sabato 25 maggio 2024

RECENSIONE: SLASH (Orgy Of The Damned)

 

SLASH  Orgy Of The Damned (Gibson Records, 2024)




tra le belle sorprese dell'anno

Sapere che un inedito Iggy Pop è qui alle prese con 'Awful Dreams' di Lightnin' Hopkins potrebbe bastare per dare un ascolto curioso a questo disco. Voce da crooner e chitarra i soli ingredienti. Dischi di cover blues ne è pieno il mondo: spesso inutili e di maniera, a volte divertenti, raramente indispensabili. Orgy Of Damned non è certamente indispensabile ma divertente secondo me lo è. Il taglio rock della chitarra di Slash contribuisce a dare quel tocco di diversità indispensabile per creare delle cover quantomeno singolari e ben riuscite. I puristi del blues grideranno allo scandalo. Ma chi se ne frega. La produzione di Mike Clink, l'uomo dietro a Appetite For Destruction è anche una garanzia.

E poi tutti gli altri ospiti che in qualche modo lasciano il loro segno: Chris Robinson sembra a suo agio con 'The Pusher' degli Steppenwolf che non sfigurerebbe in qualsiasi setlist dei Black Crowes, la chitarra di Gary Clark Jr. incrocia quella di Slash in mezzo al crocicchio presidiato da Robert Johnson (Crossroads) ed è un bel sentire, Billy Gibbons si intrufola in 'Hoochie Coochie Man' con la facilità con la quale pettina la sua barba ogni mattina, Crhis Stapleton in 'Oh Well' dei Fleetwood Mac è meglio di qualunque cosa abbia registrato nel suo ultimo disco. Brian Jhonson ora sa cosa fare quando smetterà di torturarsi l'ugola con gli Ac Dc ('Killing Floor' con l'armonica di Steve Tyler funziona), le quote rose sono assicurate da Dorothy ('Key to the Highway') ma soprattutto da una sorprendente e pop Demi Lovato in un classico che più classico non si può come 'Papa Was a Rolling Stone' e da una sempre rassicurante e grintosa Beth Hart in 'Stormy Monday'. Quattordici minuti totali per loro due.

Completano Tash Neal (presente in tutto il disco con la sua chitarra) in una quasi commovente 'Living For The City' di Stevie Wonder presa da quel capolavoro che fu Innervisions del 1973 ("quella era la traccia che sapevo sarebbe stata quella più insidiosa per la persona media, ma era la mia canzone preferita quando Innervisions uscì quando avevo circa 9 anni. Ho adorato quella canzone" ha detto recentemente Slash) e un impeccabile e di mestiete Paul Rodgers con 'Born Under a Bad Sign' di Albert King.

Un disco inseguito da più di trent'anni quando dopo lo scioglimento dei Guns N'Roses mise in piedi la band Slash's Blues Ball, dalla quale recupera i vecchi compagni Johnny Griparic al basso e Teddy Andreadis alle tastiere.

Un disco simile Slash lo aveva già fatto nel 2010 (Ian Astbury, Ozzy Osbourne, Lemmy, Iggy Pop, Chris Cornell, Dave Grohl tra i tanti cantanti presenti allora) ma con tutte canzoni inedite. Qui l'unica traccia inedita la lascia nel finale, la strumentale, melodica ed espressiva 'Metal Chestnut'. Prendetevi un buon cocktail e rilassatevi con queste dodici canzoni registrate senza troppe menate in una atmosfera sicuramente rilassata. Si percepisce. Funziona tutto. Poi arriveranno anche gli odiatori seriali ma li mettiamo insieme ai puristi del blues. 





sabato 18 maggio 2024

RECENSIONE: KULA SHAKER (Natural Magick)

KULA SHAKER  Natural Magick (Strange Folk Records, 2024)



il bello del 2024

Natural Magick è uno dei dischi più spassosi, divertenti e colorati che ho ascoltato in questi primi mesi del 2024. Il concerto all'Alcatraz di Milano del 13 Maggio si candida a concerto del 2024.

"Beh, quando penso al rock 'n' roll, penso ai fratelli Marx tanto quanto penso ai Kinks o a Jerry Lee Lewis. Penso che il rock 'n' roll sia uno stato d'animo. È un tipo di anarchia spirituale, sana ed eterna"  così Crispian Mills (voce, chitarra e maggior autore dei testi), recentemente, ha detto la sua sul pianeta musica che lui e la sua band circumnavigano da quel lontano 1996 quando uscì l'esordio K , perfettamente in orario per l'esplosione del brit pop di cui furono brillanti esponenti, certamente tra i più fantasiosi e poco etichettabili nel loro intento di creare ponti con l'Oriente come insegnato dai Beatles, e da George Harrison in particolare. Per tanti che li premiarono furono anche massacrati.

Due uscite in poco più di un anno per una formazione che ci aveva abituato a tempi lunghissimi tra un disco e il successivo sembrano parlare chiaro: la band di Londra sta vivendo un periodo di fertile ispirazione. Il ritorno in formazione del primo tastierista Jay Darlington li catapulta addirittura indietro di venticinque anni per riprendere in mano tutte le influenze assorbite fin dagli esordi (è il primo album con la formazione originaria dal 1998: con Mills e Darlington, il bassista Alonza Bevan e il batterista Paul Winter Hart): ci sono i Kinks già dal riff iniziale del rock 'Gaslighting' e delle successive 'Waves' e 'Natural Magick' (venuta in ispirazione dopo aver ascoltato i Can!), rock pop, semplici, trascinanti e d'impatto assicurato. Da 'Indian Record Player' iniziano ad affiorare in superficie le care influenze indiane di Mills che si amalgamano con rock'n'roll e spezie tex mex fino a confluire nella cavalcata western 'Chura Liya' cantata da Laboni Barua. Difficile annoiarsi di fronte alla psichedelia pop sixties disegnata dall'armonica e dalle percussioni in 'Something Dangerous', vietato non sognare di fronte alle ballate 'Stay With Me Tonight' e 'Give Me Tomorrow' dal forte aroma anni cinquanta tutto brillantina e neon colorati sullo sfondo, viaggiare di fantasia sotto l'accecante solarità di 'Kalifornia Blues', vietato non meditare davanti al sitar che chiama in causa Krishma nella psichedelica 'Happy Birthday', o non protestare su una 'F- Bombs', che pare quasi fuori contesto, un canto anti guerra purtroppo sempre d'attualità che esplode in ripetuti "fuck war" che dal vivo, ne sono sicuro, faranno faville.  Non il massimo dell'originalità ma sempre utile. Io per non sbagliarmi qualche settimana fa ho preso il biglietto per il loro concerto all'Alcatraz di Milano che si terrà tra circa un mese. Voglio toccare con mano questo loro ispirato e colorato ritorno.

"Il mondo ha bisogno del rock 'n' roll in questo momento", firmato Crispian Mills. Fosse anche con un "è solo" davanti, va bene ugualmente.





domenica 12 maggio 2024

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Picasso's Villa)

 

ANDERS OSBORNE  Picasso's Villa (Missing Piece Records, 2024)



lo svedese di New Orleans

Durante il lockdown ci fu un "uso" alquanto superficiale e scorretto degli artisti e dei musicisti. Il loro compito sembrava fosse solo uno: far divertire la gente. Fare passare qualche minuto, qualche ora, diventati giorni e poi mesi in totale spensieratezza a chi (noi) come loro era chiuso in casa. Naturalmente senza compenso, dimenticando che tanti erano professionisti messi al palo, a paga zero, dall'epidemia. Per qualche politico un atto dovuto: l'arte come lavoro era ed è ancora qualcosa di inconcepibile per alcuni. La domanda: "sì ma di lavoro cosa fai?" non è così rara da sentire.

Nella canzone musicalmente spensierata e puntellata dall'Hammond  'Picasso's Villa' che da anche il titolo all' album, il diciasettesimo, Anders Osborne sembra proprio rivolgersi a tutte quelle persone che gravitano intorno all'arte con sprovveduta superficialità (lui è pure un pittore):

"Picasso's Villa tenta di descrivere il business della musica e il ruolo da giullare che hanno i musicisti. Siamo una valuta utilizzata, giudicata, negoziata, scambiata, valutata e talvolta scartata".

Se due anni fa Anders Osbourne si presentò al Buscadero Day in solitaria, era appena uscito lo stupendo  Orpheus And The Mermaids (2021), un disco acustico trainato dai venti leggeri della West Coast Music che continuavano a sbuffare dal precedente Buddha And The Blues (2019), con questo nuovo Picasso's Villa, invece, ritorna ad abbracciare l'intera rosa dei venti musicali che hanno scompigliato i suoi capelli, ora bianchi, negli anni. Abbiamo imparato a amare i suoi primi dischi più conosciuti come  Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), quelli più marcatamente intrisi degli umori di New Orleans come Coming Down (2007), le canzoni più cupe e scure come quelle che uscivano da American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy (2012) e cose più bizzarre e giocose come le canzoni di Peace (2013), sfrontato fin dalla copertina e che iniziava a lasciarsi indietro problemi personali che lo stavano attanagliando.

Anders Osbourne non ha mai fatto dischi brutti (forse i primi più ruspanti si fanno preferire ma sono sottigliezze) e Picasso' s Villa va ad aggiungersi ad una lista da fare invidia a nomi più blasonati che continuano a vivere di rendita.

Straordinaria voce, chitarrista eccelso , autore sopraffino, dotato di limpida ironia e della rara dote di  saper colorare i suoi pezzi con sfumature sempre sgargianti ma anche buon conoscitore dei tempi su cui mette i piedi ogni giorno: 'Bewildered' prende in esame gli accadimenti degli ultimi quarant'anni nelle terre americane (tra cronaca, musica e politica) che lo hanno adottato quando dalla Svezia andò a cercarsi la sua America, con un suono di chitarre elettriche che chiama in causa i Crazy Horse di Neil Young e non è un caso che in produzione e nei suoni ci siano uomini che con il canadese hanno intrecciato spesso il percorso, ossia Nico Bolas e Chad Cromwell.

Splendide canzoni, dal piglio elettro acustico che spesso richiamano e omaggiano New Orleans nelle liriche, luogo che lo ha accolto e dove ha piantato  le sue radici europee, succhiandone l'anima: l'apertura 'Dark Decatur Love', un country in crescendo che mi ha ricordato Johnny Cash, e la finale 'Le Grande Zombie', dedicata a un ambasciatore importante come Dr. John e portata avanti in una babilonia di strumenti (archi e fiato) e suoni che chiudono il disco con colorato carattere malinconico.

