JOE HENRY Reverie ( ANTI Records, 2011)
Camminando velocemente, cercando di seminare il freddo pungente di Gennaio, lasciandolo alle spalle. All'interno di quella grande gigantografia in bianco e nero appesa al muro che fotografa le vie secondarie di quella grande città: dove i tombini sbuffano e la sottile patina di ghiaccio si sta sciogliendo lentamente nelle tarde ore della mattinata. I lampioni sono ancora accesi dalla notte prima e il sole timidamente cerca di pugnalare la nebbia. Il terzo caffè, puro esercizio di riscaldamento, è andato giù veloce quando dalle finestre aperte di uno scantinato si materializza della musica. Lo scambio di parti fa fuoriuscire la musica dalla finestra, mentre i rumori della strada entrano nella stanza insonorizzata dove un piano, una chitarra, un contrabbasso e una batteria suonano coesi. Musica e rumori si uniscono, diventano una cosa sola. La curiosità di sbirciare dalla finestra è tanta, la voglia di entrare diventa ossessiva dopo aver capito che dentro quello scantinato si produce romanticismo e calore che possono cambiarti la giornata o come minimo riscaldare un'ora della fredda quotidianità. Antichi sapori che cercavi da tempo, dimenticando dove li avevi incontrati l'ultima volta.
Joe Henry ha voglia di acustico, di fermare il tempo della vita che scorre lungo 14 canzoni dal sapore di antica pellicola in bianco e nero, colorata solamente dal rosso sangue che vi scorre dentro (sue testuali parole). Lo fa, ci riesce e ci dona canzoni jazzate nello spirito dove i tasti del pianoforte rimbombano forte, i tocchi delle bacchette e le rullate di batteria di Jay Bellerose sono protagonisti (Heaven's Escape) come il respiro che ci tiene in vita. Si uniscono gli stridori delle corde di una chitarra durante Odetta, un titolo, un programma.
Un timido cane ulula in lontananza e il gospel soul di Sticks and stones è un perfetto rifugio su cui contare. Grand Street sembra giocare con un tempo di valzer e con l'improvvisazione dei musicisti coinvolti (Kefefus Ciancia al piano e David Piltch al contrabbasso) e Joe Henry intrattenere come consumato crooner, anche quando duetta con la sua pupilla Lisa Hannigan in Piano Furnace.
Un'altro ospite ha bussato alla porta: è Marc Ribot. Porta con se la chitarra. Si unisce. Dalla finestra escono fuori Dark Tears e Tomorrow is October. Il cane continua il suo stanco esercizio di insofferenza, mentre Ribot impugna l'ukulele ed esce Deathbed Versions.
Il ghiaccio è rotto e Joe Henry con la sua band corrono via lisci, tra folk ( Room at Arles) e jazz appassionati ( Eyes out for you), non importa se chi passa vicino alla finestra dello scantinato possa sentire tutto, impossessati dal fuoco della musica si continua. E' il dodicesimo album del cinquantenne cantautore/produttore, ma la voglia di mettersi alla prova è tanta, soprattutto con un prodotto che elogia l'essenzialità.
Gioca con l'acustica degli strumenti e con l'evocazione delle parole, intente a scardinare il trascorrere del tempo con dimenticata e calorosa vena romantica. Joe Henry, dall'alto dei tanti premi vinti in carriera, anche quando si affida al classico non smette di sperimentare con la musica, in totale continuità con le sue passate esperienze. Qui toglie per arricchire. Anche se è ancora presto e banale, Reverie si presta bene a chi vive ancora la nascita del Salvatore come una festa da passare nel tepore rassicurante delle mura domestiche, a patto di ricordarsi di lasciare aperta una finestra. I rumori devono entrare.
sabato 15 ottobre 2011
giovedì 13 ottobre 2011
RECENSIONE: THE ANSWER (Revival)
The ANSWER Revival ( Spinefarm records, 2011)
Per il terzo capitolo della loro carriera, i The Answer lasciano le verdi vallate nord irlandesi di casa(benchè la copertina sembri dire l'opposto) per approdare sulle rosse terre americane situate nel confine tra Stati Uniti e Messico, luogo dove Revival ha preso forma tra una tappa e l'altra del lungo tour intrapreso dalla band da supporto agli Ac/Dc e documentato nell'altrettanto fresco di stampa e dall'esplicito titolo:"412 Days of Rock'n'Roll" .
La location di registrazione vicina a El Paso ha lasciato un segno pesante nella direzione musicale, marchiando la maturità raggiunta da Cormac Neeson e soci avvicinandoli ad un suono di matrice americana più marcato ed in alcuni punti vicino all'attitudine street metal anni ottanta, con la produzione deluxe di Chris ‘Frenchie’ Smith e aumentando le sfumature musicali del gruppo rispetto ai pur due ottimi dischi precedenti ("Rise"-2006 e "Everyday Demons"-2009).
Se con i precedenti dischi il rischio di essere liquidati come i nuovi cloni dei grandi gruppi hard rock britannici degli anni settanta(Led Zeppelin in primis) era sempre dietro l'angolo(Jimmy Page in persona si prodigò di elogi e li accomunò al dirigibile...), la maggior varietà di Revival, depone a loro favore. Ascoltando la slide che introduce Waste your tears che apre il disco in modo frizzante con grandi chorus da grande arena rock ottantiana e chitarre in grande spolvero. Trouble è un hard blues con tanto di armonica che mi ricorda il suono che Richie Kotzen riuscì ad introdurre nei patinati Poison, sporcandoli di blues, sfornando il sempre poco acclamato e da rivalutare Native Tongue(1993), a tutti gli effetti il picco qualitativo del gruppo americano.
La bravura dei The Answer nel mischiare melodia e la pesante impronta hard rock si nota in tracce come Nowhere Freeway con Neeson che duetta con la voce femminile di Lynne Jackman, cantante dei Saint Jude e nella semi ballad Can't remember, can't forget con la sua impronta hair street metal.
Tornado, uno degli episodi più riusciti , con parti acustiche ed esplosioni elettriche che si rincorrono con la fenomenale voce del rosso cantante che gioca a fare Robert Plant. Indubbiamente uno dei migliori singer dell'ultima generazione.
Certo, il giochino dei paragoni e dei rimandi è sempre in agguato: Use me, può essere un devoto omaggio che rasenta il plagio ai vicini di casa scozzesi Nazareth e all'ugola del loro cantante Dan McCafferty o One more Revival che batte i territori degli amati Free.
Anche quando alcune canzoni strizzano troppo l'occhio al facile ritornello, come New Day Rising e il primo singolo scelto Vida(I want you), il tutto viene salvato dai prodigiosi interventi chitarristici di Paul Mahon.
La ricerca ossessiva del chorus diventa così croce e delizia della band, in alcuni punti del disco offusca il buon lavoro delle chitarre ma in linea di massima eleva Revival a disco dove l'equilibrio tra i due fattori hard e melodia trovano la simbiosi perfetta, divenendo insieme a "Pressure & Time" dei Rival Sons la migliore uscita dell'anno nel settore. Interessante, infine, la deluxe edition dell'album che aggiunge un bonus cd ("After the Revival") con un paio di inediti(Piece by piece, Faith gone down), demos, versioni live acustiche e la cover di Fire and water dei Free, per un totale di undici canzoni e facendone un valore aggiunto a tutti gli effetti.
Per il terzo capitolo della loro carriera, i The Answer lasciano le verdi vallate nord irlandesi di casa(benchè la copertina sembri dire l'opposto) per approdare sulle rosse terre americane situate nel confine tra Stati Uniti e Messico, luogo dove Revival ha preso forma tra una tappa e l'altra del lungo tour intrapreso dalla band da supporto agli Ac/Dc e documentato nell'altrettanto fresco di stampa e dall'esplicito titolo:"412 Days of Rock'n'Roll" .
La location di registrazione vicina a El Paso ha lasciato un segno pesante nella direzione musicale, marchiando la maturità raggiunta da Cormac Neeson e soci avvicinandoli ad un suono di matrice americana più marcato ed in alcuni punti vicino all'attitudine street metal anni ottanta, con la produzione deluxe di Chris ‘Frenchie’ Smith e aumentando le sfumature musicali del gruppo rispetto ai pur due ottimi dischi precedenti ("Rise"-2006 e "Everyday Demons"-2009).
Se con i precedenti dischi il rischio di essere liquidati come i nuovi cloni dei grandi gruppi hard rock britannici degli anni settanta(Led Zeppelin in primis) era sempre dietro l'angolo(Jimmy Page in persona si prodigò di elogi e li accomunò al dirigibile...), la maggior varietà di Revival, depone a loro favore. Ascoltando la slide che introduce Waste your tears che apre il disco in modo frizzante con grandi chorus da grande arena rock ottantiana e chitarre in grande spolvero. Trouble è un hard blues con tanto di armonica che mi ricorda il suono che Richie Kotzen riuscì ad introdurre nei patinati Poison, sporcandoli di blues, sfornando il sempre poco acclamato e da rivalutare Native Tongue(1993), a tutti gli effetti il picco qualitativo del gruppo americano.
La bravura dei The Answer nel mischiare melodia e la pesante impronta hard rock si nota in tracce come Nowhere Freeway con Neeson che duetta con la voce femminile di Lynne Jackman, cantante dei Saint Jude e nella semi ballad Can't remember, can't forget con la sua impronta hair street metal.
Tornado, uno degli episodi più riusciti , con parti acustiche ed esplosioni elettriche che si rincorrono con la fenomenale voce del rosso cantante che gioca a fare Robert Plant. Indubbiamente uno dei migliori singer dell'ultima generazione.
Certo, il giochino dei paragoni e dei rimandi è sempre in agguato: Use me, può essere un devoto omaggio che rasenta il plagio ai vicini di casa scozzesi Nazareth e all'ugola del loro cantante Dan McCafferty o One more Revival che batte i territori degli amati Free.
Anche quando alcune canzoni strizzano troppo l'occhio al facile ritornello, come New Day Rising e il primo singolo scelto Vida(I want you), il tutto viene salvato dai prodigiosi interventi chitarristici di Paul Mahon.
La ricerca ossessiva del chorus diventa così croce e delizia della band, in alcuni punti del disco offusca il buon lavoro delle chitarre ma in linea di massima eleva Revival a disco dove l'equilibrio tra i due fattori hard e melodia trovano la simbiosi perfetta, divenendo insieme a "Pressure & Time" dei Rival Sons la migliore uscita dell'anno nel settore. Interessante, infine, la deluxe edition dell'album che aggiunge un bonus cd ("After the Revival") con un paio di inediti(Piece by piece, Faith gone down), demos, versioni live acustiche e la cover di Fire and water dei Free, per un totale di undici canzoni e facendone un valore aggiunto a tutti gli effetti.
lunedì 10 ottobre 2011
RECENSIONE: JOHNNY WINTER (Roots)
JOHHNY WINTER Roots (Megaforce/Sony, 2011)
Non fosse per le rughe che segnano il percorso della sua vita, poche cose sono cambiate nell'aspetto fisico di Johnny Winter, dal 1969, anno del suo basilare debutto omonimo ad oggi( magie o scherzi dell'albinismo?). Il fisico è sempre asciutto, pelle bianchissima macchiata come pelo di leopardo dai suoi tatuaggi, ossa sporgenti, lunghi e fini capelli lisci che fuoriescono dal capellaccio calato in testa e chitarra in mano mimetizzata come un prolungamento del suo esile corpo. Vincitore di tante battaglie importanti nella vita che comunque ne hanno influenzato la salute, a 67 anni continua a prodigarsi nell' insegnare il verbo del blues bianco.
Mancava su disco dal 2004, anno di "I'm A Bluesman" (negli ultimi anni presente sul mercato solamente con numerosi live) e questo suo ritorno, sulla spinta ed incoraggiamento conto terzi, è una celebrazione totale del genere che lui stesso contribuì a svecchiare, tanto da convincere, nel 1977, un padre putativo come Muddy Waters ad incidere con lui. Lo produsse e contribuirono insieme a rilucidare il blues con l'album Hard Again. La carriera di Waters, in netto calo negli anni settanta, riprese a correre e finirono per influenzare più di un chitarrista a venire.
Blues e chitarre , questi gli ingredienti di sempre che Winter ha scelto per questo ritorno: grandi canzoni della gioventù che lo hanno fatto crescere, ascoltate alla radio quando era un dodicenne, ed importanti ospiti ad aiutarlo. Poche celebrazioni come nel suo stile e tanta musica. Da una parte la sua voce, la sua chitarra e la sua band: Paul Nelson (anche produttore del lavoro) alla chitarra, Scott Spray al basso e Vito Liuzzi alla batteria, dall'altra parte undici classici senza tempo ed una schiera di ospiti di tutto rispetto.
Mi piace partire dalla strumentale Honk Tonk, un classico suonato con il fratello Edgar al sax: immaginarli ancora ragazzi, sopra ad un palco nei clubs texani, mentre riscaldano il pubblico con i sogni già proiettati nel futuro.I due fratelli rifanno un pezzo che li ha visti crescere insieme, sugellando l'infinito amore verso la musica e quel sogno che si è avverato.
Cosa dire quando la coppia dell'anno Tedeschi/Trucks si separa momentaneamente: la slide di Dereck Trucks (Allman Brothers Band) che si unisce a Winter in una infuocata versione di Dust my broom-quando tutto ebbe un inizio con Robert Johnson ed un proseguo con Elmore James-e la voce di Susan Tedeschi si affianca a quella di Winter in Bright lights big city di Jimmy Reed. Due matrimoni pienamente riusciti.
Quando il blues inventa il rock'n'roll : Maybelline di Chuck Berry suonata insieme al tocco country di Vince Gill.
La continuità della tradizione di Elmore James in Done Somebody Wrong suonata con Warren Haynes (Allman Brothers Band, Gov't Mule), il discepolo che più di ogni altro ha regnato nell'ultimo decennio.
T-Bone Shuffle di T-Bone walker con Sonny Landreth apre il disco con canonico fervore accendendo la fiamma che scalderà tutto il disco e vedrà ancora Jimmy Vivino, John Popper (Blues Traveler) e il tastierista jazz John Medesky unirsi a Winter che anche da solo, senza ospiti, con Got my Mojo workin' del vecchio amico Muddy Waters fa saltare e tenere il tempo mentre le sacre fiamme si propagano.
Un disco che non è la solita (auto)celebrazione di routine ma un vibrante, sentito e fresco omaggio di un vero bluesman, con tante chitarre riunite in una sola passione. Eroi omaggiati da un eroe. Poco altro da chiedere.
Non fosse per le rughe che segnano il percorso della sua vita, poche cose sono cambiate nell'aspetto fisico di Johnny Winter, dal 1969, anno del suo basilare debutto omonimo ad oggi( magie o scherzi dell'albinismo?). Il fisico è sempre asciutto, pelle bianchissima macchiata come pelo di leopardo dai suoi tatuaggi, ossa sporgenti, lunghi e fini capelli lisci che fuoriescono dal capellaccio calato in testa e chitarra in mano mimetizzata come un prolungamento del suo esile corpo. Vincitore di tante battaglie importanti nella vita che comunque ne hanno influenzato la salute, a 67 anni continua a prodigarsi nell' insegnare il verbo del blues bianco.
Mancava su disco dal 2004, anno di "I'm A Bluesman" (negli ultimi anni presente sul mercato solamente con numerosi live) e questo suo ritorno, sulla spinta ed incoraggiamento conto terzi, è una celebrazione totale del genere che lui stesso contribuì a svecchiare, tanto da convincere, nel 1977, un padre putativo come Muddy Waters ad incidere con lui. Lo produsse e contribuirono insieme a rilucidare il blues con l'album Hard Again. La carriera di Waters, in netto calo negli anni settanta, riprese a correre e finirono per influenzare più di un chitarrista a venire.
Blues e chitarre , questi gli ingredienti di sempre che Winter ha scelto per questo ritorno: grandi canzoni della gioventù che lo hanno fatto crescere, ascoltate alla radio quando era un dodicenne, ed importanti ospiti ad aiutarlo. Poche celebrazioni come nel suo stile e tanta musica. Da una parte la sua voce, la sua chitarra e la sua band: Paul Nelson (anche produttore del lavoro) alla chitarra, Scott Spray al basso e Vito Liuzzi alla batteria, dall'altra parte undici classici senza tempo ed una schiera di ospiti di tutto rispetto.
Mi piace partire dalla strumentale Honk Tonk, un classico suonato con il fratello Edgar al sax: immaginarli ancora ragazzi, sopra ad un palco nei clubs texani, mentre riscaldano il pubblico con i sogni già proiettati nel futuro.I due fratelli rifanno un pezzo che li ha visti crescere insieme, sugellando l'infinito amore verso la musica e quel sogno che si è avverato.
Cosa dire quando la coppia dell'anno Tedeschi/Trucks si separa momentaneamente: la slide di Dereck Trucks (Allman Brothers Band) che si unisce a Winter in una infuocata versione di Dust my broom-quando tutto ebbe un inizio con Robert Johnson ed un proseguo con Elmore James-e la voce di Susan Tedeschi si affianca a quella di Winter in Bright lights big city di Jimmy Reed. Due matrimoni pienamente riusciti.
Quando il blues inventa il rock'n'roll : Maybelline di Chuck Berry suonata insieme al tocco country di Vince Gill.
La continuità della tradizione di Elmore James in Done Somebody Wrong suonata con Warren Haynes (Allman Brothers Band, Gov't Mule), il discepolo che più di ogni altro ha regnato nell'ultimo decennio.
T-Bone Shuffle di T-Bone walker con Sonny Landreth apre il disco con canonico fervore accendendo la fiamma che scalderà tutto il disco e vedrà ancora Jimmy Vivino, John Popper (Blues Traveler) e il tastierista jazz John Medesky unirsi a Winter che anche da solo, senza ospiti, con Got my Mojo workin' del vecchio amico Muddy Waters fa saltare e tenere il tempo mentre le sacre fiamme si propagano.
