Tutti
abbiamo la nostra Highway 62 da percorrere. Sulla strada che dal Messico arriva
fino in Canada, hanno viaggiato poeti, santi, corrotti, rigattieri,
spacciatori. Ma anche Buddy Holly e Woody Guthrie. Peter Case su quelle strade,
dalle parti di Buffalo, ci è nato e cresciuto. Dopo cinque anni di assenza
ritorna con un disco impeccabile che riprende il discorso acustico dei suoi
esordi solisti, lasciando da parte il lato più elettrico della sua musica.
Dalla iniziale 'Pelican Bay', descrizione e denuncia del sistema carcerario e
giudiziario americano, a 'Long Time Gone' recupero di un Bob Dylan d'annata, è
un tragitto folk blues percorso sulla corsia preferenziale, e benedetto dalla
slide ospite di Ben Harper e dalla batteria di D.J. Bonebrake (X). La
riconferma di aver fatto la scelta giusta, quando abbandonò le strade post punk
percorse in gioventù con i Nerves e poi i Plimsouls per virare verso i più
tranquilli sentieri roots. (Enzo Curelli) da CLASSIX! # 46 (Gennaio/Febbraio 2016)
LUCINDA WILLIAMS The Ghosts Of Highway 20 (Highway 20 Records/Thirty Tigers, 2016)
Se è vero che meno te la passi bene, più sei prolifico ed ispirato, a Lucinda Williams dobbiamo erigere un totem per il modo in cui ci sta spiegando questa semplice equazione di vita tanto veritiera quanto amara. Suo malgrado, purtroppo, e mettendo BLACKSTAR di David Bowie fuori classifica per ovvie ragioni che non sto qui a spiegare. Noi da ascoltatori egoisti gioiamo in rispettoso silenzio. Negli ultimi anni ha viaggiato spesso su queste autostrade di vita con la sofferenza al fianco, seduta silente nel lato passeggeri: dopo la morte della madre che guidò la stesura di WEST (2007), ora è la morte del padre, lo scrittore e poeta Miller Williams, la principale e più sentita delle perdite umane tanto da ispirarle due canzoni dolorose e struggenti come il folk di If There's A Heaven e If My Love Could Kill. In quest'ultima, la malattia che ha portato via il padre, l'Alzheimer, s'innalza a protagonista in negativo, ladra di tempo, speranze e memoria, divoratrice di pelle e di ossa. Quasi da brividi. C'è però un altro padre che è uscito dalla sua vita recentemente: il genitore del marito e produttore Tom Overby, a lui è dedicata la cover di Factory di Bruce Springsteen. Overby senior fu un operaio diligente per tutta la sua esistenza e la canzone di Springsteen, originariamente contenuta in DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN dipingeva la dura vita di un altro padre, Douglas Springsteen: "è una vita di lavoro, nient'altro che lavoro" è il concetto. Lucinda la fa sua infarcendola oltre modo d'enfasi. Un inno per tutti gli eroi della classe operaia.
Nel giro di due anni ci dona due doppi dischi (ben otto facciate di vinile per volere esagerare) nati e cresciuti insieme ma profondamente diversi e distinti, a partire dalle atmosfere musicali pigre, malinconiche e rarefatte che avvolgono le quattordici canzoni, tanto che House Of Earth, il cui testo è di Woody Guthrie ma non era mai stato musicato fino ad oggi, sembra un sussurro cantato a voce bassa a tarda notte, con tutta l'accortezza di far meno rumore possibile. Diversi sono anche i musicisti che l'hanno accompagnata in studio: oltre a David Sutton (basso) e Butch Norton (batteria), spiccano le chitarre di Greg Leisz, la sei corde che esce alla sinistra delle nostre casse, di Bill Frisell quella nella parte destra. Chitarre protagoniste che generano fantasmi nella spettrale I Know All about It, creano atmosfera nell'acustica Place In My Heart, e tessono tristi ragnatele di morte in Death Came.
Dopo il pluri glorificato e premiato DOWN WHERE THE SPIRIT MEETS THE BONE, disco che nulla aveva da invidiare ai suoi dischi più riusciti, CAR WHEELS ON A GRAVEL ROAD (1998) in testa, questa volta affronta a modo suo il tema del viaggio facendo tappa nelle città che hanno segnato la sua vita (i nove minuti del folk crepuscolare Lousiana Story parlano di sua madre, del luogo dove è sepolta), spesso in modo doloroso, ripercorrendo quella strada che dal Texas porta alla Carolina del Sud e mettendo in fila tutti quei ricordi (fantasmi) che la legano ai territori del Sud e che l'epicità della title track con la chitarra di Val McCallum espongono così bene in primo piano. "Conosco questa strada come il palmo della mia mano/Ogni uscita lascia un po' di morte" Un disco con pochissimi assalti rock: Doors Of Heaven tra le più elettriche, il country di Bitter Memory tra le più mosse e frizzanti, i tredici minuti della finale Faith & Grace, la più particolare, aperta e senza schemi, e con la sezione ritmica quasi funky in primo piano. Meno diretto rispetto al precedente, preferisce nascondersi dentro alle ombre dei silenzi, spiare dall'uscio e poi addentrarsi negli angoli più oscuri della vita. Le canzoni hanno il passo lento, cupo e malinconico, ma si distinguono tutte per profondità, ispirazione e tanto vissuto. Troppo vissuto. Ballate da prendere in blocco, tormentate, che alla fine lasciano un velo di tristezza nel cuore e piacere nelle orecchie (il suono delle chitarre è tra i punti di forza). Questa è la sua strada. La sa a memoria e si viaggia bene. Ancora una volta.
