lunedì 21 gennaio 2013

RECENSIONE: THE LONE BELLOW (The Lone Bellow)

THE LONE BELLOW   The Lone Bellow ( Descendant Records, 2013)

Dalle peggiori disgrazie, molto spesso, nascono spinte artistiche di valore. E' quello che è successo a Zach Williams, fondatore e maggior autore del trio The Lone Bellow, dopo che la moglie, caduta rovinosamente da cavallo, è rimasta per molto tempo in balia di dottori e ospedali con l'ombra della paralisi sempre in agguato.
Zach non aveva mai pensato seriamente alla musica prima di allora. Il dolore, la rabbia, la speranza e l'incoraggiamento degli amici lo hanno portato a mettere su carta i sentimenti che solo successivamente diventeranno note.
Intanto la moglie, miracolosamente, migliora e lui decide di spostarsi dal profondo sud della natia Georgia verso New York per cercare fortuna nella musica. Dopo un primo tentativo da solista, trova i suoi fedeli compagni di viaggio in Kanene Pipkin alla seconda voce e Brian Elmquist alla chitarra elettrica e cori, e la sua personale favola sembra indirizzata verso il felice finale. Manca solo il disco: puntualmente arriva, con l'aiuto del produttore Charlie Peacock già al lavoro con il duoThe Civil Wars, band per la quale The Lone Bellow hanno aperto alcune date. Il produttore  fa registrare tutto in tre giorni e tre notti, sperimentando gli antichi spiriti camerateschi che generarono antichi capolavori musicali.
Il debutto dei The Lone Bellow se da una parte è collocabile nel filone indie-folk che imperversa e satura il mercato discografico da qualche anno, alcune buone intuizioni lo elevano tra i probabili dischi che faranno il botto nell'anno appena iniziato, come già sottolineato -e sponsorizzato- a chiare lettere da Billboard. La voce di Williams dà vita alle liriche che raccontano il carattere dei suoi luoghi d'origine, il forte legame alla famiglia, alla terra, alla fede a cui si è appellato nei momenti difficili, splendidamente doppiata da quella femminile di Kanene Pipkin come nel crescendo gospel della bella You Never Need Nobody, nel duetto country di You Don't Love Me Like You Used To, nella facile cantabilità pop di Teach Me To Know. Le armonie vocali sono parte integrante e protagoniste di tutto il disco.
Le soluzioni musicali del trio, almeno su disco, non sono quelle minimali e acustiche che imperversano in act come i Mumford And Sons (un esempio a caso), ma accanto alla tradizione assicurata da banjo, violini, mandolini e chitarre acustiche fiorisce una sezione ritmica ben presente con sprazzi di chitarra elettrica, pianoforte e tastiere garantite dalla presenza dei  tanti strumentisti che hanno partecipato alle due sessions di lavoro, la prima e principale a New York, la seconda a Nashville con alcuni musicisti locali. Bell'esempio della loro attitudine musicale può essere You Can Be All Kind Of Emotional, tra le mie preferite.
Dalle soluzioni più moderne come Bleeding Out, o come l'iniziale Green Eyes And A Heart Of Gold che può ricordare i tambureggianti crescendo emozionali dei migliori U2 e Arcade Fire,  passando per le folkie, malinconiche ed evocative Two Sides Of Lonely, Fire Red Horse, Looking For You e arrivando alla finale The One You Should've Let Go, rock chitarristico e graffiante, mosca bianca tra i solchi di questo debutto ma ben riuscita. Il tutto legato da uno spirito pop che aleggia senza avvolgere e disturbare più di tanto l'interiorità delle liriche, ma impreziosendo un disco trainato dalla forte vocalità di Zach Williams che in alcuni momenti può ricordare un Chris Martin (Coldplay) imprestato alla folk music. Un debutto in linea con ciò che tira di più oggi nell'inflazionato campo musicale indipendente USA: la tradizione americana rivista, corretta e rivestita di spirito moderno. Qui, in più: le buone armonie vocali dettate dal contrasto delle voci maschile/femminile e i testi di gran qualità. Se ne sentirà parlare.





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