CLUTCH Earth Rocker ( Weathermaker Music , 2013)
Quando si scrive Clutch, si legge spesso "sottovalutati". Triste ma vero, provare per credere. Per una band che da anni continua a sfornare dischi di altissimo livello dando risalto solo ed esclusivamente alla musica, lasciando in un angolo polveroso l'aspetto più epidermico del music business a favore del lato sudicio, fangoso e spontaneo, ben rappresentato dal look trasandato del barbuto e bizzarro cantante Neil Fallon, il tutto può anche rappresentare un valore aggiunto e di distinzione. Una presa di distanza da tutto quello che ha poco a che vedere con la musica e nell'iniziale Earth Rocker, Fallon lo ribadisce, indossando una delle sue tante voci, con proclami recitati con l'ugola da orco cattivo. Dalle parti di Germantown nel Maryland hanno sempre dato importanza a strumenti e amplificatori, e Earth Rocker non si sposta di una virgola dal terroso humus da cui nascono le loro canzoni e da dove sono spuntati e cresciuti i loro devoti fan, soprattutto in patria. E' sempre stato difficile etichettare la loro proposta: si è spesso scomodato lo stoner rock, ma un semplice e vetusto termine come "rock blues" lo trovo meno limitante e più aperto a contenere le numerose radici musicali che riescono a seminare con disordinata cura ma anche a strappare con forza bruta quando necessario. Si ascolti l'hard boogie ad alto testosterone di Cyborg Bette, con la sezione ritmica (Dan Maines al basso e Jean-Paul Gaster alla batteria) che scalcia sederi a ripetizione per farsi largo o il veloce attacco di belligerante punk' n' roll di Unto The Breach, quasi motorheadiana nella sua urgenza. Non un caso fortuito che proprio con i Motorhead (e Thin Lizzy) hanno diviso i palchi ultimamente.
Sempre fuori moda ma eternamente sempre sul pezzo. Veri, sia quando seguono le strade del blues, quello lento, gelido, nero e fumoso di Gone Cold con la voce di Fallon che sembra entrarti nell'anima e strapparti il cuore con spietata freddezza; quello hard, caldo, più feroce con tanto di armonica di DC Sound Attack!; e il lato psichedelico ben presente e contaminante in Oh Isabella, solidale e a pari passo con i possenti riff che la sorreggono.
Complessivamente, tutto l'album preferisce la fase di attacco. Uno dei loro album (il decimo) più aggressivi in carriera. Heavy e spietati in Crucial Velocity, pieni di groove nella cadenzata pesantezza di The Face, tambureggianti nell'inizio di Book, Saddle & Go che precede un hard blues che pare nascere dai tizzoni (h)ardenti del fuoco hendrixiano con il chitarrista Tim Sult grande protagonista, così come nella pesante The Wolf Man Kindly Request...con il suo veloce, fuzzy e rutilante break centrale a ricordare quanto i Clutch siano una jam band nata per stare sopra i palchi, e Earth Rocker non aspetta altro che sprigionare ulteriore forza in viaggio sulle strade.
vedi anche RECENSIONE: HOGJAW- Sons Of The Western SkIes (2012)
vedi anche RECENSIONE: SUICIDAL TENDENCIES-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In my Blood (2013)
venerdì 26 aprile 2013
martedì 23 aprile 2013
RECENSIONE:THOM CHACON (Thom Cachon)
THOM CHACON Thom Chacon ( Pie Records, 2013)
Se cercate novità rivoluzionarie in campo musicale dalle canzoni di Thom Cachon, statene pure alla larga. Se invece amate la continuità di quel suono folk/rock americano, ombroso e ridotto all'osso, raccolto sotto l'ormai onnipresente termine Americana, che partendo da Dylan, tocca John Prine, arriva a Steve Earle, John Mellencamp, allo Springsteen acustico e minimalista, fino ai giorni nostri ben rappresentati dai defilati Chris Knight e Hayes Carll e dal più celebrato Ryan Bingham di Junky Star, allora sì, un ascolto al terzo disco di questo ragazzo nato a Sacramento, ma proveniente dalle montagne di Durango, Colorado, potete anche darlo. Ma anche le ombre di songwriters di frontiera come Joe Ely e Tom Russell affiorano tra le note di sole, sabbia, acqua, fuga, libertà, banditi e stelle luminose di Bus Drivin' Blues e Juarez, Mexico. "Riesco a vedere attraverso la frontiera fino a El Paso/posso sentire la musica risuonare/la gente che ride nella notte/dove mi trovo è buio/E il fiume rosso scorre/sono bloccato qui a Juarez, Messico/Questa notte starò vicino all'acqua/dormirò con un occhio chiuso e il mio dito sul grilletto e l'altro intorno ad una rosa/ho dei progetti per noi per lasciare questo posto".
Se poi, per voi, tutto quello che tocca Dylan, anche indirettamente, è oro che luccica, sappiate che sul terzo disco di Thom Chacon ci suona anche la sezione ritmica che accompagna il "vecchio" Bob nel suo Never Ending Tour, ossia gli inossidabili Tony Garnier al basso e George Recile alla batteria, a cui si aggiunge Arlan Schierbaum (John Hiatt, Joe Bonamassa, Richie Kotzen) alle tastiere. Senza dimenticare il suo DNA (metà libanese e metà messicano) e la parentela con il pugile Bobby Chacon, che ispirò il suo precedente disco assai più "rockista" Featherweight Fighter, nonchè avversario di quel Ray "Boom Boom" Mancini cantato da Warren Zevon.
Le prime coordinate sono queste, al resto ci pensano una voce adulta, vissuta, spezzata e profonda, ben caratterizzante e canzoni che in alcuni casi riescono a stenderti al primo ascolto come il singolo American Dream ha fatto con me fin da subito. Una canzone che si lascia ascoltare in continuazione pur nella sua esigua durata e sconcertante semplicità melodica che supera di poco i due minuti. A conquistarmi è il suono acustico, secco, asciutto, senza fronzoli, solo chitarra, drum and bass che mi riporta all'urgenza dylaniana di un album come John Wesley Harding. Rievocazione di antichi fantasmi che Chacon deve aver incontrato e ascoltato all'infinito, riuscendo a a metabolizzare, e facendone il verso in modo magistrale, aggiungendoci buona e sana freschezza compositiva. E non importa se i suoi testi hanno poco da spartire con le complicate parabole bibliche che costruivano quel lontano capolavoro del 1967, mentre lui parla dell'ennesima delusione di un sogno americano che di avverarsi ha sempre poca voglia e preferirebbe vederti morto piuttosto che vivo. I fantasmi "buoni" del passato, di nero vestiti, che ha inseguito anche suonando alla Folsom Prison, ad inizio carriera, cercando, trovandolo, un battesimo che desse forza e coordinate sane e giuste alla sua futura carriera. "Un'esperienza che mi ha cambiato la vita" dice.
Poca luce nelle sue canzoni, a rispecchiare fedelmente questi hard times. Ritratti poetici, scuri, dolenti, con l'occhio che ogni tanto si allunga verso la disperazione, nella ricerca della redenzione come succede in Innocent Man (vera storia del condannato "innocente" Anthony Graves) e A Life Beyond Here, elettro-acustici sorretti da chitarra e armonica.
Quando i tempi duri sono falsi consiglieri, ci si aggrappa a tutto: e si cade nei più facili degli abissi in cui l'uomo può scivolare, "ho perso gli amici/e anche tutto il denaro se ne andato/sto male, ho i brividi di freddo/non voglio niente di più che trascorrere tutto il tempo con te/Alcohol" in Alcohol, oppure si puntano gli occhi al cielo e si prega "quando sei giù è difficile vedere una luna scura splendere tra gli alberi...lo so che è difficile/sei sconsolato e sfregiato/lo so che sei debole/ma con Dio dalla tua parte puoi riuscirci/più nessun problema e nessuna paura" canta nella scarna essenzialità acustica di No More Trouble.
Thom Chacon è un innovatore della continuità. Suoni roots che non cercano i colpi ad effetto, buon seguace di tradizioni solide, dure a morire e megafono mai troppo invasivo ma sempre acceso per dar voce agli ultimi (Grant Country Side), quelli che cercano ancora le risposte tra le acque del grande fiume (Big River con Bess Chacon) e il vento che soffia in superficie, scompigliando i capelli dell'America più profonda e nascosta.
vedi anche RECENSIONE: CHRIS KNIGHT-Little Victories (2012)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)
Se cercate novità rivoluzionarie in campo musicale dalle canzoni di Thom Cachon, statene pure alla larga. Se invece amate la continuità di quel suono folk/rock americano, ombroso e ridotto all'osso, raccolto sotto l'ormai onnipresente termine Americana, che partendo da Dylan, tocca John Prine, arriva a Steve Earle, John Mellencamp, allo Springsteen acustico e minimalista, fino ai giorni nostri ben rappresentati dai defilati Chris Knight e Hayes Carll e dal più celebrato Ryan Bingham di Junky Star, allora sì, un ascolto al terzo disco di questo ragazzo nato a Sacramento, ma proveniente dalle montagne di Durango, Colorado, potete anche darlo. Ma anche le ombre di songwriters di frontiera come Joe Ely e Tom Russell affiorano tra le note di sole, sabbia, acqua, fuga, libertà, banditi e stelle luminose di Bus Drivin' Blues e Juarez, Mexico. "Riesco a vedere attraverso la frontiera fino a El Paso/posso sentire la musica risuonare/la gente che ride nella notte/dove mi trovo è buio/E il fiume rosso scorre/sono bloccato qui a Juarez, Messico/Questa notte starò vicino all'acqua/dormirò con un occhio chiuso e il mio dito sul grilletto e l'altro intorno ad una rosa/ho dei progetti per noi per lasciare questo posto".
Se poi, per voi, tutto quello che tocca Dylan, anche indirettamente, è oro che luccica, sappiate che sul terzo disco di Thom Chacon ci suona anche la sezione ritmica che accompagna il "vecchio" Bob nel suo Never Ending Tour, ossia gli inossidabili Tony Garnier al basso e George Recile alla batteria, a cui si aggiunge Arlan Schierbaum (John Hiatt, Joe Bonamassa, Richie Kotzen) alle tastiere. Senza dimenticare il suo DNA (metà libanese e metà messicano) e la parentela con il pugile Bobby Chacon, che ispirò il suo precedente disco assai più "rockista" Featherweight Fighter, nonchè avversario di quel Ray "Boom Boom" Mancini cantato da Warren Zevon.
Le prime coordinate sono queste, al resto ci pensano una voce adulta, vissuta, spezzata e profonda, ben caratterizzante e canzoni che in alcuni casi riescono a stenderti al primo ascolto come il singolo American Dream ha fatto con me fin da subito. Una canzone che si lascia ascoltare in continuazione pur nella sua esigua durata e sconcertante semplicità melodica che supera di poco i due minuti. A conquistarmi è il suono acustico, secco, asciutto, senza fronzoli, solo chitarra, drum and bass che mi riporta all'urgenza dylaniana di un album come John Wesley Harding. Rievocazione di antichi fantasmi che Chacon deve aver incontrato e ascoltato all'infinito, riuscendo a a metabolizzare, e facendone il verso in modo magistrale, aggiungendoci buona e sana freschezza compositiva. E non importa se i suoi testi hanno poco da spartire con le complicate parabole bibliche che costruivano quel lontano capolavoro del 1967, mentre lui parla dell'ennesima delusione di un sogno americano che di avverarsi ha sempre poca voglia e preferirebbe vederti morto piuttosto che vivo. I fantasmi "buoni" del passato, di nero vestiti, che ha inseguito anche suonando alla Folsom Prison, ad inizio carriera, cercando, trovandolo, un battesimo che desse forza e coordinate sane e giuste alla sua futura carriera. "Un'esperienza che mi ha cambiato la vita" dice.