Ho sempre amato il carattere degli Anthrax. Un gruppo che non si è mai preso troppo sul serio (la copertina del nuovo album disegnata da Alex Ross parla chiaro ancora una volta), eppure si è sempre dimostrato attento osservatore del mondo, portando a galla ingiustizie e precarietà. E FOR ALL KINGS non difetta: ‘Evil Twin’ nasce dopo l’attentato parigino alla sede di Charlie Hebdo e fa da traino a tutto il disco. Tutti possiamo essere dei re a patto di prenderci le nostre responsabilità, è questo il messaggio del titolo spiegato dal veterano chitarrista ScottIan. Anche se non ho ancora perdonato loro la cacciata di John Bush con cui avevano inciso uno dei migliori e sottovalutati dischi pesanti degli anni novanta (SOUND OF WHITE NOISE) devo ammettere che il ritorno dello storico vocalist Joey Belladonna, fin dal precedente ma riuscito a metà WORSHIP MUSIC, sembra aver riportato un minimo di freschezza e pure un marcato ritorno all’epicità che serpeggiava in dischi come lo storico SPREADING THE DISESAE (1985). Basti ascoltare gli intermezzi presenti in ‘Breathing Lightning’ o gli otto minuti della pesante ‘Blood Eagle Wings’. Piace pure il groove di ‘Defend Avenge’ guidata dal basso di Frank Bello e il mid-tempo‘This Battle Chose Us’, mentre ‘Zero Torelance’ chiude ad alta velocità un disco che non ha degli anthem che si possano avvicinare al vecchio repertorio e inchiodarsi nella testa, ma dimostra sia la sua forza che il suo limite nella compattezza d’insieme e in una insistita ricerca melodica che spesso cozza troppo con il vecchio repertorio di una delle quattro band da prima pagina del thrash metal americano. Insomma, manca un po’ di sana cattiveria. Con il batterista Charlie Benante spesso in infermeria (il tunnel carpale da poca tregua), è da segnalare, infine, l’entrata in pianta stabile del chitarrista Jon Donais (ex -Shadows Fall) al posto di Rob Caggiano, passato definitivamente nei danesi Volbeat.
Non ho mai capito come funzioni il marketing discografico. Oddio, un'idea ce l'avrei pure, ma...non importa. Mi interessa, invece, capire perché questo disco non stia girando come dovrebbe tra gli appassionati di musica. Buona musica. Non so se per pigrizia, modestia o falsa modestia degli autori, ma sto riscontrando l'assenza della dovuta pubblicità. Oppure la colpa è semplicemente di noi che stiamo intorno e non cogliamo qualche messaggio nascosto, ma...nuovamente, non importa. Per cui mi prendo le mie responsabilità e faccio lo sporco lavoro (comunque bellissimo): se amate il classic rock americano, quello che nasce dal vecchio folk più oscuro e sporco, incontra prima Bob Dylan sulla propria strada, la parte visionaria e psichedelica di fine sessanta, poi la west coast californiana e più malata dei '70 e la vecchia old black di Neil Young che allunga sulle curve a gomito, sfiora il Paisley underground degli anni ottanta, l'alt country recente di Uncle Tupelo e Wilco, quello più recente ancora di Okkervil River e Decemberists e finisce la sua corsa alzando la polvere dei deserti dell'Arizona (Calexico, Giant Sand) e anche po' più a sud, cercate il secondo disco della band bresciana. Non ve ne pentirete. Una band che conferma di essere un organico compatto e tenuto insieme dall'amicizia, a proprio agio tra la rilassatezza compositiva e il totale distacco da certi circuiti e cortocircuiti del mercato discografico, e forse la loro forza sta tutta lì, in quella pigrizia compositiva: il primo EP GREETINGS FROM THE NE uscì nel 2005, il primo album HARD FOLK LIGHTNING SUCKER nel 2009. Una band dal passo lento che sembra uscire allo scoperto solamente quando ce n'è bisogno e quando i numerosi impegni lo permettono. Ora a sei anni di distanza l'organico di esperti musicisti formato da Ronnie Amighetti (chitarra e voce), Marco Franzoni (chitarre), Matteo Crema (basso) e Beppe Facchetti (batteria) ingloba al suo interno la tromba di Francesco Venturini, che diventa presenza fissa e indispensabile per segnare questo nuovo corso, ospita Ottavia Brown (voce in Waltz In The Desert) e Filippo Pardini (sax in Everywhere e Family) e vira il proprio sound, senza snaturarlo troppo, verso le lande più marcatamente tex mex del proprio background (Vision, Waltz). Mantenendo quella capacità camaleontica di passare dal caldo al freddo, dal pulito allo sporco.
IN NULL KOMMA NICHTS vengono ripresi vecchissimi brani da tempo già presenti nei loro concerti, altri vecchi ma non troppo estrapolati dalla band parallela DAS tra cui una quasi morriconiana Surrender e una magnifica Incandescent Translucent Magnificent, e si prosegue con la saga Judo#3 iniziata fin dal primo EP,un brano presente nei loro tre dischi e suonato per tre volte in modo diverso.
Forse ho capito: la buona musica non ha bisogno di essere svenduta in radio e tv ma necessita e richiede l'amore e la curiosità anche di un semplice passaparola. Io vi ho avvertito. Ora lo sporco lavoro fatelo anche voi. Come si dice: fate girare. Oppure presentatevi a un loro concerto prima che la cover di Don't Cry No Tears di Neil Young faccia calare il sipario sull'esibizione. E' il loro arrivederci preferito. Forti della recente e calda serata in apertura a Tito & Tarantola, da qualche parte vi aspettano. Lì danno il meglio.
