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sabato 22 aprile 2023

RECENSIONE: IAN HUNTER (Defiance Part 1)

 

IAN HUNTER  Defiance Part 1 (Sun Records, 2023)



l'ultimo eroe del rock'n'roll 

Durante il lockdown c'è stato chi usciva fuori nel balcone in tuta, ciabatte e canottiera con macchie di sugo d'ordinanza a gridare "ce la faremo" e chi come Ian Hunter si è chiuso nel personale studio di registrazione nel Connecticut e ha continuato a scrivere canzoni ricevendo feedback che solo una leggenda del rock'n'roll è in grado di catalizzare su di sé. "È incredibile quello che è successo" ha raccontato l'oggi prossimo ottantaquatrenne Hunter. 

Se c'è uno che ce l'ha fatta, quello è proprio lui.

Insieme al fedele Andy York ha buttato giù una serie impressionante di demo che aspettavano solo di essere ampliati e finiti. Mancando sull'immediato la fedele Rant Band (che sarà poi presente su tutte le canzoni), il blocco del lockdown ha suggerito loro tramite il manager Mike Kobayashi di provare a contattare alcuni musicisti che avrebbero potuto aggiungere qualcosa a quelle canzoni abbozzate. 

"Eravamo noi che facevamo demo nel mio seminterrato, e le demo nel mio seminterrato si sono trasformate in quello che avete".

Da lì in avanti fu una cascata di adesioni senza precedenti. È pur sempre Ian Hunter, ex leader dei Mott The Hoople, uno che se il mondo girasse alla giusta velocità siederebbe accanto a tutti i grandi songwriter che hanno calpestato questa terra.

Noi lo sappiamo e i grandi pure ed è questa la ragione per cui i featuring del disco sono un lungo e impressionante elenco di rockstar che hanno lasciato un po' della loro arte. A leggerlo di seguito manca quasi il fiato: Jeff Beck e Johnny Depp presenti nella evocativa 'No Hard Feelings', una delle ultime canzoni su cui ha suonato Beck prima di morire, Duff McKagan e Slash dei Guns N' Roses, Joe Elliott dei Def Leppard, Billy Gibbons  dei ZZ Top, Taylor Hawkins dei Foo Fighters (anche lui scomparso), Todd Rundgren, Jeff Tweedy  dei Wilco, Robert Trujillo dei Metallica, Ringo StarrWaddy Wachtel, Brad Whitford  degli Aerosmith, Dane Clark, Billy Bob Thornton, JD Andrew, Dean DeLeo , Robert De Leo  e  Eric Kretz dei redivivi Stone Temple Pilots.

Molto spesso dischi con troppi ospiti rischiano di diventare una inutile passerella che snatura il mood di un album, altre volte non si percepiscono nemmeno e rimangono solo nomi da leggere.

Con Ian Hunter non c'è stato questo pericolo e Defiance Pt.1 (naturalmente il materiale è così tanto che ci sarà un seguito) è un riuscito gioco di equilibrio dove il songwriting di Hunter rimane intatto e gli ospiti aggiungono e abbelliscono: l'ennesimo disco riuscito di una carriera con veramente pochi passi falsi. Lo avevamo lasciato nel 2016 con Fingers Crossed, disco che omaggiava l'amico David Bowie e ultimo di una serie di dischi partiti da Shrunken Heads che avevano segnato una terza parte di carriera impeccabile e ad alti livelli, lo ritroviamo ultra ottantenne con i consueti ricci e occhiali sugli occhi come se il tempo non avesse scalfito nulla della sua classe.

Il disco parte ad alti volumi con la title track, un hard rock a cui partecipano Slash e Robert Trujillo (i bene informati dicono abbia suonato lo stesso basso suonato da Pastorius in All American Alien Boy, secondo album solista di Hunter del 1976) e che farebbe comodo a tutte quelle band bollite che continuano a calcare i palchi per l'inerzia disegnata dei verdi dollari. Lungo le undici tracce ritroviamo un po' tutto l'universo di Hunter dove convivono rock'n'roll robusti come 'Pavlov' Dog' (in compagnia dei Stone Temple Pilots) e il boogie 'This Is What I'm Here For' e ballate come 'Angel' e 'Guenica' con il piano a condurre i giochi.

"La maggior parte delle tracce di questo album le ho scritte al pianoforte. Due di loro le ho scritte alla chitarra" lascia detto Hunter.

Una nota particolare per la già conosciuta 'Bed Of Roses' che ha fatto da primo singolo, suonata insieme a Ringo Starr e Mike Campbell degli Heartbreakers di Tom Petty, una canzone fortemente evocativa che pare guidare indietro nel tempo per le strade californiane degli anni settanta e che nel testo scava ancora più indietro arrivando allo Star Club di Amburgo dove lo stesso Starr suonò con i Beatles, per la frizzante, esplicita e diretta 'I Hate Hate' presente in due versioni, una delle quali con Jeff Tweedy, per una 'Don't Tread On Me' con l'ospite Todd Rundgren che emana forte tutto il mai nascosto amore di Hunter per Bob Dylan e che nel suo incedere black e gospel pare uscire da un disco della trilogia cristiana di Dylan, una  Kiss N' Make Up, bluesy, sorniona e desertica con Billy Gibbons ospite.

In un verso di 'This Is What I'm Here For', Hunter canta:"quando avevo trent'anni ero oltre la collina/cinquant'anni dopo uccido ancora" e mai verso fu più azzeccato per descrivere quanto questo "eroe del rock'n'roll" sia ancora in forma, ispirato e performante, certamente più di tanti altri che si guadagnano prime pagine per inerzia e meriti acquisiti troppi anni fa ma mai più confermati negli anni. Tutto da godere con una seconda parte già all'orizzonte.





sabato 8 aprile 2023

RECENSIONE: THE LONG RYDERS (September November)

THE LONG RYDERS   September November (Cherry Red, 2023)


si continua...

Erano passati trentadue anni dall'ultima incisione in studio quando nel 2019 uscì Psychedelic Country Soul, un disco sorprendentemente fresco e brillante che riportava agli onori delle cronache il gruppo di Sid Griffin e soci (Stephen McCarthy e Greg Sowders), il più rootsy di quel movimento Paisley Underground che negli anni ottanta tenne alta la bandiera di un certo modo di suonare rock’n’roll.

Pochi mesi dopo l'uscita di quel disco arrivarono anche in Italia e conservo tutt'ora un buon ricordo della data di Chiari, un concerto un po' confuso ma animato da tanti amici scatenati.

Ora sono passati altri quattro anni e nel mezzo è successo un po' di tutto: una pandemia, una guerra ancora in corso ma soprattutto un lutto che messi insieme hanno dato un'impronta diversa alle canzoni di questo nuovo album.

È proprio il trascorrere del tempo, la mortalità ('Hand Of Fate') a dettare ritmo e parole: la band che in quel fortunato ritorno era ritratta in piedi e battagliera nella foto di copertina, ora è intagliata nel legno, quasi a riposo e con i segni del tempo che sembrano farsi strada con più ferocia. Un disco amaro, a tratti dimesso, dedicato all'amico bassista Tom Stevens, scomparso due anni fa che viene omaggiato con una delicata e malinconica ballata ( 'Tom Tom'), e che lascia per l'ultima volta la sua firma e voce nella finale e già conosciuta 'Flying Out Of London In The Rain', tra l'altro una delle migliori delle dodici canzoni in scaletta.

"Due terzi del genere alt-country distillato che abbiamo contribuito a fondare negli anni '80 (e) un terzo di avventurismo Paisley  Underground... condito con un pizzico della nostra folle anima" così Griffin (recentemente in Italia per un tour in solitaria) ha descritto questo nuovo album. Un disco meno diretto, che ha bisogno di più attenzioni per essere assimilato e che lascia alle sole 'September November' (comunque un buon inizio), alle melodie byrdsiane di 'Seasons Change', alla tambureggiante 'Elmer Gantry Is Alive And Well', al tagliente rock’n’roll di 'To Be Manor Born' scritta dal chitarrista Stephen McCarthy il compito di ricordare la freschezza della gioventù andata.