Proprio nella ormai "sua" New Orleans ha registrato il disco insieme a una bella parata di ospiti tra cui spiccano la chitarra di Waddy Wachtel, il bassista Bob Glaub, l'armonica di Johnny Sansone e Ian Neville al B3. Otto canzoni che toccano con più insistenza il rock rispetto al recente passato: 'Reckless Heart' si pone a metà strada tra Springsteen e Petty, i sei minuti di 'Real Good Dirt' e 'Returning To My Bones' hanno l'inconfondibile passo elettrico dei Crazy Horse. Oggi sono veramente pochi gli artisti così completi come Anders Osborne. Con lui si va sempre sul sicuro.






venerdì 10 maggio 2024

PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

 


PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

1980, il mio primo ingenuo approccio con Fabrizio De André fu la cassetta di “Fabrizio De André In Concerto con arrangiamenti PFM-registrato dal vivo a Firenze e Bologna, 13-14-15-16/1/1979”. Un disco che diventerà uno dei grandi live della musica italiana, per come fu suonato, per gli arrangiamenti, per quello che ha rappresentato e rappresenta ancora oggi: quell'incontro/scontro tra rock e poetica cantautorale. Anche in Italia si poteva fare seguendo l'esempio di "Bob Dylan con The Band" dirà Franz Di Cioccio.

"La nostra tournée è stata il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire e eseguire le canzoni. Un’esperienza irripetibile perché PFM non era un’accolita di ottimi musicisti riuniti per l’occasione, ma un gruppo con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l’hanno messo al mio servizio…" raccontò De André.

Avevo sette anni e un’ attrazione per quel pezzo di plastica arancione con il timbro Siae blu di una volta in bella evidenza. Cassetta conservata ancora oggi con maniacale cura, che quando girava nell'impianto stereo nuovo di pacca e costato sacrifici a mio padre, arrivati quasi alla fine del lato B, faceva uscire una frase che qualcuno in famiglia sottolineava sempre con velata ironia, soffermandosi sull’ultima parola della seconda strofa, e io ridevo a crepapelle senza sapere bene il perché. Qualche anno dopo, tutto sarebbe stato più chiaro: “passano gli anni i mesi, e se li conti anche i minuti. È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti, la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”.


 


Erano le parole di ‘Un Giudice’. Quella cassetta arrivò improvvisa a svegliarmi, forse perfino troppo presto, questo concerto "PFM canta Fabrizio De André, Anniversary" (e  sono ormai 45 anni) è arrivato altrettanto improvviso. Regalo di un'amica all'ultimo momento. "Ho un biglietto in più. Vieni?". Grazie! Perché no? Mi son detto. Sarei andato a chiudere un cerchio della mia vita iniziato in diretta nel 79, anche se mancano alcuni protagonisti, il principale sicuramente. A Torino piove e la città è quindi libera di riempire l'aria con il meglio di sé stessa: sprigionare tutta la sua arcana bellezza da vecchia capitale. Quegli specchi d'acqua dove a tarda notte  i palazzi e i monumenti si specchiano donano antica magia che ogni volta rapiscono. Almeno me. Arrivo presto per un aperitivo, ma mentre aspetto la mia amica sbircio davanti al teatro proprio mentre Franz Di Cioccio e Patrick Djivas escono per andare a cena, piove forte, sono incappucciati e viaggiano veloci, non oso fermarli. Ma lo ammetto, una foto con loro avrei voluto farla. Il resto della band segue dietro decisamente più rilassata e gioviale.



Entrati, gli arredi di stoffa rossa del Teatro Alfieri, il secondo più antico della città, le luci calde e soffuse fanno proseguire la magia delle vie, dei portici e delle piazze, creando un' atmosfera antica, tanto che quel protagonista che manca pare possa uscire da un momento all'altro da dietto un drappo rosso con il fumo della sigaretta ad anticiparlo. Ad uscire, in perfetto orario è invece la Premiata Forneria Marconi in una formazione a nove elementi. In prima fila i quattro reduci di quel tour del 79 passato alla storia: un Franz Di Cioccio che dall'alto dei suoi 78 anni, con le bacchette della batteria perennemente infilate nella cintola dei jeans, si prodiga durante tutto il concerto a cantare, suonare la batteria e ballare con passi di danza da menestrello rock,   Patrick Djivas incollato al suo sgabello fa uscire note di basso che fanno tremare il teatro e sembrano dialogare, Lucio Fabbri è il violinista che tutti conosciamo, e stasera c'è pure Flavio Premoli alle tastiere, fisarmonica ('Il Giudice')  e il mitico Moog. Poco più dietro i giovani: il talentuoso Luca Zabbini alle chitarre e tastiere e pure voce in 'Zirichiltaggia', Marco Sfogli alle chitarre con il sempre difficile compito di sostituire il maestro Franco Mussida e poi ancora Roberto Gualdi alla batteria quando non deve lasciarla a Di Ciccio e Alessandro Scaglione alle tastiere. Questa sera poi c'è Michele Ascolese l'instancabile chitarrista che con Fabrizio De André ci suonò negli ultimi dieci anni della sua vita.


Delle canzoni di Deandré non dico nulla, oltre ai classici che resero immortale quel tour c'è spazio anche per una lunga parentesi dedicata all'album Buona Novella del 1970 musicato da una PFM che ancora si chiamava I Quelli. 

"Molti di quegli arrangiamenti li ho mantenuti nel tour successivi perché hanno dato alla mia musica un volto nuovo e vivace" raccontò De André. Così nuovo che ancora oggi, così ricchi, funzionano alla grande.

Quando Franz Di Cioccio lancia quel "Branca, Branca, Branca..." prima di  'Volta La Carta' mi pare esca dalla mia vecchia cassetta e il pubblico che risponde "leon leon leon" sia quello presente nel 1979. Invece questa volta ci sono anch' io.


Il  bis è lasciato a 'Celebration' ed a un breve accenno di 'Impressioni di Settembre'. 

Ma la catarsi si era già compiuta quando un leggio è stato posizionato a centro palco, una luce lo ha illuminato e la voce di De André ha cantato 'La Canzone Di Marinella'. In quel momento sì, c'eravamo tutti. (O quasi).




domenica 5 maggio 2024

RECENSIONE: IAN HUNTER (Defiance Part 2 Fiction)

 IAN HUNTER  Defiance Part 2 Fiction (Sun Records, 2024)



secondo e non ultimo capitolo

In una recentissima intervista Ian Hunter ha detto di "avere le orecchie di un ottantaquatrenne" (giustamente), di soffrire di acufene e che molto probabilmente sarà difficile vederlo su un palco per uno spettacolo elettrico e  rock, più probabilmente per qualcosa di acustico. Staremo a vedere. Ascoltando il nuovo Defiance Part 2 Fiction  che fa seguito al primo capitolo uscito lo scorso anno, viene però difficile credere che dietro a quei soliti ricci sotto cui ci sono i soliti occhiali ci  sia un uomo classe 1940, l'età di mia madre che non ha l'acufene ma fatica a fare le scale. Come difficile credere a un Ian Hunter lontano dalla musica: durante il lockdown, l'ex Mott The Hopple si è dato molto da fare, chiudendosi nel suo studio di registrazione nel Connecticut  insieme al fido Andy York, buttando giù una serie impressionante di canzoni che con questo capitolo però non scrivono la parola fine al progetto, visto che sembra già al lavoro per il terzo capitolo con canzoni nuove.

"Eravamo noi che facevamo demo nel mio seminterrato, e le demo nel mio seminterrato si sono trasformate in quello che avete" raccontò in occasione dell'uscita della prima parte.

Ciò che si nota dopo l'ascolto è il carattere in parte più gioioso di queste dieci canzoni rispetto alle precedenti. Come nel precedente però anche questa volta gli ospiti sono tanti: dai due Def Leppard Joe Elliott e Phil Collen (Def Leppard che certi suoni glam rock li amano da sempre, cercate il loro Yeah!, album di cover uscito nel 2006), i Cheap Trick quasi al completo nelle persone di Rick Nielsen, Robin Zander e Tom Petersson, Brian May ( i Queen che supportarono i Mott the Hoople nel loro tour del 1974 nel Regno Unito e nel Nord America), Waddy Wachtel, Johnny Deep (anche autore del dipinto in copertina), Lucinda Williams ("Lucinda e suo marito sono venuti a uno dei miei spettacoli a Nashville. Adoro la sua voce, c'è qualcosa di molto infantile. Capisci subito che è lei. Una voce che non si dimentica" ha raccontato Hunter), i tre Stone Temple Pilots Eric Kretz, Robert De Leo e Dean De Leo,  Benmont Tench, David Mansfield  (Bob Dylan, T Bone Burnett),  Tony Shanahan  (Patti Smith),  Steve Holley  (Wings),  Morgan Fisher, vecchio compagno nei Mott the Hoople e poi Jeff Beck e Taylor Hawkins qui nelle loro ultime registrazioni prima di morire. Forse inferiore qualitativamente al precedente, le dieci canzoni si alternano tra un inno dal chorus facile, cantabile e fin troppo sbarazzino dell'apertura 'People', alla voce invecchiata ma comunque sempre fascinosa che esce da 'Fiction' trainata dall' arrangiamento d'archi di David Mansfield e dal piano di Morgan Fisher, dalla ballata folkie 'The 3rd Rail' dedicata a Jeff Beck che lascia la sua chitarra e dal rock’n’roll a dispetto del titolo di 'This Ain't Rock And Roll'. 

Piacciono la tesa e rock 'Precoius' con la chitarra di May al comando, la ciondolante ballata bluesy a ritmo di valzer 'Weed', inno alla legalizzazione, la pesante, hard e scura 'Kettle Of Fish' che avanza minacciosa, l'immancabile ballata in stile dylaniano 'What Would I Do Without You' con la voce di Lucinda Williams. A chiudere il rock di Everybody' s Crazy But Me' e la ballata 'Hope' con la Williams e Billy Bob Thornton ai cori.

Gli ospiti, tanti, ci sono ma non stravolgono mai il trade mark ormai consolidato di Hunter. Pur mancando dell'intensità di alcune canzoni uscite lo scorso anno, Defiance Part 2 si fa comunque apprezzare: il livello di scrittura di Hunter è sempre superiore alla media e nonostante tutto gli si deve dare il merito di continuare a guardare avanti nonostante l'età. Insomma: una canzone a caso qui contenuta potrebbe fare comodo a qualunque songwriter in erba. Classe e mestiere se li hai li hai, a qualunque età e Ian Hunter ne ha pure d'avanzo.







domenica 28 aprile 2024

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Fu ## in' Up)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE  Fu ## in' Up (Reprise Records, 2024)




cavallo vecchio non muta ambiatura

Mentre sta uscendo questo ennesimo disco live, Neil Young e i Crazy Horse hanno iniziato in America un nuovo tour e dai video che circolano sembrano tutti in buona forma, anche il vecchio Neil sembra essersi ripreso da una forma di artrite che lo ha perseguitato ultimamente. Micah Nelson (Promise of the Real) ha preso il posto di Nils Lofgren, impegnato con la E Street Band di Springsteen ma qui in questo concerto registrato al Rivoli club di Toronto, davanti a 200 persone in una serata privata per pochi, ci sono tutti e due (si scambiano il ruolo tra chitarre e pianoforte) che uniti alla Old Black di Young, al basso di  Billy Talbot e la batteria di Ralph Molina portano a sublimazione il lato elettrico della sua carriera.

