lunghi e arruffati peli zz topiani, Highway Men. Il tacco dello stivaletto continua a tenere il tempo, il corpo si libera e parte Dancy, in puro stile Black Keys. Blues buono da ballare.
Abbandonate i vostri elettrodi da saldatore, suonate il campanello e salite al 20th Floor,un cyborg blues vi travolgerà appena aprirete la porta.
No!no!no! è pesante attacco al precario presente ed esortazione a salvarsi finchè si è in tempo mentre il rag time di Bag Time è puro esercizio pianistico che riporta agli anni trenta e smorza i toni.
Allontanatevi dagli incroci, ormai scomparsi delle grandi metropoli. Andate in campagna, cercate un crossroad disperso e solitario. Accampatevi lì come un hobo e aspettate. Prima o poi arriveranno The Cyborgs, direttamente dal 2110, vi rapiranno e vi riporteranno alle origini del blues, forse in quella stanza di hotel dove la chitarra non è più appoggiata al muro ed il pc è ora spento. Non c'è nessun bisogno di fare patti con il diavolo. Dovete farli con loro, ora.
INTERVISTA
Immaginate Robert Johnson seduto su quella sedia di quel famoso Hotel a San Antonio. La chitarra appoggiata al muro, le gambe distese sotto una scrivania. Le sue dita non stanno ricamando nessun accordo ma sono appoggiate sulla tastiera di un pc di ultima generazione. La connesione internet a banda larga è velocissima e gli consente di comunicare con tutto il mondo. La sua faccia è illuminata dalla luce che proviene dallo schermo del pc. La home page (http://www.thecyborgs.it/), è
di un gruppo distante da lui circa 10.000 km con un oceano di mezzo e 75 anni di distanza proiettati nel futuro. Eresia? Fervida immaginazione? Sogno?
I tanti numeri sono l'unica certezza. Solo numeri. 0 e 1. Sì, solo numeri da codice binario, coperti da una maschera da saldatore per proteggersi da eventuali attacchi, sguardi, scorie radioattive, insulti e come dicono loro per non dare troppa importanza alla faccia e far cadere attenzione e concentrazione sulla musica, anche il contrario è vero e funziona bene, però.
Il blues non ha età, ma ha dato le date di nascita ai generi che sono venuti dopo di lui. I Cyborgs viaggiano in questo tunnel temporale come neutrini impazziti, avanti ed indietro lungo la banda larga. I loro numeri non hanno carta di identità: nessun volto, nessuna età anagrafica, nessuna città di provenienza, nessuno stato apparente. Tutto può apparire pretenzioso. Forse lo è, anche! Ma fa parte del gioco.
Aprire in concerto prima di Jeff Beck questa estate a Vigevano o prima di Eric Sardinas poche settimane fa, ha portato loro gran visibilità. Poco importa se i paragoni portano immediatamente a gruppi contemporanei come White Stripes e Black Keys, tutti e solo: chitarra e batteria. Il blues non ha età. E' vecchio già in partenza, segue la sua parabola del tempo. Guarda al suo passato e corre a ritroso. Parte dai campi di cotone arriva a quell'hotel e al mistero di Robert Johnson, passa attraverso Charley Patton, Elmore James, Howlin' Wolf, John Lee Hooker, Muddy Waters e Buddy Guy contamina l'Inghilterra negli anni sessanta e ogni tanto fa tappa in Italia per poi ripartire e tornare a quel hotel di San Antonio. Bisogna solo preservarlo. Fino ad adesso c'è stato chi ci ha pensato. Ora, ad espandere il verbo alle nuove generazioni italiane, ci sono anche loro, in compagnia di altre interessanti realtà come Bud Spencer Blues Explosion e Samuel Katarro.
Certo, la curiosità morbosa di strappare via le maschere c'è (nel loro futuro potrebbe anche esserci un Lick it up, senza maschera, come i Kiss), la curiosità è parte integrante del progetto ma la musica lo è ancor di più.
Il signor 0 alla chitarra e voce, il signor 1 alla batteria e visto che ha due mani come noi comuni mortali, ogni tanto una la usa per synth e tastiere. Tutto qui.
I Cyborgs giocano bene le loro carte (maschere e mistero) e portano il blues alle masse e ai giovani che di Johnson forse ne conoscono tanti ma nessuno di nome Robert.
3, 2, 1, 0...1, 0. Attacca Cyborg Boogie. E' un blues primordiale il loro. Pecussivo e senza troppi abbellimenti. Blues da strada. Polveroso come i bordi di una vecchia strada di Menphis o metropolitano, alienante e solitario come può essere la sporca periferia di una città.
Alieni sbarcati alla Chess Records, alla scoperta dei terrestri in Human Face e 2110 (il loro anno d'arrivo) e camaleontici, quando da sotto le loro maschere sembrano uscire lunghi e arruffati peli zz topiani, Highway Men. Il tacco dello stivaletto continua a tenere il tempo, il corpo si libera e parte Dancy, in puro stile Black Keys. Blues buono da ballare.
Abbandonate i vostri elettrodi da saldatore, suonate il campanello e salite al 20th Floor,un cyborg blues vi travolgerà appena aprirete la porta.
No!no!no! è pesante attacco al precario presente ed esortazione a salvarsi finchè si è in tempo mentre il rag time di Bag Time è puro esercizio pianistico che riporta agli anni trenta e smorza i toni.
Allontanatevi dagli incroci, ormai scomparsi delle grandi metropoli. Andate in campagna, cercate un crossroad disperso e solitario. Accampatevi lì come un hobo e aspettate. Prima o poi arriveranno The Cyborgs, direttamente dal 2110, vi rapiranno e vi riporteranno alle origini del blues, forse in quella stanza di hotel dove la chitarra non è più appoggiata al muro ed il pc è ora spento. Non c'è nessun bisogno di fare patti con il diavolo. Dovete farli con loro, ora.
INTERVISTA
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sabato 5 novembre 2011
RECENSIONE: BILLY JOEL (Piano Man-Legacy Edition)
BILLY JOEL Piano Man-Legacy Edition ( Columbia-SONY, 1973/2011)
In uscita l'8 Novembre, la Legacy Edition di Piano Man, album che proiettò Billy Joel tra i più grandi songwriters pop americani del '900. Ancora lontano dai fasti che arriveranno da lì a pochi anni, Piano Man è tra i suoi capolavori indiscussi.
Questa nuova edizione esce in 2 Cd. Il primo conterrà le dieci canzoni rimasterizzate dell'album originale, il secondo, una rara performace radiofonica eseguita nel 1972.
Anche se oramai la vita artistica di Billy Joel sembra ancorata al passato (Joel non pubblica un disco pop dal lontano 1993, anno di uscita del fortunato "River Of Dreams"), il suo nome, almeno negli States continua a circolare insistentemente grazie a tour da tutto esaurito da solo o in coppia con l'amico "piano man" sir Elton John. Il suo avvicinamento alla composizione di musica classica, che lo portò ad incidere un disco strumentale "Fantasies & Delusions" nel 2001, sembra per ora scongiurato da un timido riavvicinamento alla musica pop-rock che speriamo lo riporti ad incidere qualcosa di nuovo.
Piano Man è il secondo lavoro solista del performer newyorchese. Trattasi senza dubbio di uno dei suoi tre capolavori. Uscito nel 1973 dopo due anni di totale demotivazione verso il music business. Billy Joel, erano anni, che provava a sfondare nella musica, prima come componente di gruppi che toccavano anche l'hard, come gli Echoes, gli The Lost Souls, gli Hassles e gli Attila, poi da solista con lo sfortunato esordio "Cold Spring Harbour" uscito nel 1971, ma che venne rivalutato solo a metà carriera quando il suo nome era al top.