Qui sotto il video di Blues For An Asshole (dal loro primo disco HARD FOLK LIGHTNING SUCKER) registrato live proprio in apertura per Tito & Tarantula, il 7 Settembre 2015 alla Latteria Molloy di Brescia
THE BOTTLE ROCKETSSouth Broadway Athletic Club
(Bloodshot Records/IRD, 2015)
Duri a morire
Disseminata lungo la strada del tempo un po’ di quell’ energia giovanile che nei primi anni novanta ne fecero, insieme ai vicini di casa Uncle Tupelo, tra i portabandiera dell’alt country (oppure chiamatelo Americana), la band di St. Louis guidata dagli unici sopravvissuti della prima incarnazione, Mark Ortman e Brian Henneman (che dei Tupelo fu anche roadie e chitarrista) non ha smarrito la schietta attitudine e quella semplicità che ne hanno fatto una delle band più stimate ma anche dimenticate e sottovalutate di quella generazione. La recente ristampa dei due primi album, ad opera della Bloodshot Records, potrebbe aiutare nel darvi un’idea.
La vita vista dal basso, la strada e le periferie rimangono ancora le fonti principali a cui attingere per costruire le canzoni: quando ripassano gli insegnamenti melodici degli amati Byrds in Dog, quando si lanciano all’inseguimento delle chitarre più rozze dei Crazy Horse nel blue collar rock di Building Chryslers, oppure quando nuotano nelle atmosfere country e ariose di Smile. Una garanzia. Enzo Curelli 7
da Classic Rock # (Dicembre 2015)
Se BLACKSTAR è un trionfale e geniale commiato al mondo che solo David Bowie poteva inventarsi, l'ultimo capolavoro, c’è stato un periodo, all’alba degli anni novanta, in cui cercò riparo all’ombra della sua stella. Ennesimo trasformismo: si nasconde e camuffa dentro a una band, senza vistosi trucchi ma indossando semplicemente una barba più lunga del consueto, una camicia bianca, una cravatta e abiti scuri. La prima vera volta a carriera già avviata. Abbandonando per una breve parentesi le mire da rockstar solista e lasciando alla sezione ritmica dei fratelli TONY e HUNT SALES (presenti in LUST FOR LIFE di Iggy Pop), ma soprattutto alla chitarra selvaggia e pungente di REEVES GABRELS , che in alcuni punti straborda nel noise, il compito di caricare a salve un disco rock, grezzo, istintivo e vario quanto basta per segnare un netto confine tra il recente passato pop (TONIGHT, NEVER LET ME DOWN), fortemente preso di mira dalla critica musicale, e il prossimo futuro non ancora scritto.
“Non voglio più essere David Bowie, voglio diventare solo il cantante dei Tin Machine” dirà con convinzione. Con questo intento e seguendo le orme di nuovi amori musicali (Pixies) e anticipando, perché no, nuove correnti musicali in dirittura d’esplosione, si spinge verso torrenziali blues come l’iniziale ‘Heaven’s In Here’ e la marziale ‘Crack City’ che sembra addirittura citare i Black Sabbath nell’incipit iniziale, anfetaminici hard rock come ‘Sacrifice Yourself’ e il singolo ‘Under The God’, veloci incursioni in territori punk ( ‘Tin Machine’ e ‘Pretty Thing’), senza mai rinnegare buoni esercizi bowiani come ‘Prisoner Of Love’ , la citazione a Warhol in ‘I Can’t Read’ che lo riporta quasi ai livelli eccelsi dei ’70 (“Andy where's my 15 minutes?”) e una rivisitazione di ‘Working Class Hero’ di John Lennon che per l’occasione è rivestita di funk soul acido e corrosivo. Seguiranno ancora TIN MACHINE II (1991) e la testimonianza live di OY VEY, BABY (1992). Poi tornerà a fare DAVID BOWIE a tempo pieno ma sotto altri cieli. Amo questo disco.
CHEAP WINEMary And The Fairy (Cheap Wine Records, 2015) Secondi a nessuno La presenza del loro CRIME STORIES (2002) nel novero dei venti dischi rock italiani da avere, scelti da Federico Guglielmi su queste pagine, potrebbe bastare come buon biglietto da visita e incuriosire chi ancora non li conoscesse. La band dei fratelli Marco e Michele Diamantini arriva anche al prestigioso traguardo dei vent’anni di carriera con il secondo disco dal vivo dopo il doppio STAY ALIVE! (2010). Quello che esce prepotente da questi concentratissimi sessanta minuti di classic rock, registrati durante la data del 30 Aprile al Teatro Sperimentale della loro Pesaro, è la perfetta coesione raggiunta negli anni (in mezzo alle chitarre, in cattedra ci finisce spesso il pianoforte di Alessio Raffaelli) e culminata nella perfezione degli ultimi due album in studio. Anche stavolta troviamo quella voglia di fare musica che non si è mai spenta, né piegata a mode e che mai ha tentato di percorrere le facili scorciatoie del successo. Le canzoni scelte sono solamente otto ma le capacità di riarrangiarle, allungarle (Mary) e farle rivivere le fanno sembrare infinite e senza tempo. Avanti così. Enzo Curelli 8, da Classic Rock #37 (Dicembre 2015) RECENSIONE: CHEAP WINE-Beggar Town (2014) RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