Poca luce nelle sue canzoni, a rispecchiare fedelmente questi hard times. Ritratti poetici, scuri, dolenti, con l'occhio che ogni tanto si allunga verso la disperazione, nella ricerca della redenzione come succede in Innocent Man (vera storia del condannato "innocente" Anthony Graves) e A Life Beyond Here, elettro-acustici sorretti da chitarra e armonica.
Quando i tempi duri sono falsi consiglieri, ci si aggrappa a tutto: e si cade nei più facili degli abissi in cui l'uomo può scivolare, "ho perso gli amici/e anche tutto il denaro se ne andato/sto male, ho i brividi di freddo/non voglio niente di più che trascorrere tutto il tempo con te/Alcohol" in Alcohol, oppure si puntano gli occhi al cielo e si prega "quando sei giù è difficile vedere una luna scura splendere tra gli alberi...lo so che è difficile/sei sconsolato e sfregiato/lo so che sei debole/ma con Dio dalla tua parte puoi riuscirci/più nessun problema e nessuna paura" canta nella scarna essenzialità acustica di No More Trouble.
Thom Chacon è un innovatore della continuità. Suoni roots che non cercano i colpi ad effetto, buon seguace di tradizioni solide, dure a morire e megafono mai troppo invasivo ma sempre acceso per dar voce agli ultimi (Grant Country Side), quelli che cercano ancora le risposte tra le acque del grande fiume (Big River con Bess Chacon) e il vento che soffia in superficie, scompigliando i capelli dell'America più profonda e nascosta.
vedi anche RECENSIONE: CHRIS KNIGHT-Little Victories (2012)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)
venerdì 19 aprile 2013
RECENSIONE:STEVE EARLE & THE DUKES ( & DUCHESSES ) (The Low Highway)
STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES) The Low Highway ( New West Records, 2013)
"C'è qualcosa di strano quando una persona guida la macchina mentre tutti gli altri sognano con le loro vite affidate alla sua mano ferma, qualcosa di nobile, qualcosa di antico nella sua umanità, una sorta di antica fiducia nel Buon Vecchio Amico." Jack Kerouac
Lasciamoci tranquillamente guidare da un "autista della vita" come Steve Earle, che conosce la strada molto bene, anche se in passato ha sbandato, rischiando di andare fuori carreggiata e compromettere il viaggio fin troppo in fretta. Ma proprio gli incidenti di percorso lo rendono, oggi, consapevole e affidabile. Un saggio dalla lunga barba ascetica e cappellaccio calato in testa di cui fidarsi ad occhi chiusi e orecchie sempre aperte. Il Buon Vecchio Amico che cerchiamo, in grado di raccontare storie che ti rivoltano la pelle, ti fanno pensare, ma anche sognare. Consapevolezza del proprio passato e degli errori fatti che sembra uscire dalle liriche della confessionale Pocket Full Of Rain, adagiate su un tappeto di pianoforte che accompagna un lento boogie da fine serata sonnolenta con un sussulto improvviso a darti la sveglia. "Mi ricordo ancora quando ero solito uccidere il dolore, ma mi svegliavo ogni mattina con una manciata di pioggia".
Il quindicesimo album di Steve Earle non delude anche se sai già cosa ti aspetta, perchè, in fondo le strade sono sempre quelle, magari percorse centinaia di volte ma con il fascino sempre intatto della prima volta. "Ho percorso ogni singola strada che attraversa gli Stati Uniti e non mi sono mai stancato dello spettacolo. Ho visto un bel po' di mondo e il mio passaporto consumato è una delle cose più preziose che ho, ma per me, non c'è niente come la prima notte di un viaggio nel Nord America", racconta Earle nella presentazione del disco che inaugura il libretto.
L'ultima uscita discografica I'll Never Get Out Of This World Alive (2011) parlava di viaggi molto più tristi e ultraterreni, segnata profondamente dalla perdita del padre e dalla placida uniformità musicale di fondo. Questa volta le scorribande puzzano di copertoni fumanti su asfalto bollente, gasolio perso lungo la strada, paesaggi fantasmi, emarginazione sociale e fantasmi in carne ed ossa a bordo strada, ricordi immaturi di una infanzia trascorsa tra la middle class americana (Burnin' It Down, quasi cajun con la contagiosa fisarmonica), e un tenerissimo passaggio di consegne alle future generazioni quello cantato in compagnia di una spoglia chitarra folk che ricama sopra alla steel guitar nella conclusiva Remember Me. Il tutto accompagnato da tiepido cibo americano a sfamare durante le soste, e spalmato su una maggiore varietà musicale.
"Tutti quanti, band e compagnia al completo, ammassati in macchina, mangiando il pollo piccante di Nashville e il formaggio al peperoncino fatto in casa di Betty Herbert, raccontandosi sempre le stesse vecchie storie ad alta voce per via del continuo sferragliare e ronzare delle auto sulla strada. E sono sempre io il primo a dire buonanotte all'autista Charlie Quick e a rinchiudermi in cuccetta. Perché per me è come la notte della vigilia quando ancora credevo a Babbo Natale. Dio, come amo tutto questo".
Potrebbero bastare le parole di Earle a presentazione del disco per dipingere il quadro sincero e veritiero (compreso un sentito ringraziamento ai suoi fan) su cui si posano queste nuove 12 canzoni che riportano il nome dei Dukes in copertina ( Chris Masterson alle chitarre, Kelley Looney al basso, Will Rigby alla batteria). Ma non solo, questa volta ci sono anche le Duchesses a simboleggiare una nutrita rappresentanza femminile: la moglie Allison Moorer al piano, Eleanor Whitmore al violino, e Siobham Kennedy, moglie del produttore Roy Kennedy ai cori, a cui aggiungerei Lucia Micarelli, coautrice della evocativa After Mardi Gras e di Love's Gonna Blow My Way, canzoni che hanno già fatto la loro comparsa nella serie televisiva americana Treme, ambientata nella New Orleans post Katrina. Sorte che toccò anche a This City del precedente disco. Steve non dimentica.
Bellezza dei paesaggi americani che entra da un finestrino ed esce dall'altro, contrapposta alle comparse solitarie senza un tetto, quasi "invisibili" ma che, con la forza della dignità, popolano i vicoli abbandonati dalla grazia di Dio di ogni città americana. Una passeggiata salvifica."C'e un buco nella mia scarpa, ma non mi dispiace perchè mi tiene collegato alla terra..." canta appena attacca Invisible, cristallino esempio della vitalità ancora presente nella sua scrittura.
La stessa sorte nella placidità country/folk di The Low Highway, posta in apertura, con voce aspra, una chitarra acustica, steel guitar e violino a raccontare di paesaggi diventati spettrali; chitarra che diventa tagliente, elettrica, rock ed incisiva quando i Dukes entrano prepotentemente in scena nella circolare Calico County o nella presa di coscienza sui mali del secolo in corso in 21st Century Blues, quasi springsteeniana (post 11 Settembre) nel suo incedere."Non è il futuro che Kennedy mi aveva promesso nel ventunesimo secolo".
Musicalmente vario, pesca a piene mani nell'abbondante sacca della sua carriera, ritrovando un trascinante violino che guida il bluegrass affogato irish della corta Warren Hellman's Banjo, lo swing old style di Love's Gonna Blow My Way, il country di Down The Road Pt.II, le atmosfere zydeco di frontiera in That All You Got?, in duetto con la moglie e una fisarmonica che invita al ballo.
The Low Highway è pieno di vita, nato sulle strade, durante quei rituali sempre uguali ma costantemente adrenalinici, immersi in quegli odori che i chilometri di strada sventagliano a più riprese, tutte cose che Earle conosce a memoria fin dai suoi primi passi musicali segnati dai continui spostamenti in cerca dell'ispirazione giovanile, della buona sorte, dei suoi miti giovanili: San Antonio, poi Houston, Nashville, ora New Orleans, tappe che oggi ripercorre con spirito diverso, coscenzioso, portando in giro le canzoni durante i tour. Ora che è un punto di riferimento per tutte le nuove generazioni di musicisti americani, non ha più nulla da cercare ma tutto da insegnare...e che lezione! L'ennesima. Guida Steve, guida, tieni forte il volante!
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive (2011)
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorroland (2012)
vedi anche ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
"C'è qualcosa di strano quando una persona guida la macchina mentre tutti gli altri sognano con le loro vite affidate alla sua mano ferma, qualcosa di nobile, qualcosa di antico nella sua umanità, una sorta di antica fiducia nel Buon Vecchio Amico." Jack Kerouac
Lasciamoci tranquillamente guidare da un "autista della vita" come Steve Earle, che conosce la strada molto bene, anche se in passato ha sbandato, rischiando di andare fuori carreggiata e compromettere il viaggio fin troppo in fretta. Ma proprio gli incidenti di percorso lo rendono, oggi, consapevole e affidabile. Un saggio dalla lunga barba ascetica e cappellaccio calato in testa di cui fidarsi ad occhi chiusi e orecchie sempre aperte. Il Buon Vecchio Amico che cerchiamo, in grado di raccontare storie che ti rivoltano la pelle, ti fanno pensare, ma anche sognare. Consapevolezza del proprio passato e degli errori fatti che sembra uscire dalle liriche della confessionale Pocket Full Of Rain, adagiate su un tappeto di pianoforte che accompagna un lento boogie da fine serata sonnolenta con un sussulto improvviso a darti la sveglia. "Mi ricordo ancora quando ero solito uccidere il dolore, ma mi svegliavo ogni mattina con una manciata di pioggia".
Il quindicesimo album di Steve Earle non delude anche se sai già cosa ti aspetta, perchè, in fondo le strade sono sempre quelle, magari percorse centinaia di volte ma con il fascino sempre intatto della prima volta. "Ho percorso ogni singola strada che attraversa gli Stati Uniti e non mi sono mai stancato dello spettacolo. Ho visto un bel po' di mondo e il mio passaporto consumato è una delle cose più preziose che ho, ma per me, non c'è niente come la prima notte di un viaggio nel Nord America", racconta Earle nella presentazione del disco che inaugura il libretto.
L'ultima uscita discografica I'll Never Get Out Of This World Alive (2011) parlava di viaggi molto più tristi e ultraterreni, segnata profondamente dalla perdita del padre e dalla placida uniformità musicale di fondo. Questa volta le scorribande puzzano di copertoni fumanti su asfalto bollente, gasolio perso lungo la strada, paesaggi fantasmi, emarginazione sociale e fantasmi in carne ed ossa a bordo strada, ricordi immaturi di una infanzia trascorsa tra la middle class americana (Burnin' It Down, quasi cajun con la contagiosa fisarmonica), e un tenerissimo passaggio di consegne alle future generazioni quello cantato in compagnia di una spoglia chitarra folk che ricama sopra alla steel guitar nella conclusiva Remember Me. Il tutto accompagnato da tiepido cibo americano a sfamare durante le soste, e spalmato su una maggiore varietà musicale.
"Tutti quanti, band e compagnia al completo, ammassati in macchina, mangiando il pollo piccante di Nashville e il formaggio al peperoncino fatto in casa di Betty Herbert, raccontandosi sempre le stesse vecchie storie ad alta voce per via del continuo sferragliare e ronzare delle auto sulla strada. E sono sempre io il primo a dire buonanotte all'autista Charlie Quick e a rinchiudermi in cuccetta. Perché per me è come la notte della vigilia quando ancora credevo a Babbo Natale. Dio, come amo tutto questo".