La delusione del mancato successo portò Joel ad abbondonare la strada delle case discografiche per tornare al suo vecchio amore , il piano bar. Inizia così a girare l'America con lo pseudonimo di Bill Martin. Intanto, continua a scrivere e dal suo piano esce quella lunga "Captain Jack" che gli valse un nuovo contratto con la Columbia e che costituirà l'asse portante di un nuovo album alle porte.
"Piano Man" vede la luce nel 1973 e può vantare almeno tre composizioni che entreranno di diritto nella scaletta dei suoi concerti negli anni a venire. La title track è senza ombra di dubbio una delle sue migliori canzoni di sempre. Joel traduce in musica con uno stupendo crescendo la vita di quel Bill Martin che solo pochi mesi prima sbarcava il lunario girando le città americane in compagnia del suo solo strumento, il pianoforte. Le atmosfere creano un gioco di immedesimazione dove l'ascoltatore può scegliere se stare dalla parte del pianista o dalla parte del pubblico seduto ai tavoli, alticcio e con l'orologio che segna le prime ore del mattino.
In questo album Joel decide di infarcire il suono di nuovi strumenti avvicinandosi di più alla tradizione americana a differenza del precedente album in cui a farla da padrone era quasi esclusivamente il suo amato piano. Compaiono così strumenti tradizionali come armonica, violini e banjo. Gli strumentisti che lo accompagnano non sono ancora la band che inizierà a collaborare dall'album "Turnstiles" (1976) in avanti.
Lo spettro sonoro di Joel si arrichisce di nuovi colori come l'iniziale invocazione al Signore di Travellin' Prayer, veloce country song guidata da un banjo indemoniato con una coda di violino da festa campestre. Country sono anche l'evocativa dedica d'amore di You're My Home con una pedal steel in sottofondo e la stupenda Stop in Nevada canzone malinconica e triste su quanto sia difficile dire addio a qualcosa di caro.
Ci sono poi due canzoni dal forte sapore gospel che anticipano di dieci anni il Billy Joel di An Innocent Man(1983), come Ain't No Crime e Worse Comes To Worst, in cui compaiono le The Creamers alle voci.
A completare il tutto, la saga western di The Ballad of Billy The Kid e le più classiche canzoni If I Only Had The Words(To Tell You) e Somewhere Along The Line che si ricollegano al debutto.
Purtroppo "Piano Man", pur essendo un signor disco, non porto' immediata popolarità a Joel che dovette aspettare altri due album per arrivare al successo mondiale che gli portò "The Stranger" (1977), ma questa e' un'altra storia...
Il secondo cd comprende un intero concerto eseguito per una stazione radio. Registrato il 15 Aprile 1972 presso il Sigma Sound Studio, WMMR a Philadelphia. Oltre ad aver eseguito brani dai due dischi fino ad allora pubblicati, tra le 23 tracce compaiono tre canzoni mai apparse prima nella sua discografia ufficiale anche se già conosciute come bootleg: il "classico mancato" Long,Long Time, lo scatenato rock'n'roll tra Chuck Berry e Jerry Lee Lewis di Josephine e la pianistica e sentimentale Rosalinda, che poco ha a che fare con Rosalinda's eyes che comparirà nel 1978 su "52nd Street".
Vorrei inoltre segnalare per i completisti la versione demo di "Piano Man" (per scoprire come è nato un piccolo capolavoro) e due canzoni del periodo mai uscite ufficialmente: "Oyster Bay" e "The Siegfried Line", contenute nel bellissimo Box "My Lives" uscito nel 2005 (4 cd e un DVD che ripercorrono la carriera di Joel con preziosi inediti) che con un piccolo sforzo potevano essere incluse anche qui.
Parti di recensione compaiono in origine nella mia recensione su Debaser:
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_27943/Billy_Joel_Piano_Man.htm
Billy Joel, vedi anche: http://enzocurelli.blogspot.com/2011/04/cover-art-1-billy-joel-glass-houses.html
In uscita l'8 Novembre, la Legacy Edition di Piano Man, album che proiettò Billy Joel tra i più grandi songwriters pop americani del '900. Ancora lontano dai fasti che arriveranno da lì a pochi anni, Piano Man è tra i suoi capolavori indiscussi.
Questa nuova edizione esce in 2 Cd. Il primo conterrà le dieci canzoni rimasterizzate dell'album originale, il secondo, una rara performace radiofonica eseguita nel 1972.
Anche se oramai la vita artistica di Billy Joel sembra ancorata al passato (Joel non pubblica un disco pop dal lontano 1993, anno di uscita del fortunato "River Of Dreams"), il suo nome, almeno negli States continua a circolare insistentemente grazie a tour da tutto esaurito da solo o in coppia con l'amico "piano man" sir Elton John. Il suo avvicinamento alla composizione di musica classica, che lo portò ad incidere un disco strumentale "Fantasies & Delusions" nel 2001, sembra per ora scongiurato da un timido riavvicinamento alla musica pop-rock che speriamo lo riporti ad incidere qualcosa di nuovo.
Piano Man è il secondo lavoro solista del performer newyorchese. Trattasi senza dubbio di uno dei suoi tre capolavori. Uscito nel 1973 dopo due anni di totale demotivazione verso il music business. Billy Joel, erano anni, che provava a sfondare nella musica, prima come componente di gruppi che toccavano anche l'hard, come gli Echoes, gli The Lost Souls, gli Hassles e gli Attila, poi da solista con lo sfortunato esordio "Cold Spring Harbour" uscito nel 1971, ma che venne rivalutato solo a metà carriera quando il suo nome era al top.
La delusione del mancato successo portò Joel ad abbondonare la strada delle case discografiche per tornare al suo vecchio amore , il piano bar. Inizia così a girare l'America con lo pseudonimo di Bill Martin. Intanto, continua a scrivere e dal suo piano esce quella lunga "Captain Jack" che gli valse un nuovo contratto con la Columbia e che costituirà l'asse portante di un nuovo album alle porte.
"Piano Man" vede la luce nel 1973 e può vantare almeno tre composizioni che entreranno di diritto nella scaletta dei suoi concerti negli anni a venire. La title track è senza ombra di dubbio una delle sue migliori canzoni di sempre. Joel traduce in musica con uno stupendo crescendo la vita di quel Bill Martin che solo pochi mesi prima sbarcava il lunario girando le città americane in compagnia del suo solo strumento, il pianoforte. Le atmosfere creano un gioco di immedesimazione dove l'ascoltatore può scegliere se stare dalla parte del pianista o dalla parte del pubblico seduto ai tavoli, alticcio e con l'orologio che segna le prime ore del mattino.
In questo album Joel decide di infarcire il suono di nuovi strumenti avvicinandosi di più alla tradizione americana a differenza del precedente album in cui a farla da padrone era quasi esclusivamente il suo amato piano. Compaiono così strumenti tradizionali come armonica, violini e banjo. Gli strumentisti che lo accompagnano non sono ancora la band che inizierà a collaborare dall'album "Turnstiles" (1976) in avanti.
