Vecchi si nasce. Vecchi si muore?
C'è un piccolo sticker attaccato alla confezione del Cd che recita: "Classic rock with a modern roll". Potrebbe essere un buono slogan per la rivista che tenete in mano, ma lo è anche per descrivere la musica di questi quattro ragazzi svedesi cresciuti a Göteborg e arrivati al traguardo del quarto disco (il migliore rimane HISINGEN BLUES del 2011, n.1 nelle classifiche in di madrepatria), sfornato a tre anni di distanza dall'egualmente apprezzato LIGHT OUT. C'è anche un altro modo per descrivere il loro stile, ovvero: gli anni d'oro del rock, risuonati con il giusto piglio moderno. La stessa definizione d'altronde andrebbe bene anche per alcune band che con questi svedesi dividono ben più che la stessa etichetta, una Nuclear Blast da sempre paladina del metal estremo, ma che oggi i soldi di chi ancora compra i dischi li sta facendo con Blue Pills, Orchid, Kadavar e The Vintage Caravan. I Graveyard sono hippie fuori tempo, non inventano nulla, aggiungono freschezza, malinconia e onoricità scandinava alle lezioni del caldo vintage rock. Potrete anche divertirvi nello scovare i tanti punti di riferimento: Black Sabbath e Led Zeppelin su tutti, ma anche l'apertura di hard acido alla Uriah Heep di Magneic Shunk o il blues hendrixiano di The Apple & The Tree, e pare quasi tangibile il desiderio di Joakim Nilsson (voce e chitarra) di rompere le barriere del tempo e ritrovarsi in un pub a suonare insieme ai Taste di Rory Gallagher o ai Wishbone Ash (come altro si potrebbe spiegare l'ispirazione che ha dato il via alla scrittura di Exit 97?). Che i continui rimandi al passato possano alla lunga annoiare è il rischio che i quattro sono pronti a correre, perché, dalla loro parte, hanno tutta l'energia e l'amore per quei suoni (Can't Walk Out è un prezioso compendio in questo senso) che sopperisce laddove l'ispirazione non è all'altezza del passato.
Poi però arriva Too Much Is Not Enough, che scomoda Jeff Buckley, e ogni critica viene smontata in un attimo e la macchina del tempo sembra di nuovo funzionare alla perfezione. C'è tanta varietà in queste undici tracce, ma ora ci aspettiamo il colpo di classe. Sono sicuro che Nilsson e soci possano regalarcelo in futuro.
Enzo Curelli e Jacopo Meille, voto 7 da Classic Rock # 36 (Novembre 2015)
GARY CLARK JR.The Story Of Sonny Boy Slim (Warner Bros, 2015)
La prova del nove
Il texano Gary Clark Jr. sembra non volersi rinchiudere in nessuna gabbia nonostante il paragone con Jimi Hendrix pare comparire troppo spesso e fuorviare la realtà. Dopo gli EP d'esordio, il primo solista BLAK AND BLU (2012) e l'album LIVE (la sua dimensione ideale), la seconda prova in studio lo conferma come un cuoco di black music a 360 gradi. Nel pentolone bollente e speziato c'è di tutto: blues (The Healing), rock (Grinder), folk che affonda le radici nel gospel (Our Love), soul (Church, Hold On), funk (Star), hip hop (Down To Ride) e i gli umori sixties della saltellante e chitarristica Shake. Un po' Prince, un po' il primo e migliore Lenny Kravitz, un po' Sly Stone e soprattutto tanto rispetto per i vecchi padri del blues. Chitarrista sì ma anche buon autore (le 13 canzoni sono un concept autobiografico) e cantante con un prodigioso falsetto. Per qualcuno potrà essere troppe cose insieme. Ma lui fa dannatamente tutto bene! Nessun limite sembra il suo mantra...e come canta in Healing: la musica è la sua guarigione. Enzo Curelli 7
da Classic Rock #36 (Novembre 2015)
CALIBRO 35, live @ Latteria Molloy, Brescia, 21 Novembre 2015
Con il pianeta terra ricaduto all' altezza dei minimi storici, la nuova navicella spaziale dei CALIBRO 35 promette e mantiene un giro nello spazio inesplorato alla ricerca di posti migliori. Fuga in cerca d'evasione. Anche se per sole due ore, la vecchia Alfa Nuova Giulia grigia che girava, sgommando, per Milano negli anni '70 (Notte in Bovisa) mette i booster e vaga nello spazio a suon di space, rock, prog, funk e jazz. L'equipaggio è il solito: l'affidabile Massimo Martellotta alle chitarre, l'istrionico Enrico Gabrielli alle tastiere e fiati, il preciso Fabio Rondanini alla batteria, il marziano Luca Cavina al basso e l'uomo invisibile Tommaso Colliva in sala comando. Banditi su Marte, oggi. Alle vecchie canzoni si aggiungono le nuove del fresco S.P.A.C.E., disco registrato nei famosi Toe Rag Studios di Londra come fosse un film di fantascienza. Missione compiuta. Band avvistata nell' orbita della Latteria Molloy (sold out per l'occasione) ma ancora irraggiungibile.
