lunedì 29 dicembre 2014
LA MIA PLAYLIST: DISCHI ITALIANI 2014
1-EDDA-Stavolta Come Mi
Ammazzerai?
Nudo e puro. Chi lo ammazza più? Da quando è tornato a “vivere”, dopo dodici anni di esilio imposto (la comunità per dimenticare l’eroina) e cercato (il lavoro in una ditta di ponteggi), l’ex Ritmo Tribale, band sfortunata ma seminale del panorama rock italiano dei ’90, si sta confermando come uno dei personaggi più veri, schietti e puri della scena cantautorale italiana. Se l’esordio ‘Semper Biot’ fu l’inaspettato ritorno acustico costruito insieme all’alter ego paroliere Walter Somà, e il successivo ‘Odio I Vivi’ fu la più sperimentale conferma, con il terzo lavoro ritorna a sonorità dirette e rock (‘Stellina’), al suono scarno e viscerale di una band, continuando a spogliarsi senza remore, spiattellando paure e ossessioni, confidenze famigliari (‘Pater’, ‘Mader’, ‘Coniglio Rosa’) e carnali (‘Ragazza Porno’). Tanto viscerale, disturbato (e disturbante), quanto fragile ma forte di una vocalità unica e poco avvicinabile. Per quel che può contare: il mio disco italiano del 2014. da CLASSIX # 42
canzone: Tu e Le Rose
(Leggi recensione completa)
2-CHEAP WINE-Beggar Town
Resistenza. Il precedente album ‘Based On Lies’ era un' impietosa e pessimistica istantanea della realtà costruita sulle menzogne, questo è un manuale di resistenza ma anche e soprattutto di fuga dal passato nero e dalla grigia quotidianità. E “resistenza” è una parola che si adatta alla perfezione alla band pesarese dei fratelli Diamantini: diciotto anni di carriera condotti fieramente dalla parte meno modaiola dell’autoproduzione: dieci album, concerti su concerti, testi che contano, meticolosa cura della confezione, nulla viene lasciato al caso. Una carriera in continuo crescendo che li vede ora impegnati in un classic rock, termine abusato ma perfettamente consono alla loro proposta musicale, ora intenso e compatto, ora notturno e rarefatto, dove il dialogo tra le chitarre elettriche e il pianoforte è il leitmotiv che guida l’intero disco sia quando si insinua tra le amare ballate (‘Claim The Sun’) sia quando i toni si alzano come nel più concitato finale (‘Black Man’). da CLASSIX # 42
canzone:Claim The Sun
(Recensione completa)
3-CHRIS CACAVAS And EDWARD ABBIATI-Me And The Devil
Ci sono dischi che possiedono il fascino già celato nella copertina e nel titolo. Me And The Devil è uno di questi. L'occulto significato dentro a quei tarocchi cela la vita e questo disco mette in primo piano la voglia di vivere, di viaggiare con i piedi e con la mente, tra la polvere e gli astri, con il diavolo sempre al fianco, ora silente e complice ora ghignante e beffardo. Affascina e mette "la voglia" già da lì, da quelle bizzarre nove carte calate sul tavolo.
canzone: Me And The Devil
(Recensione completa)
4-MATT WALDON-Learn To Love
Questo suo secondo lavoro, concepito lungo l'infinita strada che da Padova e Rovigo porta a Woodstock, NY, dove è stato effettuato il missaggio ad opera di Kevin Salem, si presenta in modo ancor più omogeneo rispetto al precedente e già ottimo Oktober (2012). Mancano i graffi rock che grattavano la superficie ma quest'ultima si è fatta più compatta, distesa e accomodante e tutto si concentra nei trenta minuti costruiti con dovizia e bravura su acustiche ballate che sembrano nate lungo i pochi minuti che separano le amare passeggiate tra la tranquillità dell'alba e l'arrivo frenetico del giorno, tra i pensieri persi in un tramonto e la misteriosa pace notturna dell'oscurità. Un tempo ristretto della sua vita messo in musica.