Lo spettro sonoro di Joel si arrichisce di nuovi colori come l'iniziale invocazione al Signore di Travellin' Prayer, veloce country song guidata da un banjo indemoniato con una coda di violino da festa campestre. Country sono anche l'evocativa dedica d'amore di You're My Home con una pedal steel in sottofondo e la stupenda Stop in Nevada canzone malinconica e triste su quanto sia difficile dire addio a qualcosa di caro.
Ci sono poi due canzoni dal forte sapore gospel che anticipano di dieci anni il Billy Joel di An Innocent Man(1983), come Ain't No Crime e Worse Comes To Worst, in cui compaiono le The Creamers alle voci.
A completare il tutto, la saga western di The Ballad of Billy The Kid e le più classiche canzoni If I Only Had The Words(To Tell You) e Somewhere Along The Line che si ricollegano al debutto.
Purtroppo "Piano Man", pur essendo un signor disco, non porto' immediata popolarità a Joel che dovette aspettare altri due album per arrivare al successo mondiale che gli portò "The Stranger" (1977), ma questa e' un'altra storia...
Il secondo cd comprende un intero concerto eseguito per una stazione radio. Registrato il 15 Aprile 1972 presso il Sigma Sound Studio, WMMR a Philadelphia. Oltre ad aver eseguito brani dai due dischi fino ad allora pubblicati, tra le 23 tracce compaiono tre canzoni mai apparse prima nella sua discografia ufficiale anche se già conosciute come bootleg: il "classico mancato" Long,Long Time, lo scatenato rock'n'roll tra Chuck Berry e Jerry Lee Lewis di Josephine e la pianistica e sentimentale Rosalinda, che poco ha a che fare con Rosalinda's eyes che comparirà nel 1978 su "52nd Street".
Vorrei inoltre segnalare per i completisti la versione demo di "Piano Man" (per scoprire come è nato un piccolo capolavoro) e due canzoni del periodo mai uscite ufficialmente: "Oyster Bay" e "The Siegfried Line", contenute nel bellissimo Box "My Lives" uscito nel 2005 (4 cd e un DVD che ripercorrono la carriera di Joel con preziosi inediti) che con un piccolo sforzo potevano essere incluse anche qui.
Parti di recensione compaiono in origine nella mia recensione su Debaser:
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_27943/Billy_Joel_Piano_Man.htm
Billy Joel, vedi anche: http://enzocurelli.blogspot.com/2011/04/cover-art-1-billy-joel-glass-houses.html
giovedì 3 novembre 2011
RECENSIONE: MEGADETH ( Th1rt3en)
MEGADETH Th1rt3en ( Roadrunner Records , 2011)
Mentre gli amici/nemici Metallica continuano a fare passi più lunghi della gamba alla ricerca di suoni nuovi, rischiose collaborazioni e identità musicali sconosciute per poi ritrovarsi su un palco a riproporre i vecchi classici degli anni ottanta; i Megadeth del rosso scontroso ed ex attaccabrighe Dave Mustaine hanno lasciato alle spalle, già da alcuni anni, i poco riusciti esperimenti di svecchiamento(Risk e World needs a a Hero) e con Th1rt3en portano a compimento il riassetto iniziato da The System has Failed e passato attraverso gli ultimi due album United Abominations e il convincente e più riuscito Endgame. Il colpo sembra, nuovamente, ben assestato, anche abbandonando gli ipertecnicismi che abbondavano nelle ultime composizioni a favore di una forma canzone che sembra riportare i Megadeth indietro ai tempi di Countdown to Extiction senza eguagliare nulla di quel passato, è bene sottolinearlo per spegnere in anticipo eventuali paragoni e utopiche speranze. Parte di merito va soprattutto al ritorno all'ovile dello storico bassista Dave Ellefson che come minimo sembra ridare stabilità alla line up di una band che era diventata sempre più la creatura in solitaria di Mustaine.
Un album assemblato per chiudere il contratto con la Roadrunner Records ma che sebbene contenga alcune tracce già apparse precedentemente e quindi corre il rischio di essere una mera raccolta costruita in fretta e furia per doveri contrattuali, risulta funzionare ed essere di piacevole ascolto. Visto i tempi che corrono, è già qualcosa. Registrato a San Marcos (California) con il produttore Johnny K, Th3rt3en racchiude nelle sue 13 tracce gran parte dei pregi della band e naturalmente qualche difetto.
Il classico inizio di Sudden Death(già scritta per il videogioco"guitar Hero") cita il passato di Into the lungs of Hell e il conto alla rovescia per l'estinzione della terra, tema caro al rosso crinito. Le chitarre di Mustaine e Chris Broderick, invero sempre troppo virtuoso il suo stile, duellano lungo tutta la traccia.
Public Enemy no 1 è quella canzone cadenzata, smaccatamente heavy e groove che mancava ai Megadeth da parecchio tempo, anche se il testo non brilla certamente per ispirazione. Una cavalcata quasi maideniana dal retrogusto melodico che fa il paio con la successiva Whose Life(Is it anyways?) che si scaglia contro la falsa ipocrisia di chi giudica senza appello.
Politica, religione e guerra, sempre presenti nei testi della band abbondano in We the peolpe, nei tamburi di guerra che introducono la veloce Never Dead o nella bizzarra costruzione di New World Order(già edita) piena di assoli, cori e arpeggi melodici con una coda speed thrash assassina.
Thrash, Messico e nuvole in Guns, Drugs & money che denuncia la sempre attuale e difficile situazione del confine Messico-States e ricorda il flavour di tracce polverose ed on the road come The killing Road e Moto Psycho. Anche se tutto già sentito e metabolizzato.
Meno convincenti alcuni episodi thrash dall'impostazione quasi rock'n'roll come Fast Lane e Black swan( già edita) o la ballad Millenium of the blind (anch'essa già in circolazione come b-side) che purtroppo cade spesso nel deja vù del già sentito e non riesce ad accendere i sentimenti come proposto.
Rocciosi mid tempo sono Wrecker con i suoi buoni assoli e Deadly Nightsade, forse la miglior track del lavoro con il suo incedere sinistro che si lega ai migliori episodi dei primi anni novanta.
La finale 13 è una semi-ballad convincente con parti arpeggiate e riff mid-tempo, con un Mustaine che offre una buona prova vocale(timbro roco e beffardo riconoscibilissimo) che cerca di sfatare le leggende attorno al numero 13. Mustaine ha candidamente rivelato di essere attratto da questo numero , presente assiduamente nella sua vita: essendo l'età in cui ha ricevuto la sua prima chitarra, nonchè la sua data di nascita e naturalmente essere questo il tredicesimo album della band che non poteva che contenere tredici tracce. Contento lui.
Th1r3en è un disco spartiacque che ci riconsegna i Megadeth in una formazione, finalmente stabile( anche se lontanissima dagli antichi fasti del trittico Rust in Peace/Countdown to extinction/Youthanasia e con Shawn Drover alla batteria che non è certamente Nick Menza) e pronta a giocarsi le sue carte con rinnovato vigore. Il 13 porterà veramente fortuna solo a loro?