Un disco che non è la solita (auto)celebrazione di routine ma un vibrante, sentito e fresco omaggio di un vero bluesman, con tante chitarre riunite in una sola passione. Eroi omaggiati da un eroe. Poco altro da chiedere.
giovedì 6 ottobre 2011
RECENSIONE: MASTODON (The Hunter)
MASTODON The Hunter (Roadrunner Records, 2011)
Sarà, The Hunter, quel passo di troppo che condusse il "Black Album" e "Songs for the Deaf" e i loro rispettivi autori verso il grande pubblico mainstream, slegato da quello affezionato e devoto di settore? Difficile rispondere a caldo, a ridosso dell'uscita del quinto lavoro della band di Atlanta. Per ora, diamoci qualche anno per valutare feedback e passi futuri. Ma finito l'ascolto, una mosca s'infila nell'orecchio e un piccolo pensiero lo si fa, soprattutto avendo, ancora, le orecchie foderate con i suoni dei precedenti dischi. Senza che questo sia un male ma piuttosto sperando sia la tappa di una carriera fino a qui ineccepibile e la voglia del gruppo di confrontarsi con qualcosa di diverso. Dopo tutto quei due album citati sono entrati di diritto tra gli imprenscindibili del rock, quindi quale augurio migliore? Qualcuno non sarà d'accordo.
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero). Le grandi capacità tecniche e compositive dei singoli elementi rimangono inalterate ma vanno ad esplorare altri terreni più accomodanti all'ascoltatore distratto.
Per la prima volta l'album non è un concept ma una raccolta di 13 canzoni, snelle ed univoche nella loro struttura. Non più lunghe e complicate suite ma canzoni più vicine alla canonicità come struttura e questo va a favore di una maggior fluidità e groove, incorrendo però nell'arma a doppio taglio che i fans della prima ora potrebbero mal digerire.
Dopo aver esplorato terrirori quasi progressive negli ultimi due strepitosi dischi Blood Mountain e Crack the skye, pieni di canzoni stratificate e articolate con i loro toni profondi, psichedelici e spaziali, traspare la voglia di dare alla melodia uno spiraglio maggiore. Le canzoni diventano dirette e spontenee, con poco post lavoro dietro , nonostante la superba produzione di Mike Elizondo. Anche la scelta del produttore, proveniente dal mondo hip hop è una sfida che a posteriori si può dire coraggiosa ed in parte vinta.
Le vocals sono quasi sempre pulite(...e purtroppo non sempre ricoprono il ruolo con efficacia), riprendendo l'ultimo Crack The Skye(2009) e poche volte si lasciano andare allo "sporco growl", la batteria di Brann Dailor rimane tra le cose migliori sentite negli ultimi anni e i riff di chitarra della coppia Brent Hinds e Bill Kelliher continuano a sfornare riff pesanti ma intelligenti.
L'iniziale Black Tongue mantiene quei riff pesanti e sinistri dei primissimi dischi e Spectrelight, viaggio nell'aldilà, con Scott Kelly dei Neurosis ospite, è la traccia più aggressiva e thrash oriented del lavoro, tra le cose migliori sicuramente.
La sensazione che prevale è quella di un disco che cerca di portare a galla le innumerevoli caratteristiche dei precedenti dischi(dall'hardcore, sludge, doom, progressive, psichedelia e thrash), imbastardendole con la melodia, più di quanto fatto fino ad ora. Ma là dove c'erano canzoni che al loro interno inglobavano tutte queste caratteristiche, ora abbiamo canzoni singole per ogni caratteristica. Blasteroid è veloce, vuole essere cattiva negli screams ma rimane imbrigliata nella melodia complessiva mentre Curl Of the Burl è sicuramente l'episodio più melodico concepito fino a qui dai Mastodon. Un massiccio hard stoner rock che strizza l'occhio al southern declamando la pazzia e ricordando non poco la lezione impartita dai Corrosion of Conformity di "Deliverance".
Il matrimonio sembra riuscire meglio in tracce come Stargasm, nei momenti progressive di All the Heavy lifting con la sua alienante fuga, in Dry Bone Valley , si cade nelle valli della pazzia umana con le linee vocali che ricordano tanto i compianti Alice in Chains di Staley e nei tempi di Octopus Has No Friends con il solito grande lavoro di Dailor dietro le pelli.
Bedazzled Fingernails è un allucinato viaggio sonoro che piace certamente più di Creature lives, un riempitivo melenso, quasi pinkfloyadiano e assai inutile.
The Hunter, dedicata al fratello di Brent Hinds, scomparso dopo un malore durante una battuta di caccia e la finale The Sparrow sono due lisergiche ballads acustiche con quest'ultima, quasi interamente strumentale di una spanna sopra e impreziosita da un bell'assolo di chitarra.
Il consiglio migliore per godersi il disco è quello di non armarsi fino ai denti e andare a caccia dei fantasmi passati ma godersi l'album per quello che è, aspettando le prossime battute di caccia per inquadrarlo dentro alla discografia del gruppo. Solo allora scopriremo se questo "The Hunter" è una meritata pausa o un nuovo inizio. Nonostante tutte queste parole, una delle migliori uscite dell'anno.
Sarà, The Hunter, quel passo di troppo che condusse il "Black Album" e "Songs for the Deaf" e i loro rispettivi autori verso il grande pubblico mainstream, slegato da quello affezionato e devoto di settore? Difficile rispondere a caldo, a ridosso dell'uscita del quinto lavoro della band di Atlanta. Per ora, diamoci qualche anno per valutare feedback e passi futuri. Ma finito l'ascolto, una mosca s'infila nell'orecchio e un piccolo pensiero lo si fa, soprattutto avendo, ancora, le orecchie foderate con i suoni dei precedenti dischi. Senza che questo sia un male ma piuttosto sperando sia la tappa di una carriera fino a qui ineccepibile e la voglia del gruppo di confrontarsi con qualcosa di diverso. Dopo tutto quei due album citati sono entrati di diritto tra gli imprenscindibili del rock, quindi quale augurio migliore? Qualcuno non sarà d'accordo.
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero). Le grandi capacità tecniche e compositive dei singoli elementi rimangono inalterate ma vanno ad esplorare altri terreni più accomodanti all'ascoltatore distratto.
Per la prima volta l'album non è un concept ma una raccolta di 13 canzoni, snelle ed univoche nella loro struttura. Non più lunghe e complicate suite ma canzoni più vicine alla canonicità come struttura e questo va a favore di una maggior fluidità e groove, incorrendo però nell'arma a doppio taglio che i fans della prima ora potrebbero mal digerire.
Dopo aver esplorato terrirori quasi progressive negli ultimi due strepitosi dischi Blood Mountain e Crack the skye, pieni di canzoni stratificate e articolate con i loro toni profondi, psichedelici e spaziali, traspare la voglia di dare alla melodia uno spiraglio maggiore. Le canzoni diventano dirette e spontenee, con poco post lavoro dietro , nonostante la superba produzione di Mike Elizondo. Anche la scelta del produttore, proveniente dal mondo hip hop è una sfida che a posteriori si può dire coraggiosa ed in parte vinta.
Le vocals sono quasi sempre pulite(...e purtroppo non sempre ricoprono il ruolo con efficacia), riprendendo l'ultimo Crack The Skye(2009) e poche volte si lasciano andare allo "sporco growl", la batteria di Brann Dailor rimane tra le cose migliori sentite negli ultimi anni e i riff di chitarra della coppia Brent Hinds e Bill Kelliher continuano a sfornare riff pesanti ma intelligenti.
L'iniziale Black Tongue mantiene quei riff pesanti e sinistri dei primissimi dischi e Spectrelight, viaggio nell'aldilà, con Scott Kelly dei Neurosis ospite, è la traccia più aggressiva e thrash oriented del lavoro, tra le cose migliori sicuramente.
La sensazione che prevale è quella di un disco che cerca di portare a galla le innumerevoli caratteristiche dei precedenti dischi(dall'hardcore, sludge, doom, progressive, psichedelia e thrash), imbastardendole con la melodia, più di quanto fatto fino ad ora. Ma là dove c'erano canzoni che al loro interno inglobavano tutte queste caratteristiche, ora abbiamo canzoni singole per ogni caratteristica. Blasteroid è veloce, vuole essere cattiva negli screams ma rimane imbrigliata nella melodia complessiva mentre Curl Of the Burl è sicuramente l'episodio più melodico concepito fino a qui dai Mastodon. Un massiccio hard stoner rock che strizza l'occhio al southern declamando la pazzia e ricordando non poco la lezione impartita dai Corrosion of Conformity di "Deliverance".
Il matrimonio sembra riuscire meglio in tracce come Stargasm, nei momenti progressive di All the Heavy lifting con la sua alienante fuga, in Dry Bone Valley , si cade nelle valli della pazzia umana con le linee vocali che ricordano tanto i compianti Alice in Chains di Staley e nei tempi di Octopus Has No Friends con il solito grande lavoro di Dailor dietro le pelli.
Bedazzled Fingernails è un allucinato viaggio sonoro che piace certamente più di Creature lives, un riempitivo melenso, quasi pinkfloyadiano e assai inutile.
The Hunter, dedicata al fratello di Brent Hinds, scomparso dopo un malore durante una battuta di caccia e la finale The Sparrow sono due lisergiche ballads acustiche con quest'ultima, quasi interamente strumentale di una spanna sopra e impreziosita da un bell'assolo di chitarra.
Il consiglio migliore per godersi il disco è quello di non armarsi fino ai denti e andare a caccia dei fantasmi passati ma godersi l'album per quello che è, aspettando le prossime battute di caccia per inquadrarlo dentro alla discografia del gruppo. Solo allora scopriremo se questo "The Hunter" è una meritata pausa o un nuovo inizio. Nonostante tutte queste parole, una delle migliori uscite dell'anno.
martedì 4 ottobre 2011
RECENSIONE: RYAN ADAMS (Ashes & Fire)
RYAN ADAMS Ashes & Fire ( Columbia Records, 2011)
Dismessi ma non traditi i panni metallari che lo hanno portato ad incidere un disco: Orion(2010), che voleva omaggiare e calpestare territori testuali e programmatici cari a gruppi come i Voivod, da sempre nella playlist del nostro. Fatto uscire un doppio album con canzoni provenienti dalle registrazioni dell'ultimo album con i Cardinals, Cardinology(2008), sembrava quasi incredibile che fossero passati quattro anni senza nulla di realmente nuovo.
Anni serviti ad Adams per ritrovare un' ispirazione che nelle ultime prove sembrava persa dietro a canzoni di puro mestiere con pochi picchi e tanti riempitivi fatti per soddisfare la sua impellente e ingorda voglia di musica.
Per farlo, Ryan Adams si priva di tutti gli orpelli ingombranti intorno a lui e compone undici canzoni in solitaria che escono a suo nome senza essere seguito dai fidi Cardinals nelle note di copertina:"Adoro lavorare da solista: solo io, le mie canzoni e la mia anima messa a nudo".
Registrate alla vecchia maniera analogica con l'aiuto del "mitico"produttore di decine di capolavori del rock, Glyn Johns, undici ballate ispirate che non fanno che confermare la sua carriera bulimica di musica, fatta come una montagna russa senza fine. Orge rock e delicati incontri folk-americana continuano a susseguirsi nella sua discografia con una logica che solo l'autore potrebbe spiegare.
Questa volta, Adams ritrova il basso profilo acustico, la vena romantica e l'amarezza creativa di dischi come Love is Hell(2003), alcuni tocchi oscuri di 29(2005) e la semplicità country del primissimo Heartbreaker(2000) e incide il suo disco più ispirato da molti anni a questa parte e lo si capisce subito ascoltando l'introspettiva amarezza di Dirty rain che apre il disco con hammond e piano che dialogano sull'asfalto bagnato, chiarori di luna e campane che suonano. Ancora acqua che scorre nel up-tempo dall'incedere dylaniano della titletrack Ashes & Fire, ma sono fiumi di lacrime versate per amore che possono materializzarsi e diventare catene in Chains of Love, due minuti in crescendo con gli arranggiamenti orchestrali protagonisti.
La grevità solenne di Do I Wait che parte lenta con l'acustica ed un organo che fiata per sfociare in un assolo di chitarra elettrica che fa esplodere i chorus finali, sicuramente uno dei migliori momenti del disco.
Le delicate Come Home(...You built this house/ Built it stone by stone/ Hammer in your hand /You built his home /This house is strong /You raised it with your love /A shelter from the winds /From the cold and dark...), con le pedal steel in lontananza e la voce ospite di Norah Jones (insieme al vecchio amico Benmont Tench alle tastiere,graditi ospiti nell'intero disco) a fare da contrappunto a quella di Adams e Rocks sorretta dagli arrangiamenti e con Adams che declama il ritornello in falsetto (...I am not rocks in the river, I am birds singing...I am not rocks, I am not rain, I'm just another shadows in the stream...).
L'ombra dell'oscuro country del Neil Young di metà anni settanta aleggia su Invisible Riverside e nella bella ballad Save me, pianoforte, pedal steel e andamento ciondolante da caldo tramonto sullo sfondo. Mentre Lucky Now guarda al passato per apprezzare il presente nella canzone del disco che al primo ascolto rimane più in testa.
I love you but i don't know what to say chiude il tutto, sottolineando la vena romantica che aleggia intorno ad Adams in questo suo periodo artistico. Pianoforte e arrangiamenti d'orchestra per una canzone che parla come avrebbe fatto il miglior Billy Joel confidenziale degli anni settanta.
Sempre sopra le righe, divoratore di musica, prolifico a dismisura, apprezzato ma anche odiato per il suo carattere da irascibile rockstar viziata, eclettico, sopravvalutato ed ignorato, menefreghista e passionario: Ryan Adams conferma che le rose che campeggiavano su Strangers Almanac, disco dei suoi vecchi Whiskeytown, sono ancora lontane dall'appassirsi. Un colpo di coda vincente.
Dismessi ma non traditi i panni metallari che lo hanno portato ad incidere un disco: Orion(2010), che voleva omaggiare e calpestare territori testuali e programmatici cari a gruppi come i Voivod, da sempre nella playlist del nostro. Fatto uscire un doppio album con canzoni provenienti dalle registrazioni dell'ultimo album con i Cardinals, Cardinology(2008), sembrava quasi incredibile che fossero passati quattro anni senza nulla di realmente nuovo.
Anni serviti ad Adams per ritrovare un' ispirazione che nelle ultime prove sembrava persa dietro a canzoni di puro mestiere con pochi picchi e tanti riempitivi fatti per soddisfare la sua impellente e ingorda voglia di musica.
Per farlo, Ryan Adams si priva di tutti gli orpelli ingombranti intorno a lui e compone undici canzoni in solitaria che escono a suo nome senza essere seguito dai fidi Cardinals nelle note di copertina:"Adoro lavorare da solista: solo io, le mie canzoni e la mia anima messa a nudo".
Registrate alla vecchia maniera analogica con l'aiuto del "mitico"produttore di decine di capolavori del rock, Glyn Johns, undici ballate ispirate che non fanno che confermare la sua carriera bulimica di musica, fatta come una montagna russa senza fine. Orge rock e delicati incontri folk-americana continuano a susseguirsi nella sua discografia con una logica che solo l'autore potrebbe spiegare.
Questa volta, Adams ritrova il basso profilo acustico, la vena romantica e l'amarezza creativa di dischi come Love is Hell(2003), alcuni tocchi oscuri di 29(2005) e la semplicità country del primissimo Heartbreaker(2000) e incide il suo disco più ispirato da molti anni a questa parte e lo si capisce subito ascoltando l'introspettiva amarezza di Dirty rain che apre il disco con hammond e piano che dialogano sull'asfalto bagnato, chiarori di luna e campane che suonano. Ancora acqua che scorre nel up-tempo dall'incedere dylaniano della titletrack Ashes & Fire, ma sono fiumi di lacrime versate per amore che possono materializzarsi e diventare catene in Chains of Love, due minuti in crescendo con gli arranggiamenti orchestrali protagonisti.
La grevità solenne di Do I Wait che parte lenta con l'acustica ed un organo che fiata per sfociare in un assolo di chitarra elettrica che fa esplodere i chorus finali, sicuramente uno dei migliori momenti del disco.
Le delicate Come Home(...You built this house/ Built it stone by stone/ Hammer in your hand /You built his home /This house is strong /You raised it with your love /A shelter from the winds /From the cold and dark...), con le pedal steel in lontananza e la voce ospite di Norah Jones (insieme al vecchio amico Benmont Tench alle tastiere,graditi ospiti nell'intero disco) a fare da contrappunto a quella di Adams e Rocks sorretta dagli arrangiamenti e con Adams che declama il ritornello in falsetto (...I am not rocks in the river, I am birds singing...I am not rocks, I am not rain, I'm just another shadows in the stream...).
L'ombra dell'oscuro country del Neil Young di metà anni settanta aleggia su Invisible Riverside e nella bella ballad Save me, pianoforte, pedal steel e andamento ciondolante da caldo tramonto sullo sfondo. Mentre Lucky Now guarda al passato per apprezzare il presente nella canzone del disco che al primo ascolto rimane più in testa.
I love you but i don't know what to say chiude il tutto, sottolineando la vena romantica che aleggia intorno ad Adams in questo suo periodo artistico. Pianoforte e arrangiamenti d'orchestra per una canzone che parla come avrebbe fatto il miglior Billy Joel confidenziale degli anni settanta.
Sempre sopra le righe, divoratore di musica, prolifico a dismisura, apprezzato ma anche odiato per il suo carattere da irascibile rockstar viziata, eclettico, sopravvalutato ed ignorato, menefreghista e passionario: Ryan Adams conferma che le rose che campeggiavano su Strangers Almanac, disco dei suoi vecchi Whiskeytown, sono ancora lontane dall'appassirsi. Un colpo di coda vincente.
sabato 1 ottobre 2011
RECENSIONE: LUIGI MAIERON ( Vino, Tabacco e Cielo)
LUIGI MAIERON Vino, Tabacco e Cielo( PDT/Universal, 2011)
La Carnia è una terra friulana fatta di valli antiche che hanno mantenuto intatte la bellezza naturale dei loro paesaggi e le antiche tradizioni che, non senza difficoltà, continuano a tramandarsi di generazione in generazione. Paesi di montagna che nel corso del '900 hanno visto sempre più i loro abitanti emigrare in cerca di fortuna in giro per il mondo, chi è rimasto ha continuato a diffondere quelle tradizioni, fatte di canti popolari secolari, legami forti alla terra, al cibo contadino e a valori come il duro lavoro e la famiglia.