canzone:Learn To Love
(Recensione)
5-EUGENIO FINARDI-Fibrillante
L'ingenua voglia di cambiare il mondo dettata dalla gioventù si è trasformata in resistenza che solo distrattamente si potrebbe confondere con la rassegnazione di un uomo che ci ha sempre creduto e combatte ancora o cerca di farlo, in altri modi, anche urlando, cercando qualcuno che lo ascolti come canta in Come Savonarola: "so che ti faccio soffrire con le mie facce scure e la mia negatività/Ma devo solo ritrovare un nuovo modo di lottare per la nostra dignità/E una vita che sia umana più libera e più sana di giustizia e verità".
canzone: La Storia Di Franco
(Recensione)
6-PAOLO BENVEGNU'-Earth Hotel
Ha un solo piccolo difetto: arrivare dopo un capolavoro come Hermann. Per il resto, Benvegnù si conferma un paroliere arguto, uno dei pochi a dare ancora importanza alla buona cucitura delle parole sulla stoffa strumentale, servendo un blocco unico, mai scontato e avvolgente. Questa volta costruisce un alto e affollato hotel di dodici piani (canzoni), osservatorio privilegiato sulle umane derive moderne chiuse in stanze asettiche. Raffinato nella forma, penetrante nella sostanza.
canzone: Una Nuova Innocenza
da CLASSIX! #42
7-GUY LITTELL-Whipping The Devil Back
Whipping the Devil Back è un disco essenziale, scarno, ancor più del debutto (prima ancora uscì con l'EP The Low Light And The Kitchen nel 2009), fatto di chitarre acustiche, di chitarre elettriche che intrecciano e allungano il giusto (Lovely People, Cedar Forest), un pianoforte (Deep Enough) e poco altro, registrato e prodotto nuovamente a casa di Ferdinando Farro, con la cura di preservare tutta la primordiale autenticità. Un diario sofferto ma ottimista, intimista ma aggregante, nato, pensato e scritto durante le ore trascorse durante il lavoro in un albergo che ha tenuto impegnate le notti di Gaetano Di Sarno
canzone:Whipping The Devil Back
(Recensione)
8-RICCARDO SINIGALLIA-Per Tutti
Sanremo è una trampolino di lancio efficace: anche se un nome già ce l'hai e anche se poi vieni squalificato a gara in corso. Sinigallia è un cantautore tanto timido, velato e in disparte quanto talentuoso, esplosivo e ficcante nel mettere a nudo con parole i sentimenti più comuni, il mal di vivere e le speranze di noi tutti. Otto anni di silenzio sono tanti nel mondo discografico odierno, una centrifuga senza confini che trita e dimentica tutto nel giro di pochi mesi, ma Per Tutti è un disco che nella sua timida fragilità è letteralmente esploso, mettendo d'accordo tutti. Un successo di critica e pubblico che non ammette discussioni. Con lo smalto dei vecchi Tiromancino presente solamente a piccole macchie-ma ancora percettibili-il cantautorato pop di Sinigallia è quanto di meglio possa offrire il panorama italiano oggi: pochi sanno mettere le parole in fila così bene con tanta onestà.
canzone: Che Non è più Come Prima
9-ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions
Cosmic Sessions è un viaggio introspettivo dentro al suo, ma anche un po' nostro, mondo. Una bizzarra nave/mongolfiera (bella la cover art, opera di Zeppelin Studio) che, piuttosto che solcare mari, sembra alzarsi in aria permettendo uno sguardo a 360 gradi sopra alle sue passioni musicali, quelle che confluiscono molto spesso in un'unica direzione temporale: la California a cavallo tra gli anni 60 e i 70, posto ancora carico di suggestioni a distanza di anni e nonostante la tecnologia di mezzo a fare da ostacolo.
canzone: Nothing More To Say
(Recensione)
10-OMAR PEDRINI- Che Ci Vado A Fare A Londra?