Regnano così il passo agro-dolce della country 'Flyin Down', la malinconia folkish della strumentale 'Song For Ukraine' condotta dal violino di Kerenza Peacock, lo swing di 'That's What They Say About Love', il blues acustico  'Country Blues (Kitchen)',  la carezza beatlesiana di 'Until God Takes Me Away'. Prodotto da una vecchia e conosciuta volpe come Ed Stasium e con Murry Hammond (degli Old 97's) che si occupa del basso in alcune canzoni, cosi come DJ Bonebrake degli X è presente in un paio di pezzi, September November ha tutti i tratti di un disco di passaggio, seguito di un brillante ritorno e speriamo precursore di un nuovo ennesimo  inizio.




domenica 2 aprile 2023

RECENSIONE: MOLINA TALBOT LOFGREN YOUNG (All Roads Lead Home)

MOLINA TALBOT LOFGREN YOUNG  All Roads Lead Home (NYA Records/Reprise,  2023)



comunque Crazy Horse

È notte fonda, una di quelle notti che potrebbero durare all'infinito. Sono pervaso da continui pensieri, sembrano perlopiù positivi, nuvole bianche e serene sopra a una giornata negativa e faticosa da portare a termine. Nonostante tutto mi giro e rigiro nel letto. Quei pensieri mi portano lontano, con i piedi immersi su infiniti prati verdi, gli occhi attenti dentro a fitti boschi che la primavera sta svegliando e colorando. 

Con strade che si inerpicano sopra a colline, i raggi del sole che sbattono sulle lenti degli occhiali, il vento in faccia. Un quadretto di libertà semplice, il più semplice da immaginare.

Ho voglia di musica, mi alzo dal letto, dal cofanetto degli archivi di Neil Young sfilo un CD a caso, lo metto su, mi corico nuovamente e spengo la luce. Quando parte la prima canzone i Crazy Horse galoppano veloci e fieri su quei prati, proseguono imbizzariti, sono nel pieno della loro gioventù ma il povero Danny Whitten ci aveva già lasciati. È il momento di provare a richiudere gli occhi, le chitarre si inseguono in una di quelle classiche code jammate, lisergiche e malate che li ha resi famosi accompagnando l'amico canadese. La notte è arrivata, ma il mattino sembra più vicino.

Quando riapro gli occhi vedo il cavallo, è in piedi, ha corso tutta la notte, è stanco, segnato dal tempo, dai tempi, dalle perdite, dai faticosi giorni di questi tre ultimi anni. Nonostante tutto sembra sereno, in pace con se stesso e la natura che lo circonda. Ieri è uscito un disco che sarebbe dovuto uscire intestato ai Crazy Horse, quelli datati 2023: Billy Talbot, Ralph Molina e Nils Lofgren  decidono invece di metterci solo i loro cognomi. In tre fanno 229 anni, i primi due sono quasi ottantenni , Lofgren con i suoi 71 è il più giovane. Poi ci aggiungono anche Young che di anni ne ha 77.

Ma sarebbe stata una vera fregatura far uscire questo album sotto il nome Crazy Horse: i tre componenti attuali del cavallo pazzo non suonano mai insieme in nessuna delle tracce. Strano no? È un disco anomalo, nato nei giorni bui della pandemia quando si era tutti lontani e inaviccinabili. Quando si inventavano leggi per tenerci lontani. Ho sempre pensato fossero arrivati veramente i "strani giorni" cantati da Franco Battiato.  Quando non si poteva nemmeno lavorare a patto tu non fossi un musicista. I musicisti non si sono mai fermati.

Tre canzoni a testa scritte e registrate ognuno a casa propria con i musicisti più vicini in quel momento, più una canzone di Neil Young registrata live: hanno scelto una versione, sette minuti, voce, chitarra, armonica di 'Song Of The Seasons' che apriva Barn uscito nel 2021.

E All Roads Leave Home sembra un'appendice di Barn  anche se qui nessuno dei tre osa mai cavalcare le praterie elettriche, preferendo sempre le vie più leggere, melodiche e nostalgiche. Le canzoni di Billy Talbot ('Rain', 'Cherish', 'The Hunter') suonate con la Billy Talbot Band cavalcano la malinconia e la saggezza, quelle di Lofgren ('You Will Never Know', 'Fill My Cup', 'Go With Me') hanno un tocco musicale più aspro e blues e lo vedono impegnato su tutti gli strumenti, le canzoni di Molina ('It's Magical', la più rockeggiante 'Look Through The Eyes Of Your Heart', la ballata al pianoforte e sax 'Just For You') suonate anche insieme agli italiani Marco Cecilia, Francesco Lucarelli, Fabrizio Settimi e Marco Molino sono quelle con l'impronta più Younghiana.

Un disco che sulla carta per come è stato assemblato sembrava non promettere nulla di buono e che invece rivela un suo carattere, emanando pace e rilassatezza.

I Crazy Horse prendono posto dentro al mio semplice quadretto di libertà. Il paesaggio della foto interna e sul retro scattata a Rico in Colorado da Jay Dusard sembra combaciare con il mio sogno iniziale. La dedica a Danny Whitten, David Briggs e Elliott Roberts chiudono un cerchio. Il passato, il presente e un futuro che aspetta altre galoppate.





domenica 19 marzo 2023

RECENSIONE: THE ANSWER (Sundowners)

 

THE ANSWER  Sundowners (Golden Robot Records, 2023)


dopo sette anni

I nordirlandesi The Answer hanno atteso sette lunghi anni e il giorno di San Patrizio del 2023 per tornare sulle scene più in forma che mai. Dei tempi lunghissimi per un mondo che stritola rockstar e presunte tali con la stessa velocità con la quale qualunque buon irlandese si tracanna la prima pinta di Guiness dopo il lavoro in un normale giorno feriale giù al pub. Fortunatamente la band guidata dal rosso Cormac Neeson ha alle spalle delle buone basi inchiodate con ferro, martello e alcol appiccicoso (sei i dischi usciti) e quella maturità guadagnata negli anni partendo dall'essere semplicemente dei cloni del classic rock targato seventies fino ad aprire per colossi come Rolling Stones e AC/DC.

Oggi tocca a loro tirare la carretta, cosa che sembra riuscire bene.

"Non abbiamo fatto molti concerti da quando siamo tornati insieme, ma abbiamo fatto il disco e tutte le cose extra che lo accompagnano e stiamo iniziando a fare interviste e roba adesso. Quindi per certi aspetti sembra di essere tornati sul tapis roulant come qualche anno fa" ha dichiarato il chitarrista Paul Mahon

È una partenza diesel la loro con una title track da sei minuti che in verità pare più una lunga introduzione per le restanti dieci canzoni chiamando in causa più volte i Led Zeppelin nel suo avanzare sciamanico. E fu proprio Jimmy Page a decantare le qualità e sciorinare le somiglianze del gruppo con il dirigibile ai tempi dell'esordio Rise. Correva l'anno 2006. L'influenza  Led Zeppelin ritorna prepotente più avanti in Get Back On It.

Si cambia registro nella successiva Blood Brother, marziale e sincopata nel suo incedere, ricordando gruppi come Black Keys e White Stripes. Tra riff circolari di chitarra con un Hammond a fare da morbido cuscino (California Rust), chorus micidiali in salsa street glam (Livin' On The Line), suadenti messaggi con la sezione ritmica formata da Micky Waters al basso e James Heatley alla batteria in grande evidenza (Want You To Love), incursioni soul e funky (Oh Cherry) e due ballate come la bluesy e gospel No Salvation e una finale e acustica Always Alright che sa tanto di anni novanta, il disco scorre liscio come tutte le birre spillate durante una tipica serata irlandese, anche senza avere una vera canzone traino o hit.

Un ritorno alla semplicità del passato che il cantante Cormac Neeson, voce che a tratti ricorda il compianto  Dan Mc Cafferty dei Nazareth, ha spiegato così: "dopo sei album e un sacco di chilometri abbiamo sentito il bisogno di fare un passo indietro e resettare tutto".

Ok, si può riinanziare a riempire il boccale. Cheers!





sabato 4 marzo 2023

RECENSIONE: MYRON ELKINS (Factories, Farms & Amphetamines)

 

MYRON ELKINS  Factories, Farms & Amphetamines (Elektra, 2023)



il giovane vecchio

"Sono inciampato nei posti giusti al momento giusto e ho stretto le mani giuste" sembra ben consapevole della grande fortuna che ha avuto il ventiduenne Myron Elkins. Dal lavoro di meccanico saldatore nella contea di Allegan nel Michigan ai palchi di Nashville il passo è stato più breve del previsto. Anche se non mancano determinazione e faccia tosta che oggi gli permettono di cantare al mondo il suo universo bluecollar popolato da chi è nato dalla parte sbagliata del fiume.

