martedì 2 luglio 2013

RECENSIONE:SCORPION CHILD (Scorpion Child)

SCORPION CHILD  Scorpion Child (Nuclear Blast, 2013)


Avete due possibilità: o scartate con snobismo tutta la nuova ondata di revival hard/rock che le etichette discografiche (in questo caso la Nuclear Blast) cercano di accaparrarsi a gomitate con il piacevole rischio di pescare anche brillanti diamanti in mezzo a tanto concime (vedi Rival Sons) e quindi continuate indefessi e sicuri a tirar fuori dalle buste ingiallite dal tempo i vostri vecchi vinili di Led Zeppelin, Uriah Heep e Humble Pie; oppure decidete di  sporcarvi le mani, setacciare il sudiciume e cercare sul fondo ciò che brilla di più. Io consiglio sempre la seconda ipotesi, spinto da patologica curiosità, con i tempi e i mezzi alleati che consentono di farlo senza dispendio di troppe energie economiche e temporali. A brillare, questa volta, sono i texani-di Austin-Scorpion Child che con il loro debutto piazzano un disco costruito sulla solida e pur derivativa impalcatura "vintage" fatta di alberi di puro legno massello invecchiato di almeno quarant'anni, su cui riesce il miracolo di far crescere erba fresca, verde e appetibile, diversamente da tante altre band contemporanee votate allo scimmiottamento senza arte né parte, i texani hanno la pregevole capacità di far confluire tutte le loro influenze in un suono che cercano di rendere il più possibile personale e fantasioso come si può rintracciare ascoltando Polygon Of Eyes, un caterpillar che unisce velocità figlia di certi episodi alla  Rainbow "assassini dei re", della prima ondata NWOBHM (Iron Maiden, Judas Priest), la pesantezza hard/blues di Blue Cheer, Black Sabbath con le chitarre intrecciate di Christopher Jay Cowart e Tom Frank a mulinare minacciose, la voce di Aryn Jonathan Black che svetta su tutto, ed una registrazione ad hoc come deve essere nell'anno 2013, costruita su misura dal produttore Chris Frenchie Smith. L'importanza di una sezione ritmica presente e galoppante (Shaun Diettrick Avants al basso, Shawn Paul Alvear alla batteria), quella che esce dalla diretta, pesante e dai fumi quasi stoner Paradigm forte di un chorus da arena che ti si appiccica sulla pelle come indelebile tattoo, nel rock'n'roll senza fronzoli di In The Arms Ecstasy, nella epica andatura sorretta da un potente riff e un altro micidiale chorus in The Secret Spot, nell'attacco zeppeliniano dell'opener Kings Highway che marcia compatta fin da subito e ci introduce al disco.
Ma anche una visione più psichedelica e illuminante della musica, quella che smorza a metà canzone l'oscurità di Salvation Slave, facendo crescere lisergiche visioni, le stesse che accecano la luminosa ballata Antioch e la melodica, viziosa seppur intrisa di drammaticità  Liquor.
Con quei passaggi acustici ad interrompere il flusso elettrico, ereditati dai maestri Led Zeppelin che il cantante spiega così "gli Zeppelin erano molto innovativi e non avevano paura di andare fuori dagli usuali confini del blues elettrico..." e che l'ultima Red Blood (The River Flows) sintetizza e innalza molto bene prima di lasciare il posto ad una lost track "lo-fi" con sola voce, echo, e chitarra che pare registrata in camera d'albergo e salvata in un registratore d'emergenza.
Disco immediato e possente: 9 canzoni che si lasciano bere tutte d'un fiato, lasciando piacevoli postumi post sbornia e sudore sul pavimento, con la consapevolezza che il seguito potrebbe riservare buone e migliori sorprese, proprio come fatto dai Rival Sons con il loro secondo Head Down. Da seguire con molta curiosità.




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