Luigi Maieron da quelle valli non se n'è mai andato e con certi valori è cresciuto fin da bambino. La sua predestinata missione è contribuire a far conoscere il suo territorio attraverso quello che gli riesce meglio: la canzone e la poesia. Ora poi, che le strade dei dialetti regionali sembrano aperte, un posto anche per lui c'è ed è quello su una corsia preferenziale. L'amico Davide Van De Sfroos (Maieron è presente come ospite nell'ultimo "Yanez" nella canzone Dove non basta il mare) nelle note di copertina ha forse scritto la migliore recensione del disco e proprio il successo del cantastorie comasco può aprire la strada a Maieron, che con "Vino Tabacco e cielo" realizza il suo quarto disco.
Maieron rilascia il suo disco musicalmente più vario, lasciando le atmosfere più intime e cantautorali dei precedenti per allargare i suoi confini musicali, avvicinandosi in certi punti a realtà già consolidate del folk dialettale come I Luf e Lou Dalfin, per rimanere nel nord Italia. La sua voce è rassicurante, un misto tra la profondità "scura" di Johnny Cash e la narrazione di Leonard Cohen con la confidenzialità dello zio saggio, sempre pronto a farti sedere sulle sue ginocchia e raccontare le vecchie storie dei luoghi dove è cresciuto. Il folk americano che incontra il Friuli. Rassicurante e sincero come quando canta con grande vena descrittiva i sentimenti d'amore e rispetto verso una figura guida(il nonno presumibilmente per lui, ma potrebbe essere chiunque) di grande importanza nel formare il carattere di un bambino ammirato davanti all'adulto, nel country -folk di Vino Tabacco e cielo, cantata in italiano.
E' un disco con due anime ben precise, una intimista e cantautorale, che si riallaccia alle passate produzioni ed una più giocosa e divertente con l'uso della lingua italiana più marcato e presente rispetto al passato.
Quello che esce prepotente è l'attaccamento alla propria terra: nel cantato in dialetto, come in Done mari ripresa di un antico canto carnico tradizionale dell'800, in La cidule con le sue atmosfere da ballo da festa paesana che narra di un'antica tradizione carnica che vedeva coinvolte le giovani coppie dei paesi e Trei puemas sulla stessa lunghezza d'onda. I sapori e le atmosfere medio orientali che escono prepotenti da Cramar-marochin, divertente confronto tra gli ambulanti provenienti dall'est europeo nel 1200/1600 e i moderni extracomunitari e il delicato tango di Argjentina, storie di emigrazioni e tristi ritorni.
Maieron tiene la lingua italiana per le canzoni più intimiste come I fantasmi di pietra, folk evocativo ispirato da uno scritto di Mauro Corona e dedicato alle vittime del grande e triste disastro del Vajont e Il peso della Neve dominata da banjo e fisarmonica.
Tre piccole perle sono Filo Spinato, quasi una filastrocca alla maniera di De Andrè, visuale di una mamma con il figlio alpino al fronte, la piacevole analisi sul trascorrere del tempo di Questa faccia, su atmosfere da oscuro western che ricorda tanto il compianto "cowboy"Johnny Cash e l'invito a non mollare mai e superare tutti gli ostacoli della flemmatica Cosa senti.
Sostenuto da una band di tutto rispetto e dall'aiuto di alcuni ospiti come Ellade Bandini alla batteria e Francesco Più e Davide Brambilla, "Vino Tabacco e cielo" è un piccolo scrigno pieno di tradizioni e storie, che come insegnato da Van De Sfroos, possono varcare i confini regionali e allargarsi in tutta Italia abbattendo quei fittizi confini federali che fortunatamente non sono ancora stati eretti.
INTERVISTA
La Carnia è una terra friulana fatta di valli antiche che hanno mantenuto intatte la bellezza naturale dei loro paesaggi e le antiche tradizioni che, non senza difficoltà, continuano a tramandarsi di generazione in generazione. Paesi di montagna che nel corso del '900 hanno visto sempre più i loro abitanti emigrare in cerca di fortuna in giro per il mondo, chi è rimasto ha continuato a diffondere quelle tradizioni, fatte di canti popolari secolari, legami forti alla terra, al cibo contadino e a valori come il duro lavoro e la famiglia.
Luigi Maieron da quelle valli non se n'è mai andato e con certi valori è cresciuto fin da bambino. La sua predestinata missione è contribuire a far conoscere il suo territorio attraverso quello che gli riesce meglio: la canzone e la poesia. Ora poi, che le strade dei dialetti regionali sembrano aperte, un posto anche per lui c'è ed è quello su una corsia preferenziale. L'amico Davide Van De Sfroos (Maieron è presente come ospite nell'ultimo "Yanez" nella canzone Dove non basta il mare) nelle note di copertina ha forse scritto la migliore recensione del disco e proprio il successo del cantastorie comasco può aprire la strada a Maieron, che con "Vino Tabacco e cielo" realizza il suo quarto disco.
Maieron rilascia il suo disco musicalmente più vario, lasciando le atmosfere più intime e cantautorali dei precedenti per allargare i suoi confini musicali, avvicinandosi in certi punti a realtà già consolidate del folk dialettale come I Luf e Lou Dalfin, per rimanere nel nord Italia. La sua voce è rassicurante, un misto tra la profondità "scura" di Johnny Cash e la narrazione di Leonard Cohen con la confidenzialità dello zio saggio, sempre pronto a farti sedere sulle sue ginocchia e raccontare le vecchie storie dei luoghi dove è cresciuto. Il folk americano che incontra il Friuli. Rassicurante e sincero come quando canta con grande vena descrittiva i sentimenti d'amore e rispetto verso una figura guida(il nonno presumibilmente per lui, ma potrebbe essere chiunque) di grande importanza nel formare il carattere di un bambino ammirato davanti all'adulto, nel country -folk di Vino Tabacco e cielo, cantata in italiano.
E' un disco con due anime ben precise, una intimista e cantautorale, che si riallaccia alle passate produzioni ed una più giocosa e divertente con l'uso della lingua italiana più marcato e presente rispetto al passato.
Quello che esce prepotente è l'attaccamento alla propria terra: nel cantato in dialetto, come in Done mari ripresa di un antico canto carnico tradizionale dell'800, in La cidule con le sue atmosfere da ballo da festa paesana che narra di un'antica tradizione carnica che vedeva coinvolte le giovani coppie dei paesi e Trei puemas sulla stessa lunghezza d'onda. I sapori e le atmosfere medio orientali che escono prepotenti da Cramar-marochin, divertente confronto tra gli ambulanti provenienti dall'est europeo nel 1200/1600 e i moderni extracomunitari e il delicato tango di Argjentina, storie di emigrazioni e tristi ritorni.
Maieron tiene la lingua italiana per le canzoni più intimiste come I fantasmi di pietra, folk evocativo ispirato da uno scritto di Mauro Corona e dedicato alle vittime del grande e triste disastro del Vajont e Il peso della Neve dominata da banjo e fisarmonica.
Tre piccole perle sono Filo Spinato, quasi una filastrocca alla maniera di De Andrè, visuale di una mamma con il figlio alpino al fronte, la piacevole analisi sul trascorrere del tempo di Questa faccia, su atmosfere da oscuro western che ricorda tanto il compianto "cowboy"Johnny Cash e l'invito a non mollare mai e superare tutti gli ostacoli della flemmatica Cosa senti.
Sostenuto da una band di tutto rispetto e dall'aiuto di alcuni ospiti come Ellade Bandini alla batteria e Francesco Più e Davide Brambilla, "Vino Tabacco e cielo" è un piccolo scrigno pieno di tradizioni e storie, che come insegnato da Van De Sfroos, possono varcare i confini regionali e allargarsi in tutta Italia abbattendo quei fittizi confini federali che fortunatamente non sono ancora stati eretti.
INTERVISTA
mercoledì 28 settembre 2011
RECENSIONE: SUPERHEAVY(Superheavy)
SUPERHEAVY Superheavy ( AM Records, Universal, 2011)
La prima domanda sorge subito spontanea:ce n'era veramente bisogno? La risposta è più spontanea della domanda : no. Il problema risiede una volta finito l'ascolto quando al "no" si aggiunge anche un :"però è divertente". Scopo raggiunto. La patchanka globale sonora creata dal supergruppo messo in piedi da Dave Stewart funziona per soddisfare chi cerca 60 minuti di totale distrazione dagli impegni principali, la stessa che i cinque componenti cercavano in questo progetto: Dave Stewart appunto, Mick Jagger, Joss Stone, A.R. Rahman e Damian Marley forse colui che si è distratto meno, visto il mood globale su cui viaggiano quasi tutte le canzoni. Quindi se preso per quello che è, questo album è più che riuscito. Chi si era fatto illusorie aspettative cercando qui composizioni epocali rimarrà deluso, questo è chiaro.
Ma partiamo da due anni fa, quando a Dave Srewart, in bueno retiro in qualche paradiso vacanziero in Giamaica, balenò in testa l'idea di questo disco, ancor prima di trovare i compagni di viaggio. Stewart non si è mai imposto limiti e steccati musicali: dagli Eurythmics, ai suoi progetti solisti( ..chi si ricorda dei suoi Spiritual Cowboys e "The blackbird Diaries",l'ultimo disco solista di quest'anno che esplora il folk rock americano) alle sue collaborazioni da produttore con Bob Dylan e Tom Petty. Naturale, per lui, calarsi in questa divertente avventura che man mano ha visto l'aggiunta di nuovi elementi e come primo chi, se non Mick Jagger, cantante che non ha mai tradito il suo amore per certe sonorità. A partire dai Rolling Stones di "Black & Blue" e "Emotional Rescue", ai suoi poco convincenti episodi solisti e alle sue collaborazioni, fra cui quella con Peter Tosh. Una punta di diamante capace di attirare l'attenzione sul progetto( senza di lui avrebbe ottenuto lo stesso risalto?) e dare un aiuto nella produzione.
L'album registrato in numerosi punti sparsi in tutto il mondo cerca di riunire le caratteristiche dei cinque coinvolti, riuscendoci con un sound che partendo dal ritmo in levare, su cui si basano la maggior parte delle composizioni, si dirama in mille altre direzioni con un risultato di amalgama abbastanza intrigante a soddisfare più di un genere di ascoltatore ma soffermandosi di più sulle nuove generazioni. I fans degli Stones potranno riascoltare Jagger, sempre in straordinaria forma vocale, ricalcare le strade della band madre nella ballad per sola chitarra, voce e piano Never Gonna Change o nelle chitarre rock di I Can't Take It No More, tanto vicina agli Stones di metà anni ottanta oppure immergersi con grande duttilità nel reggae. Da quello più tradizionale e roots di Unbelievable e del singolo Miracle Worker a quello solare, rappato e contaminato con l'elettronica della danzereccia Energy, al feeling più oscuro di One Day One Night.
Non vi è dubbio che Damian Marley sguazzi a suo agio su queste composizioni che vedono i musicisti della sua band coinvolti e primeggiare nella confidenzialità di Rock Me Gently, dove la sua voce profonda, conquista. Sicuramente uno dei punti più alti del disco.
Joss Stone, la coccolata del gruppo, non si intimorisce di fronte ai grandi calibri coinvolti ma ci mette la sua voce duttile , presente in tutte le tracce: dolce (come nel leggero duetto con Jagger di I Don't Mind) e graffiante quando serve e il suo nuovo disco solista, prodotto dallo stesso Stewart segna per lei un nuovo inizio. Più difficile trovare la presenza del compositore indiano A.R. Rahman, star in patria, ma balzato agli onori della cronaca musicale mondiale dopo aver vinto l'oscar per la colonna sonora di The Millionaire e in luce solamente su Satyameva Jayathe anche se con un attento ascolto si trovano i suoi semi mediorientali( la lingua Urdu e certe orchestrazioni) in molti pezzi.
Il paradosso e limite del disco è il voler democraticamente unire tutte le forze dei presenti in canzoni che finiscono, pur nei numerosi imput presenti, ad assomigliarsi tutte e cedere il passo al pop. L'iniziale e corale Superheavy è il manifesto dell'operazione in tutti i sensi.
Nella versione limitata compaiono quattro tracks in più: l'episodio indiano Mahiya, la rockeggiante Warning People, la danzereccia e rappata Hey Captain e lo ska di Common Ground.
Un disco che con tutti i suoi limiti, riesce a prolungare la voglia d'estate, grazie ai suoi ritmi solari e caraibici e centra pienamente l'obiettivo prefissato. Non chiediamogli altro e soprattutto di più.VOTO:6,5
La prima domanda sorge subito spontanea:ce n'era veramente bisogno? La risposta è più spontanea della domanda : no. Il problema risiede una volta finito l'ascolto quando al "no" si aggiunge anche un :"però è divertente". Scopo raggiunto. La patchanka globale sonora creata dal supergruppo messo in piedi da Dave Stewart funziona per soddisfare chi cerca 60 minuti di totale distrazione dagli impegni principali, la stessa che i cinque componenti cercavano in questo progetto: Dave Stewart appunto, Mick Jagger, Joss Stone, A.R. Rahman e Damian Marley forse colui che si è distratto meno, visto il mood globale su cui viaggiano quasi tutte le canzoni. Quindi se preso per quello che è, questo album è più che riuscito. Chi si era fatto illusorie aspettative cercando qui composizioni epocali rimarrà deluso, questo è chiaro.
Ma partiamo da due anni fa, quando a Dave Srewart, in bueno retiro in qualche paradiso vacanziero in Giamaica, balenò in testa l'idea di questo disco, ancor prima di trovare i compagni di viaggio. Stewart non si è mai imposto limiti e steccati musicali: dagli Eurythmics, ai suoi progetti solisti( ..chi si ricorda dei suoi Spiritual Cowboys e "The blackbird Diaries",l'ultimo disco solista di quest'anno che esplora il folk rock americano) alle sue collaborazioni da produttore con Bob Dylan e Tom Petty. Naturale, per lui, calarsi in questa divertente avventura che man mano ha visto l'aggiunta di nuovi elementi e come primo chi, se non Mick Jagger, cantante che non ha mai tradito il suo amore per certe sonorità. A partire dai Rolling Stones di "Black & Blue" e "Emotional Rescue", ai suoi poco convincenti episodi solisti e alle sue collaborazioni, fra cui quella con Peter Tosh. Una punta di diamante capace di attirare l'attenzione sul progetto( senza di lui avrebbe ottenuto lo stesso risalto?) e dare un aiuto nella produzione.
L'album registrato in numerosi punti sparsi in tutto il mondo cerca di riunire le caratteristiche dei cinque coinvolti, riuscendoci con un sound che partendo dal ritmo in levare, su cui si basano la maggior parte delle composizioni, si dirama in mille altre direzioni con un risultato di amalgama abbastanza intrigante a soddisfare più di un genere di ascoltatore ma soffermandosi di più sulle nuove generazioni. I fans degli Stones potranno riascoltare Jagger, sempre in straordinaria forma vocale, ricalcare le strade della band madre nella ballad per sola chitarra, voce e piano Never Gonna Change o nelle chitarre rock di I Can't Take It No More, tanto vicina agli Stones di metà anni ottanta oppure immergersi con grande duttilità nel reggae. Da quello più tradizionale e roots di Unbelievable e del singolo Miracle Worker a quello solare, rappato e contaminato con l'elettronica della danzereccia Energy, al feeling più oscuro di One Day One Night.
Non vi è dubbio che Damian Marley sguazzi a suo agio su queste composizioni che vedono i musicisti della sua band coinvolti e primeggiare nella confidenzialità di Rock Me Gently, dove la sua voce profonda, conquista. Sicuramente uno dei punti più alti del disco.
Joss Stone, la coccolata del gruppo, non si intimorisce di fronte ai grandi calibri coinvolti ma ci mette la sua voce duttile , presente in tutte le tracce: dolce (come nel leggero duetto con Jagger di I Don't Mind) e graffiante quando serve e il suo nuovo disco solista, prodotto dallo stesso Stewart segna per lei un nuovo inizio. Più difficile trovare la presenza del compositore indiano A.R. Rahman, star in patria, ma balzato agli onori della cronaca musicale mondiale dopo aver vinto l'oscar per la colonna sonora di The Millionaire e in luce solamente su Satyameva Jayathe anche se con un attento ascolto si trovano i suoi semi mediorientali( la lingua Urdu e certe orchestrazioni) in molti pezzi.
Il paradosso e limite del disco è il voler democraticamente unire tutte le forze dei presenti in canzoni che finiscono, pur nei numerosi imput presenti, ad assomigliarsi tutte e cedere il passo al pop. L'iniziale e corale Superheavy è il manifesto dell'operazione in tutti i sensi.
Nella versione limitata compaiono quattro tracks in più: l'episodio indiano Mahiya, la rockeggiante Warning People, la danzereccia e rappata Hey Captain e lo ska di Common Ground.
Un disco che con tutti i suoi limiti, riesce a prolungare la voglia d'estate, grazie ai suoi ritmi solari e caraibici e centra pienamente l'obiettivo prefissato. Non chiediamogli altro e soprattutto di più.VOTO:6,5
domenica 25 settembre 2011
RECENSIONE: ALBERTO MARCHETTI(Alberto Marchetti)
ALBERTO MARCHETTI Alberto Marchetti (EP,Penthar Music, 2011)
Nei tempi odierni del tutto e subito, dove le scelte devono essere immediate e fatte con un semplice "clic" ed un banale "mi piace", prendersi del tempo sembra fuori moda e chissà perchè nocivo, alieno e pericoloso.
Questo ep con 5 canzoni (il primo) di Alberto Marchetti va controcorrente e obbliga ad una breve e rilassata pausa alla freneticità della vita.
Ho avuto modo di ascoltarlo per la prima volta sotto il silenzioso calore ipnotizzante di questa estate , con la natura ferma ed intenta ad abbronzarsi, suo malgrado, sotto il sole, senza un soffio di vento, quasi metaforicamente con l'orecchio immaginario sintonizzato alle casse.