Ho sempre nutrito una certa simpatia per Dave Mustaine e i suoi Megadeth, sarà stata la sua continua lotta con chi all'epoca lo estromise da una band che diventò quello che è. Sarà stata la sua forza nel mettere subito in piedi un gruppo avvalendosi solamente delle sue capacità da despota ed aver continuato a fare con alti e bassi la sua musica da eterno secondo. Fatto sta che 24 anni dopo, i suoi ex compagni di viaggio boccheggiano attaccati alle parole di Lou Reed facendo uscire deliranti proclami del tipo:"Lulu" il miglior disco della storia del rock!, mentre lui si attacca al numero 13! L'antipatico Mustaine mi è sempre più simpatico. VOTO 7,5
Mentre gli amici/nemici Metallica continuano a fare passi più lunghi della gamba alla ricerca di suoni nuovi, rischiose collaborazioni e identità musicali sconosciute per poi ritrovarsi su un palco a riproporre i vecchi classici degli anni ottanta; i Megadeth del rosso scontroso ed ex attaccabrighe Dave Mustaine hanno lasciato alle spalle, già da alcuni anni, i poco riusciti esperimenti di svecchiamento(Risk e World needs a a Hero) e con Th1rt3en portano a compimento il riassetto iniziato da The System has Failed e passato attraverso gli ultimi due album United Abominations e il convincente e più riuscito Endgame. Il colpo sembra, nuovamente, ben assestato, anche abbandonando gli ipertecnicismi che abbondavano nelle ultime composizioni a favore di una forma canzone che sembra riportare i Megadeth indietro ai tempi di Countdown to Extiction senza eguagliare nulla di quel passato, è bene sottolinearlo per spegnere in anticipo eventuali paragoni e utopiche speranze. Parte di merito va soprattutto al ritorno all'ovile dello storico bassista Dave Ellefson che come minimo sembra ridare stabilità alla line up di una band che era diventata sempre più la creatura in solitaria di Mustaine.
Un album assemblato per chiudere il contratto con la Roadrunner Records ma che sebbene contenga alcune tracce già apparse precedentemente e quindi corre il rischio di essere una mera raccolta costruita in fretta e furia per doveri contrattuali, risulta funzionare ed essere di piacevole ascolto. Visto i tempi che corrono, è già qualcosa. Registrato a San Marcos (California) con il produttore Johnny K, Th3rt3en racchiude nelle sue 13 tracce gran parte dei pregi della band e naturalmente qualche difetto.
Il classico inizio di Sudden Death(già scritta per il videogioco"guitar Hero") cita il passato di Into the lungs of Hell e il conto alla rovescia per l'estinzione della terra, tema caro al rosso crinito. Le chitarre di Mustaine e Chris Broderick, invero sempre troppo virtuoso il suo stile, duellano lungo tutta la traccia.
Public Enemy no 1 è quella canzone cadenzata, smaccatamente heavy e groove che mancava ai Megadeth da parecchio tempo, anche se il testo non brilla certamente per ispirazione. Una cavalcata quasi maideniana dal retrogusto melodico che fa il paio con la successiva Whose Life(Is it anyways?) che si scaglia contro la falsa ipocrisia di chi giudica senza appello.
Politica, religione e guerra, sempre presenti nei testi della band abbondano in We the peolpe, nei tamburi di guerra che introducono la veloce Never Dead o nella bizzarra costruzione di New World Order(già edita) piena di assoli, cori e arpeggi melodici con una coda speed thrash assassina.
Thrash, Messico e nuvole in Guns, Drugs & money che denuncia la sempre attuale e difficile situazione del confine Messico-States e ricorda il flavour di tracce polverose ed on the road come The killing Road e Moto Psycho. Anche se tutto già sentito e metabolizzato.
Meno convincenti alcuni episodi thrash dall'impostazione quasi rock'n'roll come Fast Lane e Black swan( già edita) o la ballad Millenium of the blind (anch'essa già in circolazione come b-side) che purtroppo cade spesso nel deja vù del già sentito e non riesce ad accendere i sentimenti come proposto.
Rocciosi mid tempo sono Wrecker con i suoi buoni assoli e Deadly Nightsade, forse la miglior track del lavoro con il suo incedere sinistro che si lega ai migliori episodi dei primi anni novanta.
La finale 13 è una semi-ballad convincente con parti arpeggiate e riff mid-tempo, con un Mustaine che offre una buona prova vocale(timbro roco e beffardo riconoscibilissimo) che cerca di sfatare le leggende attorno al numero 13. Mustaine ha candidamente rivelato di essere attratto da questo numero , presente assiduamente nella sua vita: essendo l'età in cui ha ricevuto la sua prima chitarra, nonchè la sua data di nascita e naturalmente essere questo il tredicesimo album della band che non poteva che contenere tredici tracce. Contento lui.
Th1r3en è un disco spartiacque che ci riconsegna i Megadeth in una formazione, finalmente stabile( anche se lontanissima dagli antichi fasti del trittico Rust in Peace/Countdown to extinction/Youthanasia e con Shawn Drover alla batteria che non è certamente Nick Menza) e pronta a giocarsi le sue carte con rinnovato vigore. Il 13 porterà veramente fortuna solo a loro?
Ho sempre nutrito una certa simpatia per Dave Mustaine e i suoi Megadeth, sarà stata la sua continua lotta con chi all'epoca lo estromise da una band che diventò quello che è. Sarà stata la sua forza nel mettere subito in piedi un gruppo avvalendosi solamente delle sue capacità da despota ed aver continuato a fare con alti e bassi la sua musica da eterno secondo. Fatto sta che 24 anni dopo, i suoi ex compagni di viaggio boccheggiano attaccati alle parole di Lou Reed facendo uscire deliranti proclami del tipo:"Lulu" il miglior disco della storia del rock!, mentre lui si attacca al numero 13! L'antipatico Mustaine mi è sempre più simpatico. VOTO 7,5
lunedì 31 ottobre 2011
INTERVISTA a LUIGI MAIERON
...Il ritorno a sonorità radicali e senza paure, suoni che non hanno vergogna di sottrarsi a vicenda e di arricchire le storie cantate con la loro presenza selvatica e solitaria. Raramente ho incontrato persone che dopo una lunga carriera attraverso i suoni e le cose da dire, hanno mantenuto quella determinazione, quella gentilezza nei confronti dell'arte... (Davide Van De Sfroos)
Intervista a Luigi Maieron, autore quest'anno di "Vino Tabacco e Cielo" un disco fatto di antiche e sincere tradizioni confermate dalle sue parole...tutto da scoprire.
Una piccola autopresentazione per chi non conosce Luigi Maieron?Sono nato e vivo in Carnia, nell’alto Friuli. Abito in un paese di 200 anime, quanto un palazzo di una qualsiasi città. Ho il privilegio di essere circondato e protetto da montagne stupende e di poter assistere giorno per giorno al procedere di ogni stagione. Ho incominciato a suonare giovanissimo. Un amico di mia madre mi ha regalato una chitarra, in casa mia tutti erano musicanti; così a 11 anni ho debuttato con mio nonno Pio, mitico suonatore di contrabbasso e mia madre Cecilia, straordinaria suonatrice di fisarmonica. Le fumose osterie di Carnia sono state la mia palestra nel bene e nel male.
Molte tue canzoni parlano di antiche tradizioni (La cidule, Done Mari (tradizionale), Trei Puemas) e storie della Carnia. Qual'è e come funziona il tuo lavoro di recupero di arcaiche storie?Credo nella tradizione utile, così come nelle parole utili. Le tradizioni sono un riassunto popolare è un depositato che la gente lascia generazione dopo generazione. Oggi si rischia di cogliere solo l’aspetto folkloristico in quanto non sempre si tende a considerare l’utilità del passato, ma molte tradizioni contengono aspetti molto utili per decifrare il mondo di oggi. Gli esempi che hai fatto descrivono in La Cidule la speranza di una ragazza che non si concretizza e che le fa pensare di non piacere a nessuno, ma poi riaccende la speranza e decide di aspettare fino all’indomani. Done mari svela un mondo al femminile dominato dalle regole da seguire nel sacrificio. Trei puemas parla del passaggio dalla adolescenza al mondo adulto, con la voglia di correre incontro alla vita attente ai passi da fare.