1-WARREN HAYNES-Ashes And Dust (25 voti) 2-KEITH RICHARDS-Crosseyed Heart (Recensione)(18 voti) 3-CHRIS STAPLETON-Traveller (Recensione)(14 voti) 4-RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (Recensione)(13 voti) GANG-Sangue e Cenere 5-CHEAP WINE-Mary And The Fairy (11 voti) 6-JOE ELY-Panhandle Rambler (Recensione)( 9 voti) THE DECEMBERISTS-What a Terrible World...(Recensione) 7-ANDERSON EAST-Delilah (8 voti) 8-BOB DYLAN-Shadows In The Night (Recensione)( 7 voti) BLACKBERRY SMOKE-Holding All The Roses STEVE EARLE-Terraplane (Recensione) LOS LOBOS-Gates Of Gold 9-BUDDY GUY-Born To Play Guitar (Recensione)( 6 voti) THE WATERBOYS-Modern Blues 10-RYAN ADAMS-1989 (Recensione)( 5 voti) NEIL YOUNG-The Monsanto Years (Recensione) 11-THE SONICS-This Is The Sonics ( 4 voti) JESSE MALIN-Outsiders (Recensione) TOM JONES-Long Lost Suitcase (Recensione) 12-DAVE and PHIL ALVIN-Lost Time ( 3 voti) SEASICK STEVE-Sonic Soul Surfer (Recensione) DAVID CORLEY-Available Light PETER CASE-HWY 62 13-BANDITOS-Banditos (Recensione)( 2 voti) BILL FAY-Who Is The Sender? CALIBRO 35-S.p.a.c.e. MOTORHEAD-Bad Magic 14-MARK LANEGAN-Houston (Recensione)(1 voto) FAITH NO MORE-Sol Invictus DAVID GILMOUR-Rattle That Lock- JESSE MALIN-New York Before The War THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (R ANDREA BIGNASCA-Gone CLUTCH-Psychic Warfare HIGH ON FIRE-Luminiferous I MIEI DISCHI 2010 I MIEI DISCHI 2011 I MIEI DISCHI 2012 I MIEI DISCHI 2013 I MIEI DISCHI e PLAYLIST LETTORI 2014 I MIEI DISCHI ITALIANI 2015 I MIEI DISCHI 2015
1-THE SONICS-This Is The Sonics
2-CHRIS STAPLETON-Traveller (Recensione)
3-RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (Recensione)
4-PETER CASE-HWY 62
5-JOE ELY-Panhandle Rambler (Recensione)
6-RAY WYLLIE HUBBARD-The Ruffian's Misfortune
7-BILL FAY-Who is The Sender
8-WARREN HAYNES-Ashes & Dust
9-BUDDY GUY-Born To Play Guitar (Recensione)
10-KEITH RICHARDS-Crosseyed Heart (Recensione)
11-BOB DYLAN-Shadows In The Night (Recensione)
12-RYAN ADAMS-1989 (Recensione)
13-JESSE MALIN-Outsiders (Recensione)
14-BANDITOS-Banditos (Recensione)
15-GARY CLARK JR.-The Story Of Sonny Boy Slim (Recensione)
16-THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (Recensione)
17-GLEN HANSARD-Didn't He Ramble (Recensione)
18-NATHANIEL RATELIFF&THE NIGHT SWEATS
19-MARK LANEGAN-Houston (Recensione)
20-LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (Recensione)
SEASICK STEVE-Sonic Soul Surfer (Recensione) JAMES McMURTRY-Complicated Game FAITH NO MORE-Sol Invictus BLACKBERRY SMOKE-Holding All The Roses THE PROCLAIMERS-Let's Hear It For The Dogs GRAVEYARD-Innocence & Decadence (Recensione) JJ GREY & MOFRO-Ol'Glory (Recensione) MOTORHEAD-Bad Magic NEIL YOUNG-Bluenote Cafe (Recensione) CALEXICO-Edge Of The Sun (Recensione) TOTO-XIV WILLIAM ELLIOTT WHITMORE-Radium Death (Recensione) STEVE EARLE & THE DUKES-Terraplane (Recensione) CLUTCH-Psychic Warfare WILLIE NELSON & MERLE HAGGARD-Django And Jimmie LUCERO-All A Man Should Do (Recensione) DAVE ALVIN And PHIL ALVIN-Lost Time ARMORED SAINT-Win Hands Down RICHIE KOTZEN-Cannibals (Recensione) JACKIE GREENE-Back To Birth (Recensione) GIANT SAND-Heartbreak Pass (Recensione) JESSIE MALIN-New York Before War GRAHAM PARKER AND THE RUMOUR-Mystery Glue THE WATERBOYS-Modern Blues THE DECEMBERISTS-What A Terrible World, What A Beautiful World (Recensione) BENJAMIN CLEMENTINE-At Least For Now LOS LOBOS-Gates Of Gold BILLY GIBBONS-Perfectamundo TOM JONES-Long Lost Suitcase (Recensione) SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY DUKES-Soultime THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND-So Delicious! JASON ISBELL-Something More Than Free (Recensione) ANDERSON EAST-Delilah XAVIER RUDD-Nanna HEYMOONSHAKER-Noir NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (Recensione) DAVID CORLEY-Available Light BOCEPHUS KING-The Illusion Of Permanence DUKE GARWOOD-Heavy Love (Recensione) HAYSEED DIXIE-Hair Down To My Grass (Recensione) EUROPE-War Of King THERAPY?-Disquiet (Recensione) SLAYER-Rapentless DAVID GILMOUR-Rattle Tahat Clock SCORPIONS-Return To Forever JAMES TAYLOR-Before This World GUY DAVIS-Kokomo Kidds IRON MAIDEN-The Book Of Souls THE TURNPIKE TROUBADOURS DANZIG-Skeletons (Recensione) JIMMY LAFAVE-The Night Tribe ALABAMA SHAKES-Sound & Color ROD STEWART-Another Country (Recensione) MARK KNOPFLER-Tracker
GANG-Sangue e Cenere CALIBRO 35-S.P.A.C.E. FRANK GET-Rough Man GIUDA-Speaks Evil CHEAP WINE-Mary And The Fairy THE UNION FREEGO-In Null Komma Nichts VAN CLEEF CONTINENTAL-Unda Maris MIAMI AND THE GROOVERS-The Ghost King EDOARDO BENNATO-Pronti A Salpare IL SINDACO-Come I Cani Davanti Al mare
LUCA ROVINI-La barca Degli Stolti
SLICK STEVE AND THE GANGSTERS-On Parade