Alberto Marchetti, quarantottenne, è un artista romano(anche teatro e pittura nella sua biografia) che scrive da sempre, ma che solamente ora grazie alla Phentar Music di Andrea Romano riesce a vedere i suoi testi impressi su disco e musicati grazie al prezioso aiuto di Loris Deval, Giovanni Gobbi e Daniele Giario.
Le canzoni di Marchetti pur aggangiandosi alla migliore tradizione cantautorale italiana, dalla scuola romana(De gregori) a quella genovese(Lauzi, Tenco, DeAndrè), possono contare su uno spiccato senso descrittivo facendo leva sulla suggestione, in particolar modo quando va a pescare nel passato. Da qui, le sue canzoni si incastrano alla perfezione in quel limbo di tempo fatto di antichi valori e di elogio alla lentezza di cui parlavo prima. Lettere Smarrite, liberamente ispirata da un racconto di Melville("Bartleby lo scrivano") sembra avvalorare la tesi del rifiuto della moderna società, emanando profumi immaginari di vecchie stanze piene di carta e polvere, dove il protagonista vive a suo agio con le fantasie che le lettere riescono a trasmettergli diversamente dall'asettica incomunicatività del mondo che lo aspetta fuori. Già andare a recuperare un mezzo di comunicazione "perduto ed obsoleto" come la lettera è un segnale della scrittura di Marchetti così come lo è andare a recuperare la storia di un'isola, L'isola che se ne andò (tanti i nomi attribuitegli: Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca , Ferdinandea) sommersa vicino a Sciacca e disputa, in passato come oggi, per la rivendicazione da parte di molti stati europei e musicata in modo elegante. Un modo per denunciare la bramosia degli uomini.
L'amore viene trattato nei suoi due punti estremi, la nascita e la fine: E' bello è una romantica dedica d'amore in una sognante atmosfera jazzata con la tromba protagonista, mentre Un pò di pace è una sarcastica presa di posizione verso una storia finita musicata su un allegro e disincantato walzer. E' lei non sa, il primo singolo, la canzone che mi ha convinto di meno di questa piccola raccolta.
Marchetti arriva allla sua prima incisione di canzoni dopo anni di dura gavetta, quasi per caso ma ottimo esempio di come i sogni non abbiano date di scadenza. Ora come minimo ci si aspetta un album completo per allungare la nostra doverosa "pausa" dalla freneticità della vita.
Nei tempi odierni del tutto e subito, dove le scelte devono essere immediate e fatte con un semplice "clic" ed un banale "mi piace", prendersi del tempo sembra fuori moda e chissà perchè nocivo, alieno e pericoloso.
Questo ep con 5 canzoni (il primo) di Alberto Marchetti va controcorrente e obbliga ad una breve e rilassata pausa alla freneticità della vita.
Ho avuto modo di ascoltarlo per la prima volta sotto il silenzioso calore ipnotizzante di questa estate , con la natura ferma ed intenta ad abbronzarsi, suo malgrado, sotto il sole, senza un soffio di vento, quasi metaforicamente con l'orecchio immaginario sintonizzato alle casse.
Alberto Marchetti, quarantottenne, è un artista romano(anche teatro e pittura nella sua biografia) che scrive da sempre, ma che solamente ora grazie alla Phentar Music di Andrea Romano riesce a vedere i suoi testi impressi su disco e musicati grazie al prezioso aiuto di Loris Deval, Giovanni Gobbi e Daniele Giario.
Le canzoni di Marchetti pur aggangiandosi alla migliore tradizione cantautorale italiana, dalla scuola romana(De gregori) a quella genovese(Lauzi, Tenco, DeAndrè), possono contare su uno spiccato senso descrittivo facendo leva sulla suggestione, in particolar modo quando va a pescare nel passato. Da qui, le sue canzoni si incastrano alla perfezione in quel limbo di tempo fatto di antichi valori e di elogio alla lentezza di cui parlavo prima. Lettere Smarrite, liberamente ispirata da un racconto di Melville("Bartleby lo scrivano") sembra avvalorare la tesi del rifiuto della moderna società, emanando profumi immaginari di vecchie stanze piene di carta e polvere, dove il protagonista vive a suo agio con le fantasie che le lettere riescono a trasmettergli diversamente dall'asettica incomunicatività del mondo che lo aspetta fuori. Già andare a recuperare un mezzo di comunicazione "perduto ed obsoleto" come la lettera è un segnale della scrittura di Marchetti così come lo è andare a recuperare la storia di un'isola, L'isola che se ne andò (tanti i nomi attribuitegli: Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca , Ferdinandea) sommersa vicino a Sciacca e disputa, in passato come oggi, per la rivendicazione da parte di molti stati europei e musicata in modo elegante. Un modo per denunciare la bramosia degli uomini.
L'amore viene trattato nei suoi due punti estremi, la nascita e la fine: E' bello è una romantica dedica d'amore in una sognante atmosfera jazzata con la tromba protagonista, mentre Un pò di pace è una sarcastica presa di posizione verso una storia finita musicata su un allegro e disincantato walzer. E' lei non sa, il primo singolo, la canzone che mi ha convinto di meno di questa piccola raccolta.
Marchetti arriva allla sua prima incisione di canzoni dopo anni di dura gavetta, quasi per caso ma ottimo esempio di come i sogni non abbiano date di scadenza. Ora come minimo ci si aspetta un album completo per allungare la nostra doverosa "pausa" dalla freneticità della vita.
mercoledì 21 settembre 2011
RECENSIONE: CHICKENFOOT (III)
CHICKENFOOT III ( e-a-r Music, 2011)
Quando uscì il primo album due anni fa,usai il risultato calcistico per dimostrare la vittoria artistica del supergruppo dei due cacciati eccellenti(in malo modo) dai fratelli Van Halen a sfavore della band madre assente dal mercato e in procinto di rientrarvi con il ritorno di David Lee Roth e il figliol prodigo Wolfgang Van Halen al basso. Sono passati due anni e dei Van Halen non c'è ancora traccia, mentre i Chickenfoot di Sammy Hagar, Michael Anthony, Chad Smith e il funanbolico Joe Satriani rinforzano ancora di più le loro radici facendo scomparire quel super davanti a gruppo per diventarlo a tutti gli effetti, aumentando la loro credibilità e scacciando le ipotesi da gruppo meteora. Nel 2011 il risultato a loro favore inizia ad assumere numeri da cappotto tennistico.
Gli ingredienti rispetto al precedente rimangano immutati ma si percepisce una maggiore rilassatezza e voglia di giocare e divertirsi con la musica, mantenendo fede ai principi base che fecero nascere la band: svago e tempo libero che adesso assumono lo status di trademark del gruppo. Per cui, l'ammiccamento leggero e pop di Different Devil può ricordare qualcosa di Sammy Hagar solista o dei Van Halen di metà anni ottanta. Contagiosa anche la più rockata e scollacciata Alright Alright, sui territori Kiss e con un Satriani libero di inventare assoli.
Come Closer è uno dei picchi emozionali del disco che conferma Hagar grande cantante e la band capace di toccare i territori soul con intensità sconosciute nel debutto. Con Three and a half Letters, si fanno portavoce della crisi economica americana, dando voce a tutti i senzalavoro. Credibile o no il messaggio(detto da dei milionari benestanti come loro...), la canzone si divide tra parti recitative e assalti all'arma bianca con l'urlo "I need a Job" che prevale su tutto.
Big Foot, tra donne e motori, è il primo singolo e riprende le coordinate del primo disco, l'episodio che si differenzia di meno tra tutti, anche il meno riuscito, ma forse ideale e rappresentativo del sound della band.
Dubai Blues mette in cattedra la sezione ritmica guidata dal basso di Anthony e dalla batteria di Smith(sarà sostituito dal "prezzemolo" Kenny Aronoff , durante i tour, visti gli impegni contemporanei dei suoi RHCP), un hard rock'n'oll funk con il solito bel assolo di Satriani.
I Chickenfoot colpiscono duro nel mid tempo hard rock Last Temptation, nella fiammeggiante Up Next e in Lighten Up, preceduta da un un intro di tastiere molto purpleiano per svilupparsi in una solida hard/blues song con un Hagar cattivo e convincente.
Conclusione con Something Going Wrong, ballad dal sapore western e vicina ai territori west coast con le ottime armonizzazioni vocali tra Hagar e Anthony(da sempre un backing vocalist di tutto rispetto e nell'intero disco si sente, come si sentirà nei Van Halen , orfani di lui).
Con ancora una bollente hidden track da scoprire(nella versione UK) questo secondo lavoro(il titolo III è una divertente presa in giro), prodotto dall'esperto Mike Fraser è sicuramente un'altra dimostrazione delle numerose sfaccettature che quattro musicisti (amici) riescono a dare alla musica, senza proclami ma inseguendo il divertimento, raggiungendolo e spargendolo a piene dosi attraverso le loro canzoni. Che il secondo tempo del party, anzi il terzo, abbia inizio.
Ultima nota per la particolare confezione del cd, con appositi occhialini 3D inclusi per poter vedere i nostri eroi uscire dalle foto!
Recensione: CHICKENFOOT I
http://www.impattosonoro.it/2010/01/14/recensioni/chickenfoot-chickenfoot/
Quando uscì il primo album due anni fa,usai il risultato calcistico per dimostrare la vittoria artistica del supergruppo dei due cacciati eccellenti(in malo modo) dai fratelli Van Halen a sfavore della band madre assente dal mercato e in procinto di rientrarvi con il ritorno di David Lee Roth e il figliol prodigo Wolfgang Van Halen al basso. Sono passati due anni e dei Van Halen non c'è ancora traccia, mentre i Chickenfoot di Sammy Hagar, Michael Anthony, Chad Smith e il funanbolico Joe Satriani rinforzano ancora di più le loro radici facendo scomparire quel super davanti a gruppo per diventarlo a tutti gli effetti, aumentando la loro credibilità e scacciando le ipotesi da gruppo meteora. Nel 2011 il risultato a loro favore inizia ad assumere numeri da cappotto tennistico.
Gli ingredienti rispetto al precedente rimangano immutati ma si percepisce una maggiore rilassatezza e voglia di giocare e divertirsi con la musica, mantenendo fede ai principi base che fecero nascere la band: svago e tempo libero che adesso assumono lo status di trademark del gruppo. Per cui, l'ammiccamento leggero e pop di Different Devil può ricordare qualcosa di Sammy Hagar solista o dei Van Halen di metà anni ottanta. Contagiosa anche la più rockata e scollacciata Alright Alright, sui territori Kiss e con un Satriani libero di inventare assoli.
Come Closer è uno dei picchi emozionali del disco che conferma Hagar grande cantante e la band capace di toccare i territori soul con intensità sconosciute nel debutto. Con Three and a half Letters, si fanno portavoce della crisi economica americana, dando voce a tutti i senzalavoro. Credibile o no il messaggio(detto da dei milionari benestanti come loro...), la canzone si divide tra parti recitative e assalti all'arma bianca con l'urlo "I need a Job" che prevale su tutto.
Big Foot, tra donne e motori, è il primo singolo e riprende le coordinate del primo disco, l'episodio che si differenzia di meno tra tutti, anche il meno riuscito, ma forse ideale e rappresentativo del sound della band.
Dubai Blues mette in cattedra la sezione ritmica guidata dal basso di Anthony e dalla batteria di Smith(sarà sostituito dal "prezzemolo" Kenny Aronoff , durante i tour, visti gli impegni contemporanei dei suoi RHCP), un hard rock'n'oll funk con il solito bel assolo di Satriani.
I Chickenfoot colpiscono duro nel mid tempo hard rock Last Temptation, nella fiammeggiante Up Next e in Lighten Up, preceduta da un un intro di tastiere molto purpleiano per svilupparsi in una solida hard/blues song con un Hagar cattivo e convincente.
Conclusione con Something Going Wrong, ballad dal sapore western e vicina ai territori west coast con le ottime armonizzazioni vocali tra Hagar e Anthony(da sempre un backing vocalist di tutto rispetto e nell'intero disco si sente, come si sentirà nei Van Halen , orfani di lui).
Con ancora una bollente hidden track da scoprire(nella versione UK) questo secondo lavoro(il titolo III è una divertente presa in giro), prodotto dall'esperto Mike Fraser è sicuramente un'altra dimostrazione delle numerose sfaccettature che quattro musicisti (amici) riescono a dare alla musica, senza proclami ma inseguendo il divertimento, raggiungendolo e spargendolo a piene dosi attraverso le loro canzoni. Che il secondo tempo del party, anzi il terzo, abbia inizio.
Ultima nota per la particolare confezione del cd, con appositi occhialini 3D inclusi per poter vedere i nostri eroi uscire dalle foto!
Recensione: CHICKENFOOT I
http://www.impattosonoro.it/2010/01/14/recensioni/chickenfoot-chickenfoot/
lunedì 19 settembre 2011
RECENSIONE: ALICE COOPER (Welcome 2 my Nightmare)
ALICE COOPER Welcome 2 my Nightmare( Universal Music,2011)
Ho sempre creduto poco ai remake cinemaografici ancor di meno in quelli musicali. Un capolavoro, unico deve restare. Lontano da attacchi e le repliche con quel pesante numero 2 nel titolo(che già da sè li posizionano dietro) e l'uscita a distanza di decenni dall'originale, si sono sempre rivelati poco convincenti se non per attrarre l'attenzione mass mediatica ma soprattutto paragonarli agli originali caricandoli di aspettative che difficilmente vengono mantenute. Rimanendo nel campo hard rock i primi esempi che mi vengono in mente sono: "Operation mindcrime II" dei Queensryche e "Land of free II" dei Gamma Ray, opere che con gli originali ben poco avevano a che fare, ma l'elenco è lungo.
Non mi piace quindi che Alice Cooper sia caduto in questo clichè del ripescaggio, perchè gli ultimissimi lavori lo vedevano in gran forma. The Eyes of Alice Cooper e Dirty Diamonds avevano recuperato quel grezzo suono rock'n'roll di Detroit staccandosi dal modernariato industriale dei più forzati Brutal Planet e Dragontown. L'ultimo Along came a spider tornava al concept album con risultati poco esaltanti ma comunque dignitosi.
Allora il modo migliore per analizzare il disco è cercare di dimenticarsi il titolo e in questo caso anche la copertina che in qualche modo cerca la continuazione con il famoso disco uscito nel 1975, vero e proprio primo tentativo di unire il rock con l'opera a tinte horror. Il revival, per essere completo, si allarga anche ai musicisti coinvolti: il chitarrista Michael Bruce,il bassista Dennis Dunaway e il batterista Neal Smith riuniti tutti insieme in alcune tracce . Unico assente della band che lo accompagnava negli anni '70 è il povero Glen Buxton scomparso nel 1997. Il tutto sotto la regia del produttore di allora ossia Bob Ezrin. Se remake dev'essere che sia almeno completo anche nei protagonisti, si sarà detto il buon Alice. Buon ospite nel disco, tra l'interminabile lista, il chitarrista Steve Hunter già con lo stesso Alice e Lou reed.
Difficile dare un giudizio uniforme di un album di 14 tracce, sfuggente e poco catalogabile come questo che comunque lo stesso Cooper precisa essere la versione aggiornata di quello uscito 36 anni fa. La differenza purtroppo la fa il tempo. Alice Cooper scrisse quello che unanimamente è considerato il suo capolavoro in un periodo di totale disfacimento personale, con l'incubo dell'alcol in piena azione e le canzoni ne beneficiarono ottimamente. Il suo personaggio e la carica teatrale, cinematografica e Grand Guignolesca, la storia dietro ai testi delle canzoni davano fastidio alla società americana e ai benpensanti di allora, oggi non più.
Se cercate le nuove Only women Bleed, The black widow e Steven difficilmente le troverete però bypassando gli episodi più imbarazzanti e fuori dal coro che fanno rimpiangere anche le derive bonjoviane di fine anni ottanta, alcune cose buone si possono trovare. Canzoni fortemente volute e studiate che potrebbero far parte del gioco ed essere un colpo di teatro, ma che alla fine risultano eccessive anche per uno come Alice Cooper abituato a sorprendere: What baby wants cantata in coppia con la popstar Kesha(che recentemente si è prodigata di complimenti verso papà Vincent Furnier) è un pop ballabile che strizza l'occhio alla mtv generation più giovane, anche il pasticcio sonoro di Disco bloodbath boogie fever un rock dance con un cantato rappato ed un coro piratesco alquanto dubbio con il solo di chitarra dell'altro ospite John 5 a salvare metà canzone. Una ricerca ossessiva del moderno che entusiasma poco in verità. Se questo era il tentativo di modernizzare il vecchio Welcome to my nightmare, allora è bocciatura.
Meglio buttarsi sulle bizzarrie più classiche e ortodosse, piene di sense of humour, come la marcetta/country Last man on Earth con banjo e ottoni che strizza l'occhio a Tom Waits, la tensione dell'overture teatrale, anche con le poche piacevoli voci filtrate I Am made of you e della breve presentazione di The Nightmare returns.
La parte migliore che resta sono: il divertente rock'n'roll alla stones di I'll bite your face off, i fiati di Ghouls Gone Wild tra anni '50 e i Ramones periodo Phil Spector, lo sferragliante e veloce rock'n'roll di A Runaway train, le più solide e pesanti hard rock di When Hell Comes Home, Caffeine o la ballad sulla scia di John Lennon/Beatles Something to remember me by fino ad arrivare alla chiusura affidata a Underture tra classica e rock.
Un disco a corrente alterna e ambizioso, inferiore alle sue ultime uscite con la ricerca forzata del sequel che purtroppo ha inciso negativamente sulla riuscita globale del lavoro ma che sicuramente verrà sfruttato al meglio nello spettacolo che verrà allestito per le date live.
Alice Cooper ha ancora tante vite da giocarsi ma il dubbio che sia riuscito ancora una volta a prendersi gioco di noi, rimane dopo l'ascolto.