NEIL YOUNG AND THE BLUENOTE CAFE’ Bluenote Cafè (Reprise, 2015)
La storia che si cela dietro a Bluenote Cafè, undicesimo capitolo degli archivi, riassume in tutto e per tutto i travagliati, ma sempre da riscoprire, anni ottanta di Neil Young. Questo doppio live, contenente numerose tracce mai pubblicate prima in nessun disco (tra cui Welcome To The Big Room, Doghouse, Bad News Comes To Town, Crime Of The Heart) sarebbe dovuto uscire esattamente quando fu registrato: dopo le numerose tappe del tour a supporto di This Note's For You (1988), tra novembre del 1987 e l'agosto del 1988. Il progetto era già a buon punto, poi tutto naufragò come spesso è successo nella sua carriera. "C'era un cambiamento in arrivo. Lo percepivo nelle ossa. Ero in tour con i Crazy Horse in America e suonavamo su palchi all'aperto in posti denominati Sheds, rimesse, luoghi da concerto molto in voga all'epoca. La prima parte della performance era acustica, poi diventava elettrica, ma nella parte centrale c'era una sezione di nuova musica che, in privato chiamavo Blue Horse...Nell'autunno del 1987 i Blue Horse-questo era il nome che usavamo fra di noi-furono presentati per la prima volta come The Bluenotes. Avevamo una sezione fiati molto funky e soul che mi era stata portata da Billy Talbot". Così Neil Young, in Special Deluxe (fresco di stampa qui in Italia), presenta la genesi che porterà all'incisione del disco live, poi messo da parte ("troppo bello per essere pubblicato", fu la finta scusa) appena la Geffen ritirò la causa contro Neil Young-non stava facendo dischi alla Neil Young gli fu accusato-lasciandolo libero di tornare alla Reprise e incidere un nuovo disco in studio che sarà appunto This Note's For You, album che, ancora una volta, segnerà un netto cambio di direzione musicale, esattamente come lo furono i precedenti Trans (1982), Everybody's Rockin' (1983), Old Ways (1985), Landing On Water (1986) e Life (1987). This Note's For You pur presentando un Neil Young ancora una volta inedito, completamente immerso nel soul e nel blues, sulle vie tracciate dai suoi eroi blues con Jimmy Reed in testa, addirittura trasformato in una sorta di nuovo personaggio, tale Shakey Deal estrapolato da un ipotetico film girato nella sua testa e che mai vide lo schermo. This Note's For You ebbe il merito di riportarlo sulla retta via della musica sanguigna e calda, lontana dalla freddezza di shynth e vocoder, e dai dischi costruiti per ripicca e di getto, nonostante tra i maggiori pregi spicchi proprio la spontaneità. Anche se non tutto quadrava ancora per il meglio, Neil Young è in una fase creativa fruttuosa che lo consegnerà agli anni novanta in grandissima forma. Come già successe per Old Ways che venne rivalutato molti anni dopo grazie alle performance live contenute in A Treasure (2011), anche qui tutto ciò che su disco sembrava non andare (le accuse maggiori furono quelle di essere troppo levigato e poco rock) durante i live acquistava forza e vigore e la chitarra di Young graffia, affonda e allunga come ai vecchi tempi, pur se attorno si trova una schiera di trombe, tromboni, sax e non i fidi Crazy Horse, che in verità, inizialmente, dovevano essere della partita. Rimarrà solo Sampedro alle tastiere. "Avevo anche dei problemi con i ragazzi dei Crazy Horse, Billy e Ralph. Li adoro, ma non funzionava o forse sì, ma non riuscivo a rendermene conto. Forse non capivo. Per una qualche ragione la band non girava, così iniziai a rimescolarla un po'..."
I sette minuti della cavalcata Crime In The City, e This Note's For You, un ironico attacco agli sponsor commerciali che, grazie al videoclip, trovò prima la censura di Mtv e poi il trionfo (portato dalla stessa Mtv), sono l'esempio più vigoroso e rock. Mentre il testo di Ten Men Workin' è il manifesto programmatico dei Bluenotes (sei fiati più Rick Rosas al basso, Chad Cromwell alla batteria e Frank Sampedro alle tastiere), Life In The City è un triste dipinto del degrado americano e un megafono per tutti i senzatetto delle grandi città. Il ripescaggio e il rivestimento soul della vecchia On The Way Home (Buffalo Springfield) e della vecchissima Hello Lonely Woman, risalente addirittura ai tempi degli Squires, primo gruppo del canadese, sono ottimi. e lasciano il segno.Neil Young e la sua big band sono un fiume inarrestabile: nella ballata di dodici minuti Ordinary People, canzone che vedrà la luce solamente in Chrome Dreams II dove si allungherà arrivando a toccare i diciotto minuti, nella notturna, jazzata e vanmorrisoniana One Thing, nell'ipnoticità oscura di Twilight, ma soprattutto nei venti minuti finali di Tonight's The Night che raggiunge vette epiche, unica vera concessione ai suoi grandi successi del passato e biglietto da visita che pochi possono concedersi. Peccato sia l'unico pezzo storico che ha goduto di questo rivestimento R&B. "Fu un gran periodo, con la musica che scorreva e la big band che suonava ogni sera".