Potrebbero bastare le parole di Earle a presentazione del disco per dipingere il quadro sincero e veritiero (compreso un sentito ringraziamento ai suoi fan) su cui si posano queste nuove 12 canzoni che riportano il nome dei Dukes in copertina ( Chris Masterson alle chitarre, Kelley Looney al basso, Will Rigby alla batteria). Ma non solo, questa volta ci sono anche le Duchesses a simboleggiare una nutrita rappresentanza femminile: la moglie Allison Moorer al piano, Eleanor Whitmore al violino, e Siobham Kennedy, moglie del produttore Roy Kennedy ai cori, a cui aggiungerei Lucia Micarelli, coautrice della evocativa After Mardi Gras e di Love's Gonna Blow My Way, canzoni che hanno già fatto la loro comparsa nella serie televisiva americana Treme, ambientata nella New Orleans post Katrina. Sorte che toccò anche a This City del precedente disco. Steve non dimentica.
Bellezza dei paesaggi americani che entra da un finestrino ed esce dall'altro, contrapposta alle comparse solitarie senza un tetto, quasi "invisibili" ma che, con la forza della dignità, popolano i vicoli abbandonati dalla grazia di Dio di ogni città americana. Una passeggiata salvifica."C'e un buco nella mia scarpa, ma non mi dispiace perchè mi tiene collegato alla terra..." canta appena attacca Invisible, cristallino esempio della vitalità ancora presente nella sua scrittura.
La stessa sorte nella placidità country/folk di The Low Highway, posta in apertura, con voce aspra, una chitarra acustica, steel guitar e violino a raccontare di paesaggi diventati spettrali; chitarra che diventa tagliente, elettrica, rock ed incisiva quando i Dukes entrano prepotentemente in scena nella circolare Calico County o nella presa di coscienza sui mali del secolo in corso in 21st Century Blues, quasi springsteeniana (post 11 Settembre) nel suo incedere."Non è il futuro che Kennedy mi aveva promesso nel ventunesimo secolo".
Musicalmente vario, pesca a piene mani nell'abbondante sacca della sua carriera, ritrovando un trascinante violino che guida il bluegrass affogato irish della corta Warren Hellman's Banjo, lo swing old style di Love's Gonna Blow My Way, il country di Down The Road Pt.II, le atmosfere zydeco di frontiera in That All You Got?, in duetto con la moglie e una fisarmonica che invita al ballo.
The Low Highway è pieno di vita, nato sulle strade, durante quei rituali sempre uguali ma costantemente adrenalinici, immersi in quegli odori che i chilometri di strada sventagliano a più riprese, tutte cose che Earle conosce a memoria fin dai suoi primi passi musicali segnati dai continui spostamenti in cerca dell'ispirazione giovanile, della buona sorte, dei suoi miti giovanili: San Antonio, poi Houston, Nashville, ora New Orleans, tappe che oggi ripercorre con spirito diverso, coscenzioso, portando in giro le canzoni durante i tour. Ora che è un punto di riferimento per tutte le nuove generazioni di musicisti americani, non ha più nulla da cercare ma tutto da insegnare...e che lezione! L'ennesima. Guida Steve, guida, tieni forte il volante!
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive (2011)
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorroland (2012)
vedi anche ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
lunedì 15 aprile 2013
RECENSIONE:VOLBEAT ( Outlaw Gentlemen & Shady Ladies)
VOLBEAT Outlaw Gentlemen & Shady Ladies ( Republic Records/Vertigo, 2013)
Non hanno più bisogno di troppe presentazioni: negli ultimi anni, i danesi Volbeat hanno raggiunto una tale popolarità, confermata dalle buone cifre di vendita (l'ultimo Beyond Hell/ Above Heaven ha venduto 750.000 copie, tantissime, di questi tempi), dalle buonissime prestazioni live in giro per il mondo-mi hanno fatto veramente una buona impressione-, dai buoni feedback da parte dei colleghi musicisti, e soprattutto dalla loro originale mistura musicale dove thrash metal, hard rock e punk prendono a braccetto atmosfere western in stile morriconiano, rockabilly '50 e accenni country-di grana grossa-formando canzoni epiche, anthemiche, trascinanti come se Metallica, Misfits e Johhny Cash iniziassero a jammare insieme, a tarda notte, in qualche squallido saloon abbandonato di una sperduta ghost town con la greve, rassicurante e caratterizzante voce del cantante Michael Poulsen a dominare il vecchio microfono che scende dal soffitto. Continuazione e affinamento del lavoro iniziato dai veterani The Waltons (chi se li ricorda?), band tedesca antesignana del cowpunk europeo. Cercate il loro Remain In Rust (1992).
Questa volta però, e mi spiace aggiungere questo "però" vista l'enorme stima che nutro per loro, il disco mi convince a metà, complici sicuramente un fattore sorpresa ormai svanito dopo 5 dischi di studio ma soprattutto alcune scelte melodiche e stucchevoli, da voler essere "piacioni " a tutti i costi, che pur presenti da sempre nel loro suono, sembrano abbondare fuori misura e convincere veramente poco nella loro prevedibilità (Pearl Hat, The Sinner Is You, Cape Of Your Hero), rischiando di far storcere il naso soprattutto a chi li segue dai tempi del debutto nel 2005 o da quello che rimane il loro capolavoro Guitar Gangsters & Cadillac Blood (2008). Sotto al buon messaggio del singolo Cape Of Your Hero si nasconde una canzone musicalmente scontata, senza anima che strizza eccessivamente l'occhio all'airplay radiofonico in cerca di nuovi seguaci tra gli ascoltatori più giovani e distratti. La cover di My Body dei Young The Giant, buon successo commerciale dello scorso anno sembra confermare la tesi e rafforzare i timidi segnali di alleggerimento provenienti già dal precedente disco. Ma i Volbeat che abbiamo sempre conosciuto dove sono finiti? Fortunatamente ci sono ancora.
Allora meglio quando toccano gli estremi della loro musica. Da una parte, il lato hard/metal come il thrash tout court di Dead But Rising, The Hangman's Body Count, la velocissima Black Bart e i suoi cambi di tempo, o meglio ancora in Room 24, vero masterpiece del disco: oscura, sinistra, dall'intro sabbathiano e dall'incedere sulfureo alla Mercyful Fate che può vantare il malefico connazionale King Diamond e la sua incredibile "doppia" voce pienamente calata nella parte. Canzone che vale sicuramente l'acquisto del disco.
L'altro estremo conferma una spiccata vena narrativa sospesa tra finzione e realtà che esplora il mondo western e alcuni suoi "mitici" personaggi come la focosa e affascinante ballerina Lola Montez, donna dai mille aspetti che il compositore Richard Wagner non esitò a definire "un essere demoniaco" nel tirato rock'n'roll a lei dedicato e nella epica Doc Holliday, fedele al famoso fuorilegge del selvaggio west da cui prese il nome anche la band di southern rock attiva negli anni '70/'80, introdotta da un banjo suonato da Rod Sinclair, e con la voce di Poulsen che si fa sempre più simile a quella di James Hetfield. Una western'n'thrash song ben confezionata e dai chorus sinistri e vincenti.
Ancora: la buona Lonesome Rider, riuscito country/rockabilly con tanto di slide e contabbasso, cantata in coppia con Sarah Blackwood e la finale Our Loved Ones, semi-ballad che farebbe comodo ai Metallica odierni in crisi di canzoni che lascino il segno.
Tra le novità più importanti c'è sicuramente da segnalare l'entrata in formazione di Rob Caggiano (ex chitarrista degli Anthrax) che oltre a portare esperienza e produrre il disco, inizialmente unico suo compito, è diventato il nuovo axe man della band dopo la fuoriuscita di Thomas Bredahl.
Un disco sicuramente piacevole e poliedrico, ben confezionato, che porterà nuovi seguaci alla band danese, ma che, devo essere onesto, per la prima volta non mi convince in toto. In alcuni episodi manca quella naturale spontaneità, presente nei precedenti dischi, che li aveva innalzati sopra al piedistallo riservato alle band più fresche e genuine degli ultimi anni. A volte sembrano viaggiare con il freno a mano tirato, cercando la soluzione più facile e melodica, vittime e schiavi di una formula che si è fatta sempre più accattivante, ma che inizia a ripetersi a scapito di una esplorazione più esaustiva in territori rockabilly/country '50 che molte volte sembrano solo accennati per confermare il loro trademark, senza procedere, perchè no, in uno sviluppo reale, approfondito e concreto, sicuramente nelle loro corde visto lo smisurato amore del cantante Poulsen per certe sonorità. Disco di transizione nella loro discografia o inizio di una nuova era mainstream? Voto 6,5
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
Non hanno più bisogno di troppe presentazioni: negli ultimi anni, i danesi Volbeat hanno raggiunto una tale popolarità, confermata dalle buone cifre di vendita (l'ultimo Beyond Hell/ Above Heaven ha venduto 750.000 copie, tantissime, di questi tempi), dalle buonissime prestazioni live in giro per il mondo-mi hanno fatto veramente una buona impressione-, dai buoni feedback da parte dei colleghi musicisti, e soprattutto dalla loro originale mistura musicale dove thrash metal, hard rock e punk prendono a braccetto atmosfere western in stile morriconiano, rockabilly '50 e accenni country-di grana grossa-formando canzoni epiche, anthemiche, trascinanti come se Metallica, Misfits e Johhny Cash iniziassero a jammare insieme, a tarda notte, in qualche squallido saloon abbandonato di una sperduta ghost town con la greve, rassicurante e caratterizzante voce del cantante Michael Poulsen a dominare il vecchio microfono che scende dal soffitto. Continuazione e affinamento del lavoro iniziato dai veterani The Waltons (chi se li ricorda?), band tedesca antesignana del cowpunk europeo. Cercate il loro Remain In Rust (1992).
Questa volta però, e mi spiace aggiungere questo "però" vista l'enorme stima che nutro per loro, il disco mi convince a metà, complici sicuramente un fattore sorpresa ormai svanito dopo 5 dischi di studio ma soprattutto alcune scelte melodiche e stucchevoli, da voler essere "piacioni " a tutti i costi, che pur presenti da sempre nel loro suono, sembrano abbondare fuori misura e convincere veramente poco nella loro prevedibilità (Pearl Hat, The Sinner Is You, Cape Of Your Hero), rischiando di far storcere il naso soprattutto a chi li segue dai tempi del debutto nel 2005 o da quello che rimane il loro capolavoro Guitar Gangsters & Cadillac Blood (2008). Sotto al buon messaggio del singolo Cape Of Your Hero si nasconde una canzone musicalmente scontata, senza anima che strizza eccessivamente l'occhio all'airplay radiofonico in cerca di nuovi seguaci tra gli ascoltatori più giovani e distratti. La cover di My Body dei Young The Giant, buon successo commerciale dello scorso anno sembra confermare la tesi e rafforzare i timidi segnali di alleggerimento provenienti già dal precedente disco. Ma i Volbeat che abbiamo sempre conosciuto dove sono finiti? Fortunatamente ci sono ancora.
Allora meglio quando toccano gli estremi della loro musica. Da una parte, il lato hard/metal come il thrash tout court di Dead But Rising, The Hangman's Body Count, la velocissima Black Bart e i suoi cambi di tempo, o meglio ancora in Room 24, vero masterpiece del disco: oscura, sinistra, dall'intro sabbathiano e dall'incedere sulfureo alla Mercyful Fate che può vantare il malefico connazionale King Diamond e la sua incredibile "doppia" voce pienamente calata nella parte. Canzone che vale sicuramente l'acquisto del disco.
L'altro estremo conferma una spiccata vena narrativa sospesa tra finzione e realtà che esplora il mondo western e alcuni suoi "mitici" personaggi come la focosa e affascinante ballerina Lola Montez, donna dai mille aspetti che il compositore Richard Wagner non esitò a definire "un essere demoniaco" nel tirato rock'n'roll a lei dedicato e nella epica Doc Holliday, fedele al famoso fuorilegge del selvaggio west da cui prese il nome anche la band di southern rock attiva negli anni '70/'80, introdotta da un banjo suonato da Rod Sinclair, e con la voce di Poulsen che si fa sempre più simile a quella di James Hetfield. Una western'n'thrash song ben confezionata e dai chorus sinistri e vincenti.