Ho sempre creduto poco ai remake cinemaografici ancor di meno in quelli musicali. Un capolavoro, unico deve restare. Lontano da attacchi e le repliche con quel pesante numero 2 nel titolo(che già da sè li posizionano dietro) e l'uscita a distanza di decenni dall'originale, si sono sempre rivelati poco convincenti se non per attrarre l'attenzione mass mediatica ma soprattutto paragonarli agli originali caricandoli di aspettative che difficilmente vengono mantenute. Rimanendo nel campo hard rock i primi esempi che mi vengono in mente sono: "Operation mindcrime II" dei Queensryche e "Land of free II" dei Gamma Ray, opere che con gli originali ben poco avevano a che fare, ma l'elenco è lungo.
Non mi piace quindi che Alice Cooper sia caduto in questo clichè del ripescaggio, perchè gli ultimissimi lavori lo vedevano in gran forma. The Eyes of Alice Cooper e Dirty Diamonds avevano recuperato quel grezzo suono rock'n'roll di Detroit staccandosi dal modernariato industriale dei più forzati Brutal Planet e Dragontown. L'ultimo Along came a spider tornava al concept album con risultati poco esaltanti ma comunque dignitosi.
Allora il modo migliore per analizzare il disco è cercare di dimenticarsi il titolo e in questo caso anche la copertina che in qualche modo cerca la continuazione con il famoso disco uscito nel 1975, vero e proprio primo tentativo di unire il rock con l'opera a tinte horror. Il revival, per essere completo, si allarga anche ai musicisti coinvolti: il chitarrista Michael Bruce,il bassista Dennis Dunaway e il batterista Neal Smith riuniti tutti insieme in alcune tracce . Unico assente della band che lo accompagnava negli anni '70 è il povero Glen Buxton scomparso nel 1997. Il tutto sotto la regia del produttore di allora ossia Bob Ezrin. Se remake dev'essere che sia almeno completo anche nei protagonisti, si sarà detto il buon Alice. Buon ospite nel disco, tra l'interminabile lista, il chitarrista Steve Hunter già con lo stesso Alice e Lou reed.
Difficile dare un giudizio uniforme di un album di 14 tracce, sfuggente e poco catalogabile come questo che comunque lo stesso Cooper precisa essere la versione aggiornata di quello uscito 36 anni fa. La differenza purtroppo la fa il tempo. Alice Cooper scrisse quello che unanimamente è considerato il suo capolavoro in un periodo di totale disfacimento personale, con l'incubo dell'alcol in piena azione e le canzoni ne beneficiarono ottimamente. Il suo personaggio e la carica teatrale, cinematografica e Grand Guignolesca, la storia dietro ai testi delle canzoni davano fastidio alla società americana e ai benpensanti di allora, oggi non più.
Se cercate le nuove Only women Bleed, The black widow e Steven difficilmente le troverete però bypassando gli episodi più imbarazzanti e fuori dal coro che fanno rimpiangere anche le derive bonjoviane di fine anni ottanta, alcune cose buone si possono trovare. Canzoni fortemente volute e studiate che potrebbero far parte del gioco ed essere un colpo di teatro, ma che alla fine risultano eccessive anche per uno come Alice Cooper abituato a sorprendere: What baby wants cantata in coppia con la popstar Kesha(che recentemente si è prodigata di complimenti verso papà Vincent Furnier) è un pop ballabile che strizza l'occhio alla mtv generation più giovane, anche il pasticcio sonoro di Disco bloodbath boogie fever un rock dance con un cantato rappato ed un coro piratesco alquanto dubbio con il solo di chitarra dell'altro ospite John 5 a salvare metà canzone. Una ricerca ossessiva del moderno che entusiasma poco in verità. Se questo era il tentativo di modernizzare il vecchio Welcome to my nightmare, allora è bocciatura.
Meglio buttarsi sulle bizzarrie più classiche e ortodosse, piene di sense of humour, come la marcetta/country Last man on Earth con banjo e ottoni che strizza l'occhio a Tom Waits, la tensione dell'overture teatrale, anche con le poche piacevoli voci filtrate I Am made of you e della breve presentazione di The Nightmare returns.
La parte migliore che resta sono: il divertente rock'n'roll alla stones di I'll bite your face off, i fiati di Ghouls Gone Wild tra anni '50 e i Ramones periodo Phil Spector, lo sferragliante e veloce rock'n'roll di A Runaway train, le più solide e pesanti hard rock di When Hell Comes Home, Caffeine o la ballad sulla scia di John Lennon/Beatles Something to remember me by fino ad arrivare alla chiusura affidata a Underture tra classica e rock.
Un disco a corrente alterna e ambizioso, inferiore alle sue ultime uscite con la ricerca forzata del sequel che purtroppo ha inciso negativamente sulla riuscita globale del lavoro ma che sicuramente verrà sfruttato al meglio nello spettacolo che verrà allestito per le date live.
Alice Cooper ha ancora tante vite da giocarsi ma il dubbio che sia riuscito ancora una volta a prendersi gioco di noi, rimane dopo l'ascolto.
venerdì 16 settembre 2011
COVER ART#3: INTERVISTA a OLIMPIA ZAGNOLI
Olimpia Zagnoli ( http://www.olimpiazagnoli.com/)
artista ventisettenne, nata a Reggio Emilia, lavora e vive a Milano. I primi ad accorgersi di lei sono stati il New York Times e il NewYorker con i quali collabora come illustratrice. Presto il suo nome ha iniziato a girare il mondo ed anche l'Italia le dedica i giusti spazi...finalmente.
Eclettica, versatile e poliedrica, Olimpia è anche una grande appassionata di bella musica e proprio quest'anno ha collaborato con Rolling Stone per un simpatico e colorato progetto e con due giovani band italiane , mettendo la sua firma dietro agli artwork dei loro dischi.
Quale occasione migliore per fare due chiacchiere con lei, parlando solamente di musica e arte legata ai dischi...
Una volta era uso domandare, come se non esistessero altri gruppi: Beatles o Rolling Stones? In base alla risposta qualcuno si prodigava a cercare di capire anche il carattere di una persona...Ora ti chiedo, nell'arte visiva(LP cover, look, video, film)...tu cosa scegli Beatles o Rolling Stones?
Dal punto di vista visivo credo di potermi sbilanciare e dire Beatles, nonostante i Rolling Stones abbiano un'estetica molto riconoscibile e sensuale, a cominciare dal logo. E' difficile però battere dei capolavori visivi come Yellow Submarine illustrato da Edelmann, le divise di Sgt. Pepper, i fiori al collo del periodo indiano, la mela verde, i baffi di Ringo, il font di Magical Mistery Tour e le suggestioni estetiche dei loro testi.
...e musicalmente?
Considerando il fattore affettivo, le carriere solistiche dei singoli componenti e cercando di fare un' analisi complessiva, allora forse direi Beatles. Ultimamente però in questa casa si osserva il culto di Keith Richards.
Quest'anno hai avuto modo di cimentarti con la realizzazione di due cover album per due gruppi italiani: Green Like July e Ex-Otago. Come è avvenuto l'incontro con i due gruppi e come sono nate le copertine(...particolare ed inusuale quella dei Green Like July)?
In tutti e due i casi ho cercato di parlare molto con il gruppo, ascoltare i pezzi attentamente e capire cosa volevano comunicare.
Gli Ex-Otago volevano raccontare la natura critica e di denuncia dei nuovi testi attraverso un' immagine d'effetto e riassuntiva. Abbiamo fatto molte prove finchè non siamo arrivati ad una donna che ascolta una foglia. Per i Green Like July invece mi sono concentrata molto sui riferimenti estetici che i pezzi evocano e il loro inequivocabile richiamo all' America. Ho fatto una lunghissima ricerca tra vecchi libri di cucito, archivi di musei e mercatini fino ad elaborare una grafica che avesse lo stile tradizionale che cercavo, ma allo stesso tempo un disegno fatto su misura per loro.
Hai avuto anche l'opportunità di girare un video da regista. Come è andata?
Molto bene. E' stato un lavoro lungo ma soddisfacente. Tra le riprese e l'uscita
effettiva del video sono passati quasi due anni. Ho cercato di raccontare una storia, nonostante la povertà di mezzi e capacità (non avevo mai girato o montato un video prima). Spero di esserci riuscita in qualche modo e di avere presto l'opportunità di cimentarmi in qualcosa di nuovo.
Mai pensato alla fotografia(magari sì...e io mi sono perso qualcosa)?
No. Mi piace guardare le vecchie foto e mi piace registrare quello che faccio attraverso esse, ma non ho mai avuto particolari slanci artistici in questo campo. Mio padre mi ha insegnato dell'esistenza del diaframma, ma a parte questo non so nulla.
Come è nata l'idea dell'inserto sul mensile Rolling Stone? Hai avuto carta e pennello liberi?
L'idea di creare una versione di Rolling Stone per bambini è nata da Michele Lupi e da Studio Fantastico. Quando mi hanno proposto di illustrare "Rolling Stone Kids"
ero contentissima, vista la materia e il suo pubblico. Mi sono molto divertita e mi sono sentita libera di fare quello che volevo.
Anni '70: l'arte giocava a braccetto con la musica(copertine vinili, poster e manifesti-hai avuto modo di disegnare l'ultimo"balla con i cinghiali 2011"-), credi che si sia perso molto in questi anni ... c'è spazio per recuperare o appartiene tutto al passato?
Forse, a differenza di un tempo, non tutti si possono permettere di avere delle collaborazioni di altissima qualità come avveniva una volta. Credo però che ci siano degli abbinamenti tra arte e musica molto efficaci anche ora. Mi viene in mente per esempio il lavoro di Jonas & Francois per Justice e Audio Bullys, alcune cose di Roman Coppola o il recente intervento video dei Ragazzi della Prateria per il tour di Jovanotti. Non tutto è perduto, anche se non sono più gli anni 70.
Copertina rock preferita?
Mi piace molto "Odessey and Oracle" degli Zombies e "Disraeli Gears" dei Cream. Come singoli, il 7" di "Baby i love you" fatta dai Ramones. E poi naturalmente il White Album.
Copertina più brutta in cui ti sei imbattuta?
"Schoolboys in Disgrace" dei Kinks, illustrata tra l'altro da Mickey Finn dei T.Rex. Anche "Cloud Nine" di Harrison è piuttosto brutta. Detto questo, credo che le copertine orribili abbiano un loro fascino, soprattutto se il disco che contengono è bello come in questi due casi.
Artisti e album musicali preferiti?
T.Rex - The Slider
The Kinks - Part One Lola Versus Powerman And The Moneygoround
Big Star - #1 Record
Phil Spector - Back to Mono
Quando lavori ascolti musica?
Sì, mi piace molto ascoltare le colonne sonore.
In questi giorni sto ascoltando quella di Xanadù degli Electric Light Orchestra e quella di Percy dei Kinks.
Ultimo concerto visto?
Francesco Guccini con mia nonna l'altro ieri.
Dovessi scegliere un cantante/gruppo straniero con cui collaborare su chi punteresti e perchè?
I Kiss. Perchè sono i Kiss.
A cosa stai lavorando ora?
Sto facendo illustrazioni per libri, riviste e biscottifici.
Non sto facendo la spesa da molti giorni.
Il video di "A Better Man" girato per i Green Like July
artista ventisettenne, nata a Reggio Emilia, lavora e vive a Milano. I primi ad accorgersi di lei sono stati il New York Times e il NewYorker con i quali collabora come illustratrice. Presto il suo nome ha iniziato a girare il mondo ed anche l'Italia le dedica i giusti spazi...finalmente.
Eclettica, versatile e poliedrica, Olimpia è anche una grande appassionata di bella musica e proprio quest'anno ha collaborato con Rolling Stone per un simpatico e colorato progetto e con due giovani band italiane , mettendo la sua firma dietro agli artwork dei loro dischi.
Quale occasione migliore per fare due chiacchiere con lei, parlando solamente di musica e arte legata ai dischi...
Una volta era uso domandare, come se non esistessero altri gruppi: Beatles o Rolling Stones? In base alla risposta qualcuno si prodigava a cercare di capire anche il carattere di una persona...Ora ti chiedo, nell'arte visiva(LP cover, look, video, film)...tu cosa scegli Beatles o Rolling Stones?
Dal punto di vista visivo credo di potermi sbilanciare e dire Beatles, nonostante i Rolling Stones abbiano un'estetica molto riconoscibile e sensuale, a cominciare dal logo. E' difficile però battere dei capolavori visivi come Yellow Submarine illustrato da Edelmann, le divise di Sgt. Pepper, i fiori al collo del periodo indiano, la mela verde, i baffi di Ringo, il font di Magical Mistery Tour e le suggestioni estetiche dei loro testi.
...e musicalmente?
Considerando il fattore affettivo, le carriere solistiche dei singoli componenti e cercando di fare un' analisi complessiva, allora forse direi Beatles. Ultimamente però in questa casa si osserva il culto di Keith Richards.
Quest'anno hai avuto modo di cimentarti con la realizzazione di due cover album per due gruppi italiani: Green Like July e Ex-Otago. Come è avvenuto l'incontro con i due gruppi e come sono nate le copertine(...particolare ed inusuale quella dei Green Like July)?
In tutti e due i casi ho cercato di parlare molto con il gruppo, ascoltare i pezzi attentamente e capire cosa volevano comunicare.
Gli Ex-Otago volevano raccontare la natura critica e di denuncia dei nuovi testi attraverso un' immagine d'effetto e riassuntiva. Abbiamo fatto molte prove finchè non siamo arrivati ad una donna che ascolta una foglia. Per i Green Like July invece mi sono concentrata molto sui riferimenti estetici che i pezzi evocano e il loro inequivocabile richiamo all' America. Ho fatto una lunghissima ricerca tra vecchi libri di cucito, archivi di musei e mercatini fino ad elaborare una grafica che avesse lo stile tradizionale che cercavo, ma allo stesso tempo un disegno fatto su misura per loro.
Hai avuto anche l'opportunità di girare un video da regista. Come è andata?
Molto bene. E' stato un lavoro lungo ma soddisfacente. Tra le riprese e l'uscita
effettiva del video sono passati quasi due anni. Ho cercato di raccontare una storia, nonostante la povertà di mezzi e capacità (non avevo mai girato o montato un video prima). Spero di esserci riuscita in qualche modo e di avere presto l'opportunità di cimentarmi in qualcosa di nuovo.
Mai pensato alla fotografia(magari sì...e io mi sono perso qualcosa)?
No. Mi piace guardare le vecchie foto e mi piace registrare quello che faccio attraverso esse, ma non ho mai avuto particolari slanci artistici in questo campo. Mio padre mi ha insegnato dell'esistenza del diaframma, ma a parte questo non so nulla.
Come è nata l'idea dell'inserto sul mensile Rolling Stone? Hai avuto carta e pennello liberi?
L'idea di creare una versione di Rolling Stone per bambini è nata da Michele Lupi e da Studio Fantastico. Quando mi hanno proposto di illustrare "Rolling Stone Kids"
ero contentissima, vista la materia e il suo pubblico. Mi sono molto divertita e mi sono sentita libera di fare quello che volevo.
Anni '70: l'arte giocava a braccetto con la musica(copertine vinili, poster e manifesti-hai avuto modo di disegnare l'ultimo"balla con i cinghiali 2011"-), credi che si sia perso molto in questi anni ... c'è spazio per recuperare o appartiene tutto al passato?
Forse, a differenza di un tempo, non tutti si possono permettere di avere delle collaborazioni di altissima qualità come avveniva una volta. Credo però che ci siano degli abbinamenti tra arte e musica molto efficaci anche ora. Mi viene in mente per esempio il lavoro di Jonas & Francois per Justice e Audio Bullys, alcune cose di Roman Coppola o il recente intervento video dei Ragazzi della Prateria per il tour di Jovanotti. Non tutto è perduto, anche se non sono più gli anni 70.
Copertina rock preferita?
Mi piace molto "Odessey and Oracle" degli Zombies e "Disraeli Gears" dei Cream. Come singoli, il 7" di "Baby i love you" fatta dai Ramones. E poi naturalmente il White Album.
Copertina più brutta in cui ti sei imbattuta?
"Schoolboys in Disgrace" dei Kinks, illustrata tra l'altro da Mickey Finn dei T.Rex. Anche "Cloud Nine" di Harrison è piuttosto brutta. Detto questo, credo che le copertine orribili abbiano un loro fascino, soprattutto se il disco che contengono è bello come in questi due casi.
Artisti e album musicali preferiti?
T.Rex - The Slider
The Kinks - Part One Lola Versus Powerman And The Moneygoround
Big Star - #1 Record
Phil Spector - Back to Mono
Quando lavori ascolti musica?
Sì, mi piace molto ascoltare le colonne sonore.
In questi giorni sto ascoltando quella di Xanadù degli Electric Light Orchestra e quella di Percy dei Kinks.
Ultimo concerto visto?
Francesco Guccini con mia nonna l'altro ieri.
Dovessi scegliere un cantante/gruppo straniero con cui collaborare su chi punteresti e perchè?
I Kiss. Perchè sono i Kiss.
A cosa stai lavorando ora?
Sto facendo illustrazioni per libri, riviste e biscottifici.
Non sto facendo la spesa da molti giorni.
Il video di "A Better Man" girato per i Green Like July
martedì 13 settembre 2011
RECENSIONE: GIORGIO CANALI & ROSSO FUOCO ( Rojo)
GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO Rojo (La Tempesta Dischi, 2011)
Dopo il primo ascolto di questo nuovo Rojo di Giorgio Canali & Rosso Fuoco, mi sono venuti in mente immediatamente i Gang, la band marchigiana dei fratelli Severini, il gruppo che più di tutti in Italia ha incarnato nei primi anni ottanta lo spirito di quel Combat Rock, importato da oltremanica e che proprio grazie ad una presa di posizione(nel loro caso politica) abbastanza radicale ha sempre dovuto faticare per ottenere il primo piano che avrebbe meritato. Bisogna però dire che Canali, grazie ad una intransigente attitudine ad una vena creativa e poetica diretta ed esplicita, un certo seguito è riuscito a crearselo divenendo una piccola scheggia impazzita dietro alla musica italiana da "prima pagina", almeno da "giorgiocanali&rossofuoco"(2004) in poi, diventando a tutti gli effetti uno dei pochi a non girare troppo intorno ai problemi, usando la canzone come forma di attacco diretto ai poteri forti a costo di cadere nella retorica o nella denuncia nel peggiore dei casi. Così è se vi piace.