FRANCO GIORDANI-Incuintretimp
ME PEK E BARBA-Carta Canta
VIA DEL BLUES-Five By Five
CISCO-Matrimoni e Funerali
BACHI DA PIETRA-Necroide
FRANCESCO DE GREGORI-Amore e Furto, De Gregori Canta Dylan
Il vecchio Danzig (quest'anno sono 60) si pitta come ai tempi dei Misfits, si fa fotografare in copertina rendendo omaggio a PIN UPS di David Bowie (già coverizzato a suo tempo con 'Cat People') e soffia sulla polvere del vecchio giradischi dimenticato in cantina. SKELETONS è l’omaggio alla musica con cui è cresciuto e quella che ha portato avanti e suonato in carriera, dal punk all’heavy blues fino alle derive industrial. Un disco pronto da anni ma che da quell’armadio non voleva uscire, e sembra che ci sia un disco intero con cover di Elvis Presley già pronto da qualche altra parte, si intitolerà semplicemente DANZIG SINGS ELVIS. Dieci cover pescate dai personali ricordi che cercano di ripercorrere le impronte della sua vita da ascoltatore, molto prima che i Misfits prendessero forma. Dagli immancabili omaggi a Elvis Presley, appunto, con ‘Let Yourself Go’e Black Sabbath (‘N.I.B.’), ai più curiosi ripescaggi dalle colonne sonore di due road movie di fine anni sessanta come Devil’s Angels e Satan Sadist. Gli anni sessanta e il garage rock di The Troggs (‘A Girl Like You’), The Rascals (‘Find Somebody’) e The Litter (‘Action Woman’) la fanno da padrone. Meno convenzionali le cover di ZZ Top (Rough Boy), l’unica presa dagli anni ottanta, Aerosmith (‘Lord Of The Thigs’) e il curiosissimo finale affidato agli Everly Brothers di ‘Crying In The Rain’. La produzione è spesso sporca (volutamente?), a tratti confusa, ma i musicisti che lo accompagnano sono di prim’ordine: dall’ormai fido Tommy Victor (Prong) a Johnny Kelly (Type O Negative). Ci si diverte, ma ovviamente è tutta roba (solo) per fan, come si dice.
Vuoi stare al gioco da "musicofilo" più abusato, amato e odiato di fine anno? La famigerata classifica dei dischi? Anche quest'anno il mio blog ci riprova, dopo il trionfo di Lucinda Williams dell'anno scorso. E' tutto molto semplice: guarda alla destra dello schermo mentre sei nel mio blog, in qualunque pagina o post, troverai un elenco di dischi (sono stati scelti da me, e rappresentano un campione dei miei ascolti, se proprio non trovi il "tuo disco dell'anno"-ed è molto probabile, lo spazio è quello che è, il tempo meno ancora, i gusti sono molto personali- puoi lasciarlo scritto nei commenti di questo post), spunta il disco (o i dischi, si possono mettere più preferenze) e clicca sul tasto "voto". Fatto? Bene. Ti stanno sul cazzo queste inutili classifiche di fine anno? Bene. Hai tempo fino al 31/12/2015 per cambiare idea. Poi tutto sarà finito, ancora una volta, giuro! Buon voto, buone feste!
Ehi…ma la storia di Caterino la conosci? No. Chi è? E che nome è Caterino? Ma sì, lo spettatore che a Padova nel 2013 è salito sul palco con Springsteen. Aveva un cartello con scritto “ suono la washboard”. Springsteen l’ha letto e l’ha fatto salire su. Ha suonato tutta ‘Pay Me My Money Down’ con la E Street Band. L’unico fan di Springsteen al mondo che è riuscito a suonare una canzone intera sopra ad un palco con Bruce. Non ci credo…... Ero lì, sono pure riuscito a fare una foto, e poi cerca su Youtube. Ci sono i video. Tanti video. CATERINO DIVENTA IL NOSTRO piccolo IDOLO della porta accanto. Luglio 2015, Buscadero Day. C’è anche Caterino con i suoi FIREPLACES (Carlo Marchiori, Marco Quagliato, Oliviero Lucato, Luca Martello, Devis Battisti, Francesco Mattarello, Francesco Morosin). Eleggiamo il concerto dei caminetti il più divertente della giornata. Glielo comunichiamo a fine concerto. Finalmente ci si conosce. Tornato a casa scrivo due righe: “mi alzo per i Fireplaces di Caterino Washboard Riccardi, uno che ha trasformato i famosi quindici minuti di popolarità (ormai sapete tutti in quale palco è salito munito di washboard, vero?) in una buona opportunità per far girare la sua musica. Il gruppo, che per l'occasione è arricchito dalla chitarra di Anthony Basso (W.i.n.d.), è un ruspante trattore di campagna che ara i campi del rock'n'roll/folk/blues, sì rock'n'roll/folk/blues può andare: chitarre e chitarristi molto seventies, attitudine da bluegrass band di campagna e Caterino che dirige i suoi "caminetti" come un piccolo Boss del Brenta. La dedica del brano ‘Shelter From The Storm’ (anche titolo del loro CD) ai poveri alluvionati vittime del recentissimo uragano che ha colpito il Veneto fa loro onore”. Dopo il concerto compriamo il CD dei Fireplaces (comprate anche voi il Cd dei Fireplaces!), e scopriamo che i soldi saranno devoluti in beneficenza. Doppio onore. Ora…tutto il resto non ve lo svelo. Vi dico solo che a Montichiari sono stati fantastici!