Le tappe di questo novello Forrest Gump della musica, come ama definirsi lui, sono ben scandite: la sua grande passione dopo il lavoro è la musica (molte canzoni sono state pensate con un saldatore tra le mani) e alcuni amici lo iscrivono a una un concorso per band. Lui raccatta su un gruppo, vince la manifestazione e viene notato da Dave Cobb che se lo porta nel  RCA Studio A di Nashville, gli fa incidere le sue canzoni che oggi grazie a una etichetta come la Elektra escono sotto il titolo Factories, Farms & Anphetamines che sembra ben racchiudere tutto il suo micro mondo. Partito dal grande amore per la country music (Johnny Cash, Waylon Jennings ma anche Sturgill Simpson e Chis Stapleton tra i suoi primi modelli) Myron Elkins si apre musicalmente verso tante altre strade che per ora, pur piacevoli, confondono un po' le idee: derivativo ma con un futuro davanti tutto da scrivere. A suo favore l'età e la voglia di raccontare le sue storie nate dal basso e a chilometro zero. 

Ma poi si scopre che è proprio la varietà a far scorrere il disco così bene. Un disco decisamente elettrico con chitarre sempre in primo piano (oltre a Elkins ecco Caleb Stampfler e Avry Whitaker): fin dall'apertura 'Sugartooth', numero "born on the bayou" che richiama John Fogerty e i CCR, dalla title track, southern rock che ricorda i Lynyrd Skynyrd, il blues di 'Mr. Breadwinner', l'honky tonk country di 'Wrong Side Of The River', una 'Nashville Money' che sa di catrame e asfalto.

E poi ancora il funky di  'Hands To Myself' e quello più "danzereccio" di 'Machine' fino al country arioso della finale 'Good Time Girl'.

Myfon Elkins merita senza dubbio un ascolto in attesa di una seconda prova che potrebbe già svelare le sue reali intenzioni future.







domenica 26 febbraio 2023

RECENSIONE: LUCERO (Should've Learned By Now)

 

LUCERO  Should've Learned By Now (Liberty & Lament, 2023)



canzoni da tarda notte e primo mattino

Se il precedente When You Found Me (2021) visse i suoi giorni scanditi dai synth tra le nubi della pandemia e le ombre più cupe ma ben a fuoco del precedente e splendido Among The Ghosts (2018) senza dubbio il loro disco migliore della seconda parte di carriera (anche il preferito del cantante Ben Nichols che lo scrisse fresco di paternità), con questo nuovo Should've Learned By Now la band di Memphis cerca di ritornare a un suono più diretto, elettrico, essenziale e rock'n'roll certamente legato agli inizi senza però mai mollare quella corda che lega così bene la loro intera carriera costruita su una formazione inossidabile e su dodici album dove hanno toccato country, folk, punk rock, Americana e Memphis sound. I lati più oscuri e gotici della loro America raccontati negli ultimi anni sono stati lasciati da parte ma non più di tanto perché Nichols è uno che sa scrivere testi e con la sua voce rauca e vissuta sa raccontarli bene e anche qui lo dimostra: in tutte le canzoni pervadono sentimenti di rivalsa e abbandono, di bevute, rimpianti e scommesse con quel tocco di ironia che fa la differrnza. I protagonisti dipinti dall'attento osservatore Nichols vagano tra bar solitari trascinando i loro cuori infranti, tutti in cerca di compagnia, perdono e rivincita. 

"Doveva essere uno stupido disco rock 'n' roll, ma i testi sono sempre una storia diversa. Forse perché non ci stavo pensando, forse questo è un disco più personale di quanto intendessi, un disco più significativo di quanto mi aspettassi".

Musicalmente i Lucero riabbracciano quella spontaneità musicale dove l'approccio diretto del punk rock sa abbracciare l'anima rootsy cucita su  country e folk ed escono canzoni come l'apertura 'One Last F.U.' anticipata dal battere di campanacci, una canzone scritta per Among The Ghosts ma che non possedeva quel mood nero  ("quando la prima canzone dell'album si intitola "One Last Fuck You", puoi andare dove vuoi con il resto del disco dopo. Niente è off limits" scherza Nichols) 'Macon If We Make It',  'Nothing's Alright', 'Buy A Little Time' (con Cory Branan ai cori), la title track potrebbe entrare nel canzoniere di qualsiasi heartland rocker americano, dove la chitarra di Brian Venable è sempre protagonista così come il piano di Rick Steff ricama dietro come nella migliore tradizione rock'n'roll ('Raining For Weeks'). Non mancano ballate di pura americana: la springsteeniana 'At The Show', in grado di mischiare romantico amore e ricordi adolescenziali, 'She Leads Me', una  malinconica 'Drunken Moon' e la finale 'Time To Go Home', un country con tanto di pedal steel e fisarmonica che ci avverte che dopo ogni sbronza "di vita" arriva sempre il tempo di ritornarsene a casa. I Lucero dopo 25 anni di onorata carriera rimangono una garanzia: prima ti fanno ubriacare ma poi ti riaccompagnano a casa sano e salvo.







domenica 5 febbraio 2023

RECENSIONE: DEWOLFF (Love, Death & In Between)

DEWOLFF  Love, Death & In Between (Nuclear Blast, 2023)



pausa soul

Conquistare una platea quando non suoni per il tuo pubblico ma aprendo per star mondiali come i Black Crowes, o quel resta di loro, non è mai facile. Si rischia sempre grosso e già solo l'indifferenza di chi si fa i cazzi suoi con una birra al bar sembra una conquista.

Il trio di olandesi DEWOLFF oltre a suonare senza timore reverenziale quella sera d'autunno conquistò il pubblico al suono di un hard blues con venature sudiste e psichedeliche super seventies tutto chitarra, voce  (Pablo Van De Poel), hammond (Robin Piso) e batteria (Luka Van De Poel). Fu un'ovazione meritata e le birre in alto sotto al palco, non al bar, servirono a salutarli sperando di rivederli presto con un concerto tutto loro.

Ecco uscire a pochi mesi da quel bel biglietto da visita (per quanto mi riguarda) il loro ottavo album in carriera, un disco che però mostra un altro lato, meno rock e irruento, più  riflessivo e sfumato. Maturo. Diverso. Canzoni nate dopo l'ascolto di tanto soul, gospel e R&b, dopo aver assistito a un sermone di Al Green e dopo la lettura di molta letteratura americana. 

"Perché, dopo tutto, la musica ci sembra una religione. È qualcosa che è nella nostra mente tutto il tempo. È ciò a cui dedichiamo tutta la nostra vita” spiega Pablo Van De Poel. E i giovani Dewolff, comunque in pista dal 2007, sembrano veramente aver barattato l'anima nel nome del rock'n'roll, lo si capisce sul palco e lo confermano in studio, che poi sembra quasi la stessa cosa.

Il risultato sono dodici canzoni registrate senza troppe sovrastrutture dietro, dal vivo su nastro analogico, in uno studio di Kerwax nella Bretagna in compagnia di una nutrita sezione fiati e coristi. Un disco che gira intorno a 'Rosita', pezzo da sedici muniti che racchiude bene tutte le influenze del trio: si sente il southern rock, la Motown, la Stax, il rock’n’roll, il gospel. Fughe strumentali, acidità psichedelica e terra blues si susseguono in un brano che è un vero monumento eretto alla musica. Difficile che qualcuno ci pisci sopra, potrebbe accontentare tutti.

Il disco si apre invece ad alta velocità con 'Night Train' e subito lo spirito di James Brown sembra volare e sbuffare aria black sopra a fiati e chitarre. Si prosegue tra boogie blues che chiamano in causa gli Stones di Exile e Joe Cocker con i suoi cani pazzi (la bella e convincente 'Heart Stopping Kinda Show'), soul ('Will O' The Wisp', Gilded (Ruin Of Love')), blues notturni e piangenti ('Mr. Garage Man'), gospel trascinanti e esaltanti ('Counterfeit Love'), R&B tosti e pieni di chitarre e fiati ('Message For My Baby', 'Wontcha Wontcha') fino alla soffusa 'Queen Of Space &Time' dove i Doors amoreggiano con i Jethro Tull e ne nasce il finale di disco perfetto.

Un disco caldo, corposo, pieno di sfumature e bei suoni che mantiene alte le quotazioni di questi tre olandesi pieni di talento e totalmente innamorati e devoti a tutta la musica, naturalmente con data di scadenza 1979.