Se l'amico ed ex compagno di CCCP, CSI e PGR, Giovanni Lindo Ferretti negli ultimi anni è stato protagonista di un discutibile ma comunque rispettabile dietro front di ideali(nel rock certi cambiamenti di rotta si pagano), Canali dopo il più tranquillo, meditato ed intimista "Nostra signora della dinamite"(2009), torna sospinto dai venti di rivoluzione che soffiano sopra ad una crisi che è piombata e che ci vede inermi spettatori , poco colpevoli e molto coinvolti nel subirne gli effetti. Lui i suoi ideali non li ha abbandonati e Rojo lo sottolinea con gran forza. Chi ascoltando il suo ultimo album(che comunque è venuto fuori alla distanza) aspettò invano quella cattiveria e il lato cinico rimanendone deluso, potrà avvicinarsi a Rojo con totale fiducia e sicuro di avere d'avanti il "vecchio" Giorgio Canali che recentemente ha dichiarato di aver ritrovato la vecchia ispirazione: la bestemmia! Il tutto, alzandosi una mattina con la rivoluzione nel cuore e i canti di protesta e ribellione in testa.
Canali torna a quei testi che non hanno paura di dire tutto quel che c'è da dire, senza giri di parole e con quella sarcastica ironia anarcoide che abbiamo imparato a conoscere già dai suoi primi lavori solisti(Che fine ha fatto Lazlotòz-1998 e Rossofuoco-2002) ed un avvicinamento molto marcato al rock/folk americano con tanto di armonica, una presenza che si fa sentire in parecchi brani, dando una direzione ben precisa al lavoro. Sempre accompagnato dagli ormai fidi Rosso Fuoco anche se con qualche defezione e cambiamento: esce di scena la bassista francese Claude Saut sostituita da Nanni Fanelli, acquista una nuova chitarra in Stewie Dal Col che si va ad aggiungere ai vecchi componenti rimasti, Marco Greco alla chitarra e Luca Martelli alla batteria.
Allora che inizi la rivoluzione! Partenza a mille con la canzone di benvenuto, Regola#1, che prende il posto che fu di Precipito, Verità, la verità e Quello della foto nei vecchi dischi. Una chiamata alle armi più intenta ad analizzare il triste rapporto tra i mass-media e i movimenti di protesta, sottolineandone quanto le notizie possano essere manipolate e manipolare a loro volta,
(...se non ora quando-onniveggenti telecamere-agli angoli di questa città-faranno di voi delle celebrità-sampietrini, bastoni, dateci sotto-regola#1 sfasciare tutto-linea alla regia per la pubblicità-e al rientro in onda, un primo piano dello sponsor...).
Con Carmagnola#3 , scrive il suo canto di rivoluzione del nuovo millennio, andando a ripescare la lingua francese, tanto presente nei suoi primi lavori e lo spagnolo creando idealmente un ponte con quei Indignados spagnoli che quest'anno hanno ottenuto le prime pagine dei giornali aprendo una strada non ancora seguita nel nostro paese. Un monito ad agire?
C'è poi l'attacco diretto al clero, alle sue istituzioni e alla fede con i suoi dogmi che limitano la libertà individuale e di scelta , nella tambureggiante e tra le più riuscite Sai dove:
(...e sai dove ficcarti la tua verità-la tua fede-hai ancora sulle chiappe i segni-degli artigli del tuo prete-io, sceglierò di crepare-"se" e "quando" pare a me-io, sono mio, dai vediamo-vieni qui davanti a dirmelo-che così non è...).
Ci sarà , con la sua armonica ci guida a cercare alternative, qualcosa di meglio ma soprattutto a non mollare mai anche quando cercano di privarci di tutto, ma non il diritto di morire di gioia quando la rivoluzione è in atto. Morire di Noja: (...Voglio un posto in prima fila-mentre tutto crolla-mentre tutto intorno brucia e tutto il mondo balla-libero di morire di gioja, di morire di noja...).
Divertente e nuovo per Canali il rock'n'roll alla stones di Rivoluzione strategica#6 e le atmosfere di Treno di mezzanotte che ricordano l'ultimo De Gregori , sopratutto nel ritornello e nella citazione:(...ma Alice, guardando i gatti, ha imparato a scopare-unghie piantate sul cuore a spremere lacrime rosse...).
Più vicine alla vena intimista del precedente lavoro sono il duetto insieme ad Angela Baraldi(i due hanno girato l'Italia questa estate portando in giro le canzoni dei Joy Division), una canzone che allunga la mano a quelle murder ballad americane nei suoni ma con una linea melodica che fa venire subito in mente un cantautore italiano che su queste ballad ci ha costruito la carriera e sinceramente poco sulle corde di Canali. Più interessante il testo e il rammarico di non aver usato la voce della Baraldi anche nel resto del disco. Molto meglio, allora, gli altri due lenti : la stupenda e notturna Controvento (...e controvento, ignoro i riti del traffico, in questa trance di miele e aritmie cardiache-urla un clacson, ignoro il ritmo del battito-immagini di noi e dentro-scariche elettriche...)e Orfani dei cieli che chiude il disco.
Anche se qualche "giornale fighetto" che nel nome di testata ha una "s" in meno del gruppo della coppia Jagger/Richards lo stronca in quattro righe, io mi terrei stretto il Canali impetuoso e preso dall'ansia di ribellione. La rivoluzione in musica non ha età(ditelo al povero Joe Strummer) e con tutti gli ultra cinquantenni cantautori italiani agiati ed adagiati nel godersi la secondà età, una mosca bianca(o rojo) come Canali deve essere sempre libera di volare dove le pare.
Dopo il primo ascolto di questo nuovo Rojo di Giorgio Canali & Rosso Fuoco, mi sono venuti in mente immediatamente i Gang, la band marchigiana dei fratelli Severini, il gruppo che più di tutti in Italia ha incarnato nei primi anni ottanta lo spirito di quel Combat Rock, importato da oltremanica e che proprio grazie ad una presa di posizione(nel loro caso politica) abbastanza radicale ha sempre dovuto faticare per ottenere il primo piano che avrebbe meritato. Bisogna però dire che Canali, grazie ad una intransigente attitudine ad una vena creativa e poetica diretta ed esplicita, un certo seguito è riuscito a crearselo divenendo una piccola scheggia impazzita dietro alla musica italiana da "prima pagina", almeno da "giorgiocanali&rossofuoco"(2004) in poi, diventando a tutti gli effetti uno dei pochi a non girare troppo intorno ai problemi, usando la canzone come forma di attacco diretto ai poteri forti a costo di cadere nella retorica o nella denuncia nel peggiore dei casi. Così è se vi piace.
Se l'amico ed ex compagno di CCCP, CSI e PGR, Giovanni Lindo Ferretti negli ultimi anni è stato protagonista di un discutibile ma comunque rispettabile dietro front di ideali(nel rock certi cambiamenti di rotta si pagano), Canali dopo il più tranquillo, meditato ed intimista "Nostra signora della dinamite"(2009), torna sospinto dai venti di rivoluzione che soffiano sopra ad una crisi che è piombata e che ci vede inermi spettatori , poco colpevoli e molto coinvolti nel subirne gli effetti. Lui i suoi ideali non li ha abbandonati e Rojo lo sottolinea con gran forza. Chi ascoltando il suo ultimo album(che comunque è venuto fuori alla distanza) aspettò invano quella cattiveria e il lato cinico rimanendone deluso, potrà avvicinarsi a Rojo con totale fiducia e sicuro di avere d'avanti il "vecchio" Giorgio Canali che recentemente ha dichiarato di aver ritrovato la vecchia ispirazione: la bestemmia! Il tutto, alzandosi una mattina con la rivoluzione nel cuore e i canti di protesta e ribellione in testa.
Canali torna a quei testi che non hanno paura di dire tutto quel che c'è da dire, senza giri di parole e con quella sarcastica ironia anarcoide che abbiamo imparato a conoscere già dai suoi primi lavori solisti(Che fine ha fatto Lazlotòz-1998 e Rossofuoco-2002) ed un avvicinamento molto marcato al rock/folk americano con tanto di armonica, una presenza che si fa sentire in parecchi brani, dando una direzione ben precisa al lavoro. Sempre accompagnato dagli ormai fidi Rosso Fuoco anche se con qualche defezione e cambiamento: esce di scena la bassista francese Claude Saut sostituita da Nanni Fanelli, acquista una nuova chitarra in Stewie Dal Col che si va ad aggiungere ai vecchi componenti rimasti, Marco Greco alla chitarra e Luca Martelli alla batteria.
Allora che inizi la rivoluzione! Partenza a mille con la canzone di benvenuto, Regola#1, che prende il posto che fu di Precipito, Verità, la verità e Quello della foto nei vecchi dischi. Una chiamata alle armi più intenta ad analizzare il triste rapporto tra i mass-media e i movimenti di protesta, sottolineandone quanto le notizie possano essere manipolate e manipolare a loro volta,
(...se non ora quando-onniveggenti telecamere-agli angoli di questa città-faranno di voi delle celebrità-sampietrini, bastoni, dateci sotto-regola#1 sfasciare tutto-linea alla regia per la pubblicità-e al rientro in onda, un primo piano dello sponsor...).
Con Carmagnola#3 , scrive il suo canto di rivoluzione del nuovo millennio, andando a ripescare la lingua francese, tanto presente nei suoi primi lavori e lo spagnolo creando idealmente un ponte con quei Indignados spagnoli che quest'anno hanno ottenuto le prime pagine dei giornali aprendo una strada non ancora seguita nel nostro paese. Un monito ad agire?
C'è poi l'attacco diretto al clero, alle sue istituzioni e alla fede con i suoi dogmi che limitano la libertà individuale e di scelta , nella tambureggiante e tra le più riuscite Sai dove:
(...e sai dove ficcarti la tua verità-la tua fede-hai ancora sulle chiappe i segni-degli artigli del tuo prete-io, sceglierò di crepare-"se" e "quando" pare a me-io, sono mio, dai vediamo-vieni qui davanti a dirmelo-che così non è...).
Ci sarà , con la sua armonica ci guida a cercare alternative, qualcosa di meglio ma soprattutto a non mollare mai anche quando cercano di privarci di tutto, ma non il diritto di morire di gioia quando la rivoluzione è in atto. Morire di Noja: (...Voglio un posto in prima fila-mentre tutto crolla-mentre tutto intorno brucia e tutto il mondo balla-libero di morire di gioja, di morire di noja...).
Divertente e nuovo per Canali il rock'n'roll alla stones di Rivoluzione strategica#6 e le atmosfere di Treno di mezzanotte che ricordano l'ultimo De Gregori , sopratutto nel ritornello e nella citazione:(...ma Alice, guardando i gatti, ha imparato a scopare-unghie piantate sul cuore a spremere lacrime rosse...).
Più vicine alla vena intimista del precedente lavoro sono il duetto insieme ad Angela Baraldi(i due hanno girato l'Italia questa estate portando in giro le canzoni dei Joy Division), una canzone che allunga la mano a quelle murder ballad americane nei suoni ma con una linea melodica che fa venire subito in mente un cantautore italiano che su queste ballad ci ha costruito la carriera e sinceramente poco sulle corde di Canali. Più interessante il testo e il rammarico di non aver usato la voce della Baraldi anche nel resto del disco. Molto meglio, allora, gli altri due lenti : la stupenda e notturna Controvento (...e controvento, ignoro i riti del traffico, in questa trance di miele e aritmie cardiache-urla un clacson, ignoro il ritmo del battito-immagini di noi e dentro-scariche elettriche...)e Orfani dei cieli che chiude il disco.
Anche se qualche "giornale fighetto" che nel nome di testata ha una "s" in meno del gruppo della coppia Jagger/Richards lo stronca in quattro righe, io mi terrei stretto il Canali impetuoso e preso dall'ansia di ribellione. La rivoluzione in musica non ha età(ditelo al povero Joe Strummer) e con tutti gli ultra cinquantenni cantautori italiani agiati ed adagiati nel godersi la secondà età, una mosca bianca(o rojo) come Canali deve essere sempre libera di volare dove le pare.
domenica 11 settembre 2011
RECENSIONE: ANTHRAX (Worship Music)
ANTHRAX Worship Music (Megaforce Records,2011)
Stare dietro alla telenovela degli ultimi anni in casa Anthrax è impresa assai ardua. L'uscita di John Bush dal gruppo, scelta suicida, visto il gradino che la band seppe salire con l'ex Armored Saint negli anni novanta("Sound of White Noise" è uno dei migliori dischi metal in pieno periodo "grunge")non mi andò giù. Tra i Big Four del Thrash Metal(quantomai celebrati in questi anni, ma cosa sarebbe stato il tour negli anni d'oro?), i newyorchesi furono gli unici insieme agli Slayer ad uscire dalla crisi del genere senza aver fatto grandi danni nella loro discografia dove non troverete un "Risk" o un "Reload" ma piuttosto un tentativo di adattare la loro musica ad una voce versatile come quella di Bush e ai tempi che cambiavano.
Successe poi che per la smania di festeggiare anniversari e vecchi dischi, ci fu il ritorno all'ovile di Belladonna, l'allontanamento e il malcontento di Bush, il nuovo allontanamento di Belladonna, una volta finita la festa e l'arrivo di un tale Dan Nelson, lodato ed emerito sconosciuto e l'inizio dei lavori di questo "Worship Music". Canzoni ultimate e di Nelson non vi è più traccia. Beghe legali e audizioni su audizioni per cercare un nuovo cantante. A questo punto anche chi come me ha sempre amato gli Anthrax, viene sfinito. La fine degli Anthrax e della loro credibilità?
Macchè? Ci si riprova con Joey Belladonna e il miracolo a metà (non esageriamo) accade.
Tolto "Attack of the killer B's" , l'ultimo album registrato con Belladonna, rimane il lontano "Persistence of Time"(1990) ma ascoltando il nuovo disco sembra di tornare indietro a vent'anni fa. "Worship Music" è forse l'album che mancava per unire i due periodi della storia del gruppo. Old school Thrash che fa tesoro del suono moderno portato avanti con Bush, con Belladonna in forma smagliante, versatile come non mai e più in forma di quanto le uscite live lasciassero prevedere.
Canzoni che di fatto sono state scritte per un altro cantante, nel cassetto da alcuni anni, ma che grazie al lavoro del chitarrista Rob Caggiano in produzione, escono potenti e moderne, con la batteria di Charlie Benante e il basso di Frank Bello in tutta evidenza. I riff chitarristici di Scott Ian sono tanto riconoscibili quanto vittime nel cadere nel già sentito in alcuni momenti.
Earth on Hell e Judas Priest sono esemplificative del mix sonoro tra la velocità old school thrash e il groove che caratterizzò gli anni novanta. The devil you know, presenta un riff di chitarra pesante ma abusato, molto meglio Fightem'til you can't e qui il salto indietro nel tempo è definitivo con un chorus molto catchy e melodico che si spinge ai periodi di "Spreading the disease"(1985) e assoli presenti e ficcanti, sicuramente il pezzo più riuscito dell'intero lavoro.
I'm Alive è una cadenzata e quadrata thrash song con Belladonna ancora protagonista(...eh sì , è il suo disco), melodica ed epica nel cantato. Crawl è l'unica concessione alla ballad e si stacca notevolmente dal resto dei brani, mantenendo comunque un chorus elettrico e pesante e si oppone a The Giant, la più veloce e furiosa.
In the End è la canzone più particolare del disco, anticipata da un intro di viola( che riporta in mente l'inizio di Be All,End All), è stata scritta per gli amici Dimebag Darrell e R.J. Dio, sfiorando l'epic metal nel suo incedere. Revolution Screams in chiusura fa saltare mantenendo una linea melodica nel cantato fino a portare alla hidden track New Noise, cover dei Refused e nascosta dietro a cinque minuti di silenzio.
Se un appunto bisogna trovare è la costante ricerca della melodia nei chorus che se allargata a tutte le canzoni, non fa che uniformare troppo il disco.
Un lavoro comunque di transizione ma che riporta gli Anthrax in pole position. Pensavo potesse uscir fuori peggio, visto le movimentate vicende di line-up che a questo punto rimangono l'unico vero nemico per il futuro. Per ora :bentornati!
Stare dietro alla telenovela degli ultimi anni in casa Anthrax è impresa assai ardua. L'uscita di John Bush dal gruppo, scelta suicida, visto il gradino che la band seppe salire con l'ex Armored Saint negli anni novanta("Sound of White Noise" è uno dei migliori dischi metal in pieno periodo "grunge")non mi andò giù. Tra i Big Four del Thrash Metal(quantomai celebrati in questi anni, ma cosa sarebbe stato il tour negli anni d'oro?), i newyorchesi furono gli unici insieme agli Slayer ad uscire dalla crisi del genere senza aver fatto grandi danni nella loro discografia dove non troverete un "Risk" o un "Reload" ma piuttosto un tentativo di adattare la loro musica ad una voce versatile come quella di Bush e ai tempi che cambiavano.
Successe poi che per la smania di festeggiare anniversari e vecchi dischi, ci fu il ritorno all'ovile di Belladonna, l'allontanamento e il malcontento di Bush, il nuovo allontanamento di Belladonna, una volta finita la festa e l'arrivo di un tale Dan Nelson, lodato ed emerito sconosciuto e l'inizio dei lavori di questo "Worship Music". Canzoni ultimate e di Nelson non vi è più traccia. Beghe legali e audizioni su audizioni per cercare un nuovo cantante. A questo punto anche chi come me ha sempre amato gli Anthrax, viene sfinito. La fine degli Anthrax e della loro credibilità?
Macchè? Ci si riprova con Joey Belladonna e il miracolo a metà (non esageriamo) accade.
Tolto "Attack of the killer B's" , l'ultimo album registrato con Belladonna, rimane il lontano "Persistence of Time"(1990) ma ascoltando il nuovo disco sembra di tornare indietro a vent'anni fa. "Worship Music" è forse l'album che mancava per unire i due periodi della storia del gruppo. Old school Thrash che fa tesoro del suono moderno portato avanti con Bush, con Belladonna in forma smagliante, versatile come non mai e più in forma di quanto le uscite live lasciassero prevedere.