Il lavoro di recupero tiene conto della utilità del tema, da argomenti che hanno al centro le persone e che appartengono a tutti i tempi. Il loro viaggio è il nostro, delle nostre famiglie, delle nostre comunità.
Con quale criterio scegli le canzoni da cantare in dialetto e quelle in italiano?...e cosa ti ha portato ad incidere un disco più "suonato" rispetto ai precedenti?Ci sono temi che meglio si adattano al dialetto o ad una lingua locale come nel caso del friulano, altri temi invece che meglio si adattano all’italiano. Ci sono espressioni e storie che hanno una forza insostituibile in dialetto perché sono figlie di quel territorio, di quella mentalità. E’ impossibile rappresentare certi temi se non vestendoli con il suono di quel posto. Ti faccio un esempio concreto: certi nomi di persone che pronunci in dialetto non sembrano appartenere alle stesse persone se tradotte in italiano. Quella persona è diventato quel suono ed è rappresentato solo così.
Sento che il cantautorato tradizionale segna un poco il passo ma le parole utili non sempre possono essere usate con leggerezza, così ho lasciato alla musica questa facoltà di alleggerimento… insomma scendere in profondità correndo in superficie.
In Vino, Tabacco e Cielo (la canzone) parli del rapporto tra un bambino ed una figura "guida" adulta. Quanto c'è di autobiografico e quali sono i valori che ogni bambino dovrebbe perseguire per crescere in questo mondo?Si è vero parlo del rapporto tra un bambino ed una figura “guida”. Questi può essere un parente un nonno, un padre ecc. oppure una figura mitica che ha inciso nella nostra formazione. Io sono cresciuto senza papà, Cecilia mia madre mi ha avuto a soli sedici anni da un uomo venuto da fuori e poi ritornato al suo paese. Questo tema mi ha tormentato per tutta la vita. Mi sono attaccato a mio nonno ma mi serviva un vero padre. Questa canzone è da tanto che girava nei miei sentimenti. Ho pensato di raccontare quanto è importante per un ragazzo avere un padre che lo tenga d’occhio.
Per un ragazzo è importante avere i riferimenti e sentirsi amato, con questi elementi si riesce a crescere.
In Cramar-Marochin e Arjentina, affronti in modo diverso lo stesso tema, sempre di attualità, come l'emigrazione. Come ti poni di fronte a quello che una volta era considerata "ricerca della dignità" e ora sembra essere ridotta solo ad un problema.C’è una frase in Cramar-marochin che dice… “ma cosa stiamo a discutere… tanto si muore comunque… si ma per il momento bisogna vivere” è la conclusione. La sopravvivenza è un diritto irrinunciabile, la ricerca di un lavoro è un diritto essenziale e non importa di che colore sei il diritto vale per tutti. Padre Maria Turoldo ci ha lasciato una lezione preziosa con il suo film “Gli ultimi”. In Argjentina ho raccontato la nostra emigrazione e il danno che questa ha comportato in ogni famiglia di Carnia e Friuli. Da noi il trenta per cento di emigranti ha significato una persona per famiglia, quasi sempre il capofamiglia, con una sottrazione di affetti notevole e con la conseguenza di una eredità lasciata ai figli di “status” da orfani. C’è un filo che ci lega e che non va spezzato.
I fantasmi di pietra ti è stata ispirata da un racconto di Mauro Corona. Quali sono i tuoi ricordi personali legati a questa grande tragedia (il Vajont) e cosa è rimasto nella tua generazione e quella di Corona e cosa nelle varie generazioni che sono succedute? Noti dei cambiamenti o è rimasto tutto radicato nelle persone?
Ricordo che dopo poco tempo dalla disgrazia, (avevo 8 anni) assieme ai miei compagni di elementari siamo andati a visitare i posti accompagnati dal nostro parroco, don Isola. All’epoca abbiamo vissuto l’esperienza come una sorta di gita. Non eravamo in grado di capire la gravità dell’evento. Ricordo una stanza rimasta a metà, e dei sanitari di un bagno nuovi che mi sembrarono una rarità, solo l’anno dopo infatti li mettemmo a casa nostra. Crescendo invece quell'immagine ha svelato i suoi reali contorni. Chi è del posto non ha rimarginato del tutto la ferita, è ancora tutto lì, cucito nelle anime delle persone. Ma tutti ce lo portiamo addosso perché ha significato il tradimento di un sistema nei confronti delle persone. Una ottusa insistenza a scapito di tante vite spezzate, di tanti sogni rimasti in sospeso nelle case, i fantasmi di pietra rimasti.
Come hai conosciuto Davide Van De Sfroos?Mi piace molto il lavoro di Davide, è un autore disincantato che vede le cose con occhio lucido e sa raccontare le persone come pochi: la sue parole arrivano in profondità. Degli amici in comune ci hanno messo in contatto e lui mi ha invitato a qualche suo concerto.
Quest'anno Davide ha partecipato a Sanremo. Cosa pensi di questa manifestazione e se ti presentasse l'occasione, ci andresti?Per quanto riguarda Sanremo, credo di aver qualche anno di troppo per questa manifestazione e poi non so come farebbero a farci entrare questo tipo di canzoni. La vedo dura.
Questa faccia mi ha ricordato molto Johnny Cash, mentre Filo spinato, De Andrè. Quanto i grandi songwriters americani e italiani influenzano la tua musica e quali sono i tuoi preferiti?Su Questa faccia la pensi come Davide Van de Sfroos, anche lui mi ha detto la stessa cosa. Filo spinato parla di una guerra di oggi, dove il soldato lo fa come lavoro. E’ solo una missione di pace ed invece…
Non ci crederai ma io ascolto poca musica. Certo Tom Waits, Bob Dylan, Nick Drake, Johnny Cash, Fabrizio De Andrè sono sicuramente riferimenti e probabilmente qualcosa di loro mi è rimasta appiccicata addosso, ma vorrei procedere con il vecchio adagio di Waits, meglio un insuccesso alle mie condizioni che un successo alle condizioni degli altri.
Il legame con la tua terra è forte e radicato. Dovessi fare un piccolo spot pubblicitario per la Carnia e il Friuli in generale come lo faresti?La mia è una terra di confine e di passaggio. E’ un luogo selvaggio, aspro, duro dove la gente non ha mai avuto una vita comoda. E’ fatta di tanti piccoli paesi alcuni quasi completamente disabitati ma il contatto con la natura è talmente forte e presente che non ti fa mai volare, ti tiene sempre ben ancorato a terra e pretende da te sempre una giusta umiltà. E’ un posto vero ed i posti veri vanno visitati.
Prossimi impegni...?In novembre o ai primi di dicembre presento il cd in terra di Carnia, poi il 18 dicembre ho un concerto insieme a Mauro Corona e Toni Capuozzo, forse il 30 dicembre sarò a Spilimbergo e il 28 gennaio a spazio musica a Parma. Voglio procedere con il passo del montanaro, scarponi ai piedi e un passo alla volta.
RECENSIONE di "Vino Tabacco e Cielo":
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/10/recensione-luigi-maieron-vino-tabacco-e.html
Intervista a Luigi Maieron, autore quest'anno di "Vino Tabacco e Cielo" un disco fatto di antiche e sincere tradizioni confermate dalle sue parole...tutto da scoprire.
