sabato 13 maggio 2017

RECENSIONE: CHRIS STAPLETON (From A Room, Volume I)

CHRIS STAPLETON    From A Room, Volume I (Mercury Nashville, 2017)




“Il luogo dove registri può influenzare, nel mio caso anche elevare, quello che fai”. Con queste parole CHRIS STAPLETON, 38 anni, sintetizza il titolo scelto per l’ambizioso progetto musicale di questo 2017. Il 5 Maggio sono uscite le prime nove canzoni raccolte sotto il titolo: From A Room, Volume I. A fine anno arriverà il volume II. Chris Stapleton ha registrato il seguito del fortunato debutto TRAVELLER, negli stessi studi di Nashville dove registrarono i suoi grandi idoli: Waylon Jennings, Willie Nelson, Elvis Presley. Mura piene di storia che un paio d’ anni fa furono salvate dal triste destino a cui stavano andando incontro: la demolizione. Scongiurata la wrecking ball rimane la magia. Prodotto con il fido Dave Cobb, che ci suona anche la chitarra acustica, Stapleton cerca di bissare il grande successo di un debutto nato sulle highway, durante un lungo viaggio con la moglie in cui cercò di recuperare il meglio di se stesso, dopo alcune delusioni di vita, e le sue esperienze musicali, comprese le parentesi con i suoi vecchi gruppi, e le tante canzoni scritte per altri come autore. Con lui in studio: la moglie Morgane Stapleton ai cori, il batterista Derek Mixon, il basso di J.T. Cure e le ospitate di Mickey Raphael all’ armonica, Robby Turner alla pedal steel e le tastiere di Mike Webb. 
 Volume I ripete bene la formula, bilanciando le varie anime della sua musica anche se a prevalere, come già anticipato dal debutto, è sempre quella più soul e nera grazie soprattutto alla sua straordinaria voce: ‘I Was Wrong’, l’incidere soffuso e notturno della finale ‘Death Row’, la splendida ‘Either Way’ che insieme a ‘Last Thing I Needed , First Thing This Morning’ (rubata a Willie Nelson) sono il punto più alto del disco e sembrano uscite da impolverati dischi motown abbandonati su una vecchia diligenza guidata da vecchi cowboy e persa tra le strade del Texas. Come se Otis Redding camminasse, senza fretta, sotto braccio a Waylon Jennings. Outlaw soul. Maggiore omogeneità rispetto al debutto, spezzata solamente da un lento walzerone country dominato dalla lap steel (‘Up To No Good Livin’’), un vecchio blues con l’armonica (‘Them Stems’), e l’incalzante rock di ‘Second One To Know’, il momento più elettrico e movimentato del disco. Chris Stapleton si conferma uno degli ultimi depositari di una vecchia formula che tra gli anni sessanta e i settanta cercò di riscrivere la musica americana. Anche se un punto inferiore al debutto, che poteva giocarsi la carta sorpresa, rimane pur sempre due punti superiore per spessore e intensità alla media delle uscite odierne nel suo campo. Ora non rimane che aspettare il secondo volume previsto per fine anno, che potrebbe riservare ulteriori sorprese, altrimenti non si spiegherebbe questa divisione, vista l’esigua durata del disco.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)


mercoledì 10 maggio 2017

RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO' (TajMo)

TAJ MAHAL & KEB’ MO’    TajMo (Concord Music, 2017)






Ieri in rete è andata in onda l’ennesima puntata di: "anche in musica i soldi possono dividere le persone". Il tutto riferito al prezzo dei biglietti del concerto dei Rolling Stones con pro e contro annessi. Passiamo oltre. Lasciamo parlare la musica. Fortunatamente in nome della musica ci si unisce anche e l’esordio di questa inedita quanto affiatata coppia di musicisti ne è la testimonianza più fresca e attuale. Un connubio cementificato dopo un tributo a Duane Allman e proseguito in questi due anni, culminato con questa raccolta di undici canzoni. “ E’ stato divertente. Questa collaborazione era nell’aria da diverso tempo, ma ora che si è compiuta sono veramente colpito. Keb’Mo’ è davvero bravo a tenere la palla in aria. È un inferno di chitarrista. Sono stupito dalle cose che è riuscito a tirare fuori”. Così Taj Mahal ha raccontato il feeling nato con il chitarrista di Los Angeles. L’alunno segue il maestro e il maestro lascia spazio all’alunno (comunque classe 1951), tanto che Keb’ Mo’ non si fa remore nel chiamare “guida” il suo esperto compagno. Comunque sia, due maestri nel loro campo. Due esperti in contaminazione. E il campo di gioco è lo stesso che Taj Mahal contribuì a svecchiare fin dal lontano esordio del 1968, allungando le radici versi tanti altri orizzonti sonori, rivestendo il blues di abiti moderni e all’avanguardia per l’epoca. Qui, nel 2017, in aggiunta: l’intreccio delle loro voci e delle chitarre. Tutto l’amore per il blues libero e contaminato che sa: essere elettrico (‘Don’t Leave Me Here’, ‘Show Knows How To Rock Me’), acustico, riprendendo quella ‘Diving Duck Blues’ di Sleepy John Estes dal debutto di Majal appunto, soul in ‘Shake In Your Arms’ con la chitarra ospite di Joe Walsh, stringere la mano al reggae nella cover degli Who ‘Squeeze Box’, bagnarsi nei mari dei Caraibi (‘Soul’), esprimere tutto l’amore per il Sud degli States (‘Don’t Lleave Me Here’), salutarci con la cover ‘Waiting On The World To change’ di John Mayer che ospita la voce di Bonnie Raitt. Il tutto senza mai perdere per strada eclettismo e freschezza. Niente di nuovo, nulla di rivoluzionario, non il disco dell’anno, ma certamente sarà il miglior disco da ascoltare in macchina durante le prossime lunghe (e corte) trasferte estive verso le mete dei vostri concerti. Pure se andrete a qualche concerto troppo costoso. Perché la musica, alla fine, ricuce e unisce tutto. Chiedere a Taj Mahal.






RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (featuring CARLENE CARTER)-Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE:  GARLAND JEFFREYS -14 Steps To Harlem (2017)


lunedì 8 maggio 2017

RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS (14 Steps To Harlem)

GARLAND JEFFREYS    14 Steps To Harlem (Luna Park Records, 2017)





C’è chi della contaminazione ne fa una malattia, si inventa guerre puntellate sulle assi cigolanti dell’odio e della supremazia razziale, e poi c’è chi ne trae fuori bellezza e giovamento. Lasciamo i primi girare senza meta intorno al loro livore basato sull’invidia (“molta gente non è ancora pronta” dice Jeffreys) e facciamo un monumento a GARLAND JEFFREYS che dalla contaminazione (il suo sangue è di tanti colori e parla diverse lingue, la sua musica pure) si ècostruito una carriera, non sempre ai vertici del successo, ondulante tra picchi, cadute di tono e assenze prolungate, ma sicuramente degna di essere raccontata e rispettata. 14 STEPS TO HARLEM non sfugge a quello che ha sempre mostrato con la sua musica: di essere aperto a ogni suggestione musicale, a ogni genere, ad ogni luogo e ogni tempo. Da Brooklyn a Firenze dove studiò e abitò in gioventù, il passo è sempre più breve di quanto ci si aspetti. Se il disco si apre in leggerezza con un chorus pop rock quasi danzereccio (‘When You Call My Name’) dominato dai shynth che ti si stampa in testa, continua poi sulle antiche strade del blues, dell’amato reggae, del soul, del rock, della musica latina, dei linguaggi musicali più moderni del ghetto (‘Colored Boy Said’), delle classiche ballate newyorchesi. L’ambientazione è la stessa di sempre: parte dalle strade di New York , suggestiva la ballata ‘Luna Park Love Theme’ ambientata a Coney Island e che ospita Laurie Anderson al violino, e si propaga in giro verso le strade del mondo. Lo sguardo è spesso rivolto al passato. Principalmente a suo padre in ’14 Steps To Harlem’ , un onesto lavoratore che con i soldi guadagnati con tanta fatica gli permise di studiare all’università e lo introdusse alla musica,
quand’ero giovane mio padre mi introdusse nel mondo del jazz, ho visto grandi artidsti ad Harlem. Ho visto Nina Simone al Village Gates, l’ho conosciuta, suonava con Sonny Rollins”, alla sua infanzia (‘Schollyard Blues’), alla vecchia New York del 1981 che ospitava i Clash in tour mentre lui promuoveva l’acclamato ESCAPE ARTIST (‘Reggae On Broadway’) e tra gli spettatori c’era Joe Strummer . Ma anche al presente con i pensieri rivolti alla moglie (‘Venus’ potrebbe essere scritta da Van Morrison) e alle sue origini portoricane (‘Spanish Heart’). Piazza pure due cover: una carezzevole ‘Help’ dei Beatles dedicata a John Lennon, conosciuto al Record Plant e ‘Waiting For The Man’ dei Velvet Underground, un dichiarato omaggio al vecchio amico Lou Reed. “Ho incontrato Lou Reed alla mensa della Syracuse University nel 1961. Lou era al sencondo anno, Io una matricola. Nessuno ci ha presentato. Ci siamo fiutati a vicenda. Lui arrivava da Long Island io da Brooklyn”. Produce James Maddock. In questi giorni stavo cercando qualcosa di fresco che potesse sostituire gli abituali abitanti della mia autoradio. Sapete quei lunghi viaggi sulla lingua d’asfalto? 14 STEPS TO HARLEM si è guadagnato il primo posto con poca fatica!





RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP-Sad Clowns & Hillbillies (2017)


mercoledì 3 maggio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 34: EDOARDO BENNATO (Edo Rinnegato)


EDOARDO BENNATO    Edo Rinnegato (Warner Fonit, 1990)








Luglio 1990. Il gol del pareggio di Claudio Caniggia, o se volete l’uscita avventata di Walter Zenga (imbattuto fino a quel momento), spensero la terz’ultima stella di quelle notti magiche italiane. A far calare il buio completo ci pensarono i rigori falliti di Donadoni e Serena. Tutte le stelle spente, le notti perdono la scia magica, anche gli occhi di Schillaci non luccicano più. Argentina in finale. Il sipario calò miseramente... anche su quel tormentone (ascoltato fino allo sfinimento ovunque) musicato da Giorgio Moroder con il testo dell’inedita coppia Bennato/Nannini che ci accompagnò dal Dicembre dell’anno prima fino a quel 3 Luglio. Rivelandosi comunque, a fine anno, il singolo più venduto in Italia.
Ma Edoardo Bennato aveva già pensato a tutto, nuovamente: dal 20 al 28 Maggio, a pochissimi giorni dall’inizio dei mondiali chiamò con sé i vecchi amici Roberto Ciotti (l’ultima apparizione del bluesman romano in un disco di Bennato risaliva a BURATTINO SENZA FILI del 1977), Lucio Bardi e Luciano Ninzetti alle chitarre, Andy Forest all’armonica e in soli otto giorni, chiusi dentro ai Baby Record Studios di Milano, registrarono in presa diretta EDO RINNEGATO, un disco totalmente acustico con il non trascurabile primato di essere il primo (live) unplugged sul mercato italiano, prima ancora che MTV iniziasse a staccare le spine a tutti quanti.