Ancora: la buona Lonesome Rider, riuscito country/rockabilly con tanto di slide e contabbasso, cantata in coppia con Sarah Blackwood e la finale Our Loved Ones, semi-ballad che farebbe comodo ai Metallica odierni in crisi di canzoni che lascino il segno.
Tra le novità più importanti c'è sicuramente da segnalare l'entrata in formazione di Rob Caggiano (ex chitarrista degli Anthrax) che oltre a portare esperienza e produrre il disco, inizialmente unico suo compito, è diventato il nuovo axe man della band dopo la fuoriuscita di Thomas Bredahl.
Un disco sicuramente piacevole e poliedrico, ben confezionato, che porterà nuovi seguaci alla band danese, ma che, devo essere onesto, per la prima volta non mi convince in toto. In alcuni episodi manca quella naturale spontaneità, presente nei precedenti dischi, che li aveva innalzati sopra al piedistallo riservato alle band più fresche e genuine degli ultimi anni. A volte sembrano viaggiare con il freno a mano tirato, cercando la soluzione più facile e melodica, vittime e schiavi di una formula che si è fatta sempre più accattivante, ma che inizia a ripetersi a scapito di una esplorazione più esaustiva in territori rockabilly/country '50 che molte volte sembrano solo accennati per confermare il loro trademark, senza procedere, perchè no, in uno sviluppo reale, approfondito e concreto, sicuramente nelle loro corde visto lo smisurato amore del cantante Poulsen per certe sonorità. Disco di transizione nella loro discografia o inizio di una nuova era mainstream? Voto 6,5
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
giovedì 11 aprile 2013
RECENSIONE:TEX MEX (The Best Has Yet To Come)
TEX MEX The Best Has Yet To Come (autoproduzione, 2013)
Appena parte The Swamp, la prima cosa che balza all'orecchio e poi rimbalza all'occhio è "l'apparente" asincronia tra il calore epicamente tambureggiante di una batteria e l'entrata dell 'armonica con la bianca, asettica e anonima copertina con il nome del gruppo stampato quasi fosse il marchio di una azienda meccanica-magari in crisi- del loro estremo nord est. Singolare. Eppure: credo non ci sia miglior colore e sobrietà per rappresentare l'enorme parco cromatico musicale e d' esperienza che il debutto thebesthasyettocome dei triestini Tex Mex riesce a mettere in campo lungo le ardenti 12 canzoni. Altre tipologie di copertina, altri colori sarebbero stati limitanti...e meno sorprendenti.
Pur formatasi solamente nel 2010, la band è un concentrato di esperienza ad altissimi livelli. Nati dalle ceneri dei Blue Roots, trio formato da due esuli W.I.N.D. insieme al bassista e cantante Frank Get (nel suo curriculum un lungo elenco di collaborazioni internazionali come turnista e fonico, più un disco solista Hard Blues-2010), dopo vari cambi di formazione si è arrivati all'assetto odierno che comprende oltre a Frank Get, anche Matteo "Zekka" Zecchini alle chitarre, Marco "Skiantini" Beccari all'armonica e Sandro Bencich alla batteria in sostituzione di Dario "Doppio"Vatovac, batterista presente su gran parte delle tracce ma purtroppo scomparso recentemente a cui il disco è stato giustamente dedicato, in particolar modo la bella e riuscitissima interpretazione acustica della springsteeniana No Surrender, unica cover dell'album e posta in chiusura come ricordo e saluto per un amico che non c'è più. No Surrender è diventata anche un bel video e le parole del suo testo dicono tutto: "Adesso giovani facce diventano tristi e vecchie/e cuori in fiamme si raffreddano/noi giurammo fratelli di sangue contro il vento/sono pronto a ritornare di nuovo giovane/e ascoltare la voce di tua sorella/che ci chiama a casa attraverso i campi aperti/credo che possiamo ritagliarci/un posto tutto nostro/con questa batteria e queste chitarre".
Il disco prende forma sopra i palchi dei loro numerosi concerti e si sente, tanto da essere registrato durante due sessions di studio per non disperdere la vera natura "genuina" del gruppo: tutto l'amore per le jam band '70, dove southern rock, blues e soul (The Secret) si univano, canzoni che non hanno mai la fretta di guardare l'orologio; mentre su disco si fanno bastare cinque minuti, durante i live possono trasformarsi e allungarsi a piacimento senza risentirne.
I sapori sono quelli del sud degli States, quelli delle soluzioni più ardite e anticonvenzionali di gruppi come The Marshall Tucker Band, di band totalitarie e poco etichettabili come i Little Feat, della solidità rock/blues dei Gov't Mule, il calore è dato dalle background vocals femminili ben presenti e avvolgenti (Elisa Bombacigno, Elisa Maiellaro), il ritmo è affidato ad una sezione ritmica pulsante e grintosa (l'hard/blues You Don't Know). A questo punto, dopo aver ascoltato anche gli ultimi lavori dei corregionali W.I.N.D. e Rusted Pearls & The Fancy Free, il dubbio che a Trieste e dintorni ci sia un'aria particolarmente simile a quella che si respira in certi territori americani "di confine", mi assale. "Trieste is rock!" dice qualcuno. Vero. Ne sono ancor più convinto quando partono le chitarre pregne di umori sudisti in Playin' With My Mind, la splendida Straight On che si staglia tra le rocce per poi tuffarsi nelle stesse acque verdi salmastre da dove emergevano i corpi nudi dei fratelli Allman, le atmosfere da saloon "ancora sveglio alle quattro di mattina" nell' honky tonk boogie Hot Aliens Afternoon, buon esercizio per pianoforte da parte del presentissimo Giovanni "Staxx" Vianelli , ma anche le derive cantautorali soul, che ricordano Van Morrison, di Don't Let Me Down e di Good Times, particolarmente vicina anche al John Hiatt più paludosamente soul con il sax di James Thompson ottimamente vivace e ficcante. Tutti colori che, se uniti insieme, formano quel candido bianco della copertina, sinonimo di purezza e passione musicale che all'estremo nord-est della nostra penisola è più presente che mai. Diminueranno le aziende, ma il gioco dell'equazione sembra far aumentare la buona musica.
vedi anche RECENSIONE: RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE-Roadsigns (2012)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.- Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND-Play It Loud! (2013)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
Appena parte The Swamp, la prima cosa che balza all'orecchio e poi rimbalza all'occhio è "l'apparente" asincronia tra il calore epicamente tambureggiante di una batteria e l'entrata dell 'armonica con la bianca, asettica e anonima copertina con il nome del gruppo stampato quasi fosse il marchio di una azienda meccanica-magari in crisi- del loro estremo nord est. Singolare. Eppure: credo non ci sia miglior colore e sobrietà per rappresentare l'enorme parco cromatico musicale e d' esperienza che il debutto thebesthasyettocome dei triestini Tex Mex riesce a mettere in campo lungo le ardenti 12 canzoni. Altre tipologie di copertina, altri colori sarebbero stati limitanti...e meno sorprendenti.
Pur formatasi solamente nel 2010, la band è un concentrato di esperienza ad altissimi livelli. Nati dalle ceneri dei Blue Roots, trio formato da due esuli W.I.N.D. insieme al bassista e cantante Frank Get (nel suo curriculum un lungo elenco di collaborazioni internazionali come turnista e fonico, più un disco solista Hard Blues-2010), dopo vari cambi di formazione si è arrivati all'assetto odierno che comprende oltre a Frank Get, anche Matteo "Zekka" Zecchini alle chitarre, Marco "Skiantini" Beccari all'armonica e Sandro Bencich alla batteria in sostituzione di Dario "Doppio"Vatovac, batterista presente su gran parte delle tracce ma purtroppo scomparso recentemente a cui il disco è stato giustamente dedicato, in particolar modo la bella e riuscitissima interpretazione acustica della springsteeniana No Surrender, unica cover dell'album e posta in chiusura come ricordo e saluto per un amico che non c'è più. No Surrender è diventata anche un bel video e le parole del suo testo dicono tutto: "Adesso giovani facce diventano tristi e vecchie/e cuori in fiamme si raffreddano/noi giurammo fratelli di sangue contro il vento/sono pronto a ritornare di nuovo giovane/e ascoltare la voce di tua sorella/che ci chiama a casa attraverso i campi aperti/credo che possiamo ritagliarci/un posto tutto nostro/con questa batteria e queste chitarre".
Il disco prende forma sopra i palchi dei loro numerosi concerti e si sente, tanto da essere registrato durante due sessions di studio per non disperdere la vera natura "genuina" del gruppo: tutto l'amore per le jam band '70, dove southern rock, blues e soul (The Secret) si univano, canzoni che non hanno mai la fretta di guardare l'orologio; mentre su disco si fanno bastare cinque minuti, durante i live possono trasformarsi e allungarsi a piacimento senza risentirne.
I sapori sono quelli del sud degli States, quelli delle soluzioni più ardite e anticonvenzionali di gruppi come The Marshall Tucker Band, di band totalitarie e poco etichettabili come i Little Feat, della solidità rock/blues dei Gov't Mule, il calore è dato dalle background vocals femminili ben presenti e avvolgenti (Elisa Bombacigno, Elisa Maiellaro), il ritmo è affidato ad una sezione ritmica pulsante e grintosa (l'hard/blues You Don't Know). A questo punto, dopo aver ascoltato anche gli ultimi lavori dei corregionali W.I.N.D. e Rusted Pearls & The Fancy Free, il dubbio che a Trieste e dintorni ci sia un'aria particolarmente simile a quella che si respira in certi territori americani "di confine", mi assale. "Trieste is rock!" dice qualcuno. Vero. Ne sono ancor più convinto quando partono le chitarre pregne di umori sudisti in Playin' With My Mind, la splendida Straight On che si staglia tra le rocce per poi tuffarsi nelle stesse acque verdi salmastre da dove emergevano i corpi nudi dei fratelli Allman, le atmosfere da saloon "ancora sveglio alle quattro di mattina" nell' honky tonk boogie Hot Aliens Afternoon, buon esercizio per pianoforte da parte del presentissimo Giovanni "Staxx" Vianelli , ma anche le derive cantautorali soul, che ricordano Van Morrison, di Don't Let Me Down e di Good Times, particolarmente vicina anche al John Hiatt più paludosamente soul con il sax di James Thompson ottimamente vivace e ficcante. Tutti colori che, se uniti insieme, formano quel candido bianco della copertina, sinonimo di purezza e passione musicale che all'estremo nord-est della nostra penisola è più presente che mai. Diminueranno le aziende, ma il gioco dell'equazione sembra far aumentare la buona musica.
vedi anche RECENSIONE: RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE-Roadsigns (2012)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.- Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND-Play It Loud! (2013)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
lunedì 8 aprile 2013
RECENSIONE:DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS (Whisky In My Blood)
DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS Whisky In My Blood ( Blue North Records, 2013)
Esattamente un anno fa, Dave Arcari mi aveva anticipato le sue future mosse in questa intervista. Il futuro non ha tardato ad arrivare, ed ecco il disco con le canzoni registrate in Finlandia, durante alcune pause dei suoi tour, insieme agli amici finlandesi The Hellsinki Hellraisers ( Juuso Haapasalo alla batteria e Honey Aaltonen al contrabbasso). Collaborazione nata quasi per caso che vede ora i suoi frutti su disco.
Scozzese granitico e simpatico con antiche tracce d'Italia nel sangue, Arcari si conferma personaggio genuino e schietto, in giro da parecchi anni, prima con i Radiotones poi come solista con cinque album nel sacco. Un bluesman diretto e amante del lavoro artigianale che vive ancora la musica con ardore indipendente, lontano da compromessi commerciali ma con trasporto contagioso che, inutile dirlo, tramuta nella sua musica: un misto di blues, rockabilly, country e folk suonato con fervore, voce aspra quasi growl, chitarre slide infuocate-ma non solo- approccio diretto e minimale che in questo disco sembra sfiorare addirittura l'antico skiffle nelle tracce più semplici e acustiche- ma ad alta tensione- come le iniziali Whisky In My Blood e Cherry Wine, due titoli che lasciano poco all'immaginazione e tanto al bicchiere, ai cereali fermentati ivi contenuti, al sangue e alla sua terra "degli immortali".