Vinta la battaglia più difficile contro un cuore malandrino, provate nuove strade artistiche, l’ex Timoria vola in Inghilterra con tante idee e molti dubbi ma ritorna ad incidere dopo otto anni di assenza. Resetta tutto, e riparte da là, dove era finita l’avventura con la band. Si riappropria di tante storie da raccontare, un pianeta pieno di personaggi reali, ospiti (Ron, MCR, Ferlinghetti) e tutto l’amore di sempre per la beat generation, il british rock e la sua Italia. Ritrovato.
canzone: Che Ci Vado A Fare A Londra?
da CLASSIX #39
11-LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS-J.A.B.
I Little Angel & The Bonecrashers, band del varesotto attiva dal 2000, arrivano al secondo album con dieci canzoni autografe che sono una piccola lezione di umiltà e rispetto verso un'intera scena musicale talmente vasta che il rischio di perdersi è alto e sempre in agguato: si parte dalle radici e si arriva agli albori di quell'alt country che è stato una delle ultime vere novità che ha condizionato, anche per vie traverse, tutte le nuove generazioni di musicisti americani.
canzone: My Last Ride
(Recensione)
12-PAOLO CONTE-Snob
13-DAVIDE VAN DE SFROOS-Goga e Magoga
14-MANDOLIN' BROTHERS-Far Out
15-LOWLANDS-Love Etc.
16-GUANO PADANO-Americana
17-STEFANO GALLI-Focus
18-LA ROSA TATUATA-Scarpe
19-MICHELE ANELLI & CHEMAKO-Michele Anelli & Chemako
20-TEX MEX-Hang Loose Tex Mex!
21-PULIN & The LITTLE MICE-Hard Times Come Again No More
22-I LUF & MASSIMO PRIVIERO-Terra E Pace
23-VERILY SO-Islands
24-FABIO GUALERZI-Fabio Gualerzi
25-AFTERHOURS-Hai Paura Del Buio? (Remastered)
26-MANNARINO-Al Monte
27-FRANCESCO DE GREGORI-Vivavoce
28-THE ZEN CIRCUS-Canzoni Contro La Natura
29-CARLO OZZELLA e BARBABLUES-Il Lato Sbagliato Della Strada
30-Il PAN DEL DIAVOLO-Folkrockaboom
vedi anche
DISCHI ITALIANI 2013
DISCHI ITALIANI 2012
DISCHI ITALIANI 2011
DISCHI ITALIANI 2010
CLASSIFICA DEI LETTORI E MIA PLAYLIST: DISCHI 2014
venerdì 26 dicembre 2014
RECENSIONE: WILLIE NILE (If I Was A River)
WILLIE NILE If I Was A River (Blue Rose, 2014)
8 Dicembre 1980. E' tarda sera, sono passate le 22, John Lennon e Yoko Ono lasciano gli studi Record Plant di New York dove stanno lavorando all'album Milk & Honey, seguito gemello del precedente lavoro di coppia Double Fantasy. Prendono il taxi per dirigersi verso il Dakota Building, complesso sulla 72esima strada a un passo da Central Park, dove risiedono in un lussuoso appartamento. Mentre stanno scendendo dal taxi per raggiungere l'entrata, negli studi A del Record Plant che hanno appena abbandonato, i tasti di un pianoforte Steinway vengono battuti ripetutamente: una, due, tre, quattro, cinque volte come gli spari di quella Calibro 38 stretta nella mano assassina di Mark David Chapman, squilibrato mimetizzato tra i fan che campeggiano davanti al Dakota in attesa dell'arrivo di Lennon. Cinque colpi cinque. Alle 23 e 09 John Lennon venne dichiarato morto al Roosevel Hospital. Nel 1981 esce Golden Down il secondo album di Willie Nile.
Natale è passato da un solo giorno, un peccato, perché If I Was A River ha tutte le caratteristiche dei migliori dischi da mettere sotto l'albero. Un dono che qualunque amante del rock amerebbe ricevere, anche se le chitarre sono quasi del tutto assenti, la "casa delle mille chitarre" non è qui, questa volta. Un disco che scalda anima e cuore attraverso i soli tasti di un pianoforte, strumento protagonista dalla prima all'ultima nota di queste dieci canzoni, dieci ballate accorate, spoglie, che potevano essere contenute in Cold Spring Harbor di Billy Joel, in un disco di Bill Fay o Randy Newman, composte dal miglior Springsteen introspettivo.