Viene celebrato Ragged Glory (già osannato live con Weld e pure recentemente con l' uscita di Way Down In The Rust Bucket , registrazione live risalente al 1990 ), uno dei tanti vertici elettrici dei Crazy Horse, disco che nel 1990 sembrò aprire un nuovo inaspettato decennio per il rock, ma visto che Neil Young non sarebbe lui senza qualche bizzarria di mezzo, le nove canzoni, a parte Farmer John che è una cover (e Mother Earth presente su Ragged Glory ma qui assente), sono state ribattezzate con titoli diversi, estrapolando una frase dal testo di ognuna di esse. Così Country Home diventa City Life e Over And Over è Broken Circle.

Un modo, secondo l'autore, per far continuare a vivere in eterno queste canzoni (eterne come l'amore) che ancora una volta esplodono in tutta la loro veemenza di feedback e spirito garage con qualche divertissement honky tonk portato dal pianoforte (in Feels Like A Railroad (River Of Pride) ossia White Line).

Certo, un disco per conpletisti incalliti, come gran parte delle ultime uscite legate agli archivi, e poco digeribile per chi apprezza maggiormente il lato bucolico di Young ma cosa si può dire davanti a un settantottenne e due ottantenni che  spingono come ragazzini sopra ai dodici minuti di Valley Of Hearts (Love To Burn) e  ai quindici della finale A Chance On Love (Love And Only Love)? Insomma nulla di nuovo sotto il sole del canadese ma buono per provare lo stato di salute dal vivo dopo gli anni di stop dovuti al lockdown. E le parole di Micah Nelson confermano: "c'è qualcosa di così primordiale e primitivo in Neil, specialmente quando è con Crazy Horse".





domenica 21 aprile 2024

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (One Deep River)

 

MARK KNOPFLER  One Deep River (EMI, 2024)




luci gentili

Diciamo la verità: Mark Knopfler con il canzoniere messo in piedi con i Dire Straits potrebbe vivere di rendita all'infinito. Potrebbe fare tour nostalgici e accontentare quei fan distratti con un piede ancora negli anni ottanta che dopo i suoi concerti odierni si domandano "ma come? Solo due canzoni dei Dire Straits?". Li ho sentiti con le mie orecchie. Che poi, a fare queste cose ci pensano le cover band. E Mark Knopfler da più di trent'anni ha scelto di non essere la cover band di se stesso. Vi sento: "ma come? I suoi dischi sono tutti uguali. Fanno dormire". Troppo facile liquidare un disco così. Ha scelto una strada, la sta percorrendo e probabilmente la seguirà fino alla fine dei suoi giorni. Alcune recenti dichiarazioni non lasciano dubbi "con i Dire Straits non tornerò mai". Ma nemmeno dal vivo da solista a quanto pare. Una strada onesta che serpeggia elegantemente in mezzo al folk, al country, al blues, ai toni jazzati, dove i guizzi veramente elettrici sono pochi (in questo disco quasi assenti), dove i tempi sono lenti, contemplativi, da lungo viaggio, dove comunque a prevalere sono sempre le belle canzoni. E qui calo il mio asso che sa di sentenza: Privateering rimane il suo album migliore e per ora inavvicinabile.

Perché le canzoni di Mark Knopfler sono tutte belle: basterebbe sceglierne una a caso anche da questo disco, e ascoltarla senza pregiudizio. Prendetevi quattro minuti. Fatto? Non è bella? Ecco, questo mio scritto potrebbe finire qui, senza che vi racconti di quanta malinconia e contemplazione serpeggi tra le dodici canzoni che compongono questo suo decimo disco in studio, popolate da continui rimandi al Tulsa Sound del suo mentore JJ Cale, fin dall'apertura 'Two Pairs Of Hands' , canzone che si sofferma sulla sempre dura vita del musicista on the road insieme a una band, mentre in 'Ahead Of The Game' ricorda con velata nostalgia i primi passi musicali.

Serve ricordare quanto la sua scrittura sia sempre magnificamente descrittiva come nel bel blues 'Scavenger's Day' (uno dei pochi up tempo con la chitarra elettrica in evidenza) dove racconta di un poco di buono o in 'Tunnel 13' dove racconta la storia di tre banditi, i fratelli D'Autremont, con l'aiuto delle coriste? Potrei raccontarvi di quanto gli archi di ' Black Tie Jobs' diano una solenne grevità a una delle tante ballate del disco che indugia alla riflessione, al sogno, come in 'Watch Me Gone' con la lap steel di Greig Leisz riesca a citare due vecchi amici. A voi scoprire chi. Potrei dirvi come in 'Sweeter Than The Rain' che si apre con un canto a cappella riesca ad evocare antiche lande britanniche, o come non possa mancare un treno in arrivo ('Before My Train Comes'), che potrebbe essere anche 'slow' come quello del 1979 ('that's my train coming' canta) mentre il batterista Ian Thomas spazzola sui tamburi unendo America e Inghilterra.

"Se ascolti il suono del treno interpreti meglio il suono della vita" ha detto recentemente.

Potrei raccontarvi di come in 'This One's Not Going To End Well' giochi di classe aiutato dal violino di John McCusker con una storia di schiavitù inclusa nel.testo o come in 'Smart Money' le tastiere del sempre fedele Guy Fletcher portino verso lande caraibiche.

Ascoltando la finale, autobiografica (il fiume è il Tyne della sua Newcastle) e dylaniana 'One Deep River' (che già da sola varrebbe l'acquisto) mi assale quella strana voglia di pensare a cosa uscirebbe oggi da una collaborazione tra Mark Knopfler e Bob Dylan, ora che la saggezza ha preso il sopravvento, il tour quasi "pacco" insieme lo hanno già fatto e sembra un vecchio ricordo e il rosicato tempo davanti non è più quello che c'era ai tempi di Infidels.





lunedì 15 aprile 2024

RECENSIONE: THE BLACK KEYS (Ohio Players)

THE BLACK KEYS  Ohio Players (Nonesuch Records, Easy Eye Sound, 2024)




buona partita!

Chissà, forse mi sto rincoglionendo io (è la cosa più probabile) vista l'accoglienza tiepida che ha ricevuto nella sua prima settimana d'uscita il dodicesimo album dei Black Keys: ma secondo me è il loro miglior disco dai tempi di El Camino. Se nei due precedenti dischi, che comunque mi erano piaciuti (i Black  Keys mi piacciono anche nella loro onesta paraculaggine) la coppia formata da Dan Auerbach e Patrick Carney aveva tirato il freno per stazionare su lidi sicuri (sto parlando degli album  Let's Rock e Dropout Boogie), con Ohio Players (notare l'omaggio alle loro radici - Akron - e alla band funky loro concittadina) si ributtano nella mischia degli sperimentatori, rischiano e escono dalla comfort zone che li recintava ultimamente. Si può rischiare anche pacioccando e divertendosi con il pop, i generi e coinvolgendo alla festa altre persone.

Per farlo cedono alle collaborazioni e  radunano alcuni amici.  Primo: Beck che collabora come co-autore, voce e strumentista in quasi metà disco, un incontro, il loro, avvenuto più di vent'anni fa in tour e che ora da i suoi primi frutti anche in studio di registrazione, poi Noel Gallagher presente pure lui in modo massiccio,  più alcuni featuring dei rapper Lil Noid e Juicy J. e infine il produttore Dan the Automator

"Volevamo potesse stare al passo con Brothers ed El Camino . Alla fine abbiamo lavorato molto duramente su questo album e abbiamo trascorso più tempo in studio rispetto a Brothers , El Camino e Turn Blue messi insieme. Penso che siamo stati in studio circa 150 giorni" dice Patrick Carney. 

Cosa ne è uscito? Un disco che al primo ascolto dici "boh?", al secondo ti prende voglia di riascoltarlo, al terzo ti ci infili dentro fino alle scarpe. Così è successo a me, naturalmente. "Una collezione di 45 giri" come dicono loro: 14 canzoni dal basso minutaggio, uno strike di motivi pop sixties, freschi e ballabili ('This Is Nowhere', 'Don't Let Me Go', 'Only Love Matters'), di funky e soul ('Beautiful People (Stay High)), di onde surf (You'll Pay), glassa pop aroma Beatles in primo piano (On The Game), poi certe cose che sembrano riportare le lancette agli albori del crossover ('Candy Y And Her Friends' con Lil Noid e 'Paper Crown' con Beck e Juicy J. e quella chitarra "alla Santana") quando mischiare i generi era ancora un azzardo visto con occhi storti da certi puristi. Il rap che va a braccetto con il rock.

A tenere i ganci con il passato ci pensano la cover di William Bell e Booker T. Jones

('I Forgot To Be Your Lover') e certe reminiscenze garage blues che escono da 'Please Me (Till I'm Satisfied)' e 'Everytime You Leave', una 'Live Till I Die' che inizia là dove finiva 'Cinnamon Girl' di Neil Young e le atmosfere Western di 'Read Em And Weep' che piacerebbe tanto a Quentin Tarantino.

Si percepisce voglia di divertirsi. Dategli un po' di tempo...il tempo di una serata al bowling aspettando il primo strike. Con me è arrivato quasi subito.





domenica 7 aprile 2024

JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024



JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024

sei foto da portarsi a casa

1 - Quando cala il telone sulle note di War Pigs dei concittadini Black Sabbath (non è forse l'operaia Birmingham una delle città più rock'n'roll di sempre?) e il concerto inizia con la band raggruppata intorno alla batteria di Scott Travis. Sembra un'istantanea rubata ai primi tempi quando gli spazi erano ancora stretti e angusti. I loro abiti con rifiniture d'acciaio e d'argento brillano, poi entra in scena  il sontuoso impianto luci, semplice ma d'effetto e capisci quanta strada abbiano fatto.



2 - Le canzoni dell'ultimo album Invincible Shield non soffrono a stare in mezzo ai loro classici. Panic Attack è l'opener del concerto e funziona, la melodia di Crown Of Horns sembra già un classico e ha solo poche settimane di vita. Ma in definitiva quanti fottuti "classici" possono vantare i Judas Priest? Stasera hanno tirato fuori una Saints In Hell da Stained Class (1978). E quanti sono rimasti fuori dalla setlist stasera? Io ad esempio avrei voluto Night Crawler.


3 -  Richie Faulkner e Andy Sneap sono una bellezza da vedere insieme tanto che KK Downing è ormai storia e passato. L' uno-due Victims Of Changes/ The Green Manalishi da manuale.