Guardo le date del loro tour per curiosità, dell'Italia neppure l'ombra e come sempre ci si domanda: perché?



sabato 28 gennaio 2023

RECENSIONE: URIAH HEEP (Chaos & Colour)

URIAH HEEP   Chaos & Colour (Silver Lining, 2023)



inossidabili

Guidati dall'inossidabile Mick Box, compositore e chitarrista mai troppo lodato, gli Uriah Heep ritornano a riprendersi la "vecchia" scena hard rock dopo gli anni di pandemia che hanno visto crescere e germogliare questo Chaos & Colour che ne vuole raccontare luci, ombre, incubi e speranze. 

"Quando il blocco ha iniziato ad allentarsi nel Regno Unito, siamo stati in grado di andare in studio (Chapel Studios, Lincolnshire) e registrare il nuovo album con il produttore Jay Ruston che era arrivato dall'America. Jay aveva anche registrato il nostro precedente album Living The Dream e siamo rimasti molto contenti del risultato. Quindi volevamo lavorare di nuovo con Jay su questo progetto" racconta il batterista Russell Gilbrook in una recente intervista.

Un album che prosegue in qualche modo il trend del precedente Living The Dream (2018) e se possibile migliorandone ancor di più ispirazione, freschezza e tiro. Con più di cinquant'anni di carriera, arrivati al venticinquesimo album, chiunque potrebbe sedersi sugli allori e godersi i fasti del passato, anche se bisogna dirla tutta, gli Uriah Heep hanno sempre dovuto lottare per farsi largo tra critica, cangianti mode musicali e cambi di formazioni.

Eppure, quando parte 'Save Me Tonight' scritta insieme a Jeff Scott Soto, capisci subito che non sarà così, ancora una volta. L'essere ancora qui, presenti e scalcianti nel 2023 è la loro miglior risposta e vittoria. La straordinaria voce di Bernie Shaw e le tastiere di Phil Lanzon, entrambi in formazione dell'ormai lontano 1986 sono diventate un nuovo marchio di fabbrica degli ultimi trent'anni di carriera ma in perfetta continuità con la storia della band. La freschezza della sezione ritmica formata dal batterista Russell Gilbrook e dal bassista Davey Rimmer donano invece dinamicità a un suono che cerca di legare la tradizione del passato con i nostri tempi. In mezzo alla già citata apertura e alla finale 'Close To Your Dreams', che sembra iniziare là dove finiva la vecchia 'Easy Livin', c'è tutto il loro universo fatto di massiccio hard rock ('Hurricane', 'Fly Like An Eagle'), di incalzante groove melodico ('Silver Sunlight'), break psichedelici ('Hail The Sunrise' con il suo Hammond imperante sembra uscita dai 70, la cangiante e fantasy 'You'll Never Be Alone'), fughe progressive (gli otto minuti di 'Freedom To Be Free', 'Golden Light', 'Age Of Changes') e ballate (il pianoforte e la voce si Shaw sono protagoniste di 'One Nation, One Sun').

Un album compatto che cerca di unire tanti anni di carriera e tutte le sfumature musicali che hanno da sempre caratterizzato il loro suono. L'inconfondibile miscela di chitarre e tastiere, le fughe strumentali, l'intersecarsi perfetto tra potenza e melodia, le armonie vocali e le atmosfere epiche  sono quelle di sempre. Riconoscibili.

Potrebbe essere impresa difficile dopo tanti anni, e invece il miracolo continua a compiersi con rigenerante vivacità.




venerdì 6 gennaio 2023

RECENSIONE: IGGY POP (Every Loser)

IGGY POP   Every Loser (Atlantic Records/Gold Tooth Records, 2023)


il primo disco del 2023

Parlando del suo ultimo album Free uscito nel 2019 Iggy Pop disse: "questo album in qualche modo mi è capitato e ho lasciato che accadesse". Ne venne fuori un disco amaro, contemplativo, meditativo, dal carattere musicale vicino al jazz.

Ora non so se si potrà dire la stessa cosa di queste nuove undici canzoni (ma due sono brevi interludi parlati) visto il dispiegamento di forze che c'è dietro. In regia c'è il produttore e musicista Andrew Watt, il novello Rick Rubin che non si fa problemi a passare dal pop di Justin Bieber e Ed Sheran a leggende del rock. Facendo incetta di premi. Sue sono le flebo che hanno tenuto in piedi gli ultimi due dischi di Ozzy Osbourne. E visto che dietro si è creato un bel impero, ecco la sua etichetta e alcuni musicisti come Chad Smith e Duff McKagan che porta sempre con sé (c'erano anche sull'ultimo Patient Number 9 di Ozzy). In più per non farsi mancare nulla  una parata di stelle del rock che comprendono Travis Barker dei Blink 182 , Stone Gossard dei Pearl Jam, l'ex chitarrista dei Red Hot Chili Peppers Josh Klinghoffer, Dave Navarro ed Eric Avery dei Jane's Addiction e Taylor Hawkins dei Foo Fighters forse in una delle sue ultime performance in studio di registrazione.

"Persone che conosco fin da quando erano bambini e la musica vi farà impazzire" ha lasciato detto un raggiante Iggy Pop.

Quando attacca 'Frenzy' però capisci che Iggy Pop si è lasciato alle spalle lo sguardo contemplativo sul trascorrere del tempo, quasi una dichiarazione di sopraggiunta vecchiaia che permeavano gli ultimi dischi (toccando il top con Post Pop Depression, il progetto insieme a Josh Homme) per riprendersi, fosse anche solo per l'ultima volta, la paternità di certi suoni. Dentro ha ancora qualcosa da sputare fuori e si fa aiutare volentieri da Watt, la sua chitarra e la sua nutrita squadra.

 Every Loser saccheggia qua e là nella sua carriera con gli Stogees e solista. Non lo sentivamo così dentro a certi suoni dai tempi di Skull Ring, un disco che abbracciava il punk ma che poi non fu così memorabile. Meglio tornare indietro ai tempi di Naughty Little Doggie (1996) e del sempre bistrattato Beat Em Up (2001).

Le prime parole che si sentono quando attacca 'Frenzy', un rock contagioso e ululante ma abbastanza scontato con cori da arena rock, è "got a dick and two balls"!  Come tutti noi uomini ma lui è Iggy Pop. Naturalmente a dispetto dei suoi 75 anni sembra funzionare ancora tutto bene.

Tra assalti rock'n'roll in stile Detroit sound come 'Modern Day Rip Off', che ricorda da vicino Alice Cooper, il punk tout court di 'Neo Punk', i suoni eighties con reminiscenze New wave di 'Strung Out Johnny' e 'Comments' (una riflessione sui social media), a colpire nel segno sono però le canzoni dove la sua vecchia voce da crooner si piazza davanti a tutto e la musica dietro si quieta: 'New Atlantis' (un'ode a Miami), la ballata acustica 'New Morning', tra i picchi melodici e malinconici del disco e la finale 'Regency', la più lunga e sfaccettata che parte lenta per poi aprirsi ad una invettiva contro un certo potere imperante.

Non farà compagnia ai suoi grandi dischi ma Every Loser suona comunque fresco e battagliero per essere uscito da un settantacinquenne che in vita ne ha viste di tutti i colori e con le ultime uscite sembrava godersi la meritata pensione dei rocker crogiolandosi su territori e colline più dolci e meno aspre.

Un disco spassoso e divertente per aprire un nuovo anno di musica.





domenica 25 dicembre 2022

RECENSIONE: MICAH P. HINSON (I Lie To You)

MICAH P.HINSON  I Lie To You (Ponderosa Records, 2022)


punto e a capo

Così, a conferma di quanto le classifiche di fine anno contino veramente poco se fatte già a Novembre, il nuovo disco di Micah P Hinson esce a Dicembre e pretende tutte le attenzioni possibili. Uno, perché l'autore titorna a incidere dopo una pausa di quattro anni; due, perché c'è molta Italia dentro (anche se fare i patrioti non è mai bello, figuriamoci di 'sti tempi con i politici che girano in giaccia mimetica); tre, perché è un disco da groppo in gola che rischia di mandare di traverso il gran cenone di Natale e dare un cazzotto ben calibrato a tutto il finto perbenismo di questi giorni di festa. Dopo il sei Gennaio si torna alla "finta normalità" tanto vale non perdersi in illusioni e rimanere a combattere nella dura normalità.

A proposito, da oggi in avanti 'Please Daddy, Don't Get Drunk This Christmas', la canzone natalizia anomala di John Denver avrà la sua versione firmata da Micah P. HInson.