Non è stato usato un pianoforte qualsiasi come sottolinea Nile nelle note introduttive presenti nel booklet: "Questo album è stato registrato con lo stesso piano Steinway che suonai la notte in cui John Lennon fu assassinato l'8 Dicembre del 1980. Ero nello Studio A del Record Plant di New York e stavo registrando il mio secondo album, mentre John e Yoko stavano lavorando nello Studio C quella notte". Lo stesso pianoforte usato da alcuni grandi del rock: John Lennon appunto, Bruce Springsteen, Randy Newman, Elton John, David Bowie. Ecco perché piacerebbe a qualunque rocker, duro e puro ma dal cuore perennemente sanguinante.
Willie Nile aveva in testa questo disco da molto tempo. Un disco che esula totalmente dalla sua discografia, soprattutto inaspettato dopo un album vario ma essenzialmente rock'n'roll come il precedente e fortunato American Ride, ma che non sorprende del tutto. Chi conosce Nile sa quanto il lato puramente drammatico ed emozionale della sua scrittura faccia spesso capolino tra gli attacchi delle ruggenti chitarre: una canzone come On The Road To Calvary del 2004, dedicata a Jeff Buckley, valga per tutte.
Un lavoro omogeneo nella sua globalità (34 minuti) ma ficcante, spirituale, coraggioso, dove Nile si dimostra songwriter e interprete di primo livello, che sta vivendo, a 66 anni, una seconda parte di carriera ispirata e dettata dalla mai sopita voglia di provare nuove strade. "E' senz'altro il momento migliore della mia vita musicale. Sto scrivendo le mie cose migliori. Ed è una rarità quando uno invecchia", dichiara Nile in una intervista.
Passione bruciante la sua. La semplice unione tra le liriche profonde e sentite con un pianoforte che suona seguendo i dettami "classici" ereditati dall'infanzia (fu il suo primo strumento), un binomio che sa esaltare la struggente drammaticità (Lost), l'epicità (Gloryland), l'introspezione (I Can Do Crazy (Anymore))-ben evidenziata anche dal bel lavoro fotografico di Cristina Arrigoni-, l'intimità che sboccia nell'amore, nel viaggio (If I Was A River, The One You Used To Love, Let Me Be The River) ma che sa anche uscire con l'esaltante, divertita, corale e dissacrante Lullaby Loon, o agganciarsi alla tradizione folk (l'irish di Song Of A Soldier, Goin' To St. Louis). Pochi ma di classe gli interventi esterni: Steuart Smith (chitarre, basso, hammond), David Mansfield (mandolino, violino, viola), Frankie Lee (cori) e Stewart Lerman come produttore.
Fatelo suonare di sera, nell'oscurità, mentre aspettate la vostra personale salvezza. Anche se Natale è passato, anche se non ci sono le chitarre, anche, e soprattutto, se il vostro cuore sanguinante non ha trovato ancora il giusto tampone.
vei anche
RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO-Faithless
World (2014)
VOTA IL DISCO DELL'ANNO 2014
8 Dicembre 1980. E' tarda sera, sono passate le 22, John Lennon e Yoko Ono lasciano gli studi Record Plant di New York dove stanno lavorando all'album Milk & Honey, seguito gemello del precedente lavoro di coppia Double Fantasy. Prendono il taxi per dirigersi verso il Dakota Building, complesso sulla 72esima strada a un passo da Central Park, dove risiedono in un lussuoso appartamento. Mentre stanno scendendo dal taxi per raggiungere l'entrata, negli studi A del Record Plant che hanno appena abbandonato, i tasti di un pianoforte Steinway vengono battuti ripetutamente: una, due, tre, quattro, cinque volte come gli spari di quella Calibro 38 stretta nella mano assassina di Mark David Chapman, squilibrato mimetizzato tra i fan che campeggiano davanti al Dakota in attesa dell'arrivo di Lennon. Cinque colpi cinque. Alle 23 e 09 John Lennon venne dichiarato morto al Roosevel Hospital. Nel 1981 esce Golden Down il secondo album di Willie Nile.