ROD STEWART Another Country (Capitol Records, 2005)
In alto gli scudi
Ha
ancora un senso parlare di un nuovo disco di Rod Stewart in una rivista
prettamente rock? Mi prendo le mie responsabilità e rispondo: sì! A patto che
non cerchiate le chitarre, quelle le dosa nei live e la recente reunion di
settembre con quel che resta dei Faces è li a dimostrarlo. ANOTHER COUNTRY è il
fratello del precedente TIME, figli dell’autobiografia uscita nel 2012. Facendo
ordine a pensieri e ricordi, è tornata la voglia di musicarne qualcuno (insieme
a Kevin Savigar), mettendo la parola fine alla saga GREAT AMERICAN SONGBOOK.
Non tutto è perfetto: certi ammiccamenti a MTV sono sempre presenti (Walking In The Sunshine) e l'ingenuità
di alcuni testi fa sorridere: l’inno calcistico per gli amati Celtic (We Can Win), la ninnananna dedicata al
figlio (Batman Superman Spiderman).
Ma quando tira fuori le vecchie origini scottish nei folk cromati pop (Hold The Line, The Drinking Song) e la
voce (con falsetto) nel riuscito numero soul Please dimostra che a 70 anni è ancora quell'interprete rock (sì,
rock) che abbiamo sempre amato. Enzo Curelli 6 da Classic Rock #37 (Dicembre 2015)
Vecchi si nasce. Vecchi si muore?
C'è un piccolo sticker attaccato alla confezione del Cd che recita: "Classic rock with a modern roll". Potrebbe essere un buono slogan per la rivista che tenete in mano, ma lo è anche per descrivere la musica di questi quattro ragazzi svedesi cresciuti a Göteborg e arrivati al traguardo del quarto disco (il migliore rimane HISINGEN BLUES del 2011, n.1 nelle classifiche in di madrepatria), sfornato a tre anni di distanza dall'egualmente apprezzato LIGHT OUT. C'è anche un altro modo per descrivere il loro stile, ovvero: gli anni d'oro del rock, risuonati con il giusto piglio moderno. La stessa definizione d'altronde andrebbe bene anche per alcune band che con questi svedesi dividono ben più che la stessa etichetta, una Nuclear Blast da sempre paladina del metal estremo, ma che oggi i soldi di chi ancora compra i dischi li sta facendo con Blue Pills, Orchid, Kadavar e The Vintage Caravan. I Graveyard sono hippie fuori tempo, non inventano nulla, aggiungono freschezza, malinconia e onoricità scandinava alle lezioni del caldo vintage rock. Potrete anche divertirvi nello scovare i tanti punti di riferimento: Black Sabbath e Led Zeppelin su tutti, ma anche l'apertura di hard acido alla Uriah Heep di Magneic Shunk o il blues hendrixiano di The Apple & The Tree, e pare quasi tangibile il desiderio di Joakim Nilsson (voce e chitarra) di rompere le barriere del tempo e ritrovarsi in un pub a suonare insieme ai Taste di Rory Gallagher o ai Wishbone Ash (come altro si potrebbe spiegare l'ispirazione che ha dato il via alla scrittura di Exit 97?). Che i continui rimandi al passato possano alla lunga annoiare è il rischio che i quattro sono pronti a correre, perché, dalla loro parte, hanno tutta l'energia e l'amore per quei suoni (Can't Walk Out è un prezioso compendio in questo senso) che sopperisce laddove l'ispirazione non è all'altezza del passato.
Poi però arriva Too Much Is Not Enough, che scomoda Jeff Buckley, e ogni critica viene smontata in un attimo e la macchina del tempo sembra di nuovo funzionare alla perfezione. C'è tanta varietà in queste undici tracce, ma ora ci aspettiamo il colpo di classe. Sono sicuro che Nilsson e soci possano regalarcelo in futuro.
Enzo Curelli e Jacopo Meille, voto 7 da Classic Rock # 36 (Novembre 2015)
GARY CLARK JR.The Story Of Sonny Boy Slim (Warner Bros, 2015)
La prova del nove
Il texano Gary Clark Jr. sembra non volersi rinchiudere in nessuna gabbia nonostante il paragone con Jimi Hendrix pare comparire troppo spesso e fuorviare la realtà. Dopo gli EP d'esordio, il primo solista BLAK AND BLU (2012) e l'album LIVE (la sua dimensione ideale), la seconda prova in studio lo conferma come un cuoco di black music a 360 gradi. Nel pentolone bollente e speziato c'è di tutto: blues (The Healing), rock (Grinder), folk che affonda le radici nel gospel (Our Love), soul (Church, Hold On), funk (Star), hip hop (Down To Ride) e i gli umori sixties della saltellante e chitarristica Shake. Un po' Prince, un po' il primo e migliore Lenny Kravitz, un po' Sly Stone e soprattutto tanto rispetto per i vecchi padri del blues. Chitarrista sì ma anche buon autore (le 13 canzoni sono un concept autobiografico) e cantante con un prodigioso falsetto. Per qualcuno potrà essere troppe cose insieme. Ma lui fa dannatamente tutto bene! Nessun limite sembra il suo mantra...e come canta in Healing: la musica è la sua guarigione. Enzo Curelli 7
da Classic Rock #36 (Novembre 2015)
CALIBRO 35, live @ Latteria Molloy, Brescia, 21 Novembre 2015
Con il pianeta terra ricaduto all' altezza dei minimi storici, la nuova navicella spaziale dei CALIBRO 35 promette e mantiene un giro nello spazio inesplorato alla ricerca di posti migliori. Fuga in cerca d'evasione. Anche se per sole due ore, la vecchia Alfa Nuova Giulia grigia che girava, sgommando, per Milano negli anni '70 (Notte in Bovisa) mette i booster e vaga nello spazio a suon di space, rock, prog, funk e jazz. L'equipaggio è il solito: l'affidabile Massimo Martellotta alle chitarre, l'istrionico Enrico Gabrielli alle tastiere e fiati, il preciso Fabio Rondanini alla batteria, il marziano Luca Cavina al basso e l'uomo invisibile Tommaso Colliva in sala comando. Banditi su Marte, oggi. Alle vecchie canzoni si aggiungono le nuove del fresco S.P.A.C.E., disco registrato nei famosi Toe Rag Studios di Londra come fosse un film di fantascienza. Missione compiuta. Band avvistata nell' orbita della Latteria Molloy (sold out per l'occasione) ma ancora irraggiungibile.