Una piccola autopresentazione per chi non conosce Luigi Maieron?Sono nato e vivo in Carnia, nell’alto Friuli. Abito in un paese di 200 anime, quanto un palazzo di una qualsiasi città. Ho il privilegio di essere circondato e protetto da montagne stupende e di poter assistere giorno per giorno al procedere di ogni stagione. Ho incominciato a suonare giovanissimo. Un amico di mia madre mi ha regalato una chitarra, in casa mia tutti erano musicanti; così a 11 anni ho debuttato con mio nonno Pio, mitico suonatore di contrabbasso e mia madre Cecilia, straordinaria suonatrice di fisarmonica. Le fumose osterie di Carnia sono state la mia palestra nel bene e nel male.
Molte tue canzoni parlano di antiche tradizioni (La cidule, Done Mari (tradizionale), Trei Puemas) e storie della Carnia. Qual'è e come funziona il tuo lavoro di recupero di arcaiche storie?Credo nella tradizione utile, così come nelle parole utili. Le tradizioni sono un riassunto popolare è un depositato che la gente lascia generazione dopo generazione. Oggi si rischia di cogliere solo l’aspetto folkloristico in quanto non sempre si tende a considerare l’utilità del passato, ma molte tradizioni contengono aspetti molto utili per decifrare il mondo di oggi. Gli esempi che hai fatto descrivono in La Cidule la speranza di una ragazza che non si concretizza e che le fa pensare di non piacere a nessuno, ma poi riaccende la speranza e decide di aspettare fino all’indomani. Done mari svela un mondo al femminile dominato dalle regole da seguire nel sacrificio. Trei puemas parla del passaggio dalla adolescenza al mondo adulto, con la voglia di correre incontro alla vita attente ai passi da fare.
Il lavoro di recupero tiene conto della utilità del tema, da argomenti che hanno al centro le persone e che appartengono a tutti i tempi. Il loro viaggio è il nostro, delle nostre famiglie, delle nostre comunità.
Con quale criterio scegli le canzoni da cantare in dialetto e quelle in italiano?...e cosa ti ha portato ad incidere un disco più "suonato" rispetto ai precedenti?Ci sono temi che meglio si adattano al dialetto o ad una lingua locale come nel caso del friulano, altri temi invece che meglio si adattano all’italiano. Ci sono espressioni e storie che hanno una forza insostituibile in dialetto perché sono figlie di quel territorio, di quella mentalità. E’ impossibile rappresentare certi temi se non vestendoli con il suono di quel posto. Ti faccio un esempio concreto: certi nomi di persone che pronunci in dialetto non sembrano appartenere alle stesse persone se tradotte in italiano. Quella persona è diventato quel suono ed è rappresentato solo così.
Sento che il cantautorato tradizionale segna un poco il passo ma le parole utili non sempre possono essere usate con leggerezza, così ho lasciato alla musica questa facoltà di alleggerimento… insomma scendere in profondità correndo in superficie.
In Vino, Tabacco e Cielo (la canzone) parli del rapporto tra un bambino ed una figura "guida" adulta. Quanto c'è di autobiografico e quali sono i valori che ogni bambino dovrebbe perseguire per crescere in questo mondo?Si è vero parlo del rapporto tra un bambino ed una figura “guida”. Questi può essere un parente un nonno, un padre ecc. oppure una figura mitica che ha inciso nella nostra formazione. Io sono cresciuto senza papà, Cecilia mia madre mi ha avuto a soli sedici anni da un uomo venuto da fuori e poi ritornato al suo paese. Questo tema mi ha tormentato per tutta la vita. Mi sono attaccato a mio nonno ma mi serviva un vero padre. Questa canzone è da tanto che girava nei miei sentimenti. Ho pensato di raccontare quanto è importante per un ragazzo avere un padre che lo tenga d’occhio.
Per un ragazzo è importante avere i riferimenti e sentirsi amato, con questi elementi si riesce a crescere.
In Cramar-Marochin e Arjentina, affronti in modo diverso lo stesso tema, sempre di attualità, come l'emigrazione. Come ti poni di fronte a quello che una volta era considerata "ricerca della dignità" e ora sembra essere ridotta solo ad un problema.C’è una frase in Cramar-marochin che dice… “ma cosa stiamo a discutere… tanto si muore comunque… si ma per il momento bisogna vivere” è la conclusione. La sopravvivenza è un diritto irrinunciabile, la ricerca di un lavoro è un diritto essenziale e non importa di che colore sei il diritto vale per tutti. Padre Maria Turoldo ci ha lasciato una lezione preziosa con il suo film “Gli ultimi”. In Argjentina ho raccontato la nostra emigrazione e il danno che questa ha comportato in ogni famiglia di Carnia e Friuli. Da noi il trenta per cento di emigranti ha significato una persona per famiglia, quasi sempre il capofamiglia, con una sottrazione di affetti notevole e con la conseguenza di una eredità lasciata ai figli di “status” da orfani. C’è un filo che ci lega e che non va spezzato.
I fantasmi di pietra ti è stata ispirata da un racconto di Mauro Corona. Quali sono i tuoi ricordi personali legati a questa grande tragedia (il Vajont) e cosa è rimasto nella tua generazione e quella di Corona e cosa nelle varie generazioni che sono succedute? Noti dei cambiamenti o è rimasto tutto radicato nelle persone?
Ricordo che dopo poco tempo dalla disgrazia, (avevo 8 anni) assieme ai miei compagni di elementari siamo andati a visitare i posti accompagnati dal nostro parroco, don Isola. All’epoca abbiamo vissuto l’esperienza come una sorta di gita. Non eravamo in grado di capire la gravità dell’evento. Ricordo una stanza rimasta a metà, e dei sanitari di un bagno nuovi che mi sembrarono una rarità, solo l’anno dopo infatti li mettemmo a casa nostra. Crescendo invece quell'immagine ha svelato i suoi reali contorni. Chi è del posto non ha rimarginato del tutto la ferita, è ancora tutto lì, cucito nelle anime delle persone. Ma tutti ce lo portiamo addosso perché ha significato il tradimento di un sistema nei confronti delle persone. Una ottusa insistenza a scapito di tante vite spezzate, di tanti sogni rimasti in sospeso nelle case, i fantasmi di pietra rimasti.
Come hai conosciuto Davide Van De Sfroos?Mi piace molto il lavoro di Davide, è un autore disincantato che vede le cose con occhio lucido e sa raccontare le persone come pochi: la sue parole arrivano in profondità. Degli amici in comune ci hanno messo in contatto e lui mi ha invitato a qualche suo concerto.
Quest'anno Davide ha partecipato a Sanremo. Cosa pensi di questa manifestazione e se ti presentasse l'occasione, ci andresti?Per quanto riguarda Sanremo, credo di aver qualche anno di troppo per questa manifestazione e poi non so come farebbero a farci entrare questo tipo di canzoni. La vedo dura.
Questa faccia mi ha ricordato molto Johnny Cash, mentre Filo spinato, De Andrè. Quanto i grandi songwriters americani e italiani influenzano la tua musica e quali sono i tuoi preferiti?Su Questa faccia la pensi come Davide Van de Sfroos, anche lui mi ha detto la stessa cosa. Filo spinato parla di una guerra di oggi, dove il soldato lo fa come lavoro. E’ solo una missione di pace ed invece…
Non ci crederai ma io ascolto poca musica. Certo Tom Waits, Bob Dylan, Nick Drake, Johnny Cash, Fabrizio De Andrè sono sicuramente riferimenti e probabilmente qualcosa di loro mi è rimasta appiccicata addosso, ma vorrei procedere con il vecchio adagio di Waits, meglio un insuccesso alle mie condizioni che un successo alle condizioni degli altri.