Io non posso che ripetere: è un gran disco, con la musica che scorre e la big band che suona alla grande. Il periodo è tutto da rivalutare e queste 24 canzoni ci aiutano a farlo, senza sforzi e in modo piacevole. Gli archivi continuano a confermarsi uno scrigno d'oro. Senza fondo.
voto 8
tutte le parole di Neil Young sono trattie da: Neil Young, Special Deluxe-Racconti di vita e di automobili (Feltrinelli, 2015)
Dopo la lunga nottata di venerdi passata con la Tv accesa, e un sabato di rispettoso silenzio, tornare davanti ad un palco era la cosa buona e giusta da fare. In qualche modo si continua a vivere. Mi fermo qui: in questi giorni ho letto di tutto e di più. Il palco scelto è quello del l LOVE COCAINE, locale di Montichiari dall 'architettura assolutamente da scoprire (così come la scelta del nome, non pensate subito male: c'è un progetto dietro) dove si mangia e beve bene. Da qualche mese ha aggiunto una programmazione live interessante e non banale, un palco come si deve e un' acustica da paura. Vi presento gli HEYMOONSHAKER, un duo di Londra, nato casualmente nella lontana Nuova Zelanda, cresciuto in giro per le strade del mondo ma che probabilmente è ancora senza fissa dimora visto le numerose date già fissate. Girano con due chitarre, un ampli Orange, due microfoni e tanto affiatamento complice. Questo è tutto. Andy Balcon alla voce e chitarra (dobro e elettrica) e Dave Crowe, vero e proprio campionatore di suoni umano e un piglio da cabarettista in grado di tenere alta la tensione dello show, durato un'ora e mezza. Lo spettacolo che offrono è una riuscitissima commistione tra il vecchio blues delle radici a cui si aggiunge la voce calda, profonda e graffiante dell' introverso Balcon e la modernità (vecchia come il mondo) del beatboxing creato dalla bocca di fuoco dell'estroverso Crowe. Qualcosa di assolutamente unico che superata la diffidenza iniziale è capace di catalizzare l'attenzione e farti anche ballare, grazie alla capacità di coinvolgere il pubblico, frutto del loro passato ma anche presente da busker. Hanno presentato il loro ultimo lavoro in studio NOIR, e dire che è pieno di belle canzoni (tutte originali tranne quella 'Coz I Luv You' degli Slade) non basta a rendere l'idea, quindi se vi capitano sotto tiro dal vivo, il consiglio è quello di non perderli. Tenere in piedi il tavolo di uno spettacolo così, con sole due gambe non è da tutti. Loro lo chiamano beatbox blues, io lo chiamo grande talento (con quella sana spavalderia giovanile che non guasta mai).
Il disco rappresentativo di ZAKK WYLDE? Non ho dubbi nel puntare tutto su questo debutto solista sotto mentite spoglie. Durante una pausa dal sempre impegnativo ruolo di chitarrista per Ozzy Osbourne (suonò già su NO REST FOR THE WICKED e NO MORE TEARS), il biondo vichingo del New Jersey, allora ventisettenne, mise in piedi questo primo progetto con il bassista James Lomenzo (White Lion, Megadeth e visto recentemente in tour con John Fogerty) e il batterista Brian Tichy, subentrato a Greg D'Angelo. La vena compositiva del musicista Wylde, la sua Les Paul sempre in primo piano ma mai troppo debordante nel dettare il groove e negli assoli, e le doti vocali, non certo da sottovalutare, sono al loro massimo splendore, prima che il progetto Black Label Society, tra alti e basse ripetizioni, spazzi via tutto come un pesante carrarmato in discesa e la sua voce cerchi di scimmiottare Osbourne senza mai più raggiungere queste vette. PRIDE GLORY strizzava fortemente l'occhio al southern rock dei settanta in 'Losin' Your Mind' aperta da un banjo e in 'Cry Me A River' che sembra viaggiare sulle stesse strade dei CCR, si buttava a capofitto dentro a dei blues travestiti e torridissimi, tirati verso il basso da palle d'acciaio penzolanti da grosse catene di metallo pesante e arrugginito ('Horse Called War', 'Shine On', 'Toe'N Line', 'Machine Gun Man' spalanca le porte ai futuri BLS), ballate strappabudella ('Found A Friend' e le pianistiche 'Sweet Jesus' e 'Fadin Away') e country ('Lovin' Woman' e la scherzosa 'Hate Your Guts'). Fiero, reale e cazzuto come pochi. Da avere assolutamente. Peccato sia rimasto un progetto isolato, anche se rimasugli li possiamo trovare in alcuni dischi successivi: ZAKK WYLDE, Book Of Shadows e BLACK LABEL SOCIETY, Hangover Music Vol.VI su tutti.
La ristampa in CD contiene cinque bonus tracks tra cui le cover di: 'The Wizard' (Uriah Heep), 'In My Time Of Dyin' (Led Zeppelin) e 'Come Togheter' (The Beatles).
p.s. Comprai il CD lo stesso giorno dell'uscita, il giorno dopo lo riportai al negoziante. Per qualche misterioso motivo non girava nel lettore. Lo sostituii con qualcos'altro. Pride & Glory lo ascoltai per la prima volta quando l'uragano del progetto BLACK LABEL SOCIETY aveva già inghiottito Wylde.