NEIL YOUNG AND THE BLUENOTE CAFE’ Bluenote Cafè (Reprise, 2015)
La storia che si cela dietro a Bluenote Cafè, undicesimo capitolo degli archivi, riassume in tutto e per tutto i travagliati, ma sempre da riscoprire, anni ottanta di Neil Young. Questo doppio live, contenente numerose tracce mai pubblicate prima in nessun disco (tra cui Welcome To The Big Room, Doghouse, Bad News Comes To Town, Crime Of The Heart) sarebbe dovuto uscire esattamente quando fu registrato: dopo le numerose tappe del tour a supporto di This Note's For You (1988), tra novembre del 1987 e l'agosto del 1988. Il progetto era già a buon punto, poi tutto naufragò come spesso è successo nella sua carriera. "C'era un cambiamento in arrivo. Lo percepivo nelle ossa. Ero in tour con i Crazy Horse in America e suonavamo su palchi all'aperto in posti denominati Sheds, rimesse, luoghi da concerto molto in voga all'epoca. La prima parte della performance era acustica, poi diventava elettrica, ma nella parte centrale c'era una sezione di nuova musica che, in privato chiamavo Blue Horse...Nell'autunno del 1987 i Blue Horse-questo era il nome che usavamo fra di noi-furono presentati per la prima volta come The Bluenotes. Avevamo una sezione fiati molto funky e soul che mi era stata portata da Billy Talbot". Così Neil Young, in Special Deluxe (fresco di stampa qui in Italia), presenta la genesi che porterà all'incisione del disco live, poi messo da parte ("troppo bello per essere pubblicato", fu la finta scusa) appena la Geffen ritirò la causa contro Neil Young-non stava facendo dischi alla Neil Young gli fu accusato-lasciandolo libero di tornare alla Reprise e incidere un nuovo disco in studio che sarà appunto This Note's For You, album che, ancora una volta, segnerà un netto cambio di direzione musicale, esattamente come lo furono i precedenti Trans (1982), Everybody's Rockin' (1983), Old Ways (1985), Landing On Water (1986) e Life (1987). This Note's For You pur presentando un Neil Young ancora una volta inedito, completamente immerso nel soul e nel blues, sulle vie tracciate dai suoi eroi blues con Jimmy Reed in testa, addirittura trasformato in una sorta di nuovo personaggio, tale Shakey Deal estrapolato da un ipotetico film girato nella sua testa e che mai vide lo schermo. This Note's For You ebbe il merito di riportarlo sulla retta via della musica sanguigna e calda, lontana dalla freddezza di shynth e vocoder, e dai dischi costruiti per ripicca e di getto, nonostante tra i maggiori pregi spicchi proprio la spontaneità. Anche se non tutto quadrava ancora per il meglio, Neil Young è in una fase creativa fruttuosa che lo consegnerà agli anni novanta in grandissima forma. Come già successe per Old Ways che venne rivalutato molti anni dopo grazie alle performance live contenute in A Treasure (2011), anche qui tutto ciò che su disco sembrava non andare (le accuse maggiori furono quelle di essere troppo levigato e poco rock) durante i live acquistava forza e vigore e la chitarra di Young graffia, affonda e allunga come ai vecchi tempi, pur se attorno si trova una schiera di trombe, tromboni, sax e non i fidi Crazy Horse, che in verità, inizialmente, dovevano essere della partita. Rimarrà solo Sampedro alle tastiere. "Avevo anche dei problemi con i ragazzi dei Crazy Horse, Billy e Ralph. Li adoro, ma non funzionava o forse sì, ma non riuscivo a rendermene conto. Forse non capivo. Per una qualche ragione la band non girava, così iniziai a rimescolarla un po'..."
I sette minuti della cavalcata Crime In The City, e This Note's For You, un ironico attacco agli sponsor commerciali che, grazie al videoclip, trovò prima la censura di Mtv e poi il trionfo (portato dalla stessa Mtv), sono l'esempio più vigoroso e rock. Mentre il testo di Ten Men Workin' è il manifesto programmatico dei Bluenotes (sei fiati più Rick Rosas al basso, Chad Cromwell alla batteria e Frank Sampedro alle tastiere), Life In The City è un triste dipinto del degrado americano e un megafono per tutti i senzatetto delle grandi città. Il ripescaggio e il rivestimento soul della vecchia On The Way Home (Buffalo Springfield) e della vecchissima Hello Lonely Woman, risalente addirittura ai tempi degli Squires, primo gruppo del canadese, sono ottimi. e lasciano il segno.Neil Young e la sua big band sono un fiume inarrestabile: nella ballata di dodici minuti Ordinary People, canzone che vedrà la luce solamente in Chrome Dreams II dove si allungherà arrivando a toccare i diciotto minuti, nella notturna, jazzata e vanmorrisoniana One Thing, nell'ipnoticità oscura di Twilight, ma soprattutto nei venti minuti finali di Tonight's The Night che raggiunge vette epiche, unica vera concessione ai suoi grandi successi del passato e biglietto da visita che pochi possono concedersi. Peccato sia l'unico pezzo storico che ha goduto di questo rivestimento R&B. "Fu un gran periodo, con la musica che scorreva e la big band che suonava ogni sera".