Nato e finito nel giro di una settimana in Irpinia, questa estate quando il cantautore è stato ospite di Vinicio Capossela allo Sponz festival, Lie To You, che esce per la Ponderosa Records, è un disco confessionale pieno di passato ma anche di visioni proiettate nel presente, con la voce profonda che scava nella vita  riportando a galla attimi, rimpianti, sensazioni, fallimenti e tutti quei demoni che hanno accompagnato la sua vita, dall'adolescenza in avanti. Una voce che pressa sulla musica tirata all'osso e preparata con dovizia da Asso Stefana che oltre a metterci la sua "benedetta" chitarra, produce il tutto e chiama a raccolta musicisti come Raffaele Tisero (la sua viola d'amore è un punto cardine su tutto il disco), Zeno De Rossi (batteria), Greg Cohen (contrabbasso).

Arrangiamenti d'archi che tessono trama e ordito di melodie da cui scaturiscono candide  lenzuola, leggere e svolazzanti su cui si adagiano grevi le parole di Hinson. 

Alla cupa, ipnotica e struggente 'What Does It Matter Now', uno dei momenti più intensi di questa mezz'ora di canzoni si contrappone il banjo della folkish 'Wasted Days And Wasted Nights'.

Agli scatti elettrici di 'Find Way Out' risponde 'People', opera di David Bazan che Hinson fa sua apportando alcune modifiche.

E se nel lento valzer di 'Carelessly' trova solo ora il coraggio di esplorare una triste parentesi del suo passato (l'aborto di una sua ex ragazza), "essendo giovani umani, abbiamo preso misure che, all'epoca, capivamo poco: ha abortito. Solo nella forma di una canzone sono stato davvero in grado di esprimere le mie emozioni e i miei pensieri sull'argomento" ha raccontato recentemente, in  '500 Miles' sembra calarsi nelle American Recordings di Johnny Cash, con l'unica differenza che Cash all'epoca ultra sessantenne entrava nell'ultima fase della sua vita mentre Micah P Hinson di anni ne ha solo quarantuno e prima dei vent'anni pare abbia già vissuto quattro vite.

Un disco che chiude la parentesi dei suoi primi quarant'anni come annuncia in 'Ignore The Days', l'unica veramente proiettata nel suo nuovo futuro.

"Come puoi progredire come essere umano nel futuro se tutto ciò che stai facendo è scrivere di tutta la merda che ti incatena al passato?". Una dichiarazione che sa di nuova rinascita.

(Rimane il mistero del perché  una canzone come 'You And Me', voce e pianoforte sia reperibile solo in versione digitale).






sabato 17 dicembre 2022

RECENSIONE: CORY BRANAN (When I Go I Ghost)


CORY BRANAN   When I Go I Ghost (Blue Elan Records, 2022)



Mi è sempre piaciuto Cory Branan, uno dei migliori cantautori americani di quella generazione di quasi cinquantenni che seguendo le orme dei grandi songwriter a stelle e strisce è riuscita creare una piccola scena. Branan non è certamente tra i più prolifici: questo è solo il suo sesto album e esce a cinque anni dal precedente Adios, che non era un addio ma un arrivederci a data da destinarsi. Ci siamo.

Nativo della terra del Misssissippi, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine da cui eredita quel modo di scrivere disincantato, la cinica lettura della vita con in primo piano i sentimenti compresi cuori spezzati, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero lo citarono in una loro vecchia canzone 'Tears don't Matter Much' contenuta in That Much Further West(2003).

Per questo disco ha scelto undici canzoni dalle cinquanta che aveva a disposizione, lascito del tanto tempo creato dalla pandemia.

"Brani che parlano di dubbi esistenziali, della perdita di persone care, di depressione e di ansia generalizzata" dice. Per farlo mette in campo tutto il suo estro musicale che tocca sempre con disinvoltura il rock dalle influenze springsteeniane come avviene nell'apertura 'When in Rome, When in Memphis' che ospita  Jason Isbell e Brian Fallon. Per chi ama Springsteen consiglio però l'album Mutt uscito nel 2012, forse il suo migliore. Su di giri anche la tesa 'When I Leave Here'  e una 'One Happy New Year' che gravita invece dalle parti di John Mellencamp. 

Mentre in 'O Charlene' escono tutte le influenze ereditate da John Prine, 'Angels in the Details' e 'That Look I Lost' si muovono sinuose nel soul. A conferma della sua grande bontà di scrittura che ama spaziare nei generi, a una ballata notturna e malinconica come 'Pocket Of God', certamente tra le più riuscite del disco, contrappone due pezzi dal retrogusto pop come 'Waterfront', cantata insieme alla cantautrice Garrison Starr e 'Come on If You Wanna Come'.

Branan si conferma un cantautore randagio e poco omologato, libero di muoversi nello scacchiere musicale americano senza troppi obblighi di tempo e generi.




sabato 3 dicembre 2022

RECENSIONE: TOM PETTY And The HEARTBREAKERS - Live At Fillmore 1997

TOM PETTY And The HEARTBREAKERS  Live At Fillmore 1997 (Warner Records, 2022)



il concerto infinito...

Abbiamo assistito a tanti concerti nella nostra vita, così tanti da riuscire ad acquisire quella capacità che ti fa capire quando gli artisti e le band sopra al palco si divertono o stanno solamente suonando per contratto, per portare a casa l'agognata pagnotta: tanto domani siamo in un'altra città. "Un'altra città, un altro posto, un'altra ragazza, un'altra faccia" ringhiava Lemmy. "Caffè al mattino, cocaina al pomeriggio" gli fa eco Jackson Browne. È la routine che serpeggia, in qualche modo deve essere spezzata e alleviata. 


Sbirciare le scalette da già un'idea: se è sempre la stessa, sera dopo sera, la noia può far visita. Figuriamoci se la città è sempre la stessa, il palco anche e l'hotel dove si alloggia, il Miyako Hotel, pure. 

Al Fillmore di San Francisco in quelle venti date consecutive sold out comprese tra il 10 Gennaio e il 7 Febbraio del 1997 non c'era nessuno di noi (se sì fatevi avanti e raccontate per dio!) ma il divertimento è palese, si sente, ti entra sotto pelle anche solo ascoltando le canzoni senza vedere gli sguardi complici dei musicisti. E la scalette furono messe giù sul momento (per un totale di 85 canzoni eseguite), sera dopo sera, (per la felicità dell'ultimo entrato in formazione, il batterista Steve Ferrone), così piene di tanti devoti  omaggi alla musica (da Bob Dylan ai Kinks, da J.J.Cale agli Everly Brothers, da Bill Withers a Chuck Berry, dagli Stones a Booker T. & the M.G.’s), una narrazione avvincente ed esaltante di tutte le corde che può solleticare, toccare e stringere forte il rock’n’roll.

Gli Heartbreakers uniscono i puntini che separano John Lee Hooker dai Byrds ( ospiti sul palco il bluesman e Roger McGuinn) compreso tutto quello che sta in mezzo (peccato non vi sia la testimonianza dell'altro ospite Carl Perkins), agli Heartbreakers, invece, il compito di proseguire a tratteggiare la strada futura, almeno fino a quando hanno potuto, fino alla prematura morte di Petty.

Ed è stato già tanto. Ma tanto è anche quello che potevano ancora dare. 

Un gioco di squadra che non ha boss (anche nei dischi "solisti" di Petty gli Heartbreakers in qualche modo c'erano sempre). E quella solida unione la si percepisce guardando e ascoltando quella American Girl così straziante che sta girando in rete in questi giorni, eseguita da Benmont Tench e Mike Campbell, solo piano e chitarra. Tom dove sei?

E tutto sembra riportare a quel club a Gainesville in Florida quando Tom, Mike e Benmont nel 1970 erano la resident band di un locale. Iniziò tutto lì. Questa è la chiusura del cerchio o forse meglio ancora la continuità con in più l'esperienza.

Paragoni e assolutismi li lascio volentieri ad altri, perché ho hai ascoltato tutti i live della storia o si finisce per tirare in ballo i soliti cinque titoli. (A proposito: ma perché nessuno cita mai live di band hard rock e heavy?).

L'importante è che queste date abbiano smesso di circolare nel sottobosco dei fan sottoforma di bootleg ma abbiano incominciato a volare sopra alle teste di tutti, encomiabile esempio di cosa voglia dire suonare sopra a un palco. Palestra, manifesto, enciclopedia per chiunque si avvicini al rock'n'roll.