Autostop per il Texas
Texas Panhandle è la regione più a nord del Texas, la città più popolare è Amarillo, e uno dei suoi abitanti più conosciuti è Joe Ely, da poco insignito del titolo di musicista texano per l’anno 2016. Il Texas è terra di confine, landa di strade polverose, rotaie e deserti che Ely ha percorso migliaia di volte durante i suoi tour da 150 date l’anno, dagli esordi con i Flatlanders, il supergruppo condiviso con Jimmie Dale Gilmore e Butch Hancock, ai primi dischi solisti (HONKY TONK MASQUERADE, del 1978, il suo picco), al tour americano con i Clash del 1979 di cui fu promotore, fino al piccolo gioiello uscito nel 1995, LETTER TO LAREDO, che conteneva la celebre Gallo Del Cielo scritta da Tom Russell. Nessuno come Ely sa colorare di heartland rock e tex mex la desolazione di quei luoghi, dare dignità ai vagabondi che passano da lì (Borderless Love si carica il destino degli immigrati), dare una speranza ai sogni di chi ci è nato. Tra introspezione (Cold Black Hammer) e narrazione (Coyotes Are Howlin’), uno dei suoi lavori migliori in assoluto. Enzo Curelli 8
da CLASSIC ROCK #36 (Novembre 2015)
Ryan Adams continua a correre sopra quel sottile muro che divide la genialità dallo strapiombo delle inutilità. Quante perplessità serpeggiano tra le sue mosse discografiche più azzardate messe in mezzo ai suoi tanti dischi (chiamiamoli normali), anche i migliori. Ci ha abituato a tutto: da album hip hop sotto strani pseudonimi ai dischi metal oriented (sua grande passione nascosta, ma non troppo) seguendo le orme dei canadesi Voivod (vi ricordate di ORION?) fino a 1984 dell’anno scorso, omaggio ai suoi eroi punk/hardcore ‘80. Qui non si parla di una sola cover, isolata, magari nascosta in mezzo a sue composizioni. E di scelte bizzarre ne ha fatte pure tante: da Madonna (‘Lucky Star’) agli Oasis di ‘Wonderwall’. No. Qui non si tratta nemmeno di un omaggio a qualche vecchio eroe folk dismesso o rocker passato a miglior vita. 1989 riprende per intero, track by track, il disco della popstar statunitense Taylor Swift. E 1989 non è un disco vecchio, magari già entrato nella cultura popolare, 1989 è uscito solo l’anno scorso. Ha però venduto tantissimo ed ha rappresentato la candidatura della giovane ventiseienne (sì è del 1989) a nuova regina pop USA. Quando la Swift ha saputo del progetto sembra si sia commossa, ringraziando Adams non solo per l’omaggio ma per l’ispirazione che è stata la decisiva spinta verso il mondo della musica. I suoi inizi profumavano, appena appena, di country. Adams, a sua volta, ha ammesso di essere un grande fan della Swift. Tutti contenti quindi.
Io, invece, ammetto di non conoscere assolutamente i dischi della Swift, ma queste canzoni così rifatte sembrano già funzionare benissimo. Se siete fan di Adams apprezzerete. Se lo detestate, questa mossa va nuovamente a vostro favore. Adams ha trasformato le accecanti luci delle mirror ball da discoteca in fioche lanterne che illuminano dolenti ballate e brani rock freschi e dal taglio pop ma non troppo. E’ chiaro l’intento di richiamare in gioco il rock degli eighties: ci sono gli Smiths (è lo stesso Adams a dirlo), i REM, c’è il Paisley Sound. Ci sono i grandi cantautori: da Springsteen a Mellencamp. Un gioco? Uno sfizio? Un vero e sentito omaggio? Non si capisce bene. Ryan Adams ha sempre fatto di testa sua. La sua testa NON è cosa facile da decifrare, ma ha quasi sempre avuto ragione lui.
Una buona spinta alla moda dei Live Unplugged la diede questo doppio disco, e qui non so dove finiscano i grandi meriti ed inizino gli “immeritati” demeriti della band hard rock di Sacramento. La vera colpa fu delle grandi manone di MTV che, fiutato il buon riscontro commerciale ottenuto da questo album, iniziarono a staccare le spina alle chitarre di tutti gli artisti possibili, leggende incluse, creando un fenomeno che inflazionò non poc...o il mercato discografico dei Novanta, anche in Italia. Questo disco nacque e prese forma però in modo spontaneo durante alcuni giorni di pausa da un grande tour che li vedeva impegnati con i Motley Crue. Intimo, jammato, lontano dagli schermi televisivi, e per questo: ricco, caldo, sentito, con il pubblico del Trocadero di Philadelphia parte integrante e partecipe, fin troppo visto l’alto volume delle grida in alcuni momenti. Era il 2 Luglio del 1990. Il concerto venne registrato per uso personale ma finì nelle mani di una radio che iniziò a trasmetterne alcuni pezzi. Successo immediato e da lì all'incisione del disco il passo fu breve. Canzoni del loro repertorio ('Paradise', 'Modern Day Cowboy', 'Love Song') ma anche tanti omaggi, con il cantante Jeff Keith grande protagonista: 'Lodi' (Creedence Clearwater Revival) dedicata nello specifico al defunto Tom Fogerty, 'We Can Work It Out' (Beatles), 'Mother’s Little Helper' (Rolling Stones), 'Truckin’' (The Grateful Dead), 'Signs' (Five American Electrical Band). Un doppio vinile che ha passato brillantemente la prova del tempo-consigliato a tutti gli amanti del buon rock- che rispolvero ancora con tanto piacere e che fece da buon spartiacque tra gli anni ‘80 e i ‘90.