Canzoni che di fatto sono state scritte per un altro cantante, nel cassetto da alcuni anni, ma che grazie al lavoro del chitarrista Rob Caggiano in produzione, escono potenti e moderne, con la batteria di Charlie Benante e il basso di Frank Bello in tutta evidenza. I riff chitarristici di Scott Ian sono tanto riconoscibili quanto vittime nel cadere nel già sentito in alcuni momenti.
Earth on Hell e Judas Priest sono esemplificative del mix sonoro tra la velocità old school thrash e il groove che caratterizzò gli anni novanta. The devil you know, presenta un riff di chitarra pesante ma abusato, molto meglio Fightem'til you can't e qui il salto indietro nel tempo è definitivo con un chorus molto catchy e melodico che si spinge ai periodi di "Spreading the disease"(1985) e assoli presenti e ficcanti, sicuramente il pezzo più riuscito dell'intero lavoro.
I'm Alive è una cadenzata e quadrata thrash song con Belladonna ancora protagonista(...eh sì , è il suo disco), melodica ed epica nel cantato. Crawl è l'unica concessione alla ballad e si stacca notevolmente dal resto dei brani, mantenendo comunque un chorus elettrico e pesante e si oppone a The Giant, la più veloce e furiosa.
In the End è la canzone più particolare del disco, anticipata da un intro di viola( che riporta in mente l'inizio di Be All,End All), è stata scritta per gli amici Dimebag Darrell e R.J. Dio, sfiorando l'epic metal nel suo incedere. Revolution Screams in chiusura fa saltare mantenendo una linea melodica nel cantato fino a portare alla hidden track New Noise, cover dei Refused e nascosta dietro a cinque minuti di silenzio.
Se un appunto bisogna trovare è la costante ricerca della melodia nei chorus che se allargata a tutte le canzoni, non fa che uniformare troppo il disco.
Un lavoro comunque di transizione ma che riporta gli Anthrax in pole position. Pensavo potesse uscir fuori peggio, visto le movimentate vicende di line-up che a questo punto rimangono l'unico vero nemico per il futuro. Per ora :bentornati!
venerdì 9 settembre 2011
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD (2120 South Michigan Avenue)
GEORGE THOROGOOD and THE DESTROYERS 2120 South Michigan Avenue (Capitol, 2011)
Con ancora negli occhi Cadillac Ranch, il film di Darnell Martin uscito nel 2008, che ricostruiva il grande periodo della storica etichetta Chess Records, fucina di talenti musicali come poche altre e mai più ripetibili, oggi mi ritrovo un altro omaggio alla casa discografica dei fratelli Leonard e Phil Chess. Questa volta l'omaggio è impresso su vinile(fa più vintage e la copertina mi da ragione...) e il suo autore è George Thorogood. Se nel film, ragioni di copione intrecciavano amori e musica, qualche volta facendo prevalere i primi, con Thorogood andiamo sul sicuro. Riprendendo la via di Chicago , dove nacque la storica etichetta, quella 2120 South Michigan Avenue che già gli Stones, tra i più fedeli discepoli del suono blues, omaggiarono nel lontano 1964, con un strumentale che recava proprio la via come titolo e registrata in quegli studi insieme alle altre quattro canzoni che componevano quell'Ep(Five to Five).
Oggi Thorogood, oltre a riprendere quel strumentale degli Stones e piazzarlo come titolo, aggiunge 2 composizioni di suo pugno e altre dieci scelte tra il vasto catalogo della Chess Records. Pur avendo solo l'imbarazzo della scelta, Thorogood si è orientato verso quegli artisti e canzoni più vicini al suo modo di intendere la musica, privilegiando quindi i tempi più sostenuti e rock'n'roll.
Thorogood ancora oggi a sessantanni è una forza della natura, soprattutto in sede live, proprio come nella seconda metà degli anni settanta, quando uscì allo scoperto rispolverando le grandi canzoni dei padri del blues nero, bagnandole con il suo sudore e arricchendole di forza selvaggia, ricevendo anche il benestare dei suoi amati Rolling Stones.
A distanza di anni, Thorogood continua ad omaggiare il blues, con uscite costanti di dischi, divisi tra sue composizioni e cover, sempre con al suo fianco i fedeli Destroyers(Bill Blough al basso, Buddy Leach al sassofono, Jeff Simon alla batteria e Jim Suhler alla seconda chitarra), sempre citati a suo fianco nel monicker di copertina.
L'amore di Thorogood per la Chess Records risale, come lui stesso racconta, a quando teenager lesse che Jagger e Richards scrissero all'etichetta, ricavando l'indirizzo da un vecchio vinile di Chuck Berry. Il giovane Thorogood per curiosità di emulazione, fece lo stesso e si fece spedire il catalogo completo della Chess. Da lì nacque il suo amore per il blues.
Le due canzoni scritte per il disco da Thorogood e Tom Hambridge(produttore) sono due sentiti omaggi al blues: l'opener Going Back ripercorre la storia della musica del Delta dalle origini alla svolta elettrica, soffermandosi su Chicago, con una chitarra che accompagna il viaggio in modo fedele. Willie Dixon's gone è invece un nostalgico e sentito omaggio al bassista e produttore che lasciò la sua firma su le più importanti produzioni del Blues di Chicago. Canzone veloce ed urgente quanto evocativa e nostalgica nel testo, una delle migliori del disco.
Vi sono poi le undici riletture, di 2120 South Michigan Avenue dei Rolling Stones ho già parlato, se non per aggiungere la presenza di Charlie Musselwhite all'armonica, così come in My Babe, composizione di Little Walter, che necessitava obbligatoriamente di questo intervento.Un classico.
Composizioni devote e sentite, che non stravolgono le originali se non per aggiungere la carica e la forza della sua chitarra che si può apprezzare nei tre pezzi più rock'n'roll della raccolta: Let it Rock del maestro Chuck Berry, Seventh Son di Willie Dixon e Mama Talk to your Daughter di J.B. Lenoir trasformata in una indiavolata rock'n'roll song.
L'altro illustre ospite è Buddy Guy che interviene in Hi-Heel Sneakers. Completano Spoonful di Howlin' Wolf, Chicago Bound, Help Me, Two Trains Running di Muddy Waters.
Canzoni che cambiarono la vita a Thorogood, forse difficilmente le sue riproposizioni cambieranno la nostra ma queste canzoni sono patrimonio mondiale e destinate all'immortalità.
Thorogood rilascia solo un divertente e sentito invito a riscoprirle.
Con ancora negli occhi Cadillac Ranch, il film di Darnell Martin uscito nel 2008, che ricostruiva il grande periodo della storica etichetta Chess Records, fucina di talenti musicali come poche altre e mai più ripetibili, oggi mi ritrovo un altro omaggio alla casa discografica dei fratelli Leonard e Phil Chess. Questa volta l'omaggio è impresso su vinile(fa più vintage e la copertina mi da ragione...) e il suo autore è George Thorogood. Se nel film, ragioni di copione intrecciavano amori e musica, qualche volta facendo prevalere i primi, con Thorogood andiamo sul sicuro. Riprendendo la via di Chicago , dove nacque la storica etichetta, quella 2120 South Michigan Avenue che già gli Stones, tra i più fedeli discepoli del suono blues, omaggiarono nel lontano 1964, con un strumentale che recava proprio la via come titolo e registrata in quegli studi insieme alle altre quattro canzoni che componevano quell'Ep(Five to Five).
Oggi Thorogood, oltre a riprendere quel strumentale degli Stones e piazzarlo come titolo, aggiunge 2 composizioni di suo pugno e altre dieci scelte tra il vasto catalogo della Chess Records. Pur avendo solo l'imbarazzo della scelta, Thorogood si è orientato verso quegli artisti e canzoni più vicini al suo modo di intendere la musica, privilegiando quindi i tempi più sostenuti e rock'n'roll.
Thorogood ancora oggi a sessantanni è una forza della natura, soprattutto in sede live, proprio come nella seconda metà degli anni settanta, quando uscì allo scoperto rispolverando le grandi canzoni dei padri del blues nero, bagnandole con il suo sudore e arricchendole di forza selvaggia, ricevendo anche il benestare dei suoi amati Rolling Stones.
A distanza di anni, Thorogood continua ad omaggiare il blues, con uscite costanti di dischi, divisi tra sue composizioni e cover, sempre con al suo fianco i fedeli Destroyers(Bill Blough al basso, Buddy Leach al sassofono, Jeff Simon alla batteria e Jim Suhler alla seconda chitarra), sempre citati a suo fianco nel monicker di copertina.
L'amore di Thorogood per la Chess Records risale, come lui stesso racconta, a quando teenager lesse che Jagger e Richards scrissero all'etichetta, ricavando l'indirizzo da un vecchio vinile di Chuck Berry. Il giovane Thorogood per curiosità di emulazione, fece lo stesso e si fece spedire il catalogo completo della Chess. Da lì nacque il suo amore per il blues.
Le due canzoni scritte per il disco da Thorogood e Tom Hambridge(produttore) sono due sentiti omaggi al blues: l'opener Going Back ripercorre la storia della musica del Delta dalle origini alla svolta elettrica, soffermandosi su Chicago, con una chitarra che accompagna il viaggio in modo fedele. Willie Dixon's gone è invece un nostalgico e sentito omaggio al bassista e produttore che lasciò la sua firma su le più importanti produzioni del Blues di Chicago. Canzone veloce ed urgente quanto evocativa e nostalgica nel testo, una delle migliori del disco.
Vi sono poi le undici riletture, di 2120 South Michigan Avenue dei Rolling Stones ho già parlato, se non per aggiungere la presenza di Charlie Musselwhite all'armonica, così come in My Babe, composizione di Little Walter, che necessitava obbligatoriamente di questo intervento.Un classico.
Composizioni devote e sentite, che non stravolgono le originali se non per aggiungere la carica e la forza della sua chitarra che si può apprezzare nei tre pezzi più rock'n'roll della raccolta: Let it Rock del maestro Chuck Berry, Seventh Son di Willie Dixon e Mama Talk to your Daughter di J.B. Lenoir trasformata in una indiavolata rock'n'roll song.
L'altro illustre ospite è Buddy Guy che interviene in Hi-Heel Sneakers. Completano Spoonful di Howlin' Wolf, Chicago Bound, Help Me, Two Trains Running di Muddy Waters.
Canzoni che cambiarono la vita a Thorogood, forse difficilmente le sue riproposizioni cambieranno la nostra ma queste canzoni sono patrimonio mondiale e destinate all'immortalità.
Thorogood rilascia solo un divertente e sentito invito a riscoprirle.
martedì 6 settembre 2011
RECENSIONE: TOM MORELLO the NIGHTWATCHMAN (World Wide Rebel Songs)
TOM MORELLO the NIGHTWATCHMAN World Wide Rebel Songs (NEW WEST, 2011)
Tom Morello sta dimostrando sempre più di essere stato, oltre che l'ascia imprevedibile, innovativa ed inimitabile dietro ai Rage Against the Machine, anche l'anima spirituale e barricadera dietro al progetto che rivoluzionò il rapporto rock/hip hop elevandolo a strumento di lotta contro il sistema capitalistico, assumendo, a tutti gli effetti, le connotazioni di band politica. Con il cantante Zack De la Rocha, da tempo un desaparecido chissà dove (ritornato alla ribalta solo per le estemporanee reunion live del gruppo), Morello ha continuato la sua battaglia su diversi fronti.
Lo abbiamo visto unire le forze con Chris Cornell, nel progetto Audioslave, durato tre album, lasciando un ricordo inferiore a quanto la somma dei componenti lasciasse presagire, abbandonando la lotta sociale fino al definitivo split con il bel Cornell tornato all'ovile del "giardino del suono grunge". La voglia di combattere, venuta meno negli Audioslave, si è rimpossessata di Morello, sotto forma di folk, all'inseguimento di chi la protesta la portò avanti con sola voce, slogan e chitarra, come un novello "antico" Woody Guthrie o "moderno" Billy Bragg, mettendo in piedi il progetto the Nightwatchman, che con questo "World Wide Rebel Songs" arriva al traguardo del terzo album. In mezzo e nel mentre, tanti altri progetti: sia musicali con i Street Sweeper Social Club in compagnia di Boots Riley (una sorta di RATM meno infervorati) e apparizioni a fianco di Bruce Springsteen, Robbie Robertson e Steve Earle , sia sociali, con la formazione di associazioni umanitarie no-profit come Axis of Justice in compagnia di Serj Tankian , cantante dei System of a Down.
"World Wide Rebel Songs", anticipato di qualche mese dall'ep "City Town", si differenzia dai due precedenti lavori per un ritorno alla full band e la ricomparsa della sua chitarra elettrica, libera di disturbare con i suoni da mago dell'effettistica. Non più solo folk per chitarra acustica ma un album di combat folk/rock che non disdegna puntate elettriche assumendo più sfumature e colori.
Black Spartacus Heart Attack Machine è un incalzante rock che apre il disco ma forse anche la canzone meno riuscita con quei chorus finali un po' imbarazzanti e forzati. Anthem e chorus saranno una presenza costante durante tutto il disco ma fortunatamente usati meglio. It Begings Tonight si candida ad essere la canzone che più si allaccia con il passato dei RATM, Morello rispolvera i riff e gli assoli che lo resero famoso e riconoscibile.
Con lo sguardo rivolto a Joe Strummer in The Dogs of Tijuana, nel canto di protesta anti guerra Stray Bullets e nella finale Union Town tra gospel e il combat/folk dei Clash e dello Springsteen più impegnato.
Ancora le ombre dell'amico del New Jersey fanno capolino nella seconda parte di Speak and make lightning: inizio da canzone folk che si trasforma in una sarabanda da big band sullo stile del progetto Seeger Sessions portato in scena qualche anno fa da Springsteen.
La title track è una chiamata alle armi che sfoggia un contagioso coro che dal vivo sarà protagonista. Più vicine ai due precedenti dischi il folk acustico di Branding Iron, la triste Whirlwind, la preghiera God Help Us All, oscura e vicina alle atmosfere delle American recordings dell'ultimo Cash e il duetto con voce femminile di The fifth Horseman of the Apocalypse con lo scambio chitarra /violino.
Discorso a parte merita Save the Hammer for the man, primo singolo dell'album, una folkie song, puntellata dall'hammond, che accarezza il soul grazie all'apporto di Ben Harper, coautore del pezzo. Un piccolo gioiello da conservare.
Morello prosegue semplicemente il discorso iniziato negli anni novanta con i RATM, cambia la forma ma non la sostanza. Coerenza di idee vestita di folk, più che mai attuale in questi mesi con il mondo a gambe all'aria.
vedi anche RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN- Wrecking Ball (2012)
Tom Morello sta dimostrando sempre più di essere stato, oltre che l'ascia imprevedibile, innovativa ed inimitabile dietro ai Rage Against the Machine, anche l'anima spirituale e barricadera dietro al progetto che rivoluzionò il rapporto rock/hip hop elevandolo a strumento di lotta contro il sistema capitalistico, assumendo, a tutti gli effetti, le connotazioni di band politica. Con il cantante Zack De la Rocha, da tempo un desaparecido chissà dove (ritornato alla ribalta solo per le estemporanee reunion live del gruppo), Morello ha continuato la sua battaglia su diversi fronti.
Lo abbiamo visto unire le forze con Chris Cornell, nel progetto Audioslave, durato tre album, lasciando un ricordo inferiore a quanto la somma dei componenti lasciasse presagire, abbandonando la lotta sociale fino al definitivo split con il bel Cornell tornato all'ovile del "giardino del suono grunge". La voglia di combattere, venuta meno negli Audioslave, si è rimpossessata di Morello, sotto forma di folk, all'inseguimento di chi la protesta la portò avanti con sola voce, slogan e chitarra, come un novello "antico" Woody Guthrie o "moderno" Billy Bragg, mettendo in piedi il progetto the Nightwatchman, che con questo "World Wide Rebel Songs" arriva al traguardo del terzo album. In mezzo e nel mentre, tanti altri progetti: sia musicali con i Street Sweeper Social Club in compagnia di Boots Riley (una sorta di RATM meno infervorati) e apparizioni a fianco di Bruce Springsteen, Robbie Robertson e Steve Earle , sia sociali, con la formazione di associazioni umanitarie no-profit come Axis of Justice in compagnia di Serj Tankian , cantante dei System of a Down.
"World Wide Rebel Songs", anticipato di qualche mese dall'ep "City Town", si differenzia dai due precedenti lavori per un ritorno alla full band e la ricomparsa della sua chitarra elettrica, libera di disturbare con i suoni da mago dell'effettistica. Non più solo folk per chitarra acustica ma un album di combat folk/rock che non disdegna puntate elettriche assumendo più sfumature e colori.
Black Spartacus Heart Attack Machine è un incalzante rock che apre il disco ma forse anche la canzone meno riuscita con quei chorus finali un po' imbarazzanti e forzati. Anthem e chorus saranno una presenza costante durante tutto il disco ma fortunatamente usati meglio. It Begings Tonight si candida ad essere la canzone che più si allaccia con il passato dei RATM, Morello rispolvera i riff e gli assoli che lo resero famoso e riconoscibile.
Con lo sguardo rivolto a Joe Strummer in The Dogs of Tijuana, nel canto di protesta anti guerra Stray Bullets e nella finale Union Town tra gospel e il combat/folk dei Clash e dello Springsteen più impegnato.
Ancora le ombre dell'amico del New Jersey fanno capolino nella seconda parte di Speak and make lightning: inizio da canzone folk che si trasforma in una sarabanda da big band sullo stile del progetto Seeger Sessions portato in scena qualche anno fa da Springsteen.
La title track è una chiamata alle armi che sfoggia un contagioso coro che dal vivo sarà protagonista. Più vicine ai due precedenti dischi il folk acustico di Branding Iron, la triste Whirlwind, la preghiera God Help Us All, oscura e vicina alle atmosfere delle American recordings dell'ultimo Cash e il duetto con voce femminile di The fifth Horseman of the Apocalypse con lo scambio chitarra /violino.