Nella copertina, disegnata dallo stesso Bennato, c’era tutto il misero armamentario usato: chitarre acustiche, armoniche, tamburelli e kazoo. Stop. Ancora adesso se qualche neofita di Bennato, esiliato dal mondo fino a ieri in qualche isola (che non c’è), mi chiedesse un “disco iniziazione” all’opera di Bennato, lo farei partire da qui. Un riepilogo di carriera che parte dalle lontane ‘ Venderò’, ‘Rinnegato’, ‘Arrivano i Buoni’ ‘La Bandiera’, ‘Franz è il mio Nome’, ‘Ma Che Bella Città’ e arriva fino alle allora più recenti ‘Abbi Dubbi’, ‘Sogni’, ‘La Luna’, ‘La Chitarra’ completamente messe a nudo, svestite dai pesanti abiti anni 80. Il disco uscì a mondiali finiti, nell’autunno del 1990. Ma l’estate di Bennato non terminò con il terzo posto dell’Italia: il 13 Luglio partecipò a Pistoia Blues, dividendo il palco con sua maestà B.B. King e con il nuovo (e sfortunato) astro nascente della chitarra blues Jeff Healey. In quel Luglio del 1990 il campione del mondo fu Edoardo Bennato. Abbi dubbi? No!




DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

venerdì 28 aprile 2017

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Superdownhome)

SUPERDOWNHOME  Superdownhome (Roam, 2017)







Un contrasto vincente! Non lasciatevi ingannare troppo dalla copertina che li ritrae seduti, elegantemente vestiti, su due poltrone Chesterfield. E non dovrete farvi ingannare nemmeno da come si presentano in concerto: esattamente così. A cambiare sono solo le poltrone vintage, sostituite da due poveri sgabelli. Dal lato blu notte esce la figura di Enrico Sauda, seduto alle prese con le sue chitarre (cigar box artigianali comprese), dal lato rosso carminio Beppe Facchetti, seduto dietro a cassa e rullante. Il minimo indispensabile. Il contrasto qual è allora? La musica. Perché proprio di sottrazione vivono le loro canzoni. I due esperti musicisti bresciani sono in giro da circa due anni sotto il nome Superdownhome, ma solo ora sembrano aver trovato la strada vincente, e ce la mostrano con questo primo ep prodotto da Marco Franzoni e Ronnie Amighetti (preludio a qualcosa di più sostanzioso, si spera) composto da cinque brani: quattro autografi e la cover di ‘Shake Your Money Maker’ di Elmore James. Sauda e Facchetti hanno trovato nel rock blues viscerale, terroso, innaffiato da buone dosi di alcol, e molto vicino a personaggi come Seasick Steve e Scott H. Biram (giustamente omaggiati durante i live), ma anche i Black Keys, il loro punto in comune. Basterebbe l’ascolto della riuscitissima ‘Can’t Sweep Away’ a fugare ogni dubbio, con il bellissimo video compreso. Enrico Sauda è un dotatissimo chitarrista dall’animo rock blues, con un alcuni dischi solisti alle spalle, attualmente in vista con la band The Scotch, ammirata recentemente in apertura a Alejandro Escovedo a Chiari; Beppe Facchetti ha un curriculum vitae lunghissimo (che potrete cercarvi nel web) per cui mi limito a citare il suo prezioso lavoro con The Union Freego e Slick Steve And The Gangsters. Two men band, a volte è meglio di one.







BRESCIA ROCK (5 band da conoscere: Slick Steve & The Gangsters, Van Cleef Continental, Thee Jones Bones, Il Sindaco, The Union Freego)
RECENSIONE:  THEE JONES BONES-This Is Love (2017)
RECENSIONE: THE CROWSROADS-Reels (2016)

giovedì 27 aprile 2017

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP featuring CARLENE CARTER (Sad Clowns & Hillbillies)

JOHN MELLENCAMP (featuring CARLENE CARTER)      Sad Clowns & Hillbillies (2017)