Reinventarsi con coraggio in terza età, mettendo in fila i ricordi. L'amicizia con Elvis Presley a metà anni sessanta e il tentativo di avvicinamento al country da classifica di Nashville nei primi anni ottanta erano più che un buon indizio per scoprire la futura vecchiaia. Ora, gli anni sono 75 e la formula è quella già sperimentata con successo dalla coppia Cash/Rubin a suo tempo. Formula che altri vecchi hanno seguito con buoni risultati, chi da interprete chi da cantautore: da Kris Kristofferson a Neil Diamond, ma anche l'ultimissimo Robert Plant. Per Tom Jones, ecco il terzo centro su tre sulle strade roots (gospel, soul, folk, country, blues, pure il vecchio amore rock’n’roll) dopo la sorpresa dello scuro e spirituale PRAISE & BLAME (2010) che tanto sorprese la sua casa discografica che si aspettava come minimo una Sex Bomb numero due e la conferma arrivata due anni dopo, SPIRIT IN THE ROOM (2012). Facile direte voi: con quel gruzzolo in banca e quella voce, se ti fai produrre da Ethan Johns e metti sul piatto canzoni come ‘Opportunity To Cry' (Willie Nelson), ‘Bring It On Home’ (Willie Dixon), ‘Everybody’s Loves A Train’ (Los Lobos), ‘Elvis Presley Blues’ (Gillian Welch & David Rawlings) la più modernista delle tredici tracce, ‘Factory Girl’ (Rolling Stones) riletta in chiave irish o come farebbe un Rod Stewart in grande forma, ’Why Don’t You Love Me Like You Used To Do?’ (Hank Williams). Facile ma mica tanto, dico io.
Insomma: qui c’è maggiore varietà nella scelta dei pezzi altrui da interpretare rispetto all’omogeneità che caratterizzava i precedenti due lavori, eppure funziona a meraviglia sia quando si mette a tirare come una vecchia ma ancora non arrugginita locomotiva nel blues ‘Take My Love’ (Little Willie John) e in ‘I Wish You Would’di Billy Boy Arnold, sia quando si ferma, voltando lo sguardo al passato, come nella scura ma carezzevole ‘Tomorrow Night’, dando un saggio della potenza intatta della sua voce a riconferma di quanto l’ugola del gallese abbia perso troppi anni dietro alle certamente più remunerative e patinate "bombe del sesso". Ciò basta. LONG LOST SUITCASE fa da colonna sonora all’autobiografia Over The Top And Back in uscita in questi giorni, ben rappresentata e anticipata dalla carrellata di vecchie foto presente nel booklet. L’unica domanda che sorge spontanea è sempre: perché tutto questo ben di Dio è arrivato così tardi?
JESSE MALIN Outsiders
(One Little Indian /Audioglobe, 2015)
Ci siamo!
Ho sempre visto Jesse Malin come un talento incompiuto e l’immagine da eterno teenager (gli anni sono ora 47) ha contribuito a farmelo pensare. A farmi cambiare idea, però, ci hanno pensato gli ultimi episodi discografici: il precedente New York Before The War e questo, che esce a soli sei mesi di distanza, a conferma della buona ispirazione. Outsiders, diversamente dal suo comunque ottimo predecessore, è un disco immediato e rock, registrato in poche sessioni notturne, lontano da distrazioni, nello studio di Don Dilego in Pennsylvania. Il cantautore newyorchese è in forma e mette le chitarre davanti a tutto fin dalla title track in puro Bo Diddley style, passando da trascinanti honky-tonk a ritmi urbani e notturni (‘Edward Hopper’), dal funk con tanto di fiati al vecchio cuore punk che batte in ‘Here’s The Situation’ con J Mascis ospite e nella cover acustica di ‘Stay Free’ (Clash). Così diretto da far dire all’autore: “è talmente autobiografico che assisto addirittura al mio stesso funerale!”. (Enzo Curelli)
da CLASSIX!#45 (Ottobre/Novembre)
Dollar A Day/Top Shelf Drug/Tell My Mother Miss Her So/Snow Falls In June/Radio/Bluebird/The Poet/Hallelujah/Nobody Knows My Trouble/Adventures Of You And Me/My Diamond Is Too Rough/Rip This Joint (Rolling Stones COVER)/Broken Heart Tattoos/Southside Of Heaven/The WEary Kind/Ever Wonder Why/Sunshine/Bread And Water
Nel 1984 entrò in casa questo disco. Arrivò direttamente da Parigi.
STUART ADAMSON avrebbe compiuto 56 anni l'11 Aprile 2014. Adamson, voce e chitarra dei Big Country, è morto suicida con il cappio al collo in una stanza d’albergo il 16 Dicembre del 2001. Non ha fatto notizia come il suicidio di Kurt Cobain. Cobain morì solo ma con gli occhi del mondo puntati su di sé, Adamson morì solo, in un hotel di Honolulu alle Hawaii, solo con i fedeli compagni “depressione e alcolismo” che lo trascinavano al guinzaglio da parecchi anni. Ma, se mi mettete davanti Nevermind (disco che ho vissuto nel pieno dei miei diciott’anni e che amo) e questo Steeltown: io scelgo Steeltown. Se il cuore conta ancora qualcosa nella musica, dentro al disco degli scozzesi il mio ha battuto per molto tempo e continua a farlo in giornate come queste, quando ritorna a girare nel giradischi. Grande gruppo i Big Country, forse lo sono stati per pochi dischi (il precedente The Crossing), una promessa non mantenuta fino in fondo, ma nel pieno degli anni ottanta il loro combat/celtic rock aveva il dono dell’originalità. Si distingueva.