Discorso a parte merita Save the Hammer for the man, primo singolo dell'album, una folkie song, puntellata dall'hammond, che accarezza il soul grazie all'apporto di Ben Harper, coautore del pezzo. Un piccolo gioiello da conservare.
Morello prosegue semplicemente il discorso iniziato negli anni novanta con i RATM, cambia la forma ma non la sostanza. Coerenza di idee vestita di folk, più che mai attuale in questi mesi con il mondo a gambe all'aria.
vedi anche RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN- Wrecking Ball (2012)
sabato 3 settembre 2011
RECENSIONE: RED HOT CHILI PEPPERS (I'm With You)
RED HOT CHILI PEPPERS I'm With You ( Warner Bros Records, 2011)
"...Il rito finale prima di salire sul palco è il cerchio delle anime. E' divertente il modo in cui si è evoluto negli anni. Quando eravamo una band di spavalde teste di cavolo di Hollywood, ci mettevamo in cerchio e ci davamo delle sberle in faccia proprio prima di salire sul palco. Di sicuro questo faceva sgorgare energia. Ora formiamo un cerchio, ci teniamo le mani, facciamo qualche meditazione insieme..." dal libro "Scar Tissue" autobiografia di Anthony Kiedis
Suggerire di continuare/ritornare a prendersi a sberle è cattiveria, assodare che sono passati gli anni, è la verità. Difficile fare i Red Hot Chili Peppers nel 2011, così come da più di dieci anni, dall'uscita di "Californication"(1999) in avanti. By the way(2002) e Stadium Arcadium(2006) hanno mostrato la corda, adagiandosi sulla formula di Californication, vero punto di incontro tra la loro idea di funk/rock e la melodia pop. La perfezione in grado di accontentare gli orfani del loro capolavoro indiscusso della maturità rock "Blood Sugar Sex Magik"(1991) e chi aveva storto il naso dopo l'uscita di "One Hot Minute", un disco che con gli anni ha acquistato molti punti.
Questo I'm with you, nasce sotto gli stessi astri di quel One Hot Minute, tanto da farmi pensare che le ripetute uscite di Frusciante dal gruppo siano calcolate per dare nuovi stimoli alla band. Nel 1995 c'era da replicare un disco che con il tempo si è guadagnato un posticino tra i capolavori rock, nel 2011 c'è da replicare il successo commerciale del doppio Stadium Arcadium (4 Grammy Awards su 6), tanto lungo quanto povero di belle idee.
Ma se il disco composto con Dave Navarro, chitarra dei Jane's Addiction cercò nuove strade, qui siamo di fronte ad una ripetizione di formule già sentite negli ultimi dieci anni, con poche uscite da fuoriclasse ed un divertimento che sembra quasi forzato.
Avete presente la differenza che passa tra quelle belle serate divertenti con gli amici che nascono dal nulla senza aspettative, pretesto e programmi e le serate programmate nei minimi dettagli per divertirsi che alla fine ti lasciano l'insoddisfazione e l'amaro in bocca? I RHCP del 2011, dall'alto della quasi mezza età raggiunta hanno ancora voglia di divertirsi ma purtroppo sembra tutto troppo programmato.
Monarchy Roses che ha il compito di aprire il disco è un divertente disco-funk che però lascia pochino dietro di sè, stessa cosa per Factory of Faith, guidate dal basso di Flea, con quella ricerca spasmodica del chorus melodico, croce e delizia degli ultimi dischi. Brendan's Death's Song, ballata nobile nell'intento di ricordare lo scomparso Brendan Mullen, amico promoter scomparso poco prima dell'inizio delle registrazioni, ma che guarda dal basso in alto del ponte la sorella Under the Bridge che toccava le stesse corde emotive con ben altro pathos e coinvolgimento. Annie wants a baby, Ethiopia scivolano via che nemmeno te ne accorgi, Kiedis ha guadagnato bravura nel modo di cantare ma ha perso quell'elemento di imprevedibilità in grado di portare a casa le canzoni (ascoltate il ritorno al rap/funk di Look Around per capire). Se ci mettete un Rick Rubin che fa di tutto per appiattire le canzoni, il gioco è fatto, ma ne sono sicuro, dal vivo suoneranno certamente meglio e riacquisteranno vigore, grazie all'improvvisazione che manca nei dischi.
Allora tutto va meglio nella seconda parte del disco, quando il nuovo chitarrista Josh Klinghoffer (predestinato, da anni intorno al satellite RHCP) ha più voce in capitolo e i RHCP si avventurano veramente in qualcosa di diverso. Il nuovo chitarrista, quasi ventanni in meno dei compagni, svolge degnamente il suo compito: con la chitarra che ricorda vaganente My Sweet Lord di George Harrison in The Adventures of Rain Dance Maggie o le atmosfere quasi etniche di Did I let You Know con l'incursione di una tromba o l'unica prova di forza del disco, Goodbye Hooray , un hard funk dove anche Chad Smith si mette in mostra senza dover per forza aspettare di sfogare i suoi battiti rock fuori dal gruppo(Glenn Hughes e il super gruppo Chickenfoot, fra poco in uscita il loro"III")
Così come mi piacciono le divertenti ed originali per il gruppo, Happiness Loves Company e Even you, Brutus, quasi due Rag time con Flea al piano e i Beatles come ispirazione.
Di sangue, sesso, magia e zucchero, sembra rimasto solo quest'ultimo ingrediente e adesso che anche la California sembra più lontana, si sa, una dieta a base di soli zuccheri alla lunga è nociva e i nostri da qualche anno la seguono incuranti degli effetti.
"...Il rito finale prima di salire sul palco è il cerchio delle anime. E' divertente il modo in cui si è evoluto negli anni. Quando eravamo una band di spavalde teste di cavolo di Hollywood, ci mettevamo in cerchio e ci davamo delle sberle in faccia proprio prima di salire sul palco. Di sicuro questo faceva sgorgare energia. Ora formiamo un cerchio, ci teniamo le mani, facciamo qualche meditazione insieme..." dal libro "Scar Tissue" autobiografia di Anthony Kiedis
Suggerire di continuare/ritornare a prendersi a sberle è cattiveria, assodare che sono passati gli anni, è la verità. Difficile fare i Red Hot Chili Peppers nel 2011, così come da più di dieci anni, dall'uscita di "Californication"(1999) in avanti. By the way(2002) e Stadium Arcadium(2006) hanno mostrato la corda, adagiandosi sulla formula di Californication, vero punto di incontro tra la loro idea di funk/rock e la melodia pop. La perfezione in grado di accontentare gli orfani del loro capolavoro indiscusso della maturità rock "Blood Sugar Sex Magik"(1991) e chi aveva storto il naso dopo l'uscita di "One Hot Minute", un disco che con gli anni ha acquistato molti punti.
Questo I'm with you, nasce sotto gli stessi astri di quel One Hot Minute, tanto da farmi pensare che le ripetute uscite di Frusciante dal gruppo siano calcolate per dare nuovi stimoli alla band. Nel 1995 c'era da replicare un disco che con il tempo si è guadagnato un posticino tra i capolavori rock, nel 2011 c'è da replicare il successo commerciale del doppio Stadium Arcadium (4 Grammy Awards su 6), tanto lungo quanto povero di belle idee.
Ma se il disco composto con Dave Navarro, chitarra dei Jane's Addiction cercò nuove strade, qui siamo di fronte ad una ripetizione di formule già sentite negli ultimi dieci anni, con poche uscite da fuoriclasse ed un divertimento che sembra quasi forzato.
Avete presente la differenza che passa tra quelle belle serate divertenti con gli amici che nascono dal nulla senza aspettative, pretesto e programmi e le serate programmate nei minimi dettagli per divertirsi che alla fine ti lasciano l'insoddisfazione e l'amaro in bocca? I RHCP del 2011, dall'alto della quasi mezza età raggiunta hanno ancora voglia di divertirsi ma purtroppo sembra tutto troppo programmato.
Monarchy Roses che ha il compito di aprire il disco è un divertente disco-funk che però lascia pochino dietro di sè, stessa cosa per Factory of Faith, guidate dal basso di Flea, con quella ricerca spasmodica del chorus melodico, croce e delizia degli ultimi dischi. Brendan's Death's Song, ballata nobile nell'intento di ricordare lo scomparso Brendan Mullen, amico promoter scomparso poco prima dell'inizio delle registrazioni, ma che guarda dal basso in alto del ponte la sorella Under the Bridge che toccava le stesse corde emotive con ben altro pathos e coinvolgimento. Annie wants a baby, Ethiopia scivolano via che nemmeno te ne accorgi, Kiedis ha guadagnato bravura nel modo di cantare ma ha perso quell'elemento di imprevedibilità in grado di portare a casa le canzoni (ascoltate il ritorno al rap/funk di Look Around per capire). Se ci mettete un Rick Rubin che fa di tutto per appiattire le canzoni, il gioco è fatto, ma ne sono sicuro, dal vivo suoneranno certamente meglio e riacquisteranno vigore, grazie all'improvvisazione che manca nei dischi.
Allora tutto va meglio nella seconda parte del disco, quando il nuovo chitarrista Josh Klinghoffer (predestinato, da anni intorno al satellite RHCP) ha più voce in capitolo e i RHCP si avventurano veramente in qualcosa di diverso. Il nuovo chitarrista, quasi ventanni in meno dei compagni, svolge degnamente il suo compito: con la chitarra che ricorda vaganente My Sweet Lord di George Harrison in The Adventures of Rain Dance Maggie o le atmosfere quasi etniche di Did I let You Know con l'incursione di una tromba o l'unica prova di forza del disco, Goodbye Hooray , un hard funk dove anche Chad Smith si mette in mostra senza dover per forza aspettare di sfogare i suoi battiti rock fuori dal gruppo(Glenn Hughes e il super gruppo Chickenfoot, fra poco in uscita il loro"III")
Così come mi piacciono le divertenti ed originali per il gruppo, Happiness Loves Company e Even you, Brutus, quasi due Rag time con Flea al piano e i Beatles come ispirazione.
Di sangue, sesso, magia e zucchero, sembra rimasto solo quest'ultimo ingrediente e adesso che anche la California sembra più lontana, si sa, una dieta a base di soli zuccheri alla lunga è nociva e i nostri da qualche anno la seguono incuranti degli effetti.
giovedì 1 settembre 2011
RECENSIONE: PRIMUS ( Green Naugahyde)
PRIMUS Green Naugahyde ( Prawn song/Goodfellas , 2011)
Il salto temporale che questo Settembre 2011 ci riserva sembra quasi pianificato da forze occulte, unite per riportare a galla la grande stagione del crossover americano(funk+metal, anche se le etichette in questo caso sono veramente superflue e limitative) che ha avuto il suo culmine tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. In questi giorni usciranno quasi in contemporanea, tre colonne portanti di un sound che ha fatto scuola, tre gruppi che partendo dagli stessi ideali, hanno percorso strade diverse e ottenuto successo diverso, ma a conti fatti, in un modo o nell'altro sono ancora in piedi: Red Hot Chili Peppers, Jane's Addiction e Primus. Chissà mai che spinti dall'onda emotiva si vadano a rispolverare i vecchi dischi di altri compagni di viaggio: Infectious Grooves, Faith No More, Living Colour, Fishbone, Scat Opera, White trash, Psychefunkapus(cercate il loro Skin), 24-7 Spyz, Scatterbrain, band che misero l'inventiva e la fantasia a capo del loro suono.
I Primus visti di recente nelle due tappe italiane(Roma e Vigevano) del loro tour in Giugno ritornano ad incidere dopo Antipop(1999), quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni e che marcarono in modo indelebile l'unicità dei Primus, un gruppo incatalogabile quanto inimitabile ed unico, dove la tecnica strumentale sposa alla perfezione l'ironia e il non-sense.
I timidi segnali di una rientrata si ebbero l'anno scorso, con l'uscita di un ep di 4 vecchie canzoni risuonate con il primo batterista della band Jay Lane(a tutti gli effetti mai apparso in nessun disco prima) ed è proprio lui la novità più grande di una formazione che gira intorno all'estro di Les Claypool(in questi anni protagonista di mille altri progetti , da solista ed in compagnia, alcuni da riscoprire) ed al suo mirabolante basso e alla chitarra spiazzante di Larry Lalonde, uno che non si fece troppi problemi a lasciare il proto-death metal degli sfortunati Possessed nel lontano 1989 per entrare alla corte di Claypool.
Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana.
Preceduta da una breve intro(Prelude to a Crawl), appena parte Heppenin Crawler si capisce perchè i Primus sono entrati di diritto tra i gruppi di culto del rock alternativo. Il basso e la voce di Claypool, qui meno bizzarra ed eccentrica del solito, segnano la canzone imprimendo il marchio. Sono sempre loro, si può continuare tranquilli.
Anche l'amore per lo sport della pesca di Claypool, ritorna nei sei minuti abbondanti di Last Salmon Man, una piccola summa del Primus-pensiero con un Lalonde protagonista e tante piccole sorprese al suo interno.
La grande tecnica dei tre componenti nei momenti psichedelici con la chitarra acida e il finale parossistico di Eyes of the Squirrel, i territori progressive cavalcati da Jilly's on Smack che si smarca dal resto con le sue atmosfere plumbee e liquide fino a Green Ranger, quasi un estratto "schizzato" da un disco dei Pink Floyd.
Tragedy's a' comin' lascia stupefatti per quanto la mostruosa tecnica strumentale possa sposarsi così bene con il funk ed il pop.
C'è poi il lato più grottesco e bizzarro di Eternal Consumption Engine, senza pagare il biglietto, veniamo catapultati in un grande tendone da circo con la triste solarità di un clown che da gli umori alla canzone. Lee Van Cleef riprende il discorso iniziato da Wynona's big brown beaver nel 1995 e qui il basso di Claypool è una meraviglia mentre in HOINFODAMAN possiamo ascoltare il riff di chitarra più pesante del disco e le linee vocali più grottesche tanto da sembrare appena uscite da un cartoon Disney.
Totalmente fuori controllo ed indecifrabili Moron TV e Extinction Burst, improvvisazioni, funambolismi zappiani, estro e tanti colpi di scena, tutte le prerogative che ci aspettavamo in questo atteso ritorno dei Primus. Il ritorno dell'anno.
Il salto temporale che questo Settembre 2011 ci riserva sembra quasi pianificato da forze occulte, unite per riportare a galla la grande stagione del crossover americano(funk+metal, anche se le etichette in questo caso sono veramente superflue e limitative) che ha avuto il suo culmine tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. In questi giorni usciranno quasi in contemporanea, tre colonne portanti di un sound che ha fatto scuola, tre gruppi che partendo dagli stessi ideali, hanno percorso strade diverse e ottenuto successo diverso, ma a conti fatti, in un modo o nell'altro sono ancora in piedi: Red Hot Chili Peppers, Jane's Addiction e Primus. Chissà mai che spinti dall'onda emotiva si vadano a rispolverare i vecchi dischi di altri compagni di viaggio: Infectious Grooves, Faith No More, Living Colour, Fishbone, Scat Opera, White trash, Psychefunkapus(cercate il loro Skin), 24-7 Spyz, Scatterbrain, band che misero l'inventiva e la fantasia a capo del loro suono.
I Primus visti di recente nelle due tappe italiane(Roma e Vigevano) del loro tour in Giugno ritornano ad incidere dopo Antipop(1999), quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni e che marcarono in modo indelebile l'unicità dei Primus, un gruppo incatalogabile quanto inimitabile ed unico, dove la tecnica strumentale sposa alla perfezione l'ironia e il non-sense.
I timidi segnali di una rientrata si ebbero l'anno scorso, con l'uscita di un ep di 4 vecchie canzoni risuonate con il primo batterista della band Jay Lane(a tutti gli effetti mai apparso in nessun disco prima) ed è proprio lui la novità più grande di una formazione che gira intorno all'estro di Les Claypool(in questi anni protagonista di mille altri progetti , da solista ed in compagnia, alcuni da riscoprire) ed al suo mirabolante basso e alla chitarra spiazzante di Larry Lalonde, uno che non si fece troppi problemi a lasciare il proto-death metal degli sfortunati Possessed nel lontano 1989 per entrare alla corte di Claypool.
Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana.
Preceduta da una breve intro(Prelude to a Crawl), appena parte Heppenin Crawler si capisce perchè i Primus sono entrati di diritto tra i gruppi di culto del rock alternativo. Il basso e la voce di Claypool, qui meno bizzarra ed eccentrica del solito, segnano la canzone imprimendo il marchio. Sono sempre loro, si può continuare tranquilli.
Anche l'amore per lo sport della pesca di Claypool, ritorna nei sei minuti abbondanti di Last Salmon Man, una piccola summa del Primus-pensiero con un Lalonde protagonista e tante piccole sorprese al suo interno.
La grande tecnica dei tre componenti nei momenti psichedelici con la chitarra acida e il finale parossistico di Eyes of the Squirrel, i territori progressive cavalcati da Jilly's on Smack che si smarca dal resto con le sue atmosfere plumbee e liquide fino a Green Ranger, quasi un estratto "schizzato" da un disco dei Pink Floyd.
Tragedy's a' comin' lascia stupefatti per quanto la mostruosa tecnica strumentale possa sposarsi così bene con il funk ed il pop.
C'è poi il lato più grottesco e bizzarro di Eternal Consumption Engine, senza pagare il biglietto, veniamo catapultati in un grande tendone da circo con la triste solarità di un clown che da gli umori alla canzone. Lee Van Cleef riprende il discorso iniziato da Wynona's big brown beaver nel 1995 e qui il basso di Claypool è una meraviglia mentre in HOINFODAMAN possiamo ascoltare il riff di chitarra più pesante del disco e le linee vocali più grottesche tanto da sembrare appena uscite da un cartoon Disney.
Totalmente fuori controllo ed indecifrabili Moron TV e Extinction Burst, improvvisazioni, funambolismi zappiani, estro e tanti colpi di scena, tutte le prerogative che ci aspettavamo in questo atteso ritorno dei Primus. Il ritorno dell'anno.
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