lunedì 28 gennaio 2013

RECENSIONE: TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN (Wild Child)

TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN  Wild Child (Carved Records , 2013)

Nel 1997, Tyler Bryant aveva solo 6 anni. C'è un frammento di video su YouTube che lo mostra vestito e pettinato come Elvis Presley mentre sopra ad un palco, probabilmente di qualche talent show americano per bambini, si muove e dimena, scimmiottando "The King". Nulla di eccezionale ma il bambino ci credeva e i genitori (sic) forse ancora di più: "C'è stato un momento della mia vita, alle elementari, in cui credevo di essere Elvis!" dice. Cose viste e purtroppo straviste anche da noi in quelle malsane trasmissioni televisive del sabato sera, figlie degenerate della vecchia trasmissione "Piccoli Fans", a sua volta figlia del più candido e innocente Zecchino d'Oro. C'è un però. Il piccolo Tyler ha una chitarra in mano, piccola, forse un giocattolo, non si capisce.
Andiamo avanti con gli anni. Nel 2011 quella chitarra si è ingrandita e ha già diviso il palco e aperto i tour di B.B. King, Jeff Beck, Aerosmith, Joe Bonamassa, Heart, Lynyrd Skynyrd, Eric Clapton, Reo Speedwagon e molti altri. Roba da far impallidire chiunque. Può bastare per farci capire che Tyler Bryant, ora ventunenne, ma ancora la faccia pulita da ragazzino, è considerato una delle più fulgide promesse americane delle sei corde.
Cresciuto praticamente dentro al negozio di chitarre a Paris TX dove i suoi genitori gli comprarono la sua prima  Epiphone Les Paul rossa e dove l'incontro con il vecchio bluesman Roosevelt Twitty fu determinante per improntare lo stile chitarristico e far uscire allo scoperto l'innato talento.
Questo Wild Child è il primo disco e segue la pubblicazione di due EP My Radio e From The Sandcastle (molti brani di questo EP sono presenti qui, nel suo debutto).
Che un produttore del calibro di Kevin Shirley si sia già mosso in suo aiuto, garantisce sulla alta professionalità che circonda il progetto di Tyler Bryant e la sua fedele band The Shakedown, messa in piedi dopo essersi spostato a Nashville (con tutta la famiglia) e composta da: Graham Whitford (chitarra) figlio di Brad Whitford chitarrista degli Aerosmith, da Noah Denney (basso) e Caleb Crosby (batteria).
Sdoganato al grande pubblico dal film documentario Rock Prophecies di Robert Knight che lo affiancava a grandi chitarristi già affermati, la musica di Bryant ha tutto per attirare l'attenzione di chi ama la buona musica rock/blues pur disseminando qua e là qualche difetto imputabile alla giovane età ma rimediabile con il tempo: Bryant rischia poco, rifugiandosi in qualcosa che abbiamo già sentito tante volte, cedendo anche, in alcuni punti, alla piacioneria da airplay radiofonico come nel suo inno generazionale, molto bonjoviano, Still Young e nel tambureggiante Rock'n'Roll di Say a Prayer.
Ma qualche giovane estimatore lo troverà.
Lo salvano l'età, l'ingenuità, l'energia, il talento innato e la grande passione per le sei corde- direi totalitaria-  riversata nelle canzoni, sia quando si catapulta a testa bassa nella "Fast and Furious" House Of Fire, sia quando ammoderna la sua visione del blues in Last One Leaving, o quando ripassa la lezione dell'hard blues inglese d'annata in  House That Jack Built  e Fool's Gold, anche debitrici di quello street metal che quel gruppo di Boston, quello dove milita il papà del secondo chitarrista, sapeva fare così bene.
Quando bottleneck/slide prendono il sopravvento nella paludosa Lipstick Wonder Woman, Poor Boys' Dream, Downtown Tonight si respira anche aria di buon blues (che sia già arrivato il tempo per il "nuovo Joe Bonamassa"?), portando in superficie tutto il suo amore per il rock semplice, melodico e genuino dei suoi amati Rolling Stones e Tom Petty And The Heartbrekers.
Il disco gira e suona bene, moderno, dinamico e ben fatto, a volte fin troppo per essere stato registrato in presa diretta in poco meno di due settimane con l'aiuto dell'amico Roger Nichols, e quando si è di fronte a talenti all'esordio di questa fattura, il giudizio definitivo emergerà meglio con il tempo (e gli album) o alla prova del nove definitiva, quella del palcoscenico, forse già anche superata, si vocifera.
"Volevo fare un disco rock per i giovani come me.Volevo fare un disco rock & roll per la mia generazione e abbiamo voluto che il suono uscisse vivo, sporco e crudo come quando ascolti quattro persone in piedi in una stanza". Da una intervista rilasciata a GlideMagazine.com 
Un disco che potrebbe far presa sulle nuove generazioni rock in cerca di nuovi idoli da idolatrare, un po' come fatto recentemente da gruppi come Black Stone Cherry, a patto che poi i giovani fan si vadano a studiare i fondamentali e le radici del rock. Tyler Bryant lo ha già fatto molto bene, ora deve solo studiare per trovare la sua unicità d'artista. Il talento c'è di sicuro e la strada imboccata è quella giusta.






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