Le inconfondibili, epiche e sferraglianti chitarre che suonavano come cornamuse scozzesi segnavano le canzoni mentre molti, nel Regno Unito, giocavano con la plastica dei synth. Anche un po’ fuori moda, in mezzo ai colorati anni ’80, mentre dipingevano perfettamente il grigio quadro sociale e politico in UK: periferie scozzesi piene di gente senza lavoro, incazzata, di ragazze con occhi tristi e grigi, soldati al fronte, tutti in coda ad aspettare la carta fortunata da giocare. Un romantico grido d’allarme dove le rose sembrano diventare d’acciaio, e il rosso dei petali prendere la ruggine delle acciaierie abbandonate. ‘Flame Of The West’, Steeltown’, Where The Rose Is Sown’, Come Back To me’, Just A Shadow’. Emozioni a mille, oggi…e c'è pure la deluxe edition per il trentesimo anniversario.
In principio, a tredici anni, c'era la musica di strada per le vie di Dublino (l'attività di busker continua ancora adesso che è famoso come forma di divertimento e autoanalisi), poi ci fu The Commitments, celebre film di Alan Parker, affresco illuminato di una Dublino dove i giovani cercavano nella musica il sollievo che la società non riusciva dare loro. Tra i tanti musicisti e attori non professionisti che contribuirono a rendere The Commitments un film di culto, molti si sono persi, ma tanti altri, proprio da quel 1991, hanno iniziato una nuova carriera. Tra questi ci fu il rosso Glen Hansard che nella pellicola interpretava il simpatico Outspan Foster, chitarrista della band soul protagonista del film di Parker.
Hansard che non ama parlare troppo di quel film, da allora ha continuato una carriera in crescendo: ha inciso sette dischi con il suo primo e principale gruppo rock The Frames e tre con il duo The Swell Season, insieme a Markèta Irglovà (che diventerà sua compagna) arrivando a vincere con questi ultimi, nel 2008, un oscar per la miglior colonna sonora con Falling Slowly, canzone contenuta nella soundtrack del film indipendente Once-recentemente diventato un musical- che ha avuto un gran successo in America e che lo vede impegnato anche come attore protagonista insieme alla stessa Irglovà. Poi, ancora tante soddisfazioni: come aprire i concerti australiani di Bob Dylan, uno dei suoi idoli musicali di sempre insieme a Van Morrison; la collaborazione con Eddie Vedder per UKULELE SONGS (voce in Slepless Nights); aver conosciuto un giovanissimo Jeff Buckley che faceva il roadie per i suoi Frames.
Bene. Fino a qui ho fatto un semplice e sbrigativo copia incolla (dannata pigrizia) di parole già spese per presentare il suo primo disco solista RHYTHM AND REPOSE uscito nel 2012. Era un disco dolente, sincero, romantico e interamente influenzato dall’allora recente separazione dalla compagna. Un disco carico di phatos, intimo e rarefatto. Hansard sembra essersi ripreso alla grande da quella batosta e questa volta, pur mantenendo fede alle sue caratteristiche peculiari: gran scrittura dei pezzi (My Little Ruin e Just To Be The One sono esempi di canzoni perfette) e voce che sa toccare le corde giuste, sostituisce l’uniformità musicale e d’intenti che caratterizzavano RHYTHM AND REPOSE con dei guizzi da fuoriclasse che riescono a mettere in fila tutte le influenze di una vita. Dal fantasma di Dylan che appare più volte (Winning Streak con Sam Beam-Iron And Wine- e Sam Amidon ospiti alle voci), a Van Morrison nel soul/gospel di Her Mercy che esplode nella girandola di fiati finale, a Springsteen (ma anche Mellencamp) in Lowly Deserter che pare uscita da una serata passata a suonare le Seeger Sessions, all’amata Irlanda di McCormack’s Wall che nasce spoglia dai tasti di un pianoforte e muore come una giga indemoniata con il violino di John Sheahan dei Dubliners protagonista, al folk crepuscolare e solitario della finale Stay The Road. Se il precedente fu registrato nella sola New York e ritraeva la figura di un uomo solo e disperato, DIDN’T HE RAMBLE è nato in giro per il mondo, tra New York, la Francia, Chicago e Dublino e disegna il profilo di un uomo in pace con il mondo, ma sempre profondo ed viscerale quando si tratta di mettere nero su bianco i propri sentimenti. Il resto scopritelo voi. Un bollino guadagnato per i miei dischi dell'anno.