Il precedente Nobody's Fool (2012) raccoglieva nuove e vecchie canzoni risuonate, quasi un greatest hits, e aveva il prestigioso lasciapassare di un personaggio come Seasick Steve (il suo nuovo album Hubcap Music è in dirittura d'arrivo), amico prodigo di complimenti e consigli con il quale ha diviso anche il palco.
Questo nuovo Whisky In My Blood è stato registrato in presa diretta in Filandia negli Sonic Pump Studios di Helsinki, mixato a Glasgow e masterizzato a Chicago, tanto per rimarcare il carattere giramondo dello scozzese e trasportare al meglio l'ascoltatore dentro ad un suo tipico show fatto di chitarre, sudore e assi del palco tremolanti sotto i colpi dei suoi pesanti stivali. Molte volte affronta il pubblico da solo, questa volta è in buona compagnia.
L'ardore diretto e l'entusiamo quasi punk di queste canzoni escono prepotenti sia quando le sue chitarre incrociano il rockabilly (Tell Me Baby, e la dura quotidianità cantata in Day Job), sia quando "maltratta" un banjo in Third Time Lucky e lo "accarezza" nella minimale e inaspettatamente (quasi) dolce Still Friends, o quando fa uscire la sua anima folkie (Wherever I Go) o Country (Rough Justice), perchè in fondo, per lui, tutto iniziò da lì: "il primo disco che comprai fu una raccolta di Johnny Cash - un doppio album ... dopo aver ascoltato "25 minutes to go", a sette anni, a casa di amici".
Poi c'è l'amato blues, la sua National Steel Guitar incandescente nell'immancabile omaggio malefico e indiavolato a Robert Johnson con Travelling Riverside Blues e Preachin'Blues, al primordiale delta blues di Bukka White (Jitterbug Swing) e le sue composizioni: il blues che sbuffa fumo nero e denso in Heat Is Rising, See Me Laughing e la finale Getta Outta My Way, elettrica, aggressiva, marziale e malata, sulla stessa lunghezza d'onda di Dragonfly che concludeva il precedente disco.
Passione, attitudine cruda, viscerale e diretta non mancano anche questa volta, anzi aumentano. Bravo Dave.
INTERVISTA a DAVE ARCARI
RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)
Esattamente un anno fa, Dave Arcari mi aveva anticipato le sue future mosse in questa intervista. Il futuro non ha tardato ad arrivare, ed ecco il disco con le canzoni registrate in Finlandia, durante alcune pause dei suoi tour, insieme agli amici finlandesi The Hellsinki Hellraisers ( Juuso Haapasalo alla batteria e Honey Aaltonen al contrabbasso). Collaborazione nata quasi per caso che vede ora i suoi frutti su disco.
Scozzese granitico e simpatico con antiche tracce d'Italia nel sangue, Arcari si conferma personaggio genuino e schietto, in giro da parecchi anni, prima con i Radiotones poi come solista con cinque album nel sacco. Un bluesman diretto e amante del lavoro artigianale che vive ancora la musica con ardore indipendente, lontano da compromessi commerciali ma con trasporto contagioso che, inutile dirlo, tramuta nella sua musica: un misto di blues, rockabilly, country e folk suonato con fervore, voce aspra quasi growl, chitarre slide infuocate-ma non solo- approccio diretto e minimale che in questo disco sembra sfiorare addirittura l'antico skiffle nelle tracce più semplici e acustiche- ma ad alta tensione- come le iniziali Whisky In My Blood e Cherry Wine, due titoli che lasciano poco all'immaginazione e tanto al bicchiere, ai cereali fermentati ivi contenuti, al sangue e alla sua terra "degli immortali".
Il precedente Nobody's Fool (2012) raccoglieva nuove e vecchie canzoni risuonate, quasi un greatest hits, e aveva il prestigioso lasciapassare di un personaggio come Seasick Steve (il suo nuovo album Hubcap Music è in dirittura d'arrivo), amico prodigo di complimenti e consigli con il quale ha diviso anche il palco.
Questo nuovo Whisky In My Blood è stato registrato in presa diretta in Filandia negli Sonic Pump Studios di Helsinki, mixato a Glasgow e masterizzato a Chicago, tanto per rimarcare il carattere giramondo dello scozzese e trasportare al meglio l'ascoltatore dentro ad un suo tipico show fatto di chitarre, sudore e assi del palco tremolanti sotto i colpi dei suoi pesanti stivali. Molte volte affronta il pubblico da solo, questa volta è in buona compagnia.
L'ardore diretto e l'entusiamo quasi punk di queste canzoni escono prepotenti sia quando le sue chitarre incrociano il rockabilly (Tell Me Baby, e la dura quotidianità cantata in Day Job), sia quando "maltratta" un banjo in Third Time Lucky e lo "accarezza" nella minimale e inaspettatamente (quasi) dolce Still Friends, o quando fa uscire la sua anima folkie (Wherever I Go) o Country (Rough Justice), perchè in fondo, per lui, tutto iniziò da lì: "il primo disco che comprai fu una raccolta di Johnny Cash - un doppio album ... dopo aver ascoltato "25 minutes to go", a sette anni, a casa di amici".
Poi c'è l'amato blues, la sua National Steel Guitar incandescente nell'immancabile omaggio malefico e indiavolato a Robert Johnson con Travelling Riverside Blues e Preachin'Blues, al primordiale delta blues di Bukka White (Jitterbug Swing) e le sue composizioni: il blues che sbuffa fumo nero e denso in Heat Is Rising, See Me Laughing e la finale Getta Outta My Way, elettrica, aggressiva, marziale e malata, sulla stessa lunghezza d'onda di Dragonfly che concludeva il precedente disco.
Passione, attitudine cruda, viscerale e diretta non mancano anche questa volta, anzi aumentano. Bravo Dave.
INTERVISTA a DAVE ARCARI
RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)
venerdì 5 aprile 2013
RECENSIONE: SUICIDAL TENDENCIES (13)
SUICIDAL TENDENCIES 13 ( Suicidal Records, 2013)
A giugno uscirà dall'urna un altro 13 molto atteso, quello che i fan dei Black Sabbath attendono sulla ruota del rock da circa 35 anni. Nel frattempo ci si può accontentare dello "Chinese Democracy" dei Suicidal Tendencies. Un disco che ha attraversato una via crucis lunga tredici anni, fatta di tanti annunci d'uscita lanciati a scadenza regolare ma sempre disattesi come tappe di un pellegrinaggio senza una fine. Pur continuando assiduamente l'attività live, bisogna risalire al 2000 per trovare l'ultimo disco di studio di Mike Muir e soci, il poco riuscito e stanco Free Your Soul And Save My Mind. Sarebbe stato poco glorioso per una band di guerrieri, porre fine ad una carriera con l'episodio più debole di una discografia che li ha visti tra gli antesignani del "crossover" hardcore/thrash (ma non solo) nei primissimi anni ottanta ( Suicidal Tendencies -1983 è album buono e fondamentale per la scena e la musica tutta), per poi gettarsi nelle più affollate maglie del thrash metal, uscendone comunque a testa alta grazie ai testi al vetriolo di Muir, la carica live e alla fantasia di una sezione ritmica piena di groove funky, meglio sviluppata nei progetti collaterali Infectious Grooves e Cyco Mico.
Join The Army (1987), How Will I Laugh...(1988), Lights...Camera...Revolution!(1990) e The Art Of Rebellion (1992) sono tutti dischi che continuano ad acquistare valore storico con il tempo.
Eppure, la fama, come un skate senza una ruota lanciato sui marciapiedi di Venice Beach, non ha mai superato pienamente il muro dell'underground e della devozione totalitaria dei fan suicycos, vera famiglia degna delle migliori e pericolose gang losangeline. Sottovalutati o mai capiti? La loro forza è diventata anche il principale ostacolo: troppo punk per i metalheads, troppo metal per i punkers. Troppo Funk per tutti. Prerogativa dei grandi, quelli poco allineati.
Non fosse per la musica, un personaggio come Mike Muir, tutto canotta, calzettoni, bandana e skate, meriterebbe un posto tra le personalità più influenti e carismatiche della scena crossover '80/'90. Intorno a lui, tutto anima,cuore e invettive, è sempre ruotata la line up, rifondata totalmente dopo che lo storico chitarrista Mike Clark ha abbandonato la nave nel 2012. Ecco che accanto a Muir, ora troviamo il chitarrista Dean Pleasants ormai diventato il secondo veterano, ed i novelli Nico Santora alla chitarra, Eric Moore alla batteria e Tim Williams al basso.
,La lancetta dell'orologio ritorna indietro di almeno vent'anni appena parte la chiamata alle armi di Shake It Out. La lunga assenza sembra aver giovato al quasi cinquantenne Muir, carico come una molla senza troppa ruggine negli ingranaggi, ma oliata per affrontare una rinnovata sfida sopra i palchi. Nel disco convivono tutte le anime della band californiana con la quasi totale esclusione dei primi vagiti punk/hardcore rappresentati dalla corta e anthemica This Ain't A Celebration, unico episodio veramente veloce del disco, ma preferendo il periodo di mezzo, a cavallo tra il 1990 e il 1995: dai riff thrash metal di Smash It! e Cyco Style, alla pesante e cadenzata Slam City, fino a toccare l'anima più sperimentale e funk in God Only Knows Who I Am con Dan Pleasants in grande spolvero negli assoli, e soprattutto la fantasia crossover di Show Some Love...Tear It Down con la sua breve parentesi jazz e il cameo vocale di alcuni skaters professionisti, nei mille umori di Make Your Stand tra cadenzati arpeggi, acidi solos di chitarra e belluine ripartenze, nel basso martellante di Till My Last Breath, Life (Can't Live ), negli accenni blues della finale This World.
Per chi li ha amati ed è cresciuto con la loro musica, 13 rappresenta un piacevole salto indietro nel tempo. Un colpo di spugna all'ormai vecchio e stanco Free Your Soul And save my Mind...e un grido di appartenenza che risuona ancora forte: Still Cyco after all these years.
A giugno uscirà dall'urna un altro 13 molto atteso, quello che i fan dei Black Sabbath attendono sulla ruota del rock da circa 35 anni. Nel frattempo ci si può accontentare dello "Chinese Democracy" dei Suicidal Tendencies. Un disco che ha attraversato una via crucis lunga tredici anni, fatta di tanti annunci d'uscita lanciati a scadenza regolare ma sempre disattesi come tappe di un pellegrinaggio senza una fine. Pur continuando assiduamente l'attività live, bisogna risalire al 2000 per trovare l'ultimo disco di studio di Mike Muir e soci, il poco riuscito e stanco Free Your Soul And Save My Mind. Sarebbe stato poco glorioso per una band di guerrieri, porre fine ad una carriera con l'episodio più debole di una discografia che li ha visti tra gli antesignani del "crossover" hardcore/thrash (ma non solo) nei primissimi anni ottanta ( Suicidal Tendencies -1983 è album buono e fondamentale per la scena e la musica tutta), per poi gettarsi nelle più affollate maglie del thrash metal, uscendone comunque a testa alta grazie ai testi al vetriolo di Muir, la carica live e alla fantasia di una sezione ritmica piena di groove funky, meglio sviluppata nei progetti collaterali Infectious Grooves e Cyco Mico.
Join The Army (1987), How Will I Laugh...(1988), Lights...Camera...Revolution!(1990) e The Art Of Rebellion (1992) sono tutti dischi che continuano ad acquistare valore storico con il tempo.