"Ho pensato che il Fillmore sarebbe stato il posto migliore per farlo, perché il pubblico qui è molto più indulgente nel permetterti di sperimentare. E si è rivelato vero. Sono semplicemente venuti con noi, al punto che ci siamo sentiti molto a nostro agio in quel lungo periodo. Penso che il lungo termine sia stata una grande idea, perché non stavamo promuovendo nulla e non avevamo motivo di farlo, a parte il fatto che volevamo farlo" disse in una vecchia intervista Petty.

E poi c'è una cosa che Tom Petty, suo malgrado mi ha insegnato: ogni lasciata è persa. Me lo persi stupidamente a Lucca nel 2012. E il finale è stato quello che è stato.

Di questo disco avevo ordinato la versione con due CD. Qualcosa mi diceva che me ne sarei pentito, nuovamente: l'ho subito cambiata con il cofanetto da quattro dischi. Al diavolo anche il vile denaro. Ogni lasciata è persa e questo è veramente imperdibile.






sabato 26 novembre 2022

RECENSIONE: LEE FIELDS (Sentimental Fool)

LEE FIELDS  Sentimental Fool (Daptone Records, 2022)


dammi il tuo soul

Porca miseria ragazzi: "I'm falling in love". Again. Se la musica non serve a questo a cosa serve? Vieni sempre ricambiato. Sto ascoltando questo disco a ripetizione. Al mattino quando è ancora buio mentre faccio colazione con tutta la giornata davanti, alla sera quando la giornata ha lasciato pochi segni dietro di sé. Le corte giornate autunnali sono un po' così, le ore scorrono ed è già nuovamente buio. Nell'oscurità questo disco gira alla grande.


LEE FIELDS, 72 anni,  mastica soul come fosse chewing gum zuccherato. Con quella facilità disarmante che solo chi non soffre di diabete può permettersi. Così si nasce, non lo diventi mica strada facendo. Eppure di strada ne ha macinata anche lui dal  lontano 1967, dal suo traferimento a New York proveniente dal North Carolina, giovanissimo e con tanti sogni nel cassetto e James Brown nel cuore, dal primo singolo uscito nel 1969 a una carriera lunga con alti e qualche inevitabile sbandata disco music in tempo reale (che poi anche quella è un'arte nobile) di cui però sembra non pentirsi assolutamente ("gli anni '80 mi hanno dato una prospettiva più ampia su ciò che potevo fare") tanto che quel chewing gum, ora che è rimasto ancora uno dei pochi, è diventato quasi poltiglia ma di quelle che mantengono ancora bene intatto il sapore. Una marca buona insomma. Il "piccolo James Brown", soprannome che si guadagnò quando era ancora giovanissimo ora sembra più che mai appartenergli di diritto. 

Passati a riposo gli anni ottanta, si dedicò alla lettura della Bibbia, così dice, ritornò agguerrito nei novanta. In questi ultimi anni  prolifici si è ripreso il posto che si merita di diritto o almeno per raggiunta anzianità. Anche se non dimostra la sua età.

E in giorni nei quali il soul sembra tornato sulle prime pagine portato dal battage pubblicitario, a volte insensato e diciamolo...pure esagerato, di una rockstar più che benestante, il regalo più bello sarebbe tributare il giusto omaggio anche questo ultimo vero eroe del genere che se ne esce con SENTIMENTAL FOOL, un disco di inediti per la Daptone Records di Gabriel Roth che fa suonare il soul con la giusta solennità e con ben poca pomposità. 

Canzoni senza tempo che legano in maniera indissolubile gospel (è da lì che arriva) e soul. Con qualche bella incursione r&b, jazz e funk.

A tal proposito Lee Fields ha una sua idea:"la musica soul per me viene dallo spirito. C'è una linea molto sottile tra gospel e soul. Il Vangelo parla delle meraviglie, della gloria e delle storie della Bibbia. La musica soul, con lo stesso sentimento, canta ciò che sta accadendo nelle nostre vite oggi, qui, su questo pianeta".

Malinconia, relazioni, amore anche non corrisposto, e emozioni sono le sue linee guida. E canzoni come

'Forever', 'Sentimental Fool', 'Save Your Tears For Someone New' e 'Whithout A Heart' mettono in mostra quella rara capacità di usare la voce come il più complesso degli  strumenti in mezzo a pianoforti, organi  vibrafoni e fiati.

E poi questa copertina stupenda (a mio parere), un'immagine così seventies da farmi ricordare la foto di An Anthology di Duane Allman che proprio il 20 Novembre 1946 nasceva. Intanto fuori è già buio.





sabato 19 novembre 2022

RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE (World Record)

NEIL YOUNG With CRAZY HORSE  World Record (Reprise REcords, 2022)



no more war, only love

C'è una frase estrapolata dal libro Special Deluxe con la quale Neil Young ritrae se stesso meglio di chiunque abbia cercato di farlo al suo posto. E potrebbe pure andare bene per liquidare ogni nuovo album del nostro. Leggi e avrai Neil Young sotto la lente di ingrandimento.

Dice:"a volte divento talmente ossessionato da una nuova idea che finisco per perdere la prospettiva e inizio a sognare davvero in grande. Ovviamente io sono sempre stato un passionale, il che nella mia vita è stato un bene e un male e ha portato ad alterni risultati". Ora tocca a noi. Dove si pone questo nuovo World Record? Di certo c'è la passione. Di certo non è un male ma nemmeno un gran bene. Alterno sì.

Trovare parole nuove per descrivere un nuovo disco di Neil Young è quindi diventata impresa sempre più difficile. In qualche modo abbiamo già detto tutto e sentito anche. Qualche maligno suggerisce: c'è sempre il "copia e incolla", lo usa lui nelle canzoni, perché non noi?

Lui come al solito anche quest'anno ci ha dato dentro: mettendo da parte gli archivi e i prossimi festeggiamenti per i cinquanta di  Harvest, dopo il live Noise And Flowers che testimoniata la collaborazione con i Promise Of The Real di Lukas Nelson , dopo Toast, il disco dimenticato dei primi anni duemila ecco a sorpresa, a un anno esatto dall'uscita di Barn questo ennesimo grido ecologista urlato alla veneranda età di 77 anni  a più di cinquant'anni da quando ci avvertiva di "madre terra in fuga". Un po': io vi avevo avvertito. Ve lo ripeto ancora una volta. E non credo sia demenza senile. 

Perché sì, ammettiamolo: a questa generazione di musicisti vogliamo un gran bene. Tanti ci hanno già lasciato, coccolamioci quelli rimasti. Tanto, mettiamoci il cuore in pace: in pensione non andranno mai e chi è andato dopo poco è tornato per troppa nostalgia. Ah ok, Poncho Sampedro ci saluta da una spiaggia con la chitarra appesa in soggiorno e anche questa volta nei Crazy Horse c'è Nils Lofgren, musicista dal grande talento spesso sacrificato all'ombra dei boss. Con lui gli altri cavalli pazzi quasi ottentenni Ralph Molina e Billy Talbot questa volta non si sono chiusi in un fienile ma ai Shangri-La  di Malibu di Rick Rubin. Il risultato? Lo stesso degli ultimi Colorado e Barn ma con piùvarietà. Rick  Rubin ha messo poco il becco: si sarà accarezzato la lunga barba bianca e avrà pensato "cosa posso insegnare a questi qui, io?".





Undici canzoni registrate in analogico, senza sovrastrutture che mantengono intatte purezza e immediatezza con il messaggio davanti a tutto. Messaggi che spesso arrivano con tono nostalgico rivolto a quello che avevamo, abbiamo ancora e forse non avremo più continuando di questo passo, anche se poi a prevalere è un velato ottimismo. Ah, anche lo scatto di copertina che ritrae suo padre Scott nel pieno del suo vigore sembra raccontarci tutto questo.

Insomma, il rispetto prima di tutto come predica in 'This Old Planet (Changing Days)', ballata pianoforte e fisarmonica. "Non sei solo in questo pianeta', il monito.