Perdoniamogli tutte le cazzate che ha sparato ultimamente: se per lui Sgt.Peppers è spazzatura, voglio fare il netturbino a Roma e spararmelo in cuffia alle cinque di una domenica mattina tra cartacce, pisciate e cocci di bottiglia, se i Black Sabbath sono uno scherzo, voglio essere un mago e tirare fuori Ozzy e Iommi da un cilindro e giocarci tutto il giorno nel soggiorno di casa. Taci Keith. Suona la chitarra e canta con quella vociaccia che ti ritrovi che non sarà quella di Jagger ma penetra tre volte in più, giù in profondità. Perché sto vecchio figlio di buona donna tira fuori un disco di rock’n’roll quasi perfetto (il quasi si toglie solo per i capolavori), sporco il giusto, di quello sporco che gli ultimi Rolling Stones puliscono troppo spesso con colpi di straccio a casaccio. Quali siano gli ultimi Rolling Stones non lo so ancora: dovevano essere quelli degli anni ‘80, poi sono arrivati i ’90, oggi è il 18 Settembre del 2015. Keith è aiutato dagli X-Pensive Winos appena lì dietro e da Steve Jordan, produttore e batterista. L’intro acustica Crosseyed Heart è l’adunata dei vecchi fantasmi del Delta, spoglia, solitaria, quasi si stesse esercitando prima di un concerto, il blues battente e torbido in Blues In The Morning sembra arrivare pure lui da epoche lontane e remote (anche le sue in definitiva), Nothing On Me è il suo credo quasi fosse la sua brillante ed epocale autobiografia Life, il rock di Heartstopper e di Trouble è tutto quello che vorremmo sempre sentire dagli Stones. Ancora un volta. Anche il vecchio amore per il reggae è sempre presente in Love Overdue di Gregory Isaacs. Il blues sbilenco e schizzato di Substantial Damage pare invece uscito da un disco dell’amico Tom Waits. A proposito: lo standard Goodnight Irene viene bene pure a Keith.
Quando poi fa il confidenziale, anche spesso e volentieri, ti accarezza prima e dopo ti scortica alle spalle (la ballata Robben Blind e nell’avventata Illusion con Norah Jones). Sul R&B di Amnesia ricompare, magicamente, anche il sax di Bobby Keys, scomparso quasi un anno fa. Magie di Keith. Potrebbe anche essere il suo terzo e ultimo disco solista visto tempistiche e carta d’identità. Quindi: un testamento anticipato, da leggere e rileggere. All'infinito. Una lezione da imparare. “Guardo alla vita come se fosse 6 corde e 12 tasti. Se non riesco a immaginare tutto quanto c’è lì dentro, come posso immaginare qualsiasi altra cosa?” K.R. Per ora, non si è rotta ancora nessuna di quelle vecchie e impolverate sei corde (che naturalmente per Keith sono cinque).
EDDIE HINTONVery Extremely Dangerous (Capricorn,1978)
Disco di una categoria superiore. Eddie Hinton fu tanto forte con la sua voce nera-il tag “l’Otis Redding bianco” campeggia ovunque, meritatamente ma anche ingabbiante-quanto debole nell’affrontare i problemi incontrati lungo la breve strada della sua esistenza. Very Extremily Dangerous fu il debutto solista che arrivò nel 1978 dopo anni dedicati come session man per i più grandi: Aretha Franklin, Joe Tex, Solomon Burke, Boz Scaggs, Percy Sledge, Wilson Pickett, Otis Redding, The Staple Singers, Johnny Taylor, Elvis Presley, The Box Tops, Evie Sands,Toots Hibbert e tantissimi altri si sono serviti della sua chitarra, delle sue canzoni, del suo talento.
‘Very Extrenely Dangerous’ è una bomba di intensità southern soul (copertina inclusa), registrato ai Muscle Shoals, che dovrebbe esplodere nelle case di tutti, nessuno escluso.
Paradossalmente il più grande successo fu anche la sua rovina: la mitica etichetta Capricorn chiuse i battenti proprio dopo questo disco e la vita di Eddie, destinata a migliorare, iniziò invece a sprofondare negli abissi poco sani della depressione a cui andò ad aggiungersi una vita famigliare tormentata e poco stabile. Il resto della carriera fu un’altalena con bassi (di vita) e alti (musicali) tra cui spicca ancora Letters From Mississippi del 1985.
La morte arrivò prestissimo nel 1995 a soli 51 anni. Un infarto rapì il suo debole cuore, troppo sensibile e blues per questo mondo irrispettoso.
JACKIE
GREENE Back To Birth (yep ROC Records, 2015)
Qualcuno di voi lo ricorderà alla chitarra dei BLACK
CROWES nell’ultimo (?) tour della band dei fratelli Robinson. All’Alcatraz di
Milano nel 2013 ebbe il difficile compito di rimpiazzare Luther Dickinson e ci
riuscì egregiamente. Oppure avrete letto il suo nome tra i componenti dei
Trigger Hippy, band formata da Steve Gorman, batterista dei Black Crowes, e dalla
cantautrice giramondo Joan Osborne. In verità il californiano Jackie Greene è
un cantautore e polistrumentista con cinque album solisti alle spalle, votati
al folk, che ottennero anche buoni riscontri di critica all’uscita. Dopo cinque
anni di assenza ritorna con quello che si può definire il classico album della
maturità. Ilbagaglio delle esperienze
si è arricchito negli ultimi anni, permettendogli di esplorare diverse strade
contemporaneamente, con risultati sempre sopra la media: dal carezzevole vento west coast ’70, seguendo la stella di Jackson
Browne (A FaceAmong The Crowd) a episodi ancora più leggeri (Now I Can See
For Miles), dagli umori sudisti, ora soul (Trust Somebody, Where The
Downhearted Go) ora gospel/blues nella pianistica a due atti ‘Hallelujah’ , caracollanti passeggiate nel country(Motorhome), fino alla più tirata e rock The
King Is Dead. Un disco essenzialmente di ballate, dalla scrittura limpida e
cristallina (a volte fin troppo pulito), ben prodotto dal Los Lobos, Steve
Berlin. Un quieto e onesto traghettatore verso l’arrivo dell’autunno…
Sì, viaggiare Chris Stapleton ha viaggiato per buona parte dei suoi trentasette anni nel retro bottega della musica americana, come componente degli SteelDrivers e dei Jompson Brothers, ma soprattutto come autore per numerosi cantanti country del giro di Nashville, ricevendo anche buoni riscontri commerciali. Nel 2013, sulla strada della vita, invece, incontra l’ostacolo più grande, la perdita del padre: carica i bagagli, fa salire la moglie su una grossa Jeep e parte alla ricerca di se stesso e nuove ispirazioni. Lungo il viaggio dall'Arizona al Tennessee ha raccolto 14 canzoni (due le cover tra cui spicca una perfetta Tennessee Whiskey ) che si è tenuto per sé, e registrato con Dave Cobb, uno dei produttori più in voga del momento. Ne è uscito un debutto sorprendentemente intenso e profondo dove l’amore per l’outlaw country ’70, lo scarno folk e il soul trovano un collante nella voce, vera arma vincente di questo nuovo fuorilegge errante tra i grandi spazi americani.
