lunedì 15 aprile 2013

RECENSIONE:VOLBEAT ( Outlaw Gentlemen & Shady Ladies)

VOLBEAT  Outlaw Gentlemen & Shady Ladies  ( Republic Records/Vertigo, 2013)

Non hanno più bisogno di troppe presentazioni: negli ultimi anni, i danesi Volbeat hanno raggiunto una tale popolarità, confermata dalle buone cifre di vendita (l'ultimo Beyond Hell/ Above Heaven ha venduto 750.000 copie, tantissime, di questi tempi), dalle buonissime prestazioni live in giro per il mondo-mi hanno fatto veramente una buona impressione-, dai buoni feedback da parte dei colleghi musicisti, e soprattutto dalla loro originale mistura musicale dove thrash metal, hard rock e punk prendono a braccetto atmosfere western in stile morriconiano, rockabilly '50 e accenni country-di grana grossa-formando canzoni epiche, anthemiche, trascinanti come se Metallica, Misfits e Johhny Cash iniziassero a jammare insieme, a tarda notte, in qualche squallido saloon abbandonato di una sperduta ghost town con la greve, rassicurante e caratterizzante voce del cantante Michael Poulsen a dominare il vecchio microfono che scende dal soffitto. Continuazione e affinamento del lavoro iniziato dai veterani The Waltons (chi se li ricorda?), band tedesca antesignana del cowpunk europeo. Cercate il loro Remain In Rust (1992).
Questa volta però, e mi spiace aggiungere questo "però" vista l'enorme stima che nutro per loro, il disco mi convince a metà, complici sicuramente un fattore sorpresa ormai svanito dopo 5 dischi di studio ma soprattutto alcune scelte melodiche e stucchevoli, da voler essere "piacioni " a tutti i costi, che pur presenti da sempre nel loro suono, sembrano abbondare  fuori misura e convincere veramente poco nella loro prevedibilità (Pearl Hat, The Sinner Is You, Cape Of Your Hero), rischiando di far storcere il naso soprattutto a chi li segue dai tempi del debutto nel 2005 o da quello che rimane il loro capolavoro Guitar Gangsters & Cadillac Blood (2008). Sotto al buon messaggio del singolo Cape Of Your Hero si nasconde una canzone musicalmente scontata, senza anima che  strizza eccessivamente l'occhio all'airplay radiofonico in cerca di nuovi seguaci tra gli ascoltatori più giovani e distratti. La cover di My Body dei Young The Giant, buon successo commerciale dello scorso anno sembra confermare la tesi e rafforzare i timidi segnali di alleggerimento provenienti già dal precedente disco. Ma i Volbeat che abbiamo sempre conosciuto dove sono finiti? Fortunatamente ci sono ancora.
Allora meglio quando toccano gli estremi della loro musica. Da una parte, il lato hard/metal come il thrash tout court di Dead But Rising, The Hangman's Body Count, la velocissima  Black Bart e i suoi cambi di tempo, o meglio ancora in Room 24, vero masterpiece del disco: oscura, sinistra, dall'intro sabbathiano  e dall'incedere sulfureo alla Mercyful Fate che può vantare il malefico connazionale King Diamond e la sua incredibile "doppia" voce pienamente calata nella parte. Canzone che vale sicuramente l'acquisto del disco.
L'altro estremo conferma una spiccata vena narrativa sospesa tra finzione e realtà che esplora il mondo western e alcuni suoi "mitici" personaggi come la focosa e affascinante ballerina Lola Montez, donna dai mille aspetti che il compositore Richard Wagner non esitò a definire "un essere demoniaco" nel tirato rock'n'roll a lei dedicato e nella epica Doc Holliday, fedele al famoso fuorilegge del selvaggio west da cui prese il nome anche la band di southern rock attiva negli anni '70/'80, introdotta da un banjo suonato da Rod Sinclair, e con la voce di Poulsen che si fa sempre più simile a quella di James Hetfield. Una western'n'thrash song ben confezionata e dai chorus sinistri e vincenti.
Ancora: la buona Lonesome Rider, riuscito country/rockabilly con tanto di slide e contabbasso, cantata in coppia con  Sarah Blackwood e la finale Our Loved Ones, semi-ballad che farebbe comodo ai Metallica odierni in crisi di canzoni che lascino il segno.
Tra le novità più importanti c'è sicuramente da segnalare l'entrata in formazione di Rob Caggiano (ex chitarrista degli Anthrax) che oltre a portare esperienza e produrre il disco, inizialmente unico suo compito, è diventato il nuovo axe man della band dopo la fuoriuscita di Thomas Bredahl.
Un disco sicuramente piacevole e poliedrico, ben confezionato, che porterà nuovi seguaci alla band danese, ma che, devo essere onesto, per la prima volta non mi convince in toto. In alcuni episodi manca quella naturale spontaneità, presente nei precedenti dischi, che li aveva innalzati sopra al piedistallo riservato alle band più fresche e genuine degli ultimi anni. A volte sembrano viaggiare con il freno a mano tirato, cercando la soluzione più facile e melodica, vittime e schiavi di una formula che si è fatta sempre più accattivante, ma che inizia a ripetersi a scapito di una esplorazione più esaustiva in territori rockabilly/country '50 che molte volte sembrano solo accennati per confermare il loro trademark, senza procedere, perchè no, in uno sviluppo reale, approfondito e concreto, sicuramente nelle loro corde visto lo smisurato amore del cantante Poulsen per certe sonorità. Disco di transizione nella loro discografia o inizio di una nuova era mainstream? Voto 6,5




vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)








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