Natale è passato da un solo giorno, un peccato, perché If I Was A River ha tutte le caratteristiche dei migliori dischi da mettere sotto l'albero. Un dono che qualunque amante del rock amerebbe ricevere, anche se le chitarre sono quasi del tutto assenti, la "casa delle mille chitarre" non è qui, questa volta. Un disco che scalda anima e cuore attraverso i soli tasti di un pianoforte, strumento protagonista dalla prima all'ultima nota di queste dieci canzoni, dieci ballate accorate, spoglie, che potevano essere contenute in Cold Spring Harbor di Billy Joel, in un disco di Bill Fay o Randy Newman, composte dal miglior Springsteen introspettivo.
Non è stato usato un pianoforte qualsiasi come sottolinea Nile nelle note introduttive presenti nel booklet: "Questo album è stato registrato con lo stesso piano Steinway che suonai la notte in cui John Lennon fu assassinato l'8 Dicembre del 1980. Ero nello Studio A del Record Plant di New York e stavo registrando il mio secondo album, mentre John e Yoko stavano lavorando nello Studio C quella notte". Lo stesso pianoforte usato da alcuni grandi del rock: John Lennon appunto, Bruce Springsteen, Randy Newman, Elton John, David Bowie. Ecco perché piacerebbe a qualunque rocker, duro e puro ma dal cuore perennemente sanguinante.
Willie Nile aveva in testa questo disco da molto tempo. Un disco che esula totalmente dalla sua discografia, soprattutto inaspettato dopo un album vario ma essenzialmente rock'n'roll come il precedente e fortunato American Ride, ma che non sorprende del tutto. Chi conosce Nile sa quanto il lato puramente drammatico ed emozionale della sua scrittura faccia spesso capolino tra gli attacchi delle ruggenti chitarre: una canzone come On The Road To Calvary del 2004, dedicata a Jeff Buckley, valga per tutte.
Un lavoro omogeneo nella sua globalità (34 minuti) ma ficcante, spirituale, coraggioso, dove Nile si dimostra songwriter e interprete di primo livello, che sta vivendo, a 66 anni, una seconda parte di carriera ispirata e dettata dalla mai sopita voglia di provare nuove strade. "E' senz'altro il momento migliore della mia vita musicale. Sto scrivendo le mie cose migliori. Ed è una rarità quando uno invecchia", dichiara Nile in una intervista.
Passione bruciante la sua. La semplice unione tra le liriche profonde e sentite con un pianoforte che suona seguendo i dettami "classici" ereditati dall'infanzia (fu il suo primo strumento), un binomio che sa esaltare la struggente drammaticità (Lost), l'epicità (Gloryland), l'introspezione (I Can Do Crazy (Anymore))-ben evidenziata anche dal bel lavoro fotografico di Cristina Arrigoni-, l'intimità che sboccia nell'amore, nel viaggio (If I Was A River, The One You Used To Love, Let Me Be The River) ma che sa anche uscire con l'esaltante, divertita, corale e dissacrante Lullaby Loon, o agganciarsi alla tradizione folk (l'irish di Song Of A Soldier, Goin' To St. Louis). Pochi ma di classe gli interventi esterni: Steuart Smith (chitarre, basso, hammond), David Mansfield (mandolino, violino, viola), Frankie Lee (cori) e Stewart Lerman come produttore.