Il legame con la tua terra è forte e radicato. Dovessi fare un piccolo spot pubblicitario per la Carnia e il Friuli in generale come lo faresti?La mia è una terra di confine e di passaggio. E’ un luogo selvaggio, aspro, duro dove la gente non ha mai avuto una vita comoda. E’ fatta di tanti piccoli paesi alcuni quasi completamente disabitati ma il contatto con la natura è talmente forte e presente che non ti fa mai volare, ti tiene sempre ben ancorato a terra e pretende da te sempre una giusta umiltà. E’ un posto vero ed i posti veri vanno visitati.
Prossimi impegni...?In novembre o ai primi di dicembre presento il cd in terra di Carnia, poi il 18 dicembre ho un concerto insieme a Mauro Corona e Toni Capuozzo, forse il 30 dicembre sarò a Spilimbergo e il 28 gennaio a spazio musica a Parma. Voglio procedere con il passo del montanaro, scarponi ai piedi e un passo alla volta.
RECENSIONE di "Vino Tabacco e Cielo":
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/10/recensione-luigi-maieron-vino-tabacco-e.html
giovedì 27 ottobre 2011
RECENSIONE: FRANCESCO DE GREGORI Live@Hiroshima Mon Amour, TORINO, 26 Ottobre 2011
“Voglio andare in giro in quei posti dove passa la musica più viva, dove c’è un pubblico speciale, non addomesticato. Dopo tanti teatri, dopo un bagno di velluti rossi, sento il bisogno di una dimensione più ‘disordinata’.”
Con queste parole, Francesco De Gregori lanciò il tour autunnale che continua, a suo modo, a seguire l'esempio del suo "faro" Dylan. Un never ending tour che, a partire dagli anni novanta , ha innalzato il momento live come vera e propria istantanea artistica degli anni che passano e dello stato di salute dell'autore. Campo di battaglia dove è libero di ripercorrere la propria storia in modo aperto, lasciando fluire l'improvvisazione e i bizzarri arrangiamenti come ingredienti che tengono in vita le canzoni. Un "work in progress" che non è solamente il titolo dell'ultima fortunata e commemorativa tournèe con Lucio Dalla ma uno status di lavoro che De Gregori segue da molti anni ormai, testimoniato ed impresso sui numerosi dischi live usciti negli ultimi quindici anni.
Conscio di filtrare attraverso i media per un personaggio non proprio simpaticissimo, aveva promesso divertimento a se stesso e al pubblico. Divertimento di chi a 60 anni può permettersi di tornare ad una dimensione più umana, andando a ricercare il calore, il sudore e gli occhi di chi è cresciuto ascoltando la sua musica. Così è stato.
Pubs and Clubs Tour approda nella caldissima e sold out sala dell' Hiroshima Mon Amour di Torino che questa sera potrebbe essere scambiata per un qualsiasi club di Roma degli anni settanta, quando la sua musica si intrecciava con quella degli amici Antonello Venditti e Rino Gaetano.
Il percorso a ritroso che De Gregori ha voluto far compiere con questa serie di date, funziona e fa bene alla sua musica e al personaggio. Ma non è un concerto nostalgico. Ci sono, sì i classici , ma c'è tanto del De Gregori degli anni zero, sempre pronto a stravolgere le sue canzoni, cambiarne gli arrangiamenti e divertirsi nel farlo, andando a percorrere il suo personale coast to coast lungo le strade musicali degli Stati Uniti(country, folk, blues, rockabilly).
Troviamo così una Buonanotte Fiorellino che sapora di fiesta tex-mex e con una introduzione circense presa da Rainy Day Women di Bob Dylan. Tutta una festa. Chi l'avrebbe mai detto che una delicata ninnananna potesse trasformarsi così. Oppure Rimmel che parte in acustico con l'ukulele suonato dal bravo Paolo Giovenchi per poi trasformarsi in una solare versione Reggae che non avrebbe sfigurato sul live At Budokan di Dylan.
Complice una band con i fiocchi. A partire dal vecchio compagno Guido Guglielminetti al basso, passando per le chitarre di un altro veterano come Lucio Bardi (anche al violino in un divertente duello tra archi), Paolo Giovenchi, Alessandro
Valle , anche alle pedal steel e poi la batteria di Stefano Parenti, le tastiere del giovane Alessandro Arianti e il violino della bella e brava Elena Cirillo, anche ai cori. Piacevole sorpresa.
Una superband che riporta alla mente la Rolling Thunder Revue Band che accompagnò Dylan nel "giocoso" tour che seguì il fortunato Desire del 1976. Nuovamente Dylan, non un caso. Come non è un caso che De Gregori chieda di ringraziare "il vecchio Bob" dopo l'esecuzione di Non dirle che non è così, ossia la versione italiana di If you see her say hello(titolo che si è prestato per un piccolo sketch sulla pronuncia inglese), scelta dallo stesso Dylan ed inserita nella soundtrack di Masked and Anonymous.
Ma non c'è solo Dylan nella musica di De Gregori. De Gregori, sotto il cappello e gli occhiali, è in gran forma e lo si capisce subito quando attacca con una Generale che è tornata in apertura come nel lontano disco omonimo del 1978 in cui era contenuta, ad indicare il ritorno a casa del soldato che riassapora gli odori familiari, così come questa serata e questo tour rappresentano anche il ritorno a casa di De Gregori e il suo riappropriarsi del pubblico.
Un pubblico transgenerazionale, partecipe e rumoroso quando serve e assorto e concentrato quando c'è da ascoltare la fuga d'amore de La donna Cannone che continua a mettere i brividi, nonostante la si è ascoltata milioni e milioni di volte, oppure seguire il "principe" che si posiziona al piano per interpretare Sempre e per Sempre e La Storia, con tutta la band che gli si fa attorno. Nessuno si senta escluso. In periodi come questo serve unità. Più del solito.
Il locale è saturo di calore e la camicia sudata di De Gregori che si intravede da sotto la giacca fa da buon termometro.
Tese, tirate e rock sono la bellissima Il panorama di Betlemme, visioni dylaniane tra guerra e fede, Tempo Reale, Vai in Africa, Celestino! e L'Agnello di Dio.
Tra una sorprendente versione di Titanic impreziosita dal violino della Cirillo, la sempre immancabile e cantata da tutti Alice e le più recenti Gambadilegno a Parigi e la quieta La Casa(presa dal recente e dimenticato Calypsos), si arriva ai primi bis: Bellamore, Battere e Levare e la sempre godereccia Sotto le stelle del Messico a trapanar.Gran finale con una inaspettata A chi di Fausto Leali, ripescata dopo essere apparsa nei live di molti anni fa. Una versione blues e soul con De Gregori che a fine concerto dimostra di avere ancora una gran voce e una presenza da crooner navigato ed invidiabile.
Perchè, in fondo, in Italia, a nessuno è mai riuscito di unire così bene il folk e il canto popolare italiano con il sogno americano come a De Gregori.
Se il cantautore romano dovesse continuare a questi livelli i suoi concerti in posti raccolti ed intimi, al bando...subito...palazzetti dalla pessima acustica, teatri con il pubblico immobile ed imbalsamato e stadi dispersivi. Lo vogliamo sempre qui, cheek to cheek, per vederlo e sentirlo meglio.