4 - Scott Travis e Ian Hill sono invece una macchina da guerra là dietro. Il bassista, 72 anni, è inchiodato al pavimento ma non butta via un colpo, l'attacco di batteria di Painkiller nella mia testa è sempre la versione metal anni novanta di Rock’n’Roll di John Bonham. 


5 - Rob Halford a 72 anni ha ancora una voce della madonna e una presenza scenica carismatica. Sui toni bassi è molto interessante e tra poco uscirà il suo progetto blues. Quando si invecchia si arriva lì.

Cambia giacche come una modella sulla passerella e gioca e fa giocare con la voce come faceva l'amico Freddie Mercury. L'entrata in scena con moto e frustino su Hell Bent For Leather è tanto pacchiana quanto fotografia insostituibile da tramandare ai posteri tra le migliori trovate rock'n'roll di sempre sopra le assi di un palco, giocandosela con i Blue Oyster Cult, la ghigliottina di Alice Cooper e tante altre. Se non ci sono ti mancano. Cose che via via andranno a scomparire. Lo sapete?

E poi... dopo aver letto la sua autobiografia  Confesso che non è certamente un saggio letterario ma  la schiettezza e l'autoironia di Halford ne fanno una  autobiografia  "vera", esplicita, godibile e diretta come poche, facendotelo amare ancor di più. Quindi: anche se sei un fan del folk britannico, un suonatore di country bluegrass, un jazzista, un alternativo a tutti i costi, credo che la vita di Rob Halford meriti di essere letta e conosciuta comunque. 

"Ero il vocalist di una delle più grandi metal band esistenti, eppure ero troppo spaventato per dire al mondo di essere gay. La notte me ne stavo a letto sveglio, turbato, a domandarmi:" cosa succederebbe se facessi coming out? ". L'ha fatto e ne è uscito più forte di prima.



6 - l'amorevole devozione con la quale Halford si prende cura di Glenn Tipton, affetto da Parkinson, abbracciandolo e bisbigliandogli frasi d'incoraggiamento, uscito nel gran finale per eseguire Metal Gods e la sempre spassosa Living After Midnight mi ha stretto il cuore. Tipton non riusciva a lanciare i plettri al pubblico a fine concerto, li ha lasciati uno ad uno a un addetto alla sicurezza che ha fatto da tramite dalla sua mano a quelle dei fan.


"In this world we're livin' in we have our share of sorrow, answer now is: don't give in, aim for a new tomorrow"



giovedì 4 aprile 2024

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy (Horse Latitudes)

 

ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy  Horse Latitudes (Rivertale Productions, 2024)



cavalcate in libertà

Mi perdonerà Andrea se oso mettere in pubblica piazza un argomento su cui si discuteva qualche mese fa in chat e sui cui entrambi eravamo d'accordo: certo giornalismo musicale degli anni settanta e ottanta ha creato barriere e paraocchi negli ascoltatori più che aprire menti e stimolare orecchie. Quando da uomo di valle sbarcai a Brescia quasi dieci anni fa, uno dei primi concerti che vidi in città fu quello di Andrea Van Cleef con il suo  defunto progetto Van Cleef Continental: un concentrato di stoner pesante che sapeva aprirsi verso territori prog e psichedelici. Con il trascorrere degli anni ho capito quanto la curiosità musicale di Andrea invece (figlia degli anni novanta) gli abbia permesso di viaggiare, suonare e incidere in totale libertà ciò che più gradiva sul momento in base all'ispirazione. Eccolo così cantare e suonare la chitarra nei bergamaschi Humulus, band stoner con un buon seguito in Europa (recentemente ha lasciato la band), eccolo con i suoi tanti progetti solistici, partendo dal folk psichedelico di Sundog, passando dal precedente e vario Tropic Of Nowhere (2018) e poi i suoi tanti omaggi alla musica, tra tutti quello dedicato ai Morphine, insieme ad altri musicisti bresciani, che ogni tanto rispolvera dalla naftalina e porta sopra a un palco. E proprio dalla fine di questo nuovo disco vorrei partire: la traccia finale 'The Real Stranger', con i suoi sette minuti la più lunga del disco, vede proprio ospite Dana Colley, sassofonista della inimitabile band americana capitanata dal compianto Mark Sandman. 

È un disco, il suo primo senza chitarre elettriche, che all'ascolto potrebbe dividersi in tre atti: una prima parte legata in modo indissolubile al country americano, c'è molto di Johnny Cash in tracce come 'The Longest Song' e 'Love Is Lovely' dove la voce profonda viene doppiata da una voce femminile quasi a ricreare il connubio Cash- June Carter, ma scava ancora  più in profondità serpeggiando tra i fantasmi e i simbolismi che popolano certa letteratura gotica a stelle e strisce e al fantasma più terreno di Mark Lanegan nell'iniziale e primo singolo 'A Horse Naned Cain' e in 'Arrows'. 

In mezzo due tracce più ritmate come 'Thing', doo-wop non troppo distante dell'approccio su cui Dan Auerbach ha incanalato i suoi Black Keys e 'Oh La La', l'unica cover del disco, canzone dei Faces che ai tempi perfino Rod Stewart si rifiutò di cantare, salvo poi farla sua da solista, lasciando l'incombenza a  Ron Wood che se la cavò alla grande. Andrea non solo la canta ma riesce anche a vestirla con i suoi abiti.

Se 'Fires In My Bones' è un folk con strumenti a corda e violino che conducono verso terre irlandesi, il finale del disco sembra allargare gli orizzonti sonori verso soluzioni più ardite: prima con 'Come Home' che assume quelle trame cupe e misteriose che Daniel Lanois imbastì per Oh Mercy' di Bob Dylan, poi con  'The 'Disappearing Child' che avanza in un crescendo quasi orchestrale che mi ha ricordato certe composizioni di  Glen Campbell (di rimando anche Western Stars di Bruce Springsteen) per poi concludersi con la già citata 'The Real Stranger' dove contrabbasso e percussioni preparano l'entrata in scena del sax di Colley che si prende tutta la scena. Canzone dalla grande atmosfera e degna chiusura di un disco dal fascino oscuro, misterioso, avvolgente, dai tratti filmici e dal carattere ben preciso. 

Registrato tra lo Studio Rick Del Castillo in Texas dove hanno suonato ospiti come Matthew Smith, Haydn Vitera, Jason Murdy e il Buca Recording Studio di Montichiari  con Simone Piccinelli in prima linea e una lunga schiera di musicisti bresciani: Ottavia Brown, Pietro Gozzini, Simone Grazioli, Simone Helgast, Giulia Mabellini, Matteo Rossetti.

L'altra sera ero a vedere Steve Wynn quando un amico particolarmente curioso mi ha chiesto quale fosse l'ultimo disco da me ascoltato: consigliandolo, gli ho risposto questo, in macchina, durante il tragitto verso Torino. Consiglio che allargo anche a tutti voi, naturalmente.





mercoledì 3 aprile 2024

RECENSIONE: LITTLE ALBERT (The Road Not Taken)

LITTLE ALBERT   The Road Not Taken (Virgin/Universal, 2024)



blues again

Che i Messa siano una delle rock band italiane più interessanti apparse negli ultimi anni è ormai un dato di fatto assodato: parlano chiaro i loro dischi, i loro concerti, i loro tour  negli Stati Uniti (la foto di copertina scattata in Arizona) e le presenze ai maggiori festival europei. Alberto Piccolo della band veneta è il chitarrista (qui anche voce) e per la seconda volta si concede l'uscita solistica sotto il nome, non troppo camuffato, di Little Albert. Ha firmato per la prestigiosa Virgin e fatto uscire questo The Road Not Taken riprendendo quella strada blues iniziata quattro anni fa con il precedente Swamp King ma che di fatto ha iniziato a percorrere appena ha preso una chitarra in mano quando in casa giravano i dischi dei Led Zeppelin. Qualcosa che ha dentro, si sente e lo si capisce guardandolo sopra a un palco.

Ad accompagnarlo la batteria di Diego Dal Bon e il basso di Alex Fernet, più l'aiuto nella stesura dei testi della compagna di band nei Messa Sara Bianchin. Registrato alla vecchia maniera all'Outside Inside  Studio insieme a Matteo Bordin.

Un disco blues che pare uscito tra i fine anni sessanta e i primi settanta: qui si parla la lingua dei Cream, dei Led Zeppelin, dei Ten Years After, Johnny Winter, Blue Cheer, Black Sabbath, Hendrix e Steve Ray Vaughan, più tutti i padri neri naturalmente, aggiungendo quel tocco personale derivante dai suoi studi jazz.

Se l'iniziale 'Still Alive' tradisce l'amore per l'hard blues hendrixiano e lo stoner, proseguendo le cose si fanno via via sempre più interessanti e complicate. 'Demon Woman' batte territori da "dirigibile" inseguendo Jimmy Page (tornato in auge sulla bocca di tutti, se mai qualcuno l'abbia  dimenticato, dopo il film al cinema dei Led Zeppelin dove pare un extraterrestre non replicabile), 'See My Love Coming Home' è lenta come il più nero sabbath con il bel solo finale, ' Hiding All My Love Away' e 'Magic  Carpet Ride' volano alte di psichedelia e prog, 'Blue And Lonesome' di Little Walter è l'unica cover,  fino ad arrivare a 'This House Ain't No Home', la mia preferita, dinamica, prova di squadra per power trio, con i suoi cambi di tempo, soffusa pronta ad esplodere con la lunga jam finale che passa dal jazz, altro suo grande amore. Alberto è uno dei migliori chitarristi italiani degli ultimi dieci anni: tecnico ma anche pieno di passione, non aggiunge mai troppo,  fa il giusto, lasciando spazio alla composizione. Trentasei minuti che volano, con la non scontata bravura di lasciare il suo personale tocco in un genere destinato all'eternità.





martedì 2 aprile 2024

TYGERS OF PAN TANG live@Legend Club, Milano, 30 Marzo 2024



Diciamolo: alcuni grandi gruppi della NWOBHM a distanza di più di quarant'anni dalla loro apparizione sono ancora in splendida forma, pur con l'età che avanza, con le immancabili defezioni che la vita porta in conto e con l'inevitabile innesto di nuovi componenti a portare forze nuove. Qualcuno che storce il naso, comunque, c'è sempre: Jacopo Meille prima del concerto mi ha raccontato di quanti non riescano ancora ad accettare che i Tygers Of Pan Tang girino il mondo con questo nome perché è rimasto un solo componente originale."Quanti gruppi possono vantare tutti gli originali in formazione? Forse solo gli U2". 