Eppure, la fama, come un skate senza una ruota lanciato sui marciapiedi di Venice Beach, non ha mai superato pienamente il muro dell'underground e della devozione totalitaria dei fan suicycos, vera famiglia degna delle migliori e pericolose gang losangeline. Sottovalutati o mai capiti? La loro forza è diventata anche il principale ostacolo: troppo punk per i metalheads, troppo metal per i punkers. Troppo Funk per tutti. Prerogativa dei grandi, quelli poco allineati.
Non fosse per la musica, un personaggio come Mike Muir, tutto canotta, calzettoni, bandana e skate, meriterebbe un posto tra le personalità più influenti e carismatiche della scena crossover '80/'90. Intorno a lui, tutto anima,cuore e invettive, è sempre ruotata la line up, rifondata totalmente dopo che lo storico chitarrista Mike Clark ha abbandonato la nave nel 2012. Ecco che accanto a Muir, ora troviamo il chitarrista Dean Pleasants ormai diventato il secondo veterano, ed i novelli Nico Santora alla chitarra, Eric Moore alla batteria e Tim Williams al basso.
,La lancetta dell'orologio ritorna indietro di almeno vent'anni appena parte la chiamata alle armi di Shake It Out. La lunga assenza sembra aver giovato al quasi cinquantenne Muir, carico come una molla senza troppa ruggine negli ingranaggi, ma oliata per affrontare una rinnovata sfida sopra i palchi. Nel disco convivono tutte le anime della band californiana con la quasi totale esclusione dei primi vagiti punk/hardcore rappresentati dalla corta e anthemica This Ain't A Celebration, unico episodio veramente veloce del disco, ma preferendo il periodo di mezzo, a cavallo tra il 1990 e il 1995: dai riff thrash metal di Smash It! e Cyco Style, alla pesante e cadenzata Slam City, fino a toccare l'anima più sperimentale e funk in God Only Knows Who I Am con Dan Pleasants in grande spolvero negli assoli, e soprattutto la fantasia crossover di Show Some Love...Tear It Down con la sua breve parentesi jazz e il cameo vocale di alcuni skaters professionisti, nei mille umori di Make Your Stand tra cadenzati arpeggi, acidi solos di chitarra e belluine ripartenze, nel basso martellante di Till My Last Breath, Life (Can't Live ), negli accenni blues della finale This World.
Per chi li ha amati ed è cresciuto con la loro musica, 13 rappresenta un piacevole salto indietro nel tempo. Un colpo di spugna all'ormai vecchio e stanco Free Your Soul And save my Mind...e un grido di appartenenza che risuona ancora forte: Still Cyco after all these years.
martedì 2 aprile 2013
RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS (The Heart And The Black Spider)
THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK-GUYS The Heart And The Black Spider ( autoproduzione, 2012)
The Heart And The Black Spider, primo lavoro di studio del torinese di adozione Thomas Guiducci con i suoi B-Folk Guys, ha la forza della semplicità e della longeva passione. Un grido di vitalità e rinascita interiore lanciato in pasto quasi sottovoce attraverso le strade del folk/blues acustico dove il gioco di sottrazione musicale gioca un ruolo importante e significativo, esaltato dal largo uso di strumenti tradizionali a corda (chitarre, banjo, ukulele, dobro, mandolini) e non solo, e dalle forti atmosfere e suggestioni evocative dettate dai non rari sconfinamenti in territori jazz, dove una tromba sembra non chiedere troppo permesso per intrufolarsi con piacere tra gli yodel western alla Hank Williams o Patsy Montana, il banjo e le pagliuzze di fieno svolazzanti che ricoprono The Yokel. Nashville meets New Orleans. Anni '30 trasportati al presente.
Guiducci, attivo da una ventina di anni nel circuito blues nazionale, solamente nel 2010 decide di fare il grande salto, reclutando i suoi "guys bifolchi" (Roberto Tatoni al contrabbasso, Piero Supino alla batteria e Stefano Chiappo alla tromba e piano) ed iniziando una intensa attività live convogliata nel disco dal vivo Live At Passerano Blues (2010) e sopratutto nella scrittura di questi nove pezzi che vanno a coronare un sogno e ad esorcizzare un periodo non troppo felice di vita. "Questo album è fondamentalmente frutto di una crisi interiore...capita a molti, in determinati momenti della propria vita, di sentirsi inadeguati, imprigionati, impauriti e di faticare a trovare una propria via d'uscita". Racconta nel suo sito, presentando il disco.
Ballate Folk/blues acustiche, minimali e dirette (Heart Blues, White Bearded Guy, The Blue Bag), country songs sbilenche (Old Tiger con la chitarra resofonica di Dario Lombardo), stomp blues come Plenty Of Time con l'armonica di Andrea Scagliarini, uno dei pochi episodi elettrici del disco insieme alla piacevolissima The Black Spider-tra le migliori canzoni- sorretta dalla epicità di una chitarra knopfleriana; ancora la tromba di Stefano Chiappo nell'ode alla musica- come via salvifica-cantata in Music, la finale I'd Like To Be dove la tradizione delle valli occitane piemontesi incarnata dalla musette suonata dall'ospite Simone Lombardo sembra stringere un patto con l' amata Irlanda ed il cuore pulsante della sua musica tradizionale.
Tutti pezzi scarni, semplici, diretti, caldi e poco lavorati che emanano antichi sapori, odoranti di legno tarlato pregno di fumo e imbevuto di acquavite d'annata.
Un disco che viaggia tranquillo nella placida profondità della mente che non si serve dei colpi ad effetto per emergere, ma si nutre, facendosele bastare, di emozioni riacciuffate in tempo per essere raccontate (Plenty Of Time) e devota passione per suoni datati, rootsy anche provenienti da molto lontano nel tempo (e geograficamente) ma universali e mai passati di moda.
vedi anche RECENSIONE: VERONICA SBERGIA & MAX DE BERNARDI-Old Stories For Modern Times (2012)
vedi anche RECENSIONE: HERNANDEZ & SAMPEDRO-Happy Island (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA- Wake Up Nation (2013)
The Heart And The Black Spider, primo lavoro di studio del torinese di adozione Thomas Guiducci con i suoi B-Folk Guys, ha la forza della semplicità e della longeva passione. Un grido di vitalità e rinascita interiore lanciato in pasto quasi sottovoce attraverso le strade del folk/blues acustico dove il gioco di sottrazione musicale gioca un ruolo importante e significativo, esaltato dal largo uso di strumenti tradizionali a corda (chitarre, banjo, ukulele, dobro, mandolini) e non solo, e dalle forti atmosfere e suggestioni evocative dettate dai non rari sconfinamenti in territori jazz, dove una tromba sembra non chiedere troppo permesso per intrufolarsi con piacere tra gli yodel western alla Hank Williams o Patsy Montana, il banjo e le pagliuzze di fieno svolazzanti che ricoprono The Yokel. Nashville meets New Orleans. Anni '30 trasportati al presente.
Guiducci, attivo da una ventina di anni nel circuito blues nazionale, solamente nel 2010 decide di fare il grande salto, reclutando i suoi "guys bifolchi" (Roberto Tatoni al contrabbasso, Piero Supino alla batteria e Stefano Chiappo alla tromba e piano) ed iniziando una intensa attività live convogliata nel disco dal vivo Live At Passerano Blues (2010) e sopratutto nella scrittura di questi nove pezzi che vanno a coronare un sogno e ad esorcizzare un periodo non troppo felice di vita. "Questo album è fondamentalmente frutto di una crisi interiore...capita a molti, in determinati momenti della propria vita, di sentirsi inadeguati, imprigionati, impauriti e di faticare a trovare una propria via d'uscita". Racconta nel suo sito, presentando il disco.
Ballate Folk/blues acustiche, minimali e dirette (Heart Blues, White Bearded Guy, The Blue Bag), country songs sbilenche (Old Tiger con la chitarra resofonica di Dario Lombardo), stomp blues come Plenty Of Time con l'armonica di Andrea Scagliarini, uno dei pochi episodi elettrici del disco insieme alla piacevolissima The Black Spider-tra le migliori canzoni- sorretta dalla epicità di una chitarra knopfleriana; ancora la tromba di Stefano Chiappo nell'ode alla musica- come via salvifica-cantata in Music, la finale I'd Like To Be dove la tradizione delle valli occitane piemontesi incarnata dalla musette suonata dall'ospite Simone Lombardo sembra stringere un patto con l' amata Irlanda ed il cuore pulsante della sua musica tradizionale.
Tutti pezzi scarni, semplici, diretti, caldi e poco lavorati che emanano antichi sapori, odoranti di legno tarlato pregno di fumo e imbevuto di acquavite d'annata.
Un disco che viaggia tranquillo nella placida profondità della mente che non si serve dei colpi ad effetto per emergere, ma si nutre, facendosele bastare, di emozioni riacciuffate in tempo per essere raccontate (Plenty Of Time) e devota passione per suoni datati, rootsy anche provenienti da molto lontano nel tempo (e geograficamente) ma universali e mai passati di moda.
vedi anche RECENSIONE: VERONICA SBERGIA & MAX DE BERNARDI-Old Stories For Modern Times (2012)
vedi anche RECENSIONE: HERNANDEZ & SAMPEDRO-Happy Island (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA- Wake Up Nation (2013)
venerdì 29 marzo 2013
RECENSIONE: DEPECHE MODE (Delta Machine)
DEPECHE MODE Delta Machine (Columbia, 2013)
Delta Machine, tredicesimo album di studio della band britannica si nutre, a partire dal titolo, di una grande contraddizione: può il blues (nel senso più ampio del termine, e sottolineo ampio) essere spietatamente freddo e riuscire a riscaldare così bene anima e cuore? Se lo date in pasto alle macchine infernali di Martin Gore e Andy Fletcher, la risposta è sì. Ascoltate: il mistico singolo Heaven uno dei pochi veri momenti melodici e accessibili dell'intero disco che arriva a sfiorare il gospel, i disturbi di una Angel a due marce, la placida lentezza seduttiva sulle rive di un Mississippi contaminato di scorie in Slow, i synth battenti di Soft Touch/Raw Nerve, il canonico giro blues incastrato all'interno dell'electro incedere di Goodbye, quasi Muddy Waters, dall'alto, guidasse le mani di Gore sulle corde della chitarra (in verità, strumento poco presente in tutto il disco) all'interno di una macchina del futuro che il leggendario bluesman non ha fatto in tempo a conoscere, e che forse mai avrebbe apprezzato. In più, a rafforzare l'affermazione, l'esperienza maiuscola di Dave Gahan tra le ragnatele dei Soulsavers nel bello e poco celebrato The Light The Dead See dello scorso anno è servita, si sente nel timbro vocale rassicurante in continuo progresso durante gli anni e nella affermazione in fase compositiva del cantante; tre pezzi con la sua firma in un solo album sono cosa rara e da ripetere quanto prima, visti i buoni risultati-aggiungo-. I Depeche Mode hanno sempre avuto la capacità, da Some Great Reward (1984) in avanti, di restare fedeli a se stessi, alla loro missione musicale, aggiungendo o sottraendo input alla loro musica con perizia chirurgica, prorogando una longevità che sembra fare sempre tendenza-generando imitatori- pur restando ancorata all'elettronica e alla fede per i synth di partenza. Negli anni sono sempre cresciuti, hanno creato capolavori come Violator (1990) raggiungendo ogni tipologia di ascoltatore rock, ma si sono anche fermati, inciampando in qualche passo falso discografico e umano, e di stanca routine come l'ultimo Sounds Of The Universe. Delta Machine potrebbe rappresentare una (buona) nuova ripartenza, e perchè non sperare nel ritorno stabile di Alan Wilder dopo il timido riavvicinamento, per completare l'opera e dare maggiori stimoli per il futuro? Qui, di stanchezza sembra essercene meno a favore della ispirazione, nonostante ascoltando l'album per la prima volta, potrebbe sembrare il contrario. Ci vuole impegno. Nulla è regalato questa volta, nemmeno il singolo lo è.
