venerdì 19 aprile 2013

RECENSIONE:STEVE EARLE & THE DUKES ( & DUCHESSES ) (The Low Highway)

STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES)  The Low Highway ( New West Records, 2013)


"C'è qualcosa di strano quando una persona guida la macchina mentre tutti gli altri sognano con le loro vite affidate alla sua mano ferma, qualcosa di nobile, qualcosa di antico nella sua umanità, una sorta di antica fiducia nel Buon Vecchio Amico." Jack Kerouac

Lasciamoci tranquillamente guidare da un "autista della vita" come Steve Earle, che conosce la strada molto bene, anche se in passato ha sbandato, rischiando di andare fuori carreggiata e compromettere il viaggio fin troppo in fretta. Ma proprio gli incidenti di percorso lo rendono, oggi, consapevole e affidabile. Un saggio dalla lunga barba ascetica e cappellaccio calato in testa di cui fidarsi ad occhi chiusi e orecchie sempre aperte. Il Buon Vecchio Amico che cerchiamo, in grado di raccontare storie che ti rivoltano la pelle, ti fanno pensare, ma anche sognare. Consapevolezza del proprio passato e degli errori fatti che sembra uscire dalle liriche della confessionale Pocket Full Of Rain, adagiate su un tappeto di pianoforte che accompagna un lento boogie da fine serata sonnolenta con un sussulto improvviso a darti la sveglia. "Mi ricordo ancora quando ero solito uccidere il dolore, ma mi svegliavo ogni mattina con una manciata di pioggia".
Il quindicesimo album di Steve Earle non delude anche se sai già cosa ti aspetta, perchè, in fondo le strade sono sempre quelle, magari percorse centinaia di volte ma con il fascino sempre intatto della prima volta. "Ho percorso ogni singola strada che attraversa gli Stati Uniti e non mi sono mai stancato dello spettacolo. Ho visto un bel po' di mondo e il mio passaporto consumato è una delle cose più preziose che ho, ma per me, non c'è niente come la prima notte di un viaggio nel Nord America", racconta Earle nella presentazione del disco che inaugura il libretto.
L'ultima uscita discografica I'll Never Get Out Of This World Alive (2011) parlava di viaggi molto più tristi e ultraterreni, segnata profondamente dalla perdita del padre e dalla placida uniformità musicale di fondo. Questa volta le scorribande puzzano di copertoni fumanti su asfalto bollente, gasolio perso lungo la strada, paesaggi fantasmi, emarginazione sociale e fantasmi in carne ed ossa a bordo strada, ricordi immaturi di una infanzia trascorsa tra la middle class americana (Burnin' It Down, quasi cajun con la contagiosa fisarmonica), e un tenerissimo passaggio di consegne alle future generazioni quello cantato in compagnia di una spoglia chitarra folk che ricama sopra alla steel guitar nella conclusiva Remember Me. Il tutto accompagnato da tiepido cibo americano a sfamare durante le soste, e spalmato su una maggiore varietà musicale.
"Tutti quanti, band e compagnia al completo, ammassati in macchina, mangiando il pollo piccante di Nashville e il formaggio al peperoncino fatto in casa di Betty Herbert, raccontandosi sempre le stesse vecchie storie ad alta voce per via del continuo sferragliare e ronzare delle auto sulla strada. E sono sempre io il primo a dire buonanotte all'autista Charlie Quick e a rinchiudermi in cuccetta. Perché per me è come la notte della vigilia quando ancora credevo a Babbo Natale. Dio, come amo tutto questo".

Potrebbero bastare le parole di Earle a presentazione del disco per dipingere il quadro sincero e veritiero (compreso un sentito ringraziamento ai suoi fan) su cui si posano queste nuove 12 canzoni che riportano il nome dei Dukes in copertina ( Chris Masterson alle chitarre, Kelley Looney al basso, Will Rigby alla batteria). Ma non solo, questa volta ci sono anche le Duchesses a simboleggiare una nutrita rappresentanza femminile: la moglie Allison Moorer al piano, Eleanor Whitmore al violino, e Siobham Kennedy, moglie del produttore Roy Kennedy ai cori, a cui aggiungerei Lucia Micarelli, coautrice della evocativa After Mardi Gras e di Love's Gonna Blow My Way, canzoni che hanno già fatto la loro comparsa nella serie televisiva americana Treme, ambientata nella New Orleans post Katrina. Sorte che toccò anche a This City del precedente disco. Steve non dimentica.
Bellezza dei paesaggi americani che entra da un finestrino ed esce dall'altro, contrapposta alle comparse solitarie senza un tetto, quasi "invisibili" ma che, con la forza della dignità, popolano i vicoli abbandonati dalla grazia di Dio di ogni città americana. Una passeggiata salvifica."C'e un buco nella mia scarpa, ma non mi dispiace perchè mi tiene collegato alla terra..." canta appena attacca Invisible, cristallino esempio della vitalità ancora presente nella sua scrittura.
La stessa sorte nella placidità country/folk di The Low Highway, posta in apertura, con voce aspra, una chitarra acustica, steel guitar e violino a raccontare di paesaggi diventati spettrali; chitarra che diventa tagliente, elettrica, rock ed incisiva quando i Dukes entrano prepotentemente in scena nella circolare Calico County o nella presa di coscienza sui mali del secolo in corso in 21st Century Blues, quasi springsteeniana (post 11 Settembre) nel suo incedere."Non è il futuro che Kennedy mi aveva promesso nel ventunesimo secolo".
Musicalmente vario, pesca a piene mani nell'abbondante sacca della sua carriera, ritrovando un trascinante violino che guida il bluegrass affogato irish della corta Warren Hellman's Banjo, lo swing old style di Love's Gonna Blow My Way, il country di Down The Road Pt.II, le atmosfere zydeco di frontiera in That All You Got?, in duetto con la moglie e una fisarmonica che invita al ballo.
The Low Highway è pieno di vita, nato sulle strade, durante quei rituali sempre uguali ma costantemente adrenalinici, immersi in quegli odori che i chilometri di strada sventagliano a più riprese, tutte cose che Earle conosce a memoria fin dai suoi primi passi musicali segnati dai continui spostamenti in cerca dell'ispirazione giovanile, della buona sorte, dei suoi miti giovanili: San Antonio, poi Houston, Nashville, ora New Orleans, tappe che oggi ripercorre con spirito diverso, coscenzioso, portando in giro le canzoni durante i tour. Ora che è un punto di riferimento per tutte le nuove generazioni di musicisti americani, non ha più nulla da cercare ma tutto da insegnare...e che lezione! L'ennesima. Guida Steve, guida, tieni forte il volante!



vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive (2011)



vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorroland (2012)




vedi anche ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)




vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)



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