L'esempio degli ultimi album di Judas Priest e Saxon freschi di pubblicazione le  cantano chiaro alle nuove generazioni, il DNA non mente (il prossimo weekend insieme live a Milano per chi ci sarà), i Tygers Of Pan Tang guidati dal veterano chitarrista Robb Weir, uno che ci crede ancora, si accodano  e confermano il tutto su disco con lo strepitoso Bloodlines uscito l'anno scorso (sapete quei dischi perfetti dove forza e melodia sono incastrate in modo  spettacolare e le canzoni ci sono e funzionano? Eccolo!) e live dove passato e presente si rincorrono senza prevalere l'uno sull'altro.  Jacopo Meille con la sua presenza bluesy, "toscana" e "Plantiana" è in formazione da vent'anni, il terremotante batterista Craig Ellis pure (più Tygers Of Pan Tang di così), i più recenti innesti di Francesco Marras che ha portato il suo funambolico e fresco chitarrismo donando pure un altro pezzetto d'italia alla band britannica (siamo a 2/5) e del basso di Huw Holding, sinonimo di mestiere e solidità d'altri tempi, hanno donato ulteriore vivacità a canzoni entrate di diritto nella storia del metal britannico.

Album come Wild Cat (Euthanasia, Slave To Freedom, Suzie Smiled), Crazy Nights (Do It Good, Love Don't Stay, Running Out Of Time), Spellbound (Gangland, Hellbound) non fanno ombra alle canzoni degli ultimi vent'anni (Destiny, Keeping Me Alive) e dell'ultimo uscito Bloodlines (A New Heartbeat, Fire On The Horizon, Back For Good, Edge Of The World) così come i ricordi del passato non sembrano mettere in ombra una formazione vitale e scalpitante che ha ancora qualcosa da dire. Non c'è traccia di tempi passati, revival e nostalgia ma solo di presente e futuro. Buona cosa per una band nata nel 1978.

Di imminente uscita un nuovo live album ma il consiglio è di passare a vederli per togliersi ogni dubbio.


venerdì 29 marzo 2024

RECENSIONE: LUCA ROVINI (Lungo i Bordi Della Vita)

 

LUCA ROVINI  Lungo i Bordi Della Vita (2024)




canta ancora un po'

Con questa foto di copertina che sembra uscire da qualche vecchia scatola degli anni cinquanta abbandonata  in un angolo dei Sun Studio di Memphis, Luca Rovini  arriva al suo settimo disco in dodici anni. E proprio sugli stessi marciapiedi contornati da naturalezza e semplicità degli albori del rock Luca ha sempre macinato i suoi tanti passi con gli stivali di pelle e il cappello calato in testa, attraversando e acciuffando i suoi sogni di rock'n'roll con mani artigiane, valige piene di chitarre, storie e amore viscerale per la musica.

Lungo I Bordi Della Vita è uno dei suoi dischi più vari e divertenti musicalmente e...aspetta: qui mi accorgo che ad ogni uscita ripeto "è il suo miglior disco". A questo punto credo sia un buon segno di continua crescita. Poi però bastano delle belle chitarre elettriche sferraglianti perché quello studio di registrazione a Memphis (in verità a Pisa, dalle sue parti) si trasformi in un batter di mani nello studio di Neil Young immortalato con effetto fish eye sulla copertina di Ragged Glory: 'Una Casa Che Non C'è' e 'Il Vento Della Sera' (ultima della fila) sono pure cavalcate alla Crazy Horse che paiono uscire da lì, libere e fiere di correre contro vento. Il suo "cavallo pazzo" sono i fidi Companeros che lo accompagnano da anni. Luca si muove ormai con disinvoltura tra romanticismo bucolico (l'arioso country di 'I Veli Di Una Donna' e 'Canta Ancora Un Po' '), luci urbane e ricerca della verità in mezzo a una società che galleggia per inerzia sulle menzogne. Varietà dicevo: quella di passare da 'Matilda' che richiama e cita Tom Waits fin dal titolo avanzando  cupa e minacciosa tra vicoli e strade che portano giù al mare ad un accattivante blues come 'Spoglia I Tuoi Sensi' che batte il ritmo alla Bo Diddley. Se 'Banditi' ha quell'organo dietro che mi riporta  alle ballate di The River di springsteeniana memoria, 'Nessuno Vince Come Vuole' è un  abbraccio blues che sa di tradizione e continuità. C'è poi 'Le Stelle Cadono Sole' che celebra il matrimonio tra i "songwriter" americani e i "cantautori" italiani con in cima l'amato Francesco De Gregori, un matrimonio che Luca sta continuando a celebrare con rinnovata passione disco dopo disco.

                                                                  foto: Samuele Romano




domenica 24 marzo 2024

CROWEOLOGY: un volo sopra ai dischi in studio dei Black Crowes




The BLACK CROWES -  Shake Your Money Maker (American Recordings, 1990) 

Monsters of Rock 1991: i Black Crowes salgono sul palco del festival itinerante sulle note introduttive di ‘Sex Machine’ di James Brown. Nel bill del festival c’erano AC/DC, Metallica e Queensrÿche . Sfida lanciata. Presentarono il debutto SHAKE YOUR MONEY MAKER uscito l’anno prima, un disco fuori dal tempo già dalla foto di copertina, mentre tra una data e l’altra, e con faccia tosta da vendere a livelli altissimi (chiedere agli ZZ Top e alla loro birra sponsor), stava già  nascendo l’importante seguito. Intanto, via Jeff Cease che appariva un peso morto nel contesto “non sapeva suonare…è un buon chitarrista ma non sa comporre una virgola. Ovvero non gli riusciva di farlo come volevamo noi” e dentro Marc Ford “sa suonare tanto quanto beve”. Perfetto. Anche se nel disco ci suona Chuck Leavell, poi arrivarono anche le tastiere di Eddie Harsch, pace all’anima sua "l'abbiamo ingaggiato come session man ma il suo contributo si è dimostrato così prezioso sia dal vivo per quanto riguarda i vecchi brani sia sul nuovo materiale da farci rendere conto che la tastiera è parte integrante del nostro sound". Immaginario sixties, sonorità che cercavano di unire tutte le loro influenze: la componente british era forte e scalpitante, i fratelli Robinson una coppia cantante-chitarrista alla vecchia maniera (gli Stones di Exile e i Faces in testa:’Jealous Again’, lo scatenato ‘Thick ‘n’ Thin’ è letteralmente uno schianto), la componente southern della loro Georgia a scaldare gli animi (‘Sister Luck’) ma in seguito lo farà ancor di più, la parte black che rimanda alla Motown è servita in ‘Seeing Things’, alla ballata acustica ‘She Talks To Angels’  che racconta di una ragazza eroinomane il compito di rapire i cuori più deboli e vero traino all'intero disco, più un’irresistibile ‘Hard To Handle’ di Otis Redding che sbancherà, portando il disco a stazionare per più di diciotto mesi nelle classifiche americane. Furono in tutto cinque i singoli estratti. Un debutto con il botto ma il meglio deve ancora venire." Quando abbiamo inciso  il primo disco non ci cagava nessuno ma alla gente è piaciuta la nostra musica ed è questo quello che conta. E il nostro disco ha ugualmente venduto in pochi mesi due milioni di copie, senza spinte, forte soltanto di sé stesso e di una band che lo portava in giro dal vivo nei club".  Un disco che guiderà la rinascita e l’interesse per i vecchi suoni del sud in un periodo di forti cambiamenti musicali. Il grunge era già lì dietro all’angolo con la pistola puntata. Ritornando a quel Monsters Of Rock, Chris Robinson dirà: “In  quell’occasione era particolarmente dura perché dovevamo aprire le orecchie a fan che non hanno mai sentito un gruppo di rock’n’roll su quel  palco. Siamo riusciti a suonare bene.” Modesto. Sfida vinta.


THE BLACK CROWES - The Southern Harmony And Musical Companion (American Recording/WEA, 1992) 

"Non capisco tutte le polemiche sollevate da quella razza fottuta e bastarda dei giornalisti inglesi. Siamo stati attaccati dai media inglesi sempre per il solito problema delle influenze, delle somiglianze… Cazzate". Così i Black Crowes risposero a quanti li accusarono di poca originalità dopo l'uscita del debutto Shake Your Money Maker di due anni prima. Non certo il pubblico che li premiò da subito. Ma la risposta migliore la affidarono alla musica: The Southern Harmony And Musical Companion li consacrerà a veri eredi della grande tradizione del southern rock e dell'american music in generale, scavando in profondità nella tradizione  fino a trovare le radici gospel e soul che si unirono al forte vento british che spettinava le canzoni del debutto. Certo, tra dichiarazioni al vetriolo verso giornalisti e colleghi e la (mal)sana abitudine di non voler accontentare a tutti i costi il proprio pubblico durante i concerti (quando i nuovi fan acquisiti chiedevano i successi del fortunato debutto loro partivano con nuove canzoni e improvvisazioni sconosciute ai più), i Black Crowes partirono con l'adesivo di band arrogante e poco simpatica già appiccicato addosso. Ma erano determinati e liberi.  E proprio in tour ha preso forma il secondo disco: "abbiamo iniziato a comporlo in tour, sono nate circa trenta canzoni tra cui  'Thorn On My Pride', 'Sting Me' e 'My Morning Song'" che faranno da apripista alle altre scritte e provate in quindici giorni nel garage di una casa vittoriana appena comprata da Chris Robinson, lontano da tutto in quel di Atlanta.  Poi registrate in presa diretta negli studi Southern Tracks sempre di Atlanta insieme al l'allora inseparabile George Drakoulias in produzione "ci tenevamo a rispettare fino in fondo le atmosfere  che ci apprestavamo a ricreare. Usare la tecnologia in un disco del genere sarebbe stato un delitto" con il nuovo chitarrista Marc Ford dei Burning Tree che sostituì Jeff Cease, licenziato con l'etichetta "peso morto" attaccata al collo. Sarà solo la prima sostituzione di una lunga serie di musicisti che ruoteranno intorno ai fratelli Robinson che intanto continueranno ad alimentare il loro indissolubile rapporto di sangue con continui e reiterati litigi, spesso violenti ma di breve durata. "Tra i due fratelli c'è sempre stata tensione già da prima che registrassimo il primo disco" dirà il bassista Johnny Colt. Bastarono otto giorni di registrazione per ottenere questo concentrato di ritmo ('Sting Me'), soul (il classico istantaneo 'Remedy', inno alla libertà), southern rock ('Thorn In My Pride') e funky, impreziosito dalle tastiere del nuovo acquisto, il talentuoso Ed Harsch, e dalla incredibile batteria di Steve Gorman che non spreca un colpo. Le ombre  malinconiche ricamate in 'Bad Luck Blue Eyes Goodbye', l'oscuro presagio disegnato in 'Black Moon Creeping', fanno da contrapposizione al  rock'n'roll blues di 'Hotel Illness' e 'No Speak No Slave' dove le chitarre di Rich Robinson e Marc Ford si intrecciano che è un piacere e la voce di Chris Robinson vola alta, sinuosa e graffiante. Perfino 'Time Will Tell' di Bob Marley si vestì con abiti gospel innestandosi alla perfezione, chiudendo la fila delle dieci tracce. "Quando l'abbiamo ascoltata per la prima volta mi ha fatto respirare aria di gospel music e ci ha stregato" racconterà Rich Robinson. Il disco che uscì nel Maggio del 1992, debuttando al numero uno nella classifica di Billboard, in copertina li presenta come dei guerrieri della notte degli stati del sud (richiamando the Band) immortalati dal fotografo Mark Seliger in un cimitero di automobili nella periferia di Atlanta. Posto marcio e disordinato, adatto per rappresentare tutto ciò che accadrà nella loro carriera dall'uscita del disco in avanti…