Enzo Curelli 8
da Classic Rock # 34 (Settembre 2015)
La maturità
La stella brillante continua ad illuminare il percorso della band di Ben Nichols. Se la decisa virata verso il Memphis sound del precedente WOMEN & WORK aveva fatto storcere il naso ai fan della prima ora, con l’ottavo album prodotto ancora da Ted Hutt, fanno solo mezzo passo indietro a favore della varietà che concentra i diciotto anni di carriera che li ha visti protagonisti dell’alt country. Anche se manca la rabbia giovanile, quella si è persa: i fiati persistono in un poker di coinvolgenti R & B (Can’t You Hear Them Howl ), le ballate dolenti (la springsteeniana My Girl And Me In ’93) e descrittive (I Woke Up In New Orleans) continuano a dipingere romantici quadri per losers. Per la prima volta in un loro disco compare pure una cover: I’m In Love With A Girl dei Big Star con Jody Stephens ospite. A fare la differenza ci sono sempre la voce tagliente e i testi di Nichols e quando ci prende per mano in Went Looking Warren Zevon ‘s Los Angeles per una nostalgica passeggiata per le vie della città degli angeli è meglio di qualsiasi guida turistica in commercio. Enzo Curelli 7
da Classic Rock # 34 (Settembre 2015)
MARK LANEGANHouston-Publishing Demos 2002 (Ipecac Recordings, 2015)
Come un becchino d'altri tempi, Mark Lanegan sputa a terra, impugna nuovamente la pala con le sue manone tatuate e scava alla ricerca di un passato perduto, così lontano dalle sbandate electro/rock proposte negli ultimi dischi solisti. Anche se lui, alle due ultime prove in studio, ci crede parecchio. Massimo rispetto. Blues Funeral è al top. Quasi volesse rimarcare con fermezza la linea che divide il passato dal presente. E il futuro quale sarà? Lo aveva già fatto l'anno scorso con i dodici inediti presenti nella raccolta Has God Seen My Shadow?. Lo fa nuovamente, a distanza di pochi mesi, equello che trova sembra ancora terra umida, viva, buona per essere utilizzata e data in pasto ai fan, perché a loro è indirizzata questa uscita. Ecco quindi altre dodici canzoni che ci ricordano il suo tempo migliore, immediatamente dopo la rottura con gli Screaming Trees ma con già cinque dischi solisti alle spalle e prima di un turbinio di collaborazioni che gli hanno fatto guadagnare il titolo di stakanovista del rock. In questo disco ci sono delle versioni demo, ma in alcuni casi sembrano complete e buone così, registrate in soli sette giorni nell'Aprile del 2002 al Sound Art Recording Sudio di Houston in Texas, insieme a Keni Richards (batteria), Steve Bailey (basso), Mike Johnson (chitarre), Ian Moore (chitarra e sitar), Bukka Allen (tastiere) e Mickey Raphael (armonica). Alcune verranno riprese e lavorate successivamente per altri album (vedi la spartana versione di Grey Goes Black che andrà a finire, con qualche cambiamento, in Blues Funeral), alcune vedono il cielo nero e terso per la prima volta.
Poteva diventare un album ufficiale, e sarebbe stato un album eccellente e perfettamente incastonato tra Field Songs (2001) e la svolta musicale che prenderà corpo di lì a poco con Bubblegum(2004), anche se caratterialmente è più vicino alla prima parte di carriera. Pur con quel senso di incompiutezza che aleggia qua e là-ma che ci piace tanto- questo è il Lanegan tenebroso, solitario e beffardo che preferiamo: il pistolero western di nero vestito, nipote dei nonni Johnny Cash e Ennio Morricone, nella gelida e malinconica passeggiata di High Life, il bluesman decadente in The Primitives, il folker solitario e disperato in A Suite For Dying Love e nella orientaleggiante Two Horses, il crooner che canta per il popolo che affolla i cimiteri con la voce che sembra arrivare dall'aldilà in I'll Go Where You Send Me e Nothing Much To Mention, il rocker dimesso nell'apertura No Cross e nelle chitarre acide e pressanti di When It's In You che diventerà poi Methamphetamine Blues, il cerimoniere ossianico nella conclusivae ipnotizzante Way To Tomorrow.
Certamente non indispensabile, ma ottimo per i nostalgici, e bello per chi volesse approcciarsi ora, in gran ritardo, alla musica di Lanegan.