Fatelo suonare di sera, nell'oscurità, mentre aspettate la vostra personale salvezza. Anche se Natale è passato, anche se non ci sono le chitarre, anche, e soprattutto, se il vostro cuore sanguinante non ha trovato ancora il giusto tampone.
vei anche
RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
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World (2014)
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lunedì 22 dicembre 2014
VOTA IL DISCO DELL'ANNO 2014
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Vuoi stare al gioco da "musicofilo" più abusato, amato e odiato di fine anno? La famigerata classifica dei dischi? Quest'anno ci prova anche il mio blog. E' tutto molto semplice: guarda alla destra dello schermo mentre sei nel mio blog, in qualunque pagina o post, troverai un elenco di dischi (sono stati scelti da me, e rappresentano un campione dei miei ascolti, se proprio non trovi il "tuo disco dell'anno"-lo spazio è quello che è, il tempo meno ancora- puoi lasciarlo scritto nei commenti di questo post), spunta il disco (o i dischi, si possono mettere più preferenze) e clicca sul tasto "voto". Fatto? Bene. Ti stanno sul cazzo queste inutili classifiche? Bene. Hai tempo fino al 31/12/2014 per cambiare idea. Poi tutto sarà finito, giuro! Buon voto, buone feste!
RISULTATI:
CLASSIFICA DEI LETTORI E MIA PLAYLIST DISCHI 2014
sabato 20 dicembre 2014
RECENSIONE: JOHNNY WINTER (Step Back)
JOHNNY WINTER
Step Back
(Megaforce Records, 2014)
L’ultimo blues da piangere
Mollerai mai, un giorno, Johnny? “Non credo. A meno che non sia in grado fisicamente, andrò avanti a suonare”. A rileggere questa risposta, estrapolata dall’ultima intervista concessa a Classic Rock (numero 20), corre un brivido lungo la schiena. Un solo mese dopo, nella notte del 16 Luglio 2014, venne trovato morto nella sua stanza di hotel a Zurigo. Winter ha mantenuto quella promessa continuando a suonare fino all’ultimo, e la data tenuta in Francia solo tre giorni prima della morte sarà ricordata come quei concerti allo Scene di New York sul finire degli anni ’60 quando il suo talento naturale fu notato dai discografici della Columbia e la sua cavalcata ebbe inizio ( tutto è ben impresso nel recente box TRUE TO THE BLUES). Nonostante l’artrite lo stesse piano piano consumando, mettendo ancor più in evidenza le conseguenze dello stile di vita selvaggio condotto in gioventù, Winter sotto il cappellaccio, lungo i bordi dei suoi tatuaggi sbiaditi e vissuti, dentro ai tendini tesi, attraverso l’inseparabile chitarra diventata un prolungamento dell’esile corpo, nascondeva ancora il fuoco eterno di chi senza musica non poteva rimanere nemmeno un giorno. STEP BACK esce postumo ma non è un triste epitaffio bensì un manifesto di pulsante vitalità di un settantenne ancora smanioso di mettersi alla prova con la musica, che ama giocare con la varietà degli stili, confrontarsi con i suoi tanti epigoni.
La passerella di ospiti è lunga: Ben Harper, Billy Gibbons, Eric Clapton, Joe Perry, Dr. John, Leslie West, Joe Bonamassa. STEP BACK è il naturale successore del precedente ROOTS (2011): dischi che pongono fine al lungo silenzio discografico che durava dal 2004 e nati per tributare quel genere musicale che contribuì a svecchiare fin dal suo folgorante debutto del 1969 e che culminò quando riportò alla vita artistica un “padre” come Muddy Waters. Blues e rock’n’roll (Long Tall Sally), ciò che ascoltava alla radio quando era appena dodicenne: dall’ inaspettata Unchain My Heart di Ray Charles (e portata al successo da Joe Cocker) con i fiati dei Blues Brothers Horns ed una prestazione vocale di tutto rispetto, qui canta non graffia, a Killing Floor di Howlin’ Wolf con l’amico e produttore Paul Nelson, al rockabilly Okie Dokie Stomp con Brian Setzer fino ai due preziosi numeri condotti in solitaria. C’è un plettro firmato dentro alla confezione di questo ultimo disco “di vita”, è l’ultimo omaggio lanciato dal chitarrista albino (ma più nero di tutti) ai propri fan. Cala il cappello, lascia lo sgabello ed esce silenziosamente di scena.