THE BLACK CROWES - Amorica (American Recordings/ Universal, 1994) 

"L' America è, spesso, un luogo di paura. Amorica invece è l'America che noi sogniamo, cioè un posto dove la gente sia libera di vivere senza paure" così Rich Robinson spiegò il titolo del terzo album dei Black Crowes, presentato da una copertina tanto acchiappa sguardi, rubata da una vecchia copertina della rivista Hustler, anno 1976, quanto ostacolo per la buona diffusione del prodotto che infatti venne censurato. Chissà se per quella bandiera americana messa lì davanti oppure per quello che c'era sotto o tutto l'insieme? A proposito Chris Robinson appena dopo l'uscita disse: "sarà raffigurata una ragazza abbigliata in classico bikini a stelle e strisce… Staremo a vedere. L'America, essendo un paese giovane, cerca di aggrapparsi a dei valori, stanno ancora cercando di capire cosa accade nel mondo e penso che la mentalità europea sia diversa". Non si sbagliava. E pensare che se possiamo accarezzare la copertina di Amorica è solo grazie a quei due fratelli serpenti che mandarono in fumo un album fatto e finito, nato sul finire del 1993 dopo i tour che seguirono The Southern Harmony and Musical Companion. Tall non vide mai la luce se non anni dopo quando uscì con l'altro album perduto Band, registrato nel 1997: raccolti sotto The Lost Crowes. Dentro Amorica ci finirono un po' di quelle canzoni perdute. "Vogliamo davvero vedere fino a che punto possiamo spingere la nostra espressione". Con queste parole Chris Robinson cercò di spiegare il balzo in avanti che la band provò a fare con Amorica, alla perenne ricerca di un suono identificativo lontano da mode e da tutto. I suoni si dilatano, c'è la voglia di lasciarsi andare, di entrare dentro a un mood senza troppi steccati a fare da argine. Cambia anche il produttore, dopo George Drakoulias arriva Jack Joseph Puig. Si intravedono tappeti, candele e incensi, piedi nudi che ci ballano intorno. Così da 'Gone' che sembra un bel invito messo in apertura ma ancora ben legato ai due precedenti dischi, passando per la liberatoria e sensuale  'A Conspiracy' e con un prezioso Eddie Harsch che sembra essersi inserito molto bene dentro alle trame della band, si passa attraverso i ritmi latini che accompagnano 'High Head Blues' con quell' invito esplicito nascosto tra le rime e piazzato alla fine:  "questa è l'erba migliore" viene ribadito  in spagnolo. E noi ci crediamo, visto che da qui in avanti tutto sembra apparire e scomparire dietro al fumo profumato.  Perché il viaggio jammato dei nuovi Black Crowes sembra non avere più ostacoli: 'Cursed Diamond' inizia lieve e introspettiva poi  si incendia sotto le chitarre di Marc Ford e Rich Robinson con Chris a cantare l'incredibile forza del perdono, 'Nonfiction' è una pausa dalle chitarre che sa di vecchia west coast anni settanta ma che poi conduce alla solarità senza confini di 'She Gave Good Sunflower', lavoro di squadra dove c'è spazio per tutti.  Una malata 'P. 25 London' che pur  sembrando un semplice divertissment blues con tanto di armonica ha il raro pregio di catturare l'attenzione con il suo groove (ecco il basso di Johnny Colt) prima di condurre il disco verso  l'accoppiata 'Ballad In Urgency' e 'Wiser Time', due viaggi accomunati dalla leggerezza, la prima si aggancia così bene ai padri Allman Brothers, la seconda è una corsa in macchina in discesa a motore spento, con il vento in faccia e il drumming percussivo di Steve Gorman che duella ad armi pari con le slide. Siamo ora on the road. Il disco nel finale si abbandona completamente, sgancia i freni, attorcigliandosi alle radici: il delta blues acustico di 'Downton Money Waster' con dobro e pianoforte e la forza evocativa e quasi gospel della finale 'Descending', con il grande lavoro al pianoforte di Harsch, sembrano riallacciare tutti i fili con la tradizione del southern rock che così bene questo disco aveva in qualche modo cercato di spezzare. "Che genere suonano i Black Crowes? Semplicemente musica, l'importante è quello che pensano gli ascoltatori", così Rich Robinson.


The BLACK CROWES - Three Snakes And One Charm (American REcordings/Universal, 1996) 

Three Snakes And One Charm ha sempre fatto poco per attirare l'attenzione su di sé: avvolto in una candida copertina poco appariscente, nessuna foto della band e nessun singolo veramente trainante se si escludono ‘Blackberry’ canzone con il groove giusto per diventarlo grazie alla sua riuscita commistione tra chitarre e black music e l'apertura ‘Under The Mountain’ che dà lo starter al disco in modo sornione per poi esplodere in tutto il suo sapore Southern. Anche la sua uscita fu tavagliata: l’estenuante tour seguente ad Amorica aveva messo tutti ko (aprirono anche per i Rolling Stones nel tour di Voodoo Lounge) e la situazione interna alla band inizia a scricchiolare, con i fratelli Robinson che comunicavano a distanza, dando inizio a quel amore odio che li seguirà per tutta la carriera: il chitarrista abitava a Los Angeles, il cantante ad Atlanta. Nonostante tutto quando si ritrovarono al Chateau de le Crowe riuscirono a mettere insieme dodici canzoni e l’anno seguente registrarono pure Band, album che non vide mai la pubblicazione  se non anni dopo insieme a Tall altro album perduto registrato prima di Amorica. A  più di venticinque anni dall'uscita, il disco dei tre serpenti si può considerare uno degli album più coraggiosi ed eclettici della loro carriera, ai tempi marchiato con troppa sufficienza con un bel “calo di ispirazione”, forse il più difficile da penetrare con facilità causa l'abbondanza di carne sul fuoco e il giro largo che fanno compiere alle canzoni rispetto ai primi tre album. Canzoni che scappano da più parti indicando le loro tante influenze: tutto l’amore per Sly Stone e il funk si manifesta in '(Only) HalfwayTo Everywhere’, i residui di R&B con tanto di fiati in ‘Let Me Share The Ride’,  i sixties e i Byrds vengono omaggiati in ‘Better When You're Not Alone’, il misterioso oriente in ‘How Much For Your Wings’ con le sue percussioni, la  psichedelia fa capolino in ‘Evil Eye’ e ‘Nebakanezer’ che presenta un riff che cattura subito, si respira aria fresca di campagna  nel country  ‘Bring On Bring On’, nell’armonica che guida ‘Good Friday’, nella pedal steel di ‘Girl From A Pawnshop’. Un anno dopo con l’uscita di Marc Ford e Johnny Colt cambieranno nuovamente le carte in tavola…mantenendo comunque intatta la libertà musicale di tutta la carriera.


THE BLACK CROWES - By Your Side (American, 1999) 

Sabato 10 Luglio 1999: una bufera di pioggia si scatena sul Monza Rock Festival. Alcuni gruppi in scaletta saltano ma vengono spostati al giorno successivo. Un po’ esulto, che diamine non può andare sempre di sfiga. Io avevo scelto quel giorno successivo! I principali sono Aerosmith e Litfiba (con l’ultimo concerto di Piero Pelù in formazione). Lo vengo a sapere il giorno dopo, appunto, sul posto e sul momento: io ero lì principalmente per i Black Crowes (e Lenny Kravitz) e il loro set sarà incastonato in mezzo tra la band di Boston e quella di Firenze. Posizione strategica. Gli Aerosmith fanno un gran concerto pescando bene nel passato, quello dei Litfiba è abbastanza penoso, mettendo in risalto una band ai ferri corti che giunge al termine dei propri impegni per contratto. E i Black Crowes? I Black Crowes si presentano sul palco esattamente come si vedono nella copertina del nuovo disco che stanno per presentare live. Un disco che già adoravo. Il pubblico sembra distratto. Gli Aerosmith hanno appagato i rocker, i fan dei Litfiba sono in spasmodica trepidazione. I Black Crowes fanno un gran concerto, certo penalizzato dai tempi ristretti, ma per quel che ricordo, alla fine, conquistano sia i rocker appagati quanto il pubblico distratto di Pelù. Per gli amanti delle statistiche ho recuperato la scaletta: ‘No Speak No Slave’, ‘Go Faster’, ‘Stare it Cold’, ‘Go tell the Congregations’, ‘Sting Me’,‘Heavy’, ‘Hard to Handle’,  ‘Kicking my Heart Around’, ‘Virtue and Vice’, ‘Jealous Again’, ‘Remedy’. BY YOUR SIDE uscì dopo un periodo poco felice: THREE SNAKES AND ONE CHARM non esaltò troppo, arrivando dopo un disco monstre come AMORICA, Marc Ford e Johnny Colt escono dal gruppo, c’è pure il cambio di etichetta discografica con il passaggio alla Sony. Tanti voltano le spalle. Eppure BY YOUR SIDE, ben prodotto da Kevin Shirley, spesso dimenticato ma presentato da una copertina mai così glam e glitterata, è un disco scalpitante, certamente il più accessibile in discografia, che si impossessa maggiormente della parte più british della loro musica: quella legata al rock blues dei Led Zeppelin , degli Stones, di Rod Stewart e i suoi Faces e la mischia con il suono nero americano. ‘Go Faster’ e ‘Kickin’ My Heart Around’ fanno muovere il culo e battere i piedi fin da subito: rock’n’roll senza freni e sezione ritmica a palla (Steve Gorman e Sven Pipen i protagonisti). ‘By Your Side’ è la canzone che Jagger e soci non fanno da trent’anni. ‘HorseHead’ ha i riff di Keith Richards benedetti sotto l’acqua santa dei cori gospel. ‘Only A Fool’ è una ballata soul condotta dai tasti del povero Eddie Harsch e dai fiati. ‘Heavy’ mischia le due anime del disco: da una parte il rock, dall’altra il R&B. ‘Welcome To The Goodtimes’ è tra gli episodi più inusuali ma riusciti del disco: Rod Stewart meets New Orleans e la voce di Chris Robinson ne esce vincitrice. Un piacere incontrarvi. Il fratello Rich Robinson rimane solo al comando delle chitarre e in ‘Then She Said My Name’ va giù duro prima di arrivare al bel finale di ‘ Virtue And Vice’ con ancora Harsch protagonista. Canzone assolutamente da riscoprire.  “Gotcha Moving, Gotcha Moving…Keep You Rolling” ancora da capo.