Prime luci dell’alba in autostrada, questa mattina 26 Aprile 2017, tra code, incidenti e diluvii-dicono che in questi tre giorni scenderà tutta l’acqua che di solito cade in un mese- ma con il nuovo salvifico SAD CLOWNS & HILLBILLIES a girare senza interruzioni nell’autoradio. Per tre volte consecutive. Un disco che impiega poco a scaldare e asciugare quello che trova intorno: cuore e asfalto su tutto. E posso dire di più: da alcuni anni JOHN MELLENCAMP non sbaglia un colpo, e fa piazza pulita intorno a sè. Quando scava così a fondo nelle radici americane ha veramente pochi rivali tra i colleghi coetanei. Sad Clowns & Hillbillies continua il discorso iniziato dal disco di cover TROUBLE NO MORE (2003) che toccò il culmine con NO BETTER THAN THIS (2010), ma va anche a riprendere i fili lasciati in dischi cardine della sua carriera come THE LONESOME JUBILEE (1987) e BIG DADDY (1989), soprattutto grazie alla presenza del violino di Miriam Strum che fa quello che faceva Lisa Germano. Ascoltare ‘All Night Talk Radio’ e ‘Indigo Sunset’.
Prima di questa nuova avventura musicale nata sui palchi del tour del penultimo, splendido disco PLAIN SPOKEN, Mellencamp, democratico di lungo corso, ha sentito il forte bisogno di dire la sua sulle condizioni in cui versa il suo paese “una riflessione sullo stato del nostro paese” dice a proposito della canzone ‘Easy Target’, piazzata qui a fine scaletta, ma che anticipò invece il disco e le elezioni americane in autunno. Fu un istant single, uscito un giorno prima dell’ l’insediamento di Donald Trump alla casa bianca. Mellencap canta di sucker town, di bersagli facili, delle minoranze più esposte al pericolo, di armi facili, povertà e razzismo, crea un quadro poco invitante che la mano di Trump potrebbe rovinare ancora di più con altre pennellate fuori fuoco. Sull’avvento di Donald Trump, Mellencamp raccontò: “non so davvero che cosa ha intenzione di fare o il perché dice una cosa e poi ne fa un'altra. Trump dice : ‘non abbiamo intenzione di coinvolgere Wall Street,' e tutto il suo gabinetto è Wall Street. Mi sto solo mettendo comodo per vedere le cose strane che arriveranno ".
Buona visione, aggiungo io. I risultati disastrosi sono già sotto i nostri occhi.
 "So Black Lives Matter, who we tryin’ to kid / Here’s an easy target / Don’t matter, never did / Crosses burnin’, such a long time ago / 400 years, and we still don’t let it go / Well, let the poor be damned and the easy targets, too / All are created equally, beneath you and me.” Canta Mellencamp.
E tutte le restanti canzoni del disco sono legate dallo stesso filo conduttore: la lotta. Contro noi stessi e contro quello che ci circonda. Sebbene il nome di CARLENE CARTER compaia in copertina (l'intesa artistica nacque dopo il musical  Ghost Brothers of Darkland County, scritto da Mellencamp con Stephen King), la figlia di June Carter e Carl Smith (figlioccia di Johnny Cash) duetta solamente in cinque canzoni su tredici, e tra queste c’è ‘My Soul Got A Wings’, con un testo di Woody Guthrie che Mellencamp ha musicato in salsa country gospel, perché il disco nacque per essere una raccolta di canzoni dal marcato sapore spiritual cantate in duetto. Con il tempo l’idea è stata abortita e da quelle registrazioni si sono salvati solo alcuni brani tra cui una buona ‘Damascus Road', infarcita di riferimenti biblici. Un disco molto più vario musicalmente rispetto alle ultime uscite: accanto a numeri folk come ‘What Kind Of Man Am I’, troviamo quel heartland rock alla vecchia maniera con le chitarre elettriche più marcate di ‘ Early Bird Cafe’ (brano di Lane Tietgen conosciuto nella versione di Jerryy Hahn) o di ‘Grandview’ in duetto con Martina McBride stavolta e la presenza di due ospiti come l’ex Guns N’ Roses Izzy Stradlin alla chitarra e Stan Lynch, l’ex Heartbreaker di Tom Petty, alla batteria; una ‘Sugar Hill Mountain’ che sbuffa come se fosse suonata da una big band e che non avrebbe sfigurato tra le Seeger Session di Bruce Springsteen e una magnifica ‘Sad Clowns’ che potrebbe essere uscita dall’ugola consumata dalla nicotina di un Tom Waits qualsiasi datato 1973-1978. Oltre ai già citati, ad accompagnare Mellencamp tra i tanti anche: i fidi Andy York, Troye Kinnett, Mike Wanchic e il vecchio amico Kenny Aronoff come ospite.
Chiamatelo ancora cougar, chiamatelo bastardo, additatelo come un tipo poco avvicinabile e burbero, ma quando ci si mette…

Nota a margine di un disco senza sbavature: il packaging del CD è inesistente. Una misera bustina di cartone con pochissime note (titoli e nomi dei musicisti) illeggibili sul retro e...stop. In tempi in cui si dovrebbe puntare almeno sulla qualità del supporto fisico, questo è un grande passo falso. Imperdonabile. Pollice verso. Consiglio di puntare sull'edizione in vinile.





RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP, STEPHEN KING, T BONE BURNETT, AA.VV. -Ghost Brothers Of Darkland County (2013)

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP Live@Vigevano 9 Luglio 2011

 John Mellencamp – Recensione – Performs Trouble No More



lunedì 24 aprile 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 33: RONNIE LANE'S SLIM CHANCE (One For The Road)


RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (Island Records, 1976)





“Pronto? Ciao Ronnie, te la fai una birra giù al pub stasera?”
“Certo Enzo, solita ora lì?”
“Ok, a dopo.”
Semplice, no? Se potessi scegliere una bevuta al pub insieme ad una rockstar sceglierei Ronnie Lane. Ma, un attimo: ho usato una parola che non va bene. Non è birra, non è pub, ovviamente. Ronnie Lane ha un passato radioso con gli Small Faces e con i Faces poi, ma di rockstar non ne voleva proprio sentir parlare. È sempre fuggito da quel mondo, e lo dimostra bene la sua carriera solista, durata veramente poco, il giro di un poker di album nei settanta, ma intensa. Come poteva amare hotel, piscine e mega tour uno che mise in piedi una sorta di carovana da circo itinerante denominata Passing Show, la si può vedere nel retro copertina, per poter portare la sua musica (una sorta di country folk rustico americano ma in salsa britannica) in giro nei posti più inconsueti e sperduti delle campagne inglesi in totale libertà? Naturalmente non fu mai un successo. Ma poco importa. Uno che si inventò uno studio di registrazione mobile che ben presto divenne ricercatissimo proprio dalle rockstar: il Ronnie Lane’s Mobile Studio. Lì, dentro a quel camper attrezzatissimo, ci registrarono Quadrophenia gli Who e Phisical Graffiti i Led Zeppelin. Ma anche Rory Gallagher e Eric Clapton. Proprio davanti alla roulotte/studio posa insieme ai suoi Slim Chance per la copertina del terzo disco On The Road.
Chiarissimo esempio della sua musica povera e rudimentale.
Folk dylaniano fortemente legato alle radici, rock'n'roll sbilenchi spesso alticci, impreziositi da violini, fisarmoniche e mandolini; ma anche del suo modo di affrontare la vita: un forte legame con la natura (viveva quasi come un contadino nelle campagne del suo amato Galles) e le cose più semplici ed appaganti che ispireranno i testi, l' alcol o la sbandata religiosa verso il guru indiano Mether Baba sempre in testa. Ronnie Lane era un’anima pura e il destino si sa va spesso a cercare dove non dovrebbe. Lane morì a soli cinquantuno anni nel 1997 dopo anni di dura lotta contro quello che il destino aveva preparato per portarselo via: la sclerosi multipla. Cheers Ronnie, a stasera, solito posto.





DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)


mercoledì 19 aprile 2017

RECENSIONE: CHUCK PROPHET (Bobby Fuller Died For Your Sins)

CHUCK PROPHET     Bobby Fuller Died For Your Sins (2017)






‘Bad Year for Rock and Roll’ (lo è stato o no il 2016? Viene pure citato Bowie), ‘Killing Machine’, ’Jesus Was a Social Drinker’, ‘If I Was Connie Britton’, ‘Post-War Cinematic Dead Man Blues’. Con dei titoli di canzoni così, il quattordicesimo album dell’ex Green On Red, parte già vincente. Il nuovo disco del folle CHUCK PROPHET, dedicato a Bobby Fuller (‘Bobby Fuller Died for Your Sins’), l’indimenticato interprete che portò al successo 'I Fought The Law', la cui prematura morte è ancora avvolta in un mistero, sta girando da settimane senza sosta, e credo che lo farà ancora per molto. Se amate il rock’n’roll, in ogni sua forma, è impossibile resistere al sound, alle numerose citazioni, alla curiosità espressiva e all’ironia nera di alcuni pezzi. C'è pure un omaggio ad Alan Vega e ai Suicide (il ritmo danzereccio e marziale di ‘In The Mausoleum’), e si conclude con ‘Alex Nieto’, per non dimenticare il giovane di San Francisco ucciso, senza apparente ragione dai 14 spari della polizia nel 2014. Quanta vitalità in un disco che chiama spesso in causa la morte. Un ‘California Noir’ come lo ha definito lo stesso Prophet: la tensione tra finzione romanzata e realta' che si cela sotto. Le tante contraddizioni della sua California. Un disco camaleontico, che schizza incontrollato in tutte le direzioni, dalla delicatezza pop di ‘Open Up Your Heart’ alla perfetta parodia byrdsiana di ‘Rider Or The Train’ alle dissonanze garage di ‘Alex Nieto’. Il tutto suonato insieme ai fedeli Mission Express. Disco con una marcia in più, con la giusta dose di esuberanza-e ironia- per distinguersi dalle tante (troppe?) uscite discografiche di questi nostri giorni.





mercoledì 12 aprile 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 32: BADFINGER (No Dice)

BADFINGER    No Dice (1970)






Dalle alte vette alle tragedie nel giro di pochi anni. Sponsorizzati dai Beatles e ingaggiati dalla Apple nel 1968 quando ancora si facevano chiamare Iveys, i Badfinger vivono almeno quattro anni ai massimi splendori pop: dal 1970 fino al 1975 ereditarono le migliori melodie e armonie vocali dai quattro di Liverpool proprio quando l’avventura dei Beatles era giunta al capolinea. Il duo formato da Pete Ham (comunque il maggior compositore del gruppo) e Tom Evans nel loro piccolo sono i nuovi Lennon-McCartney, nella buona e nella cattiva sorte come vedremo. Anche se pure il chitarrista Joey Holland ha avuto la sua buona importanza. Coincidenze che sembravano spianare la strada verso una discesa mirabolante. Scioltisi i Beatles, il nome della band gallese continua a girare ugualmente intorno a tutti e quattro i Fab Four: Paul McCartney scrive per loro ‘Come And Get It’, compongono la colonna sonora del film con Ringo Starr MAGIC CHRISTIAN MUSIC (il loro primo disco), partecipano alle registrazioni di ALL THINGS MUST PASS e al CONCERT FOR THE BANGLADESH di George Harrison, i loro credits compaiono su IMAGINE di John Lennon. Cosa potrebbe pretendere di più una band pop rock in quegli anni? NO DICE è il secondo album e proprio quella miscela tra accattivante pop trainato da azzeccate melodie vocali (‘Without You’, ‘I Don’t Mind’) e rock’n’roll (‘I Can’T Take It’, ‘Better Days’, ‘Watford John’) è il loro punto di forza. Sempre in bilico tra l’emulazione e la genialità (questa verrà a galla solamente anni dopo, troppo tardi?), i Badfinger si vedono soffiare sotto il naso la loro ‘Without You’ da Harry Nilsson che ne farà un successo mondiale nel 1972, ma non sarà il solo. Fino a quel momento era una semplice canzone incastonata dentro un disco.
Nel 1971 uscirà STRAIGHT UP, altro grande disco, come lo furono i successivi. Ma qualcosa non va soprattutto a livello finanziario: la band paga a caro prezzo alcune scelte sbagliate a livello di management e marketing. Il manager Stan Polley è sul banco dei maggiori imputati. Si vedono pochi soldi in entrata e qualcosa puzza. Sarà proprio questo il motivo che spingerà Pete Ham a togliersi la vita impiccandosi nel garage di casa il 24 Aprile del 1975. Aveva ventotto anni. Sua moglie era all’ottavo mese di gravidanza ma lui il futuro per sua figlia non ce lo vedeva proprio. No future. I restanti Badfinger andranno avanti ma non sarà più la stessa cosa. Anzi sì: Tom Evans emula l’amico e si toglie la vita nello stesso modo dopo una furente litigata con il chitarrista e cantante Joey Molland. Era il 19 Novembre del 1983 quando il suo corpo venne trovato impiccato nel giardino di casa. Ego e soldi ne hanno combinata un’altra. Anche se molti sostennero che Evans non si fu mai ripreso dalla morte dell’amico Ham, tanto da dichiarare spesso e volentieri che prima o poi l’avrebbe raggiunto in quel bel posto. E beffardo, nell’aria si sente volare il testo del loro più grande successo in coppia: “I can’t live if living is without you, I can’t live, I can’t give any more”. Mai più divisi.






DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)



giovedì 6 aprile 2017

RECENSIONE: CORY BRANAN (Adios)

CORY BRANAN   Adios (Bloodshot Records, 2017)




Nativo della terra del Mississippi, vita vissuta tra Memphis e Nashville, marito e padre, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine, fa il suo ritorno a tre anni dal precedente THE NO-HIT WONDER (2014). “Sono cresciuto nel North Mississippi, ho imparato la musica dalla Chiesa e dal blues della zona. Ma sono anche un figlio di MTV”. Quarto disco (poche uscite se consideriamo che è in giro dal 2002), che ha mantenuto inalterato il carattere della sua scrittura: disincantata, sbeffeggiante e cinica, una visione della vita con in primo piano i sentimenti che spesso si ritrovano il cuore infilzato se non spezzato, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero ne rimasero folgorati, citandolo in una loro vecchia canzone ‘Tears don't Matter Much’ contenuta in That Much Further West (2003). Questa volta s’inventa la sua morte e ci gioca su: ci saluta con un addio. Anche se io di questi tempi scherzerei poco con chi impugna la falce, lui lo fa alleggerendo il tema pesante. “Ad un certo punto delle registrazioni, ho realizzato che avevo almeno sette o otto canzoni che parlavano di morte. Ecco, avevo un tema”. Cory Branan è un songwriter dal passo lento, apparentemente distaccato dalla vorace velocità dell'odierno music business, capace di tenere un piede nel pericoloso outlaw country dei seventies, uno appoggiato sull' acceleratore del presente che schiaccia a suo piacimento senza compiacere nessuno, ma riuscendo a stare ben in equilibrio sulla linea della migliore tradizione rock americana, risultando persino sfuggente ad ogni etichetta musicale si voglia appiccicargli addosso. Potrete trovarci lo Springsteen di The River (‘You Got Through’), il coetaneo ma senz’altro più prolifico Ryan Adams (‘Imogene’), il country folk alla John Prine in The ‘Vow’ dedicata al padre scomparso, le languide melodie blues alla JJ Cale in ‘Walls, Ms’, i racconti notturni e jazzati alla Tom Waits (‘Cold Blue Moonlight’), il rock’n’roll dal taglio punk (‘Another Nightmare In America’), frizzanti rock’n’roll alla Buddy Holly (‘Only Know’). Ad accompagnarlo una formazione ridotta all’osso: Robbie Crowell dei Deer Tick alla batteria, tastiere e fiati e James “Haggs” Haggerty al basso. In aggiunta: Amanda Shires (violin e voce), Laura Jane Grace e Dave Hause alle voci. Adios, ma era meglio un arrivederci.








lunedì 3 aprile 2017

RECENSIONE: THEE JONES BONES (This Is Love)

THEE JONES BONES       This Is Love (La Stalla Domestica, 2017)





Il sesto disco della band camuna, attiva dal 2001, è stato presentato durante lo scorso weekend: prima in città a Brescia, poi a Darfo Boario Terme nella loro Val Camonica. Assistendo al primo concerto al Lio Bar (immancabile punto di riferimento per la musica bresciana e non solo) ho potuto testare di persona il mood che caratterizza gran parte di THIS IS LOVE: la presenza di due coriste (Tiziana Salvini e Anna Pina) alla sinistra del trio era sintomatico di qualche cambiamento che su disco viene poi amplificato dalla presenza di una sezione fiati in alcune tracce. Rimane intatta quella semplice magia ad alto volume composta da basso, chitarra e voce che semplificheremo in una bella parola mai passata di moda, rock’n’roll (a morte chi dice: è morto!), ma questa volta il passo più lungo è in direzione America e vengono aggiunte due mani di R&B e soul che fanno tanto Muscle Shoals: ‘Like A Sunshine In The Morning’ e ‘La La La’ (con la voce ospite di Alessandra Cekka Cecala) sono due blues mordenti e dal groove incalzante, mentre ‘Mother’s Heart’ rallenta il ritmo, diventando un ballata soul, sulle impronte della voce dell’ospite Ceki Blues.
Luca Ducoli (voce e chitarra), Paolo Gheza (basso) e Sergio Alberti (batteria) rimangono quella genuina macchina da guerra dei precedenti dischi, dove l’hard blues britannico e il southern rock, il garage made in Detroit e il blues del Mississippi, la solare e psichedelica west coast californiana si rincorrono senza conflitto lungo dieci tracce, spalmate in due facciate di plastica rosso fuoco, proprio come succede nei nostri cari vinili dei 70 impilati sotto il vecchio stereo, con tanto di brevi e suggestivi intermezzi acustici che preparano alle imminenti esplosioni. ‘A Season In Your Soul In The Shadow Of The Sun’ introduce ‘Welcome To The Show’, una vera e propria chiamata alle armi dal taglio hard seventies che durante i live servirà da apripista e dare la scossa primordiale, ‘Little Moon’ è un siparietto acustico che sembra emergere da una bayou e ci prepara a ‘Hey Man (a Song For Johhny Cool)’, omaggio dichiarato a Phil Lynott suonata come dei redivivi Thin Lizzy e con la chitarra ospite di Rick Phillips a primeggiare, mentre ‘Every Cloud Is A Silver Lining’ è l’apripista verso il gran finale chiamato ‘Take It Easy’, che è più Rolling Stones degli ultimi Stones. Se aggiungete presenza scenica e una naturale propensione a jammare e allungare durante i live il gioco è fatto. Un disco grezzo e diretto, nonostante le tante sfumature di abbellimento aggiunte, perfettamente in linea con la precedente produzione. Si va sul sicuro. A vincere sono ancora una volta l'attitudine giusta e la passione vera.