Enzo Curelli 8 da Classic Rock #25
vedi anche
RECENSIONE: JOHNNY WINTER-Roots (2011)
L’ultimo blues da piangere
Mollerai mai, un giorno, Johnny? “Non credo. A meno che non sia in grado fisicamente, andrò avanti a suonare”. A rileggere questa risposta, estrapolata dall’ultima intervista concessa a Classic Rock (numero 20), corre un brivido lungo la schiena. Un solo mese dopo, nella notte del 16 Luglio 2014, venne trovato morto nella sua stanza di hotel a Zurigo. Winter ha mantenuto quella promessa continuando a suonare fino all’ultimo, e la data tenuta in Francia solo tre giorni prima della morte sarà ricordata come quei concerti allo Scene di New York sul finire degli anni ’60 quando il suo talento naturale fu notato dai discografici della Columbia e la sua cavalcata ebbe inizio ( tutto è ben impresso nel recente box TRUE TO THE BLUES). Nonostante l’artrite lo stesse piano piano consumando, mettendo ancor più in evidenza le conseguenze dello stile di vita selvaggio condotto in gioventù, Winter sotto il cappellaccio, lungo i bordi dei suoi tatuaggi sbiaditi e vissuti, dentro ai tendini tesi, attraverso l’inseparabile chitarra diventata un prolungamento dell’esile corpo, nascondeva ancora il fuoco eterno di chi senza musica non poteva rimanere nemmeno un giorno. STEP BACK esce postumo ma non è un triste epitaffio bensì un manifesto di pulsante vitalità di un settantenne ancora smanioso di mettersi alla prova con la musica, che ama giocare con la varietà degli stili, confrontarsi con i suoi tanti epigoni.
La passerella di ospiti è lunga: Ben Harper, Billy Gibbons, Eric Clapton, Joe Perry, Dr. John, Leslie West, Joe Bonamassa. STEP BACK è il naturale successore del precedente ROOTS (2011): dischi che pongono fine al lungo silenzio discografico che durava dal 2004 e nati per tributare quel genere musicale che contribuì a svecchiare fin dal suo folgorante debutto del 1969 e che culminò quando riportò alla vita artistica un “padre” come Muddy Waters. Blues e rock’n’roll (Long Tall Sally), ciò che ascoltava alla radio quando era appena dodicenne: dall’ inaspettata Unchain My Heart di Ray Charles (e portata al successo da Joe Cocker) con i fiati dei Blues Brothers Horns ed una prestazione vocale di tutto rispetto, qui canta non graffia, a Killing Floor di Howlin’ Wolf con l’amico e produttore Paul Nelson, al rockabilly Okie Dokie Stomp con Brian Setzer fino ai due preziosi numeri condotti in solitaria. C’è un plettro firmato dentro alla confezione di questo ultimo disco “di vita”, è l’ultimo omaggio lanciato dal chitarrista albino (ma più nero di tutti) ai propri fan. Cala il cappello, lascia lo sgabello ed esce silenziosamente di scena.
Enzo Curelli 8 da Classic Rock #25
vedi anche
RECENSIONE: JOHNNY WINTER-Roots (2011)
domenica 14 dicembre 2014
RECENSIONE: HARD WORKING AMERICANS (Hard Working Americans)
HARD WORKING AMERICANS
Hard Working Americans (Melvin Records, 2014)
La semplicità paga
Generazione spesso in ombra la loro, non per demeriti, ma per i troppi meriti di chi li ha preceduti: gente con la pellaccia dura che di abdicare non ci ha mai pensato, lasciando la grave incombenza nelle mani dell’intervento divino. Così ci troviamo uno dei maggiori songwriter americani degli ultimi vent’anni, il talentuoso e bizzarro Todd Snider, un vero outsider del sud, a formare una band con un manipolo di musicisti coetanei ma anche amici, e soprattutto fuoriclasse: Neal Casal, cantautore solista e chitarra nei Cardinals di Ryan Adams e nei stupefacenti e lisergici Chris Robinson Brotherhood, il bassista Dave Schools, fondatore dei torrenziali Widespread Panic, il batterista dal pregiato pedigree Duane Trucks e il tastierista Chad Staehly (Great American Taxi). Un disco che ricava i suoi maggiori talenti dall’atmosfera estremamente rilassata, libera e divertita con cui sono state registrate (in soli 5 giorni) queste undici cover non banali e scelte con cura e rispetto, capaci di distendersi in modo sinuoso tra roots rock, folk, approccio jam e la forza del southern rock.