"E’ bello fare qualcosa di diverso ogni volta, qualsiasi cosa. Magari qualcosa di semplice purchè non ci si ripeta. Heaven è stata composta al piano. Avevo scritto gli accordi, la linea vocale e il testo prima ancora di avvicinarmi ad un computer". Racconta Martin Gore, seconda voce straordinaria in molti punti del disco, durante l'intervista per il making of dell'album.
Difficile fare peggio del precedente Sounds Of The Universe e Delta Machine pur riprendendo idee e suoni già presenti e sentiti lungo i solchi di una carriera trentennale, riesce nel miracolo di collocarli in una nuova dimensione: moderna, cupa, oscura e quasi impenetrabile, dove la voce di Grahan si assume l'incarico di essere l'unico viatico d'entrata verso la forma umana, mentre la produzione di Ben Hiller gioca a smorzare più che a sottolineare, nonostante un ritorno massiccio all'elettronica. Un disco unico nella loro carriera, e mi permetto di dire ben riuscito. La non presenza di un vero e proprio singolo "riempi pista" a fare ombra, pone democraticamente tutte e 13 le canzoni sullo stesso livello, generando quasi un mood ininterrotto di 60 minuti, che parte dal benvenuto "sinistro" e ben augurante di Welcome To My World e arriva al commiato liberatorio e purificatore della finale Goodbye:
"Sei stato tu a togliermi l’anima di dosso/e poi l’hai buttata nel fuoco/e l’hai domata e rapita/
e mi hai riempito di desiderio/adesso sono puro/sono pulito/e mi sento bene e sereno".
Profondità e lentezza prendono spesso il potere come nella liquida onda elettro-cardiaca di My Little Universe o nella disturbante Alone, interrotte da repentine accelerazioni come capita in Angel o da alcuni episodi decisamente up tempo, in netta minoranza, come Should Be Higher , Shoote My Soul, forse l'unica concessione vera al dance floor e agli anni '80, o la già citata Soft Touch/Raw Nerve.
I temi delle liriche sono quelli di sempre, appesantiti da una coltre di scura nebbia disturbante convertita in assuefazione: il tempo che fugge (Broken), le paure, le sofferenze, gli incubi, anime in cerca di redenzione, le metafore religiose provenienti da un tenebroso e asettico mondo dove puoi dormire placidamente il sonno del diavolo per dare lui soddisfazione o camminare con l'angelo dell'amore che ti veglia sulla testa. Eppure ad uscirne vincitore è sempre la positività dei sopravvissuti (My Little Universe, Heaven, Goodbye).
Forse questo era il miglior seguito possibile di Songs Of Faith And Devotion (1995) che chiudeva un capitolo roseo della loro carriera, aprendone un altro poco felice, segnato da dipartite artistiche e cadute umane. Arriva solo oggi uno dei dischi più coraggiosi, intensi ed ostici della loro carriera. Se lo possono permettere. Un lavoro complesso, ipnotico, coraggioso e apprezzabile che lavora con lentezza e nel tempo, e che fa ben poco per accaparrarsi le simpatie del primo ascolto. Voto: 7
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN-Blues Funeral (2012)
vedi anche RECENSIONE: NICK CAVE & THE BAD SEEDS-Push The Sky Away (2013)
vedi anche RECENSIONE: EELS-Wonderful, Glorious (2013)
Delta Machine, tredicesimo album di studio della band britannica si nutre, a partire dal titolo, di una grande contraddizione: può il blues (nel senso più ampio del termine, e sottolineo ampio) essere spietatamente freddo e riuscire a riscaldare così bene anima e cuore? Se lo date in pasto alle macchine infernali di Martin Gore e Andy Fletcher, la risposta è sì. Ascoltate: il mistico singolo Heaven uno dei pochi veri momenti melodici e accessibili dell'intero disco che arriva a sfiorare il gospel, i disturbi di una Angel a due marce, la placida lentezza seduttiva sulle rive di un Mississippi contaminato di scorie in Slow, i synth battenti di Soft Touch/Raw Nerve, il canonico giro blues incastrato all'interno dell'electro incedere di Goodbye, quasi Muddy Waters, dall'alto, guidasse le mani di Gore sulle corde della chitarra (in verità, strumento poco presente in tutto il disco) all'interno di una macchina del futuro che il leggendario bluesman non ha fatto in tempo a conoscere, e che forse mai avrebbe apprezzato. In più, a rafforzare l'affermazione, l'esperienza maiuscola di Dave Gahan tra le ragnatele dei Soulsavers nel bello e poco celebrato The Light The Dead See dello scorso anno è servita, si sente nel timbro vocale rassicurante in continuo progresso durante gli anni e nella affermazione in fase compositiva del cantante; tre pezzi con la sua firma in un solo album sono cosa rara e da ripetere quanto prima, visti i buoni risultati-aggiungo-. I Depeche Mode hanno sempre avuto la capacità, da Some Great Reward (1984) in avanti, di restare fedeli a se stessi, alla loro missione musicale, aggiungendo o sottraendo input alla loro musica con perizia chirurgica, prorogando una longevità che sembra fare sempre tendenza-generando imitatori- pur restando ancorata all'elettronica e alla fede per i synth di partenza. Negli anni sono sempre cresciuti, hanno creato capolavori come Violator (1990) raggiungendo ogni tipologia di ascoltatore rock, ma si sono anche fermati, inciampando in qualche passo falso discografico e umano, e di stanca routine come l'ultimo Sounds Of The Universe. Delta Machine potrebbe rappresentare una (buona) nuova ripartenza, e perchè non sperare nel ritorno stabile di Alan Wilder dopo il timido riavvicinamento, per completare l'opera e dare maggiori stimoli per il futuro? Qui, di stanchezza sembra essercene meno a favore della ispirazione, nonostante ascoltando l'album per la prima volta, potrebbe sembrare il contrario. Ci vuole impegno. Nulla è regalato questa volta, nemmeno il singolo lo è.
"E’ bello fare qualcosa di diverso ogni volta, qualsiasi cosa. Magari qualcosa di semplice purchè non ci si ripeta. Heaven è stata composta al piano. Avevo scritto gli accordi, la linea vocale e il testo prima ancora di avvicinarmi ad un computer". Racconta Martin Gore, seconda voce straordinaria in molti punti del disco, durante l'intervista per il making of dell'album.
Difficile fare peggio del precedente Sounds Of The Universe e Delta Machine pur riprendendo idee e suoni già presenti e sentiti lungo i solchi di una carriera trentennale, riesce nel miracolo di collocarli in una nuova dimensione: moderna, cupa, oscura e quasi impenetrabile, dove la voce di Grahan si assume l'incarico di essere l'unico viatico d'entrata verso la forma umana, mentre la produzione di Ben Hiller gioca a smorzare più che a sottolineare, nonostante un ritorno massiccio all'elettronica. Un disco unico nella loro carriera, e mi permetto di dire ben riuscito. La non presenza di un vero e proprio singolo "riempi pista" a fare ombra, pone democraticamente tutte e 13 le canzoni sullo stesso livello, generando quasi un mood ininterrotto di 60 minuti, che parte dal benvenuto "sinistro" e ben augurante di Welcome To My World e arriva al commiato liberatorio e purificatore della finale Goodbye:
"Sei stato tu a togliermi l’anima di dosso/e poi l’hai buttata nel fuoco/e l’hai domata e rapita/
e mi hai riempito di desiderio/adesso sono puro/sono pulito/e mi sento bene e sereno".
Profondità e lentezza prendono spesso il potere come nella liquida onda elettro-cardiaca di My Little Universe o nella disturbante Alone, interrotte da repentine accelerazioni come capita in Angel o da alcuni episodi decisamente up tempo, in netta minoranza, come Should Be Higher , Shoote My Soul, forse l'unica concessione vera al dance floor e agli anni '80, o la già citata Soft Touch/Raw Nerve.
I temi delle liriche sono quelli di sempre, appesantiti da una coltre di scura nebbia disturbante convertita in assuefazione: il tempo che fugge (Broken), le paure, le sofferenze, gli incubi, anime in cerca di redenzione, le metafore religiose provenienti da un tenebroso e asettico mondo dove puoi dormire placidamente il sonno del diavolo per dare lui soddisfazione o camminare con l'angelo dell'amore che ti veglia sulla testa. Eppure ad uscirne vincitore è sempre la positività dei sopravvissuti (My Little Universe, Heaven, Goodbye).
Forse questo era il miglior seguito possibile di Songs Of Faith And Devotion (1995) che chiudeva un capitolo roseo della loro carriera, aprendone un altro poco felice, segnato da dipartite artistiche e cadute umane. Arriva solo oggi uno dei dischi più coraggiosi, intensi ed ostici della loro carriera. Se lo possono permettere. Un lavoro complesso, ipnotico, coraggioso e apprezzabile che lavora con lentezza e nel tempo, e che fa ben poco per accaparrarsi le simpatie del primo ascolto. Voto: 7
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN-Blues Funeral (2012)
vedi anche RECENSIONE: NICK CAVE & THE BAD SEEDS-Push The Sky Away (2013)
vedi anche RECENSIONE: EELS-Wonderful, Glorious (2013)
martedì 26 marzo 2013
RECENSIONE: HARPER SIMON (Division Street)
HARPER SIMON Division Street ( Play It Again Sam , 2013)
Primi mesi del 2013 all'insegna dei figli d'arte. Dopo Devon Allman e Shooter Jennings, ritorna anche Harper Simon, a quattro anni dal debutto omonimo, disco di folk/country che destò ottime impressioni, anche grazie alle buone collaborazioni incluse tra cui quella con l'amico d'infanzia Sean Lennon ma anche all'ombra di papà Paul Simon che aleggiava sulle canzoni, lasciando la sua firma concreta su un paio di esse. Forse è stata proprio la voglia di staccarsi dai pesanti paragoni che lo ha spinto a scrivere musica completamente diversa per questo ritorno discografico arrivato dopo un periodo di forte depressione che ne ha minato la salute. Harper Simon è riuscito a portare a compimento-con fatica- un lavoro che da un lato cerca nuove strade musicali soprattutto inspessendo le chitarre elettriche ("la missione era fare un disco di Rock n Roll di quelli che avrei voluto ascoltare io"), e riempiendo ogni buco del pentagramma di batterie pestanti, synth, tastiere e cercando quelle dissonanze moderne a volte anche troppo ingombranti, dall'altro rischia di piantare troppe spine su un pallone che potrebbe sgonfiarsi prima del previsto. Quasl' è il vero Harper Simon? Quello che sellava i cavalli a Nashville o quello che strizza l'occhio al moderno, seguendo la scia lasciata dagli Arcade Fire e dai tanti epigoni cresciuti come funghi in questi anni? Quello che si nutriva del calore country di un fuoco alimentato a legna o quello freddo e urgente che esce da canzoni come il singolo Bonnie Brae? Lo stesso Harper nel suo sito spiega così il carattere multiforme di alcune scelte: "Queste canzoni sono l'instantanea di un personaggio in un momento cruciale. Possono andare da una parte o dall'altra, una metaforica Division Street: su o giu, negative o positive, alla luce o all'autodistruzione", o ancora "mi piaciono Little Richard, The Kinks, Big Star, Hank Williams e i Pixies e i Television, Muddy Waters e i T.Rex. Mi piacciono gli Who e gli X. Mi piace tutto"
Da questa bulimica voglia di musica, inevitabilmente figlia della sua adolescenza privilegiata e scoppiata concretamente-dopo aver lavorato nelle retrovie-solo arrivato alla soglia dei quarant'anni, nascono fuzz garage martellanti e ossessivi come Veterans Parade, Eternal Questions, e soprattutto Dixie Cleopatra con una bella chitarra elettrica suonata dallo stesso Harper ed una batteria incalzante, quella di Pete Thomas (batterista degli Attractions di Elvis Costello), che si confrontano con l'acustica povertà di una Just Like St. Teresa così vicina a certi lontani episodi del padre Paul Simon insieme a Garfunkel o di Ellioth Smith. Non un caso che il produttore sia Tom Rothrock, che in passato lavorò con lo sfortunato cantautore di Omaha.