vedi anche
BRESCIA ROCK (5 band da conoscere: Slick Steve & The Gangsters, Van Cleef Continental, Thee Jones Bones, Il Sindaco, The Union Freego)


mercoledì 29 marzo 2017

It's Just Another Town Along The Road, tappa 4: MATT WALDON (Grow Up)

MATT WALDON Grow Up (Arkham Records/IRD, 2017)




Due anni fa, al Buscadero Day, Matt Waldon si presentò al pubblico con un set di canzoni dal taglio rock e chitarristico, lasciando trasparire il suo possibile futuro discografico. Il tempo passa veloce, (aggiungete: un purtroppo) ed ecco qui il frutto di questi due anni di lavoro: tutto come previsto, tanto che anche il simpatico disegno di copertina lo ritrae esattamente com'era vestito quel giorno. Visto che si parla di copertine, vorrei fare un plauso alla cura dei dettagli con cui il tutto viene confezionato con l'ormai immancabile plettro all'interno. Faremo una collezione, spero più lunga possibile. Il cantautore di Padova si avvale ancora dell'aiuto prestigioso di Kevin Salem al mixer e come musicista in alcuni brani, cementando un'amicizia che da oggi potremo chiamare di vecchia data. Registrato tra Padova e Woodstock, GROW UP è senza dubbio il disco più personale tra i tre registrati in carriera da Matteo: il primo OKTOBER (2012) era la summa di tutte le sue prime esperienze musicali, un disco che andava a pescare in tante direzioni, il secondo LEARN TO LOVE (2014), era più omogeneo e brumoso e prediligeva il lato acustico.
GROW UP è un disco che fa poco per compiacere l'ascoltatore, le dieci canzoni viaggiano diritte per la loro strada senza troppi occhiolini di circostanza: lo si capisce immediatamente dalla traccia d'apertura e ripresa pure nella traccia fantasma che chiude il disco, Hungry Bears (anche nome del gruppo che lo accompagna), è uno strumentale dal piglio psichedelico che fa da introduzione, ma che non svela ancora nulla della direzione in cui andranno a viaggiare la maggioranza delle dieci canzoni. Almeno fino all'attacco tambureggiante di 7 Beers, rock song con le chitarre davanti  e l'umore di chi ama annegare i dispiaceri sopra al bancone di un bar nel retro. Sulla scia si accoderanno le dirette You'll Never Get Back, No Slaves e Grow Up. Punta sulla parte più elettrica della sua musica, quella tesa, graffiante e acida, tanto scura che 21 Cigarettes, introdotta dal basso di Francesco De Negri, sembra addirittura recuperare un riff di chitarra abbandonato dalla new wave più rock degli anni ottanta. Ci sento i Killing Joke,
Nella parte centrale emergono invece due ballate molto personali ma dal carattere molto forte: Save Me, guidata dal violino suonato da Chiara Giacobbe, affronta l'amore e i chilometri (e sotto, nell'intervista, potrete leggere il rapporto di Matt con il viaggio), mentre la dedica alla madre della dolce ?!%$, con il violino e la seconda voce di Debby Clinkenbeard, svela il lato più malinconico e privato.
Quando Matt dice che Ryan Adams non manca mai nello stereo della sua auto durante gli spostamenti, io rispondo che ultimamente GROW UP staziona nella mia. Metto in moto e parto.





In viaggio con Matt Waldon


I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Certamente! Amo viaggiare e molte delle mie canzoni sono nate durante alcuni di questi viaggi o da riflessioni fatte al rientro a casa.
Non è una regola fissa ma è accaduto spesso e in tutti e 3 i miei album ci sono canzoni che raccontano di esperienze ed emozioni vissute proprio durante questi viaggi.

Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Lasciamo la parola “Tour” a chi veramente macina Km per settimane, mesi, i miei al massimo si possono definire “Mini Tour”. Aspetti positivi del viaggiare per concerti in Italia sono appunto in primis il viaggiare perché è un qualcosa che amo, conoscere gente nuova e scoprire realtà nuove. Sicuramente una parte della mia vita a cui difficilmente rinuncerei. Aspetti negativi non ne vedo, li chiamerei piuttosto imprevisti, come la disorganizzazione di alcuni locali, la mancata risposta del pubblico, esperienze che comunque servono per crescere!
Il club che amo e dove torno più spesso a suonare, non l’ho mai nascosto, è il “Club Il Giardino” di Lugagnano (VR), un vero e proprio tempio della musica live in Italia, un palco che ha visto innumerevoli importanti personalità della musica nazionale ed internazionale, un vero Club con la C maiuscola dove l’artista può esprimersi a 360 gradi con la certezza & la consapevolezza che il pubblico presente è realmente li per ascoltare ogni singola nota, accordo, parola o frase espressa.

Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Entrambi, ripeto, amo viaggiare conoscere nuove realtà ma allo stesso modo amo le mie radici, rifugiarmi in loro è per me fondamentale, non riuscirei a vagabondare senza le mie radici.

Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Qui la scelta è difficile, quasi impossibile, diciamo che mi sarebbe piaciuto aprire i concerti di Bob Dylan & Tom Petty nel 1987 durante il loro True Confessions Tour, sarebbe di sicuro stata un incredibile esperienza mistica!
Tra vent’anni non mi vedo, ho imparato vivere alla giornata, è la cosa migliore in questo mondo!

La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
Anche qui è dura rispondere, non esiste una canzone da viaggio che non manca mai durante i miei spostamenti, esiste l’artista che non manca mai durante i miei viaggi, e questo sicuramente è Ryan Adams.




 

lunedì 27 marzo 2017

ALEJANDRO ESCOVEDO live@Teatro Toscanini, Chiari (BS), 25 Marzo 2017






Sabato sera Alejandro Escovedo ha generosamente sciorinato nomi legati alla sua vita musicale che solo avendo avuto block-notes e penna con me riuscirei a ricordare perfettamente ora. Un elenco lungo ma in continua trasformazione. Ci provo: i Nuns, la sua prima formazione in pieno punk 77 che ebbe il pregio di aprire alcuni concerti  dei Sex Pistols, i tanti cantautori texani che aprirono la strada e quelli rimasti oggi come compagni di viaggio, l'amico Bruce Springsteen (ricordate il duetto 'Always A Friend'?, stasera suonata), la sua grande famiglia con i tantissimi fratelli musicisti, la favola maledetta di Sid Vicious e Nancy Spungen, gli amici italiani con il compianto Carlo Carlini in testa, il primo a portarlo in Italia, Chuck Berry recentemente scomparso e poi chissà quanti altri che ora mi sfuggono. Una memoria vivente degli ultimi quarant’anni di rock'n'roll-da non confondere con il rock patinato da prima pagina-con in mezzo le tante sfighe della vita, con la vittoria sull'epatite C da sfoggiare con l'orgoglio del combattente che ce l'ha fatta. I messaggi delle canzoni di Escovedo sono usciti chiari e forti: grazie al carisma e la bontà del texano, alla bravura dei musicisti che lo hanno accompagnato in questa data e in tutte le altre in giro per l'Europa, non ultima, alla buonissima acustica del Teatro Toscanini di Chiari. Uno spazio ricavato all'intero di una struttura scolastica che finché non ci entri, ti siedi e ascolti, non ci credi. Da buoni alunni con l'esperienza in tasca, ad aprire la serata sono stati i bresciani The Scotch, guidati dalla chitarra di Enrico Sauda: un rock blues tosto il loro, carico di groove e coinvolgente. Hanno giocato in casa e hanno portato casa la partita con disinvoltura. Bravi!
Il concerto di Escovedo, invece, è stato una lezione di songwriting rock, raccontata senza nessuna barriera. A porte aperte: nessuna frontiera tra Austin e Messico, Londra e New York, l’Italia e il mondo tutto, i pochi vincenti e i tanti vinti, il rock e il folk. Una nota di merito va sicuramente a Don Antonio (dietro c'è Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori) e band ( Franz Valtieri, Matteo Monti e Denis Valentini) che hanno tramutato sangue, ruggine, polvere e petali di rose in musica, attraverso possenti e abrasive chitarre elettriche e dilatate ballate suonate come dio comanda. Nella mia personale lista delle migliori canzoni della serata metto: 'Sally Was A Cop’, 'Can't Make Me Run' e ' Down In The Bowery'. A proposito di Don Antonio: occhio al debutto in uscita ad Aprile, ricco di sapori mediterranei e già in heavy rotation nel mio stereo il giorno dopo il concerto. Era una domenica uggiosa, maledizione. Ma è stato un bel contrasto. Vincente.
Le stanze del Chelsea Hotel non sono più tutte prenotate, come quelle del 1978, la sua Austin gli è cambiata sotto quegli occhi veri e sinceri che ora la guardano con nostalgia, tanti amici sono emigrati  per sempre in altri posti lontani e sconosciuti, ma finché ci saranno chitarre, cuori e anime romantiche io ci credo ancora. L'ultimo disco BURN SOMETHING BEAUTIFUL è la testimonianza più diretta e convincente, comunque l'ultimo di un poker di album (REAL ANIMAL, STREET SONGS OF LOVE e  BIG STATION)  che lo hanno riportato ai vertici del cantautorato rock americano di questi ultimi anni.
Non è un caso che tutto sia finito sotto un uragano. 'Like A Huricane' di Neil Young, con la chitarra ospite di Giovanni Ferrario, è stata l'ultima ondata di una serata di grande rock. E mentre l'ultimo feedback aleggiava ancora nell'aria, Escovedo era già dietro al banchetto a firmare autografi, vendere i suoi cd e posare per le foto fino a tarda serata. Un esempio.


con Giovanni Ferrario

The Scotch

RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO-Burn Something Beautiful (2017)
RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO-Big Station (2012)