Io non posso che ripetere: è un gran disco, con la musica che scorre e la big band che suona alla grande. Il periodo è tutto da rivalutare e queste 24 canzoni ci aiutano a farlo, senza sforzi e in modo piacevole. Gli archivi continuano a confermarsi uno scrigno d'oro. Senza fondo.
voto 8
tutte le parole di Neil Young sono trattie da: Neil Young, Special Deluxe-Racconti di vita e di automobili (Feltrinelli, 2015)
Dopo la lunga nottata di venerdi passata con la Tv accesa, e un sabato di rispettoso silenzio, tornare davanti ad un palco era la cosa buona e giusta da fare. In qualche modo si continua a vivere. Mi fermo qui: in questi giorni ho letto di tutto e di più. Il palco scelto è quello del l LOVE COCAINE, locale di Montichiari dall 'architettura assolutamente da scoprire (così come la scelta del nome, non pensate subito male: c'è un progetto dietro) dove si mangia e beve bene. Da qualche mese ha aggiunto una programmazione live interessante e non banale, un palco come si deve e un' acustica da paura. Vi presento gli HEYMOONSHAKER, un duo di Londra, nato casualmente nella lontana Nuova Zelanda, cresciuto in giro per le strade del mondo ma che probabilmente è ancora senza fissa dimora visto le numerose date già fissate. Girano con due chitarre, un ampli Orange, due microfoni e tanto affiatamento complice. Questo è tutto. Andy Balcon alla voce e chitarra (dobro e elettrica) e Dave Crowe, vero e proprio campionatore di suoni umano e un piglio da cabarettista in grado di tenere alta la tensione dello show, durato un'ora e mezza. Lo spettacolo che offrono è una riuscitissima commistione tra il vecchio blues delle radici a cui si aggiunge la voce calda, profonda e graffiante dell' introverso Balcon e la modernità (vecchia come il mondo) del beatboxing creato dalla bocca di fuoco dell'estroverso Crowe. Qualcosa di assolutamente unico che superata la diffidenza iniziale è capace di catalizzare l'attenzione e farti anche ballare, grazie alla capacità di coinvolgere il pubblico, frutto del loro passato ma anche presente da busker. Hanno presentato il loro ultimo lavoro in studio NOIR, e dire che è pieno di belle canzoni (tutte originali tranne quella 'Coz I Luv You' degli Slade) non basta a rendere l'idea, quindi se vi capitano sotto tiro dal vivo, il consiglio è quello di non perderli. Tenere in piedi il tavolo di uno spettacolo così, con sole due gambe non è da tutti. Loro lo chiamano beatbox blues, io lo chiamo grande talento (con quella sana spavalderia giovanile che non guasta mai).
Il disco rappresentativo di ZAKK WYLDE? Non ho dubbi nel puntare tutto su questo debutto solista sotto mentite spoglie. Durante una pausa dal sempre impegnativo ruolo di chitarrista per Ozzy Osbourne (suonò già su NO REST FOR THE WICKED e NO MORE TEARS), il biondo vichingo del New Jersey, allora ventisettenne, mise in piedi questo primo progetto con il bassista James Lomenzo (White Lion, Megadeth e visto recentemente in tour con John Fogerty) e il batterista Brian Tichy, subentrato a Greg D'Angelo. La vena compositiva del musicista Wylde, la sua Les Paul sempre in primo piano ma mai troppo debordante nel dettare il groove e negli assoli, e le doti vocali, non certo da sottovalutare, sono al loro massimo splendore, prima che il progetto Black Label Society, tra alti e basse ripetizioni, spazzi via tutto come un pesante carrarmato in discesa e la sua voce cerchi di scimmiottare Osbourne senza mai più raggiungere queste vette. PRIDE GLORY strizzava fortemente l'occhio al southern rock dei settanta in 'Losin' Your Mind' aperta da un banjo e in 'Cry Me A River' che sembra viaggiare sulle stesse strade dei CCR, si buttava a capofitto dentro a dei blues travestiti e torridissimi, tirati verso il basso da palle d'acciaio penzolanti da grosse catene di metallo pesante e arrugginito ('Horse Called War', 'Shine On', 'Toe'N Line', 'Machine Gun Man' spalanca le porte ai futuri BLS), ballate strappabudella ('Found A Friend' e le pianistiche 'Sweet Jesus' e 'Fadin Away') e country ('Lovin' Woman' e la scherzosa 'Hate Your Guts'). Fiero, reale e cazzuto come pochi. Da avere assolutamente. Peccato sia rimasto un progetto isolato, anche se rimasugli li possiamo trovare in alcuni dischi successivi: ZAKK WYLDE, Book Of Shadows e BLACK LABEL SOCIETY, Hangover Music Vol.VI su tutti.
La ristampa in CD contiene cinque bonus tracks tra cui le cover di: 'The Wizard' (Uriah Heep), 'In My Time Of Dyin' (Led Zeppelin) e 'Come Togheter' (The Beatles).
p.s. Comprai il CD lo stesso giorno dell'uscita, il giorno dopo lo riportai al negoziante. Per qualche misterioso motivo non girava nel lettore. Lo sostituii con qualcos'altro. Pride & Glory lo ascoltai per la prima volta quando l'uragano del progetto BLACK LABEL SOCIETY aveva già inghiottito Wylde.