Poche parole durante la serata, ma i suoi gesti, la sua mimica, i sorrisi, l'affiatamento dei musicisti sono stati raccolti dal pubblico e ricambiati con affetto durante le due ore di concerto. Ben tornato a casa e grazie per aver mantenuto le promesse. Non è da tutti.
Per brevità...chiamato Artista.
SETLIST:Generale/Caldo e scuro/Vai in Africa, Celestino!/Niente da capire/Finestre rotte/Gambadilegno a Parigi/L'agnello di Dio/Non dirle che non è così/Il panorama di Betlemme/Sempre e per sempre/La storia/Tempo reale/La casa/Titanic/Alice/Buonanotte fiorellino/La donna cannone/Rimmel/Bellamore/Compagni di viaggio/Battere e levare/Sotto le stelle del Messico a trapanar/A chi
Video di RIMMEL
mercoledì 26 ottobre 2011
RECENSIONE: MOJO FILTER (Mrs. Love Revolution)
MOJO FILTER Mrs Love Revolution ( Club De Musique, 2011)
"He got muddy water, he one mojo filter", cantava qualcuno a Liverpool, "Rock'n'roll can never dies ", rispondeva qualcun altro in Canada e mai come in questi ultimi tempi , anche l'Italia mette sul piatto i suoi immortali del rock. I Mojo Filter sono una portata alcolica e appetitosa, lontana dal rock alternativo che tira tanto nella penisola, ma estremamente più vicino a quell'idea di rock che incarna il sogno americano e la sua naturale prosecuzione britannica. Fin qui le coordinate geografiche, per quelle temporali basta l'immortalità sopra citata, senza date di scadenza.
"Mrs. Love Revolution" si presenta subito con una copertina accattivante(di Ferdinando Lozza) che prosegue il discorso iniziato dalla band lombarda nel precedente Ep (The Spell), uscito l'anno scorso e che lasciava intravedere buone cose all'orizzonte. La band lombarda ha registrato e catturato la semplicità in pochi giorni , sotto la produzione di Jono Manson, musicista e produttore statunitense che recentemente abbiamo visto e sentito nella superband di Massimo Bubola , i Barnetti Bros Band.
Proprio la semplicità e il mestiere sono la forza di un disco che riporta a galla quei suoni perduti nei seventies ma che rivivono ancora durante i live sopra ad un palco, pochi fuochi d'artificio in produzione ed una essenzialità che sta alla base del rock. I Mojo Filter hanno delle solide basi e su quelle costruiscono un disco che sa essere vario, spontaneo e fresco pur non inventando nulla di nuovo.
Canzoni come semplici e vecchi distillati, tramandati dalla tradizione, ma che mantengono i sapori e i gradi necessari per guadagnare l'appellativo di "senza tempo". Dai riff rotolanti di Lick me Up, What i've Got e Ragged Companion, rock'n'roll sporchi, torridi e appiccicosi come nella miglior tradizione insegnata dagli Stones.
Just like a Soldier mischia blues e soul rimanendo a galla nel rock grazie alle chitarre di Alessandro Battistini (anche voce) e Carlo Lancini, riff portanti incisivi e assoli così come in No Comment Please che riprende dal rock blues inglese di Cream e Free.
Fiammeggiante blues The River dove si mette in mostra la voce "consumata" di Battistini e la sezione ritmica formata dal basso di Daniele Togni e la batteria di Jennifer Longo.
Un divertimento che centra l'obiettivo è Las Vegas, un veloce honk tonk country che porta direttemente nelle grandi highways degli States, dove ha preso forma.
I ritmi rallentano decisamente nella meno incisiva e soul, Liar o nella finale dagli accenni funk Water Gun, canzoni che sembrano mancare di quel qualcosa in grado di lasciare il segno ma senza scalfire più di tanto alla complessità dell'album.
Attitudine giusta e voglia di fare non mancano al quartetto lombardo, già impegnatissimi in sede live(di cui questo disco riprende il concetto on the road).Hanno già aperto per Willie Nile, Jonny Kaplan Band , North Mississippi All Stars e sicuramente questo lavoro aprirà altre nuove ed interessanti strade (anche se già battute) ma sempre piene di sorprese e naturalmente qualche insidia che sapranno evitare.
INTERVISTA
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
"He got muddy water, he one mojo filter", cantava qualcuno a Liverpool, "Rock'n'roll can never dies ", rispondeva qualcun altro in Canada e mai come in questi ultimi tempi , anche l'Italia mette sul piatto i suoi immortali del rock. I Mojo Filter sono una portata alcolica e appetitosa, lontana dal rock alternativo che tira tanto nella penisola, ma estremamente più vicino a quell'idea di rock che incarna il sogno americano e la sua naturale prosecuzione britannica. Fin qui le coordinate geografiche, per quelle temporali basta l'immortalità sopra citata, senza date di scadenza.
"Mrs. Love Revolution" si presenta subito con una copertina accattivante(di Ferdinando Lozza) che prosegue il discorso iniziato dalla band lombarda nel precedente Ep (The Spell), uscito l'anno scorso e che lasciava intravedere buone cose all'orizzonte. La band lombarda ha registrato e catturato la semplicità in pochi giorni , sotto la produzione di Jono Manson, musicista e produttore statunitense che recentemente abbiamo visto e sentito nella superband di Massimo Bubola , i Barnetti Bros Band.
Proprio la semplicità e il mestiere sono la forza di un disco che riporta a galla quei suoni perduti nei seventies ma che rivivono ancora durante i live sopra ad un palco, pochi fuochi d'artificio in produzione ed una essenzialità che sta alla base del rock. I Mojo Filter hanno delle solide basi e su quelle costruiscono un disco che sa essere vario, spontaneo e fresco pur non inventando nulla di nuovo.
Canzoni come semplici e vecchi distillati, tramandati dalla tradizione, ma che mantengono i sapori e i gradi necessari per guadagnare l'appellativo di "senza tempo". Dai riff rotolanti di Lick me Up, What i've Got e Ragged Companion, rock'n'roll sporchi, torridi e appiccicosi come nella miglior tradizione insegnata dagli Stones.
Just like a Soldier mischia blues e soul rimanendo a galla nel rock grazie alle chitarre di Alessandro Battistini (anche voce) e Carlo Lancini, riff portanti incisivi e assoli così come in No Comment Please che riprende dal rock blues inglese di Cream e Free.
Fiammeggiante blues The River dove si mette in mostra la voce "consumata" di Battistini e la sezione ritmica formata dal basso di Daniele Togni e la batteria di Jennifer Longo.
Un divertimento che centra l'obiettivo è Las Vegas, un veloce honk tonk country che porta direttemente nelle grandi highways degli States, dove ha preso forma.
I ritmi rallentano decisamente nella meno incisiva e soul, Liar o nella finale dagli accenni funk Water Gun, canzoni che sembrano mancare di quel qualcosa in grado di lasciare il segno ma senza scalfire più di tanto alla complessità dell'album.
Attitudine giusta e voglia di fare non mancano al quartetto lombardo, già impegnatissimi in sede live(di cui questo disco riprende il concetto on the road).Hanno già aperto per Willie Nile, Jonny Kaplan Band , North Mississippi All Stars e sicuramente questo lavoro aprirà altre nuove ed interessanti strade (anche se già battute) ma sempre piene di sorprese e naturalmente qualche insidia che sapranno evitare.
INTERVISTA
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
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