In 'Love Earth' che apre il disco canta: "abbiamo vissuto vicino al sole e abbiamo tutto, stavamo vivendo in un sogno, ama la Terra".È una ballata ciondolante che subito lascia spazio al corale blues 'Overhead', guidato dal pianoforte e a  'I Walk With You (Earth Ringtone)' primo vero incontro con le chitarre che diventano d'assalto nel rumoroso blues ' Break The Chain' (nel video, qualcuno alla fine dice: "anche la console sta fumando") e protagoniste assolute nei quindici minuti del "nostalgico" amore per il passato e le auto d'epoca 'Chevrolet', soprattutto antico saggio su cosa voglia dire suonare con i Crazy Horse ancora oggi. Potrebbe uscire da Re Ac Tor o da Ragged Glory, quando la band si lascia andare è questa qui. Ennesimo fumante manifesto da attaccare alla parete finché sta su.

Di contro, a testimoniare quanto World Record sia un disco disordinato e stropicciato musicalmente ecco tre ballate con l'organo a pompa protagonista: 'The Long Day Before', la sbilenca 'The Wonder Won't Wait' e il country di 'Walkin’ On The Road (To The Future)' dove a farla da padrone è un messaggio ripetuto, tanto semplice e ingenuo quanto istantaneo per raccontarci il vecchio Neil. Dice: "no more war only love". 

E cosa vuoi dirgli? Hai ragione!





venerdì 18 novembre 2022

RECENSIONE: ENUFF Z'NUFF (Finer Than Sin)

ENUFF Z'NUFF  Finer Than Sin (Frontiers Records, 2022)



in Beatles we trust

Ascoltare un nuovo album della band di Chicago guidata da Chip Z'Nuff è sempre piacevole, anche se della formazione originale è rimasto ben poco. Dopo quarant' anni dalla loro nascita e trentatre dal debutto continuano a far uscire dischi (il diciottesimo!) comunque piacevoli e devoti a quel glam rock intriso di  power pop e psichedelia che li fece risaltare ai tempi d'oro. La loro tripletta di inizio carriera (Enuff Z'Nuff del 1989, Strenght del 1991 e Animals With Human Intelligence del 1993) rimane ineguagliabile per freschezza ma bisogna dare atto che pur con tutte le sfortune e i cambiamenti in corsa, gli Enuff Z'Nuff hanno continuato la loro carriera con coerenza, costanza e senza cadute di tono.

Non fa eccezione questa nuova manciata di canzoni. Sembra che Chip entrato in studio abbia detto ai suoi ragazzi (i chitarristi Tory Stoffregen e Tony Fennell e il batterista  Benjamin Hill): "non impazziamo con le sovraincisioni'. Quello che è uscito sono quaranta minuti di piacevole e scorrevole rock’n’roll, che ha nell'iniziale e strumentsle 'Sound Check', la canzone  che serve da preparazione a quel che seguirà dopo, proprio come fosse un set live. (A proposito: ma il tour italiano di fine Ottobre che fine ha fatto?)

Ossia il mai nascosto amore per le melodie beatlesiane in tutte le sue forme (l'ultimo disco Hardrock Nite era proprio un tributo ai quattro di Liverpool) che escono prepotenti in 'Catastrophe' nella viziosa 'Steal The Light', nell'hard rock'n'roll veloce e scattante 'Lost And Out Of Control', nella sognante 'Intoxicated', nel quadrato hard rock 'Trampoline', raggiungendo l'apice nei sei minuti con arrangiamenti orchestrali di 'Hurricane', canzone che pare raccolta, fresca fresca da quel "campo di fragole" colorato degli anni sessanta.

Rimane il tempo per una super abusata cover di 'God Save The Queen' che Chip spiega così:  "i Sex Pistols sono stati una delle nostre grandi influenze, quindi è bello poter finalmente chiudere quel capitolo e mettere "God Save the Queen" su uno dei miei dischi" e il finale di disco 'Reprise' che riprende l'iniziale 'Sound Check', praticamente un minuto e mezzo di assoli di chitarra.

Gli Enuff Z'nuff ancora oggi possono vantarsi di essere stati uno dei gruppi più originali, personali, coraggiosi e allo stesso tempo sfortunati di una scena che oggi più che mai sembra vivere di ricordi e passato. Loro, tra alterne fortune, sono ancora qui a buttare fuori dischi originali e girare il mondo con il loro consueto mix di colori, pace, amore, pop e rock'n'roll.





venerdì 11 novembre 2022

RECENSIONE: THE PROCLAIMERS (Dentures Out)

THE PROCLAIMERS   Dentures Out (Cooking Vinyl, 2022)

guardare avanti

Alzi la mano chi di voi segue ancora le vicende dei gemelli Craig e Charlie  Reid? Vedo poche mani. Sarò mica rimasto l'unico che continua a seguire le vicissitudini musicali di questi scozzesi che non le hanno mai mandate a dire (da sempre in lotta per l'indipendenza scozzese), con il loro accento infondondibile, usando un linguaggio musicale dove pop, folk, vecchio skiffle e rock'n'roll la fanno da padrone?

Dentures Out è il loro dodicesimo disco e se i fasti degli esordi segnati da album come This Is The Story (1987) e Sunshine On Leith (1988) sembrano ormai un lontano ricordo almeno fuori dalla Scozia, dove invece rimangono personaggi da prima pagina e serata, l'ironia, il sarcasmo e l'impegno rimangono quelli di sempre. Non fa eccezione Dentures Out, anzi qui alzano notevolmente l'asticella, registrato nei mitici Rockfield Studios in Galles nella primavera del 2022 ma uscito , invece, in un momento di profondi cambiamenti per il Regno Unito: la morte della Regina, il recentissimo avvicendamento al governo.

"Il tema dell'album sono le persone che sognano un'Inghilterra che se n'è andata o forse non è mai esistita". Così spiegano il tema portante che lega nel bene e nel male tutte le canzoni.

Nella title track che apre il disco e che vede la partecipazione di James Dean Bradfield dei Manic Street Preachers alla chitarra sembra tutto molto chiaro:"la Gran Bretagna è vecchia e piuttosto magra, l'ho vista con la dentiera fuori, se l'è messa, poi ha borbottato qualcosa di indistinto che potrebbe essere stato, 'Nostalgia ti amo'.” 

Ancora di più nel rock spigoloso di 'The World That Was', esplicita fin dal titolo: non cerchiamo i fasti del passato, guardiamo avanti sembra il monito.

Tra scatti di rock’n’roll ('Praise'), ballate con pianoforte e  arrangiamenti d'archi ('Feast Your Eyes', 'Things As They Are' che si scaglia contro la stampa corrotta), country a ritmo di valzer ('Play The Man'), il paragone tra le domeniche proibizioniste del puritanesimo calvinista e il lockdown imposto dalla pandemia ('Sundays By John Calvin') e qualche quadretto di positiva speranza ('Signs Of Love') i soli 35 minuti di durata, nonostante il peso dei temi trattati, scorrono via come un fresco bicchiere d'acqua. Naturalmente non quello in copertina, lì riposa la vecchia, malconcia e nostalgica Inghilterra.




lunedì 31 ottobre 2022

RECENSIONE: JOHN NORUM (Gone To Stay)

JOHN NORUM  Gone To Stay (Gain, 2022)


c'è vita fuori dalla band

Un talento mai troppo lodato. I dischi solisti di JOHN NORUM sono un riassunto della musica con la quale è cresciuto da ragazzo: in testa certamente i Thin Lizzy (spesso si cimenta in cover del gruppo irlandese), gli UFO targati Michael Schenker, Gary Moore, Frank Marino, i Deep Purple con Glenn Hughes in formazione e non è un caso che proprio "the voice" sia il cantante su tutto l'album Face The Truth (1990), infine i Black Sabbath. Una chitarra ispirata ma sempre al servizio della canzone. Se i primi dischi viaggiavano su un hard rock/metal cromato figlio degli anni ottanta, ricordiamoci che lasciò gli Europe all'apice del successo perché quella strada non era più la sua ("dopo il successo di "The Final Countdown" mi sono sentito come se fossi con i New Kids On The Block. Ma volevo essere un musicista" raccontò in una intervista) con il passare del tempo la sua chitarra si è fatta via via più pesante (l'ottimo Optimus del 2005) e blues (Play Yard Blues del 2010) tanto efficace da ridare nuovi stimoli e aprire nuove strade agli Europe mai così prolifici, duri e puri come dopo la reunion del 2004. Peccato che pochi lo sappiano.

Ora, anticipato da tre nuove canzoni uscite nel corso dell'anno, è uscito il nuovo album Gone To Stay a dodici anni dall'ultimo.