THE BLACK CROWES - Lions (V2, 2001) 

C'è uno sticker colorato nella custodia di Lions che annuncia cose da futuro immediato: metti il tuo CD nel computer, digita il codice che trovi all'interno e assisti a uno show del prossimo tour dei Black Crowes direttamente da casa, in streaming, sul tuo computer. Un modo per avvicinarsi alla tecnologia del prossimo futuro e ai tanti fan sparsi per il mondo.  Ma Lions è tutt'altro che un disco futuristico. Dopo il tour con Jimmy Page, o quello che doveva essere un tour visto la durata dimezzata, la band di Atlanta sembra rinvigorita nel seguire le tracce rock assaporate con l'ex chitarrista dei Led Zeppelin, registrando il tutto  in un vecchio teatro di New York sotto la produzione dell'esperto Don Was. Arrivarono all'appuntamento con alcune canzoni scritte proprio in tour, altre nacquero sul momento in studio di registrazione in un clima di rilassatezza e buona complicità. Una nuova casa discografica e la nuova fiamma di Chris Robinson avranno sicuramente influito al buon clima generale. Lo si sente subito in apertura con quelle chitarre stridenti, un lungo preludio, e la rullata di Steve Gorman, 'Midnight From The Inside Out' è puro Zeppelin sound che amoreggia volentieri con Jimi Hendrix. Anche 'Greasy Grass River' è una prova di squadra che passa l'esame con le chitarre di Rich Robinson e Audley Freed in primissimo piano. "Le date con Jimmy sono state un'enorme spinta in termini di energia" racconterà Chris Robinson.  Ma ciò che attrae di più di Lions a ventitre anni (!!!) dalla sua uscita è quel fragore ritmico imbottito di funky che accompagna gran parte delle canzoni. Il saltellante groove di 'Lickin' con il suo riff penetrante (il primo singolo), l'esortazione contagiante di 'Come On', la sensuale 'Ozone Mama' con il suadente organo di Ed Harsch e l'armonica di Chris Robinson che qui si prende pure la licenza di cantare rappando, l'incedere tribale che scandisce 'Young Man, Old Man' sono tutti schizzi che vanno a comporre una tela bianca senza cornici che ne limitano l'orizzonte. Ci sono poi almeno tre o quattro colpi da fuoriclasse: il crescendo di 'Losing My Mind', la ballata acustica 'Miracle To Me' anticipata dal pianoforte, la schizzata 'Cosmic Friend' che come una mosca vola sopra alla musica dimostrando a tutti la licenza della più totale libertà di espressione che si sono presi, la conclusiva 'Lay It All On Me' che pare un ibrido ben riuscito tra i Beatles del White Album e  l'Elton John più ispirato. Poi c'è quella 'Soul Singing' che rimarrà l'unica vera canzone ricordata di questo album, un gospel dai sentori  hippy, danza sfrenata di libertà e emancipazione in mezzo a colline verdi, prati fioriti, cieli azzurri e un bel sole al tramonto (sì proprio come nel video). "È stato un processo di registrazione davvero spontaneo. Abbiamo preso molta energia dalla libertà nella quale ci siamo trovati, anche con la casa discografica."dirà Chris Robinson riferendosi anche al nuovo contratto discografico con la V2. All'uscita Lions fu bersagliato dalla critica. Un po' come quando Neil Young fu accusato di "non fare Neil Young", qui i Black Crowes sfornano un album con talmente tanti spunti e tanta varietà che dopo più di vent'anni si riesce a trovare ancora qualcosa di nuovo.


THE BLACK CROWES - Warpaint (Silver Arrow Records, 2008) 

Ma quanto è bello Warpaint? Il disco del (primo) ritorno, ma spesso dimenticato, dopo il breve scioglimento avvenuto nel 2002 e durato tre anni. I fratelli Rich e Chris Robinson ritornarono con tante novità ma con un sound che guardava fortemente al passato, cancellando in un solo colpo i segni lasciati dal poco capito Lions, uscito ben sette anni prima, sicuramente da riscoprire. Due nuove facce: la chitarra di Luther Dickinson (North Mississippi Allstar) e le tastiere di Adam MacDougall che si uniscono alla confermata sezione ritmica formata da Steve Gorman (vorrei vedere) e Sven Pipien."Abbiamo registrato Warpaint in uno studio chiamato Allaire. È in cima a una montagna nello stato di New York. È stato uno dei posti più belli in cui sia mai stato. L'atmosfera era incredibile - a parte il fatto che ero stressato per ottenere la musica giusta... " racconterà il tastierista nuovo entrato. Una nuova etichetta discografica di loro proprietà (Silver Arrow) che possa permettere di muoversi con più agilità sul mercato ma soprattutto canzoni che lasciano il segno, riunendo insieme tutte le migliori influenze della carriera, da quelle britanniche (Stones e Faces) a quelle americane (Little Feat, Allman e Lynyrd Skynyrd). L’iniziale chiamata alle armi di ‘Goodbye Daughters Of The Revolution’ è già un piccolo classico, i blues neri e sporchi di ‘Walk Believer Walk’ e della trascinante ‘God’s Got It’ rubata al repertorio del reverendo Charlie Jackson legano in maniera sanguigna con le radici ("non facciamo una cover per un disco da un po 'e mi è sempre piaciuta questa canzone. Credo che la metà dei ragazzi della band non l'avesse mai ascoltata. L'ho suonata per tutti e tutti si sono alzati in piedi e hanno iniziato a farla. Era anche un altro modo per entrare nelle nostre radici " dirà Chris Robinson), il southern vecchia scuola di ‘Evergreen’ e quattro ballate una diversa dall’altra fanno il resto: ‘Oh Josephine’ ("una delle cose migliori che io e Rich abbiamo mai scritto" dirà Chris Robinson), ‘Locust Street’, ‘There’s Gold In Them Hills’ e la finale e sorprendente ‘Whoa Mule’ tanto etnica quanto legata ai maestri della Band. L'anno dopo uscirà Warpaint Live a confermare il buon momento.


THE BLACK CROWES - Before the Frost...Until the Freeze (Silver Arrow Records, 2009) 

C'è un'immagine tra le foto promozionali di questo che a oggi rimane l'ultimo lavoro di inediti della band di Atlanta (l'anno dopo uscirà ancora la singolare raccolta Croweology, l'anno scorso è uscito 1972, album di cover) che rappresenta e presenta benissimo il disco. I Black Crowes sono stati fotografati sopra una scalinata con le loro barbe, i lunghi capelli e i vestiti marcati seventies all'entrata di un'enorme edificio in legno con pile di legna pronta da ardere ai due lati. Probabilmente si tratta dello studio di registrazione situato a Woodstock di proprietà del povero Levon Helm (che all'epoca uscì con lo splendido ELECTRIC DIRT) dove i nostri hanno registrato in presa diretta, davanti ad uno sparuto numero di spettatori, i 20 brani che compongono quest'album  che profuma veramente d'altri tempi. Quella legna da ardere sembra essere lì per testimoniare il calore che l'ascolto emana, in netta contrapposizione con l' algida copertina e il titolo dell'opera. Un disco buono per ogni occasione. Per come è nato (si provava fino alla riuscita, il pubblico applaude), e con il passare degli anni questo disco ha assunto il ruolo di perfetto mix tra i BASEMENT TAPES di Dylan/The Band e EXILE ON MAIN STREET degli Stones. Con le dovute proporzioni naturalmente. "Siamo partiti con l'idea iniziale che saremmo andati in uno studio normale e avremmo avuto una dozzina di fan lì dentro a guardarci, la cosa si è poi trasformata in una valanga quando siamo andati nel fienile e nello studio di Levon Helm a Woodstock con  200 persone a guardare" raccontò il batterista Steve Gormam. Tutte composizioni originali, escludendo la cover di Stephen Stills 'So Many Times'. Canzoni che dimostrano quanto la band sia maturata negli ultimi anni di attività. Già il precedente WARPAINT (2007) si era fatto apprezzare per la ritrovata vena compositiva dei fratelli Robinson, ma questo lo supera. Calore, introspezione, feeling, spontaneità, coesione sono aggettivi che ben si adoperano per descrivere lo status della band, che sembrò rinascere dopo l'entrata di Luther Dickinson (North Mississippi AllStars) alla chitarra. Il legame con i grandi degli anni settanta non è mai stato così marcato: facile trovare tracce di Rolling Stones, Faces, primo Rod Stewart (soprattutto nella splendida voce di Chris Robinson) o gli echi sudisti di Allman Brothers Band e il calore delle composizioni di The Band e Little Feat. I Black Crowes hanno perso per strada l'irruenza e l'urgenza degli esordi per avvicinarsi sempre più al crocevia che porta nella direzione delle radici americane e a The Band in particolar modo. Il primo disco BEFORE THE FROST…si apre con una formidabile 'Good Morning Captain', che parte da dove era finito il precedente WARPAINT. Canzone che possiede tutti i crismi di un loro classico. Da notare il prezioso lavoro al piano e tastiere di Adam MacDouglas. Accanto ad episodi di rock blues ruspante come 'Kept My Soul' o la lunga 'Been A Long Time (Waiting On Love)'con la sua jam finale troviamo episodi che rotolano spesso come palle di fieno sospinte dal vento nel country: la bellissima 'Appaloosa' che sembra uscire direttamente all'agreste HARVEST di Young o l'acustica 'What Is Home?' così vicina ai primi CSN. C'è pure spazio per un brano divertente e spiazzante come quelli che amavano fare gli Stones di fine anni settanta: 'I Ain't Hiding' è uno scherzo e così va preso. Ritmiche disco-funk che tanto piacerebbero alla boccaccia di Mick Jagger. La seconda parte del lavoro …UNTIL THE FREEZE la si poteva ottenere scaricandola dal sito grazie al codice presente nella confezione del cd oppure optando per il vinile: c'è tutto in due dischi e forse sarebbe la soluzione giusta visto i suoni così vintage. 'Aimless Peacock' lascia intravedere l'anima di questa seconda parte del lavoro, più cerebrale e psichedelica. Violini, sitar ci immergono in atmosfere care al George Harrison di fine anni sessanta. Mentre 'Garden Gate' è un divertente walzer country sorretto dal violino così come nei verdi campi del country viaggiano 'Shine Along' e 'Roll Old Jeremiah'. Venti canzoni che attraversano l'America a passo d'uomo, lasciando il giusto tempo di ammirare i paesaggi, sostare e ripartire. Tanto anacronistiche quanto utili di questi tempi. E sono ancora qui a chiedermi come sia stato possibile fermarsi dopo tanta prolificità, la stessa che ora è dispersa in altri mille progetti e in una (strana) reunion che per ora odora solo di verdi banconote. Uno dei loro dischi migliori, anche se pochi lo dicono.