Parentesi New Wave '80 come Division Street e ariose canzoni pop che esplorano sul passato (99), orchestrali sinfonie dell'anima come Breathe Out Love, le viole che guidano la marziale e suggestiva Chinese Jade, le oscure, pischedeliche e darkeggianti spirali di Leaves Of Golden Brown, sono ingredienti di un disco piacevole ma spiazzante se paragonato con il precedente, che può diventare anche omologato se confrontato con i trend attuali.
Anche questa volta non si fa mancare gli ospiti: da Nikolai Fraiture ( Strokes), Nate Walcott (BrightEye), il tastierista Mikael Jorgensen (Wilco), Brian LeBarton (Feist), Inara George, cantautrice, figlia del compianto Lowell George ai cori.
L'impressione è quella di un talento smisurato, dalla voce ipnotica (qui, troppo spesso ingabbiata nei riverberi) e dalla grande personalità e abilità compositiva nel muoversi a proprio piacimento nell'universo musicale. Simon ha voglia di tirare fuori tutto il meglio di se stesso, e lo fa mettendosi completamente a nudo (tutte le liriche e le musiche sono sue), correndo però verso troppe direzioni, e due soli dischi completamente diversi tra loro potrebbero essere un pregio ma diventare anche troppo dispersivi e destabilizzanti per crearsi un seguito fedele. Ora che tutti i colori sono sulla tavolozza, si scelgano i preferiti. Io ho preferito le sfumature folk antiche e seppiate del debutto. Al terzo disco l'ardua sentenza.
vedi anche RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS-The Other Life (2013)
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth & Nail (2013)
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes a Worried Man (2013)
Primi mesi del 2013 all'insegna dei figli d'arte. Dopo Devon Allman e Shooter Jennings, ritorna anche Harper Simon, a quattro anni dal debutto omonimo, disco di folk/country che destò ottime impressioni, anche grazie alle buone collaborazioni incluse tra cui quella con l'amico d'infanzia Sean Lennon ma anche all'ombra di papà Paul Simon che aleggiava sulle canzoni, lasciando la sua firma concreta su un paio di esse. Forse è stata proprio la voglia di staccarsi dai pesanti paragoni che lo ha spinto a scrivere musica completamente diversa per questo ritorno discografico arrivato dopo un periodo di forte depressione che ne ha minato la salute. Harper Simon è riuscito a portare a compimento-con fatica- un lavoro che da un lato cerca nuove strade musicali soprattutto inspessendo le chitarre elettriche ("la missione era fare un disco di Rock n Roll di quelli che avrei voluto ascoltare io"), e riempiendo ogni buco del pentagramma di batterie pestanti, synth, tastiere e cercando quelle dissonanze moderne a volte anche troppo ingombranti, dall'altro rischia di piantare troppe spine su un pallone che potrebbe sgonfiarsi prima del previsto. Quasl' è il vero Harper Simon? Quello che sellava i cavalli a Nashville o quello che strizza l'occhio al moderno, seguendo la scia lasciata dagli Arcade Fire e dai tanti epigoni cresciuti come funghi in questi anni? Quello che si nutriva del calore country di un fuoco alimentato a legna o quello freddo e urgente che esce da canzoni come il singolo Bonnie Brae? Lo stesso Harper nel suo sito spiega così il carattere multiforme di alcune scelte: "Queste canzoni sono l'instantanea di un personaggio in un momento cruciale. Possono andare da una parte o dall'altra, una metaforica Division Street: su o giu, negative o positive, alla luce o all'autodistruzione", o ancora "mi piaciono Little Richard, The Kinks, Big Star, Hank Williams e i Pixies e i Television, Muddy Waters e i T.Rex. Mi piacciono gli Who e gli X. Mi piace tutto"
Da questa bulimica voglia di musica, inevitabilmente figlia della sua adolescenza privilegiata e scoppiata concretamente-dopo aver lavorato nelle retrovie-solo arrivato alla soglia dei quarant'anni, nascono fuzz garage martellanti e ossessivi come Veterans Parade, Eternal Questions, e soprattutto Dixie Cleopatra con una bella chitarra elettrica suonata dallo stesso Harper ed una batteria incalzante, quella di Pete Thomas (batterista degli Attractions di Elvis Costello), che si confrontano con l'acustica povertà di una Just Like St. Teresa così vicina a certi lontani episodi del padre Paul Simon insieme a Garfunkel o di Ellioth Smith. Non un caso che il produttore sia Tom Rothrock, che in passato lavorò con lo sfortunato cantautore di Omaha.
Parentesi New Wave '80 come Division Street e ariose canzoni pop che esplorano sul passato (99), orchestrali sinfonie dell'anima come Breathe Out Love, le viole che guidano la marziale e suggestiva Chinese Jade, le oscure, pischedeliche e darkeggianti spirali di Leaves Of Golden Brown, sono ingredienti di un disco piacevole ma spiazzante se paragonato con il precedente, che può diventare anche omologato se confrontato con i trend attuali.
Anche questa volta non si fa mancare gli ospiti: da Nikolai Fraiture ( Strokes), Nate Walcott (BrightEye), il tastierista Mikael Jorgensen (Wilco), Brian LeBarton (Feist), Inara George, cantautrice, figlia del compianto Lowell George ai cori.
L'impressione è quella di un talento smisurato, dalla voce ipnotica (qui, troppo spesso ingabbiata nei riverberi) e dalla grande personalità e abilità compositiva nel muoversi a proprio piacimento nell'universo musicale. Simon ha voglia di tirare fuori tutto il meglio di se stesso, e lo fa mettendosi completamente a nudo (tutte le liriche e le musiche sono sue), correndo però verso troppe direzioni, e due soli dischi completamente diversi tra loro potrebbero essere un pregio ma diventare anche troppo dispersivi e destabilizzanti per crearsi un seguito fedele. Ora che tutti i colori sono sulla tavolozza, si scelgano i preferiti. Io ho preferito le sfumature folk antiche e seppiate del debutto. Al terzo disco l'ardua sentenza.
vedi anche RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS-The Other Life (2013)
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth & Nail (2013)
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes a Worried Man (2013)
venerdì 22 marzo 2013
RECENSIONE:ELLIOTT MURPHY(It Takes A Worried Man)
Benvenuti in Murphyland.
Ci sono illustri americani che a Parigi hanno cercato nuova ispirazione poetica ma hanno trovato presto il riposo divino, fulmineamente barattato con l'ascensione verso la mitizzazione riservata alle rockstar eterne, ce ne sono altri che nella capitale francese non hanno trovato la gloria da consegnare ai posteri ma solo libertà, genuina ispirazione e buone motivazioni per continuare una carriera innalzata sull'onestà del lungo corso, costruita sulla strada, con il motto "del fare" in cima alla lista delle proprie priorità.
Elliott Murphy appartiene a questa seconda specie di emigranti, quelli che preferiscono ancora le strade contorte e collaterali del rock, una volta capito che la strada principale, chissà poi per quale oscuro motivo, è bloccata e non regala più del dovuto, affollata così com'è da continui ed ingombranti paragoni che lo perseguitano fin da inizio carriera e con le serrande del mercato discografico che si intravedono aldilà del marciapiede, sempre posizionate a metà altezza quando non chiuse del tutto. Per chi lo segue fin dai suoi imperdibili dischi degli anni '70 (Aquashow-1973, Night Lights-1976, Just A Story From America-1977), lui è già un mito e ciò basta. Da angelo biondo e ribelle di Long Island ad antico troubadour dei tempi moderni. Partito dalla New York glam degli anni '70 e arrivato in Europa nel 1989, non se n'è più andato, conquistato da quella che considera una delle capitali culturali del mondo (volete dargli torto?) costruendosi un seguito di fan affezionati e devoti. Amore recentemente contraccambiato con l'assegnazione a Murphy della prestigiosa Medaille de Vermeil de la Ville de Paris da parte del primo cittadino parigino. Anche l'Italia è una sua roccaforte e i piccoli locali sono i suoi caldi rifugi , a volte pure i grandi stadi lo accolgono, ma solo quando l'invito è spedito dall'amico Springsteen.
Carriera di un onesto poeta della musica, artigiano con tutte le potenzialità per essere un grande numero uno. Ogni tanto ce lo ricorda con qualche bella zampata, certamente non epocale, come questo nuovo disco che esce a di distanza di tre anni dal precedente. Il mondo di Murphy, come racconta nella ironica Murphyland, sta tutto qua, in questi 40 minuti di musica. Murphy ritrova un po'della sua America, la stessa che chiudeva il precedente album con Train Kept A Rolling.
Il Newyorchese è ancora una delle migliori penne del rock'n'roll, e non solo perchè divide la sua attività musicale con quella di scrittore e romanziere, ma perchè in It Takes A Worried Man riesce a mettere in piedi un concept accattivante tra realtà e fantasia, pieno di speranza, con stile e classe invidiabile, musicalmente vario che partendo da molto lontano, ripescando il traditional folk della iniziale Worried Man Blues, mette in fila i temi cardine di tutta una carriera: l'amore, il dolore, la speranza, il sogno, le illusioni, le amarezze, il viaggio e l'ottimismo, e li convoglia nella storia di un ipotetico viaggiatore alla ricerca della Murphyland perduta," il posto dove tutti vorremmo stare" e dove "Louis Armstrong canta Hello Dolly", il luogo dove poter realizzare i propri sogni, il posto da perseguire fin dalla giovane età, superando gli ostacoli e gli incontri "sbagliati" o salvifici della vita, che siano la malvagia Angeline, Mister Jackson, Fanny Gonzales o l'ultimo dei Ramone come canta in Little Big Man.
"La vita è meravigliosa, ma il mondo può essere un inferno" confessa nella dylaniana Then You Start Crying. Puoi essere circondato da tante cose materiali e persone ma il vuoto e la solitudine possono averla sempre vinta declama nella epica e riuscitissima tensione musicale creata da I Am Empty, una delle migliori canzoni del disco, con la signora Springsteen, Patti Scialfa, a raddoppiare la voce e Olivier Durand ad incorniciare il tutto con l'assolo finale.
"Oh e le cattive notizie arrivano senza sosta, siamo anime oscillanti come un acrobata, cenere alla cenere e polvere alla polvere, Hallelujah".
Istantanee di una esistenza vissuta ai limiti con la chimera dell'immortalità dettata dalla gioventù nella colata di parole del tagliente rock Day For Night, perdite che incidono come lame nella teatralità di He's Gone, autostrade come metafore di vita nel country placido di Eternal Highway, trombe che sbuffano e reclamano qualcosa in più dalla vita (Little Bit More), un pianoforte solitario e malinconico ad accomiatare tutte le sofferenze in Even Steven.
Il figlio ventitreenne Gaspard nuovamente a produrre, suonare e fare da regia ad un disco registrato in giro per il mondo (Parigi, Bruxeles, New York), e suonato ancora insieme ai fidati The Normandy All Stars ( Olibvier Durand alle chitarre, Laurent Pardo al basso, Alan Fatras alla batteria).
Questa è un po' la sua autobiografia. Un uomo (preoccupato) che ha scelto di vivere nella sua Murphyland, compiere le sue scelte in totale libertà, pagandone forse in termini di successo ma guadagnandone in coerenza e meritato rispetto.
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-Elliott Murphy (2010)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG- Tooth & Nail (2013)
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