Ancora una volta Norum si conferma autore di vecchia scuola,  basti l'uno-due iniziale per capirlo: quando il suono di un carrilion lascia spazio a 'Voices Of Silence', hard blues in stile Whitesnaske mentre la successiva 'Sail On' (con il compagno di band Mic Michaeli alle tadtiere)  mette in mostra tutte le influenze Black Sabbath nei suoni e Soundgarden nel cantato, confermate anche dalle parole dello stesso Norum.

"Ero sdraiato sul divano in studio e non avevo idea di cosa fare con la voce. Avevo già registrato la musica e all'improvviso mi ha colpito: ho un'idea. Fammi entrare.' Non ho testi o altro, quindi ho appena borbottato qualcosa, ed è quello che è venuto fuori, e poi dopo, ho detto: mi ricorda davvero Cris Cornell. Ma non era intenzionale".

Un disco intenso e solido (suonato insieme a Peer Stappe alla batteria e Frederick Bergensstrahle al basso) che si fa veloce nei riff che dominano 'What Do You Want', funky nell'andamento che accompagna il rock blues della title track e misterioso nelle chitarre che costruiscono la melodia di  'Calling'.

Anche in questo album non manca un'ospite alla voce: in tre brani c'è Age Stein Nilsen cantante dei norvegesi Wig Wam. Nilsen canta nella ballata 'One By One', il brano più accessibile e radiofonico, nel quadrato hard rock molto Ac/Dc 'Terror Over Me' (a cui si aggiungono anche lo stesso Norum e Kelly Keeling) e nella aggressiva e heavy  'Norma' arricchita dalla Stockholm Philharmonic Orchestra. 

Infine due chicche del disco: la cover di 'Lady Grinning Soul' di David Bowie, in origine su Alladin Sane del 1973, e la finale  'Face The Truth', rilettura di un suo vecchio brano che da hard (c'era la voce di Hughes) si fa jazzato.

Ancora una volta John Norum non  delude le aspettative di chi da lui si aspetta del buon hard rock heavy alla vecchia maniera. "Quello che oggi chiamano Classic Rock o Classic Hardrock è ed è sempre stato il mio genere". 





sabato 22 ottobre 2022

RECENSIONE: THE CULT (Under The Midnight Sun)

THE CULT   Under The Midnight Sun  (Black Hill, 2022)



visioni a mezzanotte

Ho questa scena estrapolata da A Year and a Half in the Life of Metallica, il documentario sulla realizzazione del Black Album dei Metallica: la band e il produttore Bob Rock sono in studio di registrazione quando iniziano a bersagliare con le freccette un poster dei Cult, periodo Sonic Temple, scimmiottando la voce di Ian Astbury. A parte il legame tra Bob Rock e la band britannica , non ho mai capito quello sberleffo. Sarà perché a me la voce di Astbury, quel caratteristico modo di cantare, ha sempre dato sicurezza e calore. Ancor di più oggi con un disco che sembra giocare più di sfumature che di spigolosita rock'n'roll. Under The Midnight Sun è un album che non fa dell'immediatezza la sua forza ma gioca di contrasti e esce alla distanza. No, un ascolto superficiale non basterà per farvelo piacere. Bisognerà insistere se ne avrete voglia. Anche se non garantisco il risultato. A me nella finale title track, numero acustico con crescendo d'archi che nella sua profondità può ricordare da vicino qualcosa di Mark Lanegan, ascoltata in cuffia in una nebbiosa mattinata autunnale è venuta la pelle d'oca ad esempio.

Ammaliante, visionario e pieno di ombre come solo un sole a mezzanotte nelle regioni polari. Cosa realmente vissuta dal gruppo a un festival a Provinssirock in Finlandia a metà anni ottanta, ispirazione per questi soli ma intensi 35 minuti (otto canzoni) che Astbury ha cercato di raccontare con la profondità e lo spiritualismo che lo hanno sempre contraddistinto.

"La gente è sdraiata sull'erba, pomiciando, bevendo , fumando. C'erano file di fiori nella parte anteriore del palco delle esibizioni, quella sera. È stato un momento incredibile

C'è un ritorno a certe sonorità eighties (il disco è stato registrato anche negli Rockfield Studios in Galles dove fu registrato Dreamland) con l'aiuto del produttore Tom Dalgety, con la chitarra di Billy Duffy che si inventa riff suggestivi e seducenti, assoli e riverberi certamente più vicini alla new wave dei primissimi album (Dreamtime, Love) piuttosto che all'hard rock di fine anni ottanta (Electric, Sonic Temple). 

"Stavamo cercando un suono più contemporaneo, meno rock n' roll. Meno blues rock. Penso che l'abbiamo raggiunto. Direi che è più un disco dal suono europeo" ha raccontato recentemente Billy Duffy.

Trantacinque minuti da prendere in blocco, senza pause: oscuri ('Mirror'), malinconici (il singolo 'Give Me Mercy'), psichedelici (gli archi di 'Outer Heaven'), darkeggianti 'Vendetta X'. Canzoni come 'A Cut Inside' e 'Impermanence' invece racchiudono bene le due anime della band, quella degli esordi con quella più hard di metà carriera. La bossanova iniziale di 'Knife Through Butterfly Heart' che cresce fino ad esplodere all'assolo di Duffy e alla lunga coda strumentale è certamente tra i vertici del disco.

Manca forse l'inno rock, la canzone da ricordare e associare al disco, forse pure la produzione a volte grida vendetta, ma poco importa.

I Cult, completati su disco dal batterista Ian Matthews, il tastierista  Damon Fox, il bassista Charlie Jones e dallo stesso produttore Tom Dalgety anche seconda chitarra, suonano compatti e uniti.

A mio parere i Cult non hanno mai inciso dischi realmente brutti. Per anni hanno cavalcato le mode musicali mettendovi sempre la loro inconfondibile impronta. Ora che le mode musicali non esistono più possono ritornare al loro passato, saccheggiarlo e riproporcelo con tutta la maturità di quarant'anni di carriera alla spalle.






venerdì 7 ottobre 2022

RECENSIONE: BUDDY GUY (The Blues Don't Lie)

BUDDY GUY - The Blues Don't Lie (2022)



last (blues)man standing

Quando le leggende decidono di scendere in campo, bisogna togliersi di mezzo e lasciar loro spazio. Il blues è vivo e in buona forma, ce lo diceva solo quattro anni fa dopo l'uscita di The Blues Is Alive And Well.

Oggi gli anni sono 86 e Buddy Guy, una delle ultime leggende del blues di Chicago (l'ultima?) è ancora in forma smagliante: le date fissate dei suoi tour, la sua musica, la sua voce, il suo bel faccione sorridente in copertina, la sua chitarra a pois parlano chiaro. Chiarissimo: il blues non mente. Fedele a una promessa fatta a sé stesso e ai tanti amici già persi per strada "lo prometto fino al giorno della mia morte, terrò in vita il blues" e questo nuovo album è l'ennesima autobiografia di un uomo che 60 anni fa lasciò i campi della Louisiana per cercare il suo sogno in città. Lo ha acciuffato quel sogno e che lo stia ancora vivendo in pieno lo si capisce appena parte 'I Let My Guitar Do The Talking' che  attacca al muro qualunque aspirante bluesman che tenti di scalzarlo dal trono. Sontuoso. 

In mezzo a blues più malinconici con la chitarra che piange alla ricerca disperata d'amore ('The World Needs Love', 'Sweet Thing') o il pianoforte della jazzata 'Rabbit Blood', c'è ancora molto  fuoco che arde ('Well Enough Alone', 'Back Door Scratchin').

E poi ecco apparire alcuni ospiti di spicco come la tradizione degli ultimi dischi, prodotti dal fedelissimo Tom Hambridge, vuole: una meravigliosa Mavis Staples che duetta tornando indietro ai sixties in 'We Go Back', Elvis Costello che ringhia nella minacciosa 'Symptoms Of Love', James Taylor in 'Follow The Money', Jason Isbell nel soul 'Gunsmoke Blues', una presa di posizione convinta contro le armi da fuoco, l'ottantottenne Bobby Rush nel funky 'What's Wrong With That', la cantante Wendy Moten nel classico blues di 'House Party'.

Un disco come sempre per nulla nostalgico o fermo al passato come natura di Buddy Guy.

"Ne parlavamo con Muddy Waters, Howlin' Wolf, Little Walter e tutti quei ragazzi. Allora erano ancora in salute, e parlavamo di questo giorno, 'chi sarebbe rimasto... per favore, non lasci che il blues muoia".

Ancora una volta la promessa è mantenuta.