THE BLACK CROWES  - Happiness Bastards (Silver Arrow, 2024) 

"Ma poi le cose accadono...nella vita, le cose accadono. E nel mio caso, incontrare l'amore della mia vita dopo tutti questi anni e avere un partner che possa davvero farmi vedere le cose per quello che sono, essere in grado di guarire il mio rapporto con Rich - e lui direbbe la stessa cosa, penso - avere il team di persone che abbiamo intorno...". Così Chris Robinson ha raccontato quanto la compagna Camille Johnson (anche autrice dell'artwork) sia stata determinante per ricucire i rapporti con il fratello Rich, invertendo per una volta quella legge non scritta del rock'n'roll che vuole mogli e compagne come le cause di tutti i mali all'interno di una band. Riavvicinamento che portò a una reunion e al conseguente tour celebrativo di Shake Your Money Maker che passò pure all'Alcatraz di Milano ma che, a dirla tutta, a distanza di un paio di anni non mi sembrò così entusiasmante, finendo nelle retrovie dei loro concerti visti da me. Mi sembrò un compitino contornato di belle canzoni e suoni pessimi. Divertente e senza pretese fu anche 1972, l'EP che raccoglieva sei cover pescate in quell'anno di meraviglie. Ma forse proprio da lì si può partire per capire lo spirito che ha animato le dieci composizioni di questo ritorno. Basti l'ascolto di 'Bleed It Dry', uno shuffle blues con l'armonica di Chris Robinson che pare arrivare diretto diretto da Exile On Main Street. Torrido e sporco il giusto.Happiness Bastards è il disco più semplice e diretto della loro discografia, un concentrato di rock'n'roll blues che lo pone a metà strada tra il debutto e il sempre dimenticato By Your Side senza avere le canzoni di peso né dell'uno né dell'altro ma forse per trarre queste conclusioni è ancora presto. Insomma siamo distanti anni luce dall'ultimo e sorprende album Before The Frost...Until The Freeze del 2009 che li vedeva calati in vesti bucoliche dentro al fienile di Levon Helm e all'immaginario Americana disegnato da The Band anni prima. Un grande disco di sfumature che meritava maggiori attenzioni. Lo racconta bene Chris Robinson: "è un disco rock 'n' roll. Focalizzato, orientato al riff. Prima di invecchiare e non poterlo più fare". Anche se il recente album dei Rolling Stones ci racconta che si può arrivare anche agli ottant'anni a macinare riff su riff. Lo conferma il produttore Jay Joyce (presente anche con chittara e tastiere), raccontando come sono andate le cose in studio di registrazione:"era vecchia scuola: tutti nella stessa stanza, nessuna traccia di clic, niente stronzate". I Black Crowes di oggi sono Chris e Rich Robinson. Sven Pipien è l'unico sopravvissuto della vecchia guardia. E la strada che prende il disco la si capisce appena parte la prima traccia 'Bedside Manners' (invettiva contro qualche ex amante dove Chris canta:" se non vuoi i miei diamanti / non scuotere il mio albero”), up tempo e una slide sferragliante, un pianoforte battente (suonato da Erik Deutsch) sono un benvenuto e il mood di quasi tutto l'intero disco che ha nelle ballate 'Wilted Rose', insieme alla cantantautrice country Lainey Wilson, canzone che però ha una sua esposione e la finale 'Kindred Friend', con il suo placido e disteso andamento tra country, gospel e pop ( ai cori Vicky Hampton, Joanna Cotton e Robert Kearns), gli unici momenti in cui si tira il fiato. 'Rats And Clowns' ha un riff sonesiano incalzante (alla batteria Brian Griffin) e Chris Robinson canta in maniera avvolgente inseguendo le chitarre fino al chorus e all'assolo di Rich che in tutto il disco è aiutato dalla chitarra di Nico Bereciartua. Un disco dove che chitarre contano. L'arpeggio iniziale di 'Cross Your Fingers' inganna e porta verso l'immaginario roots ma poi la canzone si dipana in un saltellante funky con Chris che si trasforma in un delle sue migliori trasformazioni da soul singer, certamente la traccia più anomala e sperimentale del disco. 'Wanting And Waiting' la conosciamo già a memoria con il suo forte rimando alla vecchia 'Jealous Again'. Puro distillato Black Crowes che fa il paio con l'accusatoria 'Follow The Moon' quasi zeppeliniana. 'Dirty Cold Sun' è la più black del lotto, coriste e ancora tanto soul nel cantato. 'Flash Wound' è un trascinante mix tra la velocità del vecchio punk e le atmosfere festose da marching band con un breve break centrale. I tre minuti più spassosi di un disco che in 38 minuti ci presenta una band che vuole lanciare un messaggio forte e chiaro:" aprite le vostre orecchie, sappiamo ancora suonare rock'n'roll!". Tutte le altre sfumature che ci hanno fatto conoscere durante l'intera carriera sono state messe da parte per un approccio duro, fresco, vivace e diretto. Che piace e li tiene in vita con onestà e mestiere. Per ora cosa chiedere di più dopo quindici anni di silenzio discografico?


                                                                                       BONUS

THE BLACK CROWES - Band (1997) 

Avete mai pensato a come la storia e la carriera di alcuni artisti sarebbero potute cambiare se certi album incisi e lasciati poi ammuffire nei cassetti fossero invece usciti nei tempi giusti? La storia del rock è piena di lost album. Band dei Black Crowes registrato nel 1997 vide la luce solamente nel 2006  quando uscì insieme alle session Tall che qualche anno prima diedero  il giusto carburante ad Amorica. Band invece  fu il passo successivo a Three Snakes And One Charm un disco che Chris Robinson non lesinò a considerare "il mio album favorito" e fece da anticamera a di By Your Side (che invece è uno dei miei favoriti) a cui regalerà comunque  la title track qui ancora in una versione embrionale e intitolata 'If It ever Stops Raining' diversa da quella sottoposta al lavoro di Kevin Shirley che uscirà solo due anni dopo. Dieci canzoni scritte immediatamente dopo il lungo tour del disco precedente da Chris e Rich Robinson una sola settimana prima di chiamare a rapporto il resto della band, chiudersi nel piccolo studio Purple Dragon Recording di Atlanta e registrarle in sole tre giornate di lavoro. "Mi piaceva l'idea che ci fossero degli errori" raccontò Chris Robinson. Lo scopo era registrare e mantenere un approccio live e grezzo, cosa che riuscì loro perfettamente e le voci che si sentono all'inizio o alla fine di alcuni brani testimoniano. Insieme ai fratelli Robinson: Steve Gorman e Eddie Harsch, e poi della partita ci sono ancora Marc Ford e Johnny Colt, alle loro ultime registrazioni in studio con la band. Ford navigava in brutte acque poco digerite dal gruppo, fu licenziato poco dopo nel corso del 1997, Colt lo seguì quasi immediatamente. Il rock di 'Paint An 8' e 'Never Forget This Song', la jam senza troppe regole di 'Another Road Side Tragedy', il rock’n’roll stonesiano di 'Predictable', il mandolino di 'Lifevest', le tastiere della più solare e sbarazzina 'Grinnin', le ballate 'Wyoming & Me' e  'My Heart 's Killing Me'  con il violino di Donny Herron e la finale e superba 'Peace Anyway',  formano uno dei più ispirati e coesi album della band anche se nessuno lo saprà per almeno dieci anni. In rassegna le loro radici southern e soul, le influenze british, la loro anima più cerebrale e alcune anticipazioni sulle colline del country che troveranno strada qualche anno dopo. La American Recording di Rick Rubin non ne volle sapere nulla, considerando l'album poco competitivo sul mercato. Tutto venne accantonato e i  Black Crowes con la nuova etichetta Columbia e il nuovo innesto Sven Pipien  scomparirà per due anni per rifarsi viva con il più diretto e rock’n’roll By Your Side ma sarà un'altra incredibile storia.


THE BLACK CROWES Croweology (Silver Arrow Records, 2010) 

Ci fu poco tempo per apprezzarne il ritorno in quel 2010, i due album WARPAINT (2008) e BEFORE THE FROST...UNTIL THE FREEZE (2009) uscirono a ben sette anni di distanza dall'ultimo LIONS (2001), che i Black Crowes decisero di salutarci nuovamente. Per un po'? Per sempre? Per dieci anni. Ora lo sappiamo. CROWEOLOGY è un doppio album unplugged registrato in cinque giorni in presa diretta nel 2009 e uscì per festeggiare i 20 anni trascorsi dal loro debutto discografico SHAKE YOUR MONEY MAKER. Fino a quest'anno l'ultima uscita discografica della band di Atlanta, tornata nel 2022 con il.disco di cover 1972. L'album ripercorre l'intera carriera dei fratelli Robinson, mostrando il lato puramente roots, rustico ed acustico che già predominava in Until The Breeze, la seconda parte della precedente uscita discografica. Mandolini, lap steel, pedal steel e violini rivestono di nuovi abiti "made in americana" le grandi canzoni del loro repertorio, partendo da una 'She Talks To Angels' raccontata cosi da Rich Robinson:" per me, la canzone è semplicemente fantastica. Musicalmente, non mi annoio mai a suonarla, e penso che la melodia e il testo di Chris siano semplicemente fantastici. Per questo disco, è stato solo un gioco da ragazzi per tutti noi. Luther (Dickinson) è eccezionale in questo. Ha le orecchie sempre aperte e ascolta ciò che fanno tutti e aggiunge ciò che deve essere aggiunto". Ci sono poi 'Remedy', 'Soul Singing', 'Sister Luck', per un totale di venti canzoni tra cui la cover di 'She' di Gram Parsons e Chris Ethridge. Registrato al Sunset Sound di Los Angeles ci mostra comunque una band mai così unita e soprattutto alla continua ricerca di semplicità come testimoniarono le loro ultime uscite discografiche, suonate e registrate dal vivo lontane da qualsiasi sovraincisione da studio. Before The Frost...fu registrato nello studio/fienile del compianto Levon Helm davanti a pochi spettatori per essere riversato poi su disco così com'era. Per noi ci fu ancora la possibilità di vederli live nel 2011 e nel 2013 all'Alcatraz di Milano per quello che rimarrà il loro ultimo concerto in Italia per un po' di anni. E poi...? E poi ci si è messo di mezzo il Covid ad annullare la data autunnale della "strana e monca" reunion dei fratelli Robinson, nel 20024 giunta a compimento.