C’è chi della contaminazione ne fa una malattia, si inventa guerre puntellate sulle assi cigolanti dell’odio e della supremazia razziale, e poi c’è chi ne trae fuori bellezza e giovamento. Lasciamo i primi girare senza meta intorno al loro livore basato sull’invidia (“molta gente non è ancora pronta” dice Jeffreys) e facciamo un monumento a GARLAND JEFFREYS che dalla contaminazione (il suo sangue è di tanti colori e parla diverse lingue, la sua musica pure) si ècostruito una carriera, non sempre ai vertici del successo, ondulante tra picchi, cadute di tono e assenze prolungate, ma sicuramente degna di essere raccontata e rispettata. 14 STEPS TO HARLEM non sfugge a quello che ha sempre mostrato con la sua musica: di essere aperto a ogni suggestione musicale, a ogni genere, ad ogni luogo e ogni tempo. Da Brooklyn a Firenze dove studiò e abitò in gioventù, il passo è sempre più breve di quanto ci si aspetti. Se il disco si apre in leggerezza con un chorus pop rock quasi danzereccio (‘When You Call My Name’) dominato dai shynth che ti si stampa in testa, continua poi sulle antiche strade del blues, dell’amato reggae, del soul, del rock, della musica latina, dei linguaggi musicali più moderni del ghetto (‘Colored Boy Said’), delle classiche ballate newyorchesi. L’ambientazione è la stessa di sempre: parte dalle strade di New York , suggestiva la ballata ‘Luna Park Love Theme’ ambientata a Coney Island e che ospita Laurie Anderson al violino, e si propaga in giro verso le strade del mondo. Lo sguardo è spesso rivolto al passato. Principalmente a suo padre in ’14 Steps To Harlem’ , un onesto lavoratore che con i soldi guadagnati con tanta fatica gli permise di studiare all’università e lo introdusse alla musica,
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RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP-Sad Clowns & Hillbillies (2017)
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