domenica 16 giugno 2024

RECENSIONE: THE DECEMBERISTS (As It Ever Was, So It Will Be Again)

 

THE DECEMBERISTS  As It Ever Was, So It Will Be Again (Thirty Tigers, 2024)



perdersi nel loro mondo

Bentornati ai Decemberists. Oggi piove, non è certo una novità di questi tempi, ma il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again sembra viaggiare proprio bene tra vetri schizzati di gocce d'acqua (da immaginare come una foto in bianco e nero), foglie ormai verdi, verdissime, che dondolano pigre sotto il cadere incessante dell'acqua e nubi color grigio che non lasciano intravedere troppo in lontananza. Si può giocare di fantasia. Il dipinto di copertina disegnato dalla illustratrice Carson Ellis, popolato da esseri viventi (animali e uomini, ci siamo anche se in lontananza, giustamente ce lo aggiungo io) sembrano vivere felicemente insieme, in posa per un ritratto che cerchi di dare un senso al titolo "com'è sempre stato, così sarà ancora". Si può continuare a giocare di fantasia.

Sono passati sei anni dall'azzardo modernista del precedente I'll Be Your Girl , ma qui la creatura di Colin Meloy riprende il discorso interrotto dallo splendido, americano e rurale The King Is Dead aggiungendo quell'onirica scia progressive che abitava l'ambizioso The Hazards Of Love.

Mai banali i Decemberists. I quasi venti minuti della finale 'Joan In The Garden' riassumono bene tutte le molteplici parentesi della loro carriera: una prima parte folk, la metà ambient indie-rumorista, la seconda metà liberatoria tra chitarre cavalcanti al limite dell'hard e fughe tastieristiche verso le stagioni del prog.

 I Decemberists hanno l'innato dono di rapirti dentro al loro mondo, a tratti surreale, popolato da santi, figure letterarie, oniriche, tra passato e attualità, tra racconti popolari e il presente che ti passa davanti, dove però incontri il caldo vecchio abbraccio delle chitarre byrdsiane ('Burial Ground'), il country americano sognante attaccato a una pedal steel, i colori del folk ('The Reapers') spesso occhieggiante al Regno Unito , lo sbuffare dei fiati che ti consegnano nelle mani del sergente beatlesiano ('America Made Me'), il gusto profondo e avvincente del pop sixties.

E visto che in questi giorni si parla tanto di REM, la presenza di Mike Mills fa più che piacere. C'è pure James Mercer degli Shins.

È un disco lungo (un doppio d'altri tempi se si pensa al vinile, diviso in quattro facciate) ma si sta prenotando senza difficoltà alcuna un posto tra i dischi dell'anno. Qui dentro la musica svolge degnamente il suo compito.





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