Il filo nascosto che lega le undici canzoni sta tutto nel patriottico nome del gruppo: nel voler raccogliere canzoni nate dal basso, dalla strada, che parlano delle persone comuni costrette a sbarcare il lunario per vivere. Una scelta non banale e poco scontata quella fatta da Snider che in queste canzoni ha rivisto la sua scrittura, almeno quella degli esordi, di dischi fondamentali come ‘Songs For The Daily Planet’ e ‘Step Right Up’: “negli ultimi 20 anni ho raccolto una valigia di quelle che definirei canzoni perfette, tutte scritte da miei amici, molti dei quali sono etichettati come cantautori di ‘Americana’. Negli ultimi 10 anni o giù di lì, sono stato anche impegnato in numerosi festival con un buon numero di musicisti, molti dei quali nel circuito delle jam band. Perché non mettere queste cose insieme? Perché non combinare i migliori cantautori con i migliori musicisti?”.
La band ve l’ho presentata, le canzoni, pur provenendo da artisti e periodi anche differenti tra loro, sono legate in modo assolutamente istintivo ma perfetto: dall’iniziale e sardonica ‘Blackland Farmer’ scritta nel ‘59 dal vecchio countryman Frankie Miller, fino alla finale, dimessa e acustica ‘Wrecking Ball’ della coppia Gillian Welch e David Rawlings. Passando dalla sagace ‘Mr.President Have Pity On The Working Man’, datata 1974 e presa dal brillante ritratto degli stati del sud dipinto da quel geniaccio di Randy Newman nell’album ‘Good Old Boys’, il rock tout court dei Bottle Rockets in ‘Welfare Music’, dei Br5-49 in ‘Run A Mile’ e di Will Kimbrough in ‘Another Train’ dove la chitarra di Casal fuma, fino alle ultime generazioni: Kevin Kinney dei Drivin N Cryin (‘Straight To Hell’), Kevin Gordon (‘Down To The Well’) e Hayes Carll, trentottenne cantautore texano tra i più accreditati eredi di Snider nella rutilante e sudista ‘Stomp And Holler’ che ospita John Popper dei Blues Traveler all’armonica. “Vogliamo che canzoni epiche e virtuosismi musicali coesistano insieme in un stanza, e vi vogliamo in camera con noi. La porta è aperta”. Avanti.
(Enzo Curelli) da CLASSIX! #39 (disco del mese Aprile/Maggio 2014)
A completare l'anno del super gruppo, la recente uscita The First Waltz (se esiste l'ultimo valzer, doveva pur esserci il primo, no?), DVD più CD che raccontano il vero spirito stradaiolo e live della band attraverso filmati di concerti, backstage e di vita "on the road", con un packaging bello e intrigante, che non guasta mai.
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RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Phosphorescent Harvest THE CADILLAC THREE-Tennessee Mojo WHISKEY MYERS-Early Morning Shakes (2014)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Leave A Scar-Live In North Carolina (2014)
RECENSIONE: BEN GLOVER-Atlantic (2014)
La semplicità paga
Generazione spesso in ombra la loro, non per demeriti, ma per i troppi meriti di chi li ha preceduti: gente con la pellaccia dura che di abdicare non ci ha mai pensato, lasciando la grave incombenza nelle mani dell’intervento divino. Così ci troviamo uno dei maggiori songwriter americani degli ultimi vent’anni, il talentuoso e bizzarro Todd Snider, un vero outsider del sud, a formare una band con un manipolo di musicisti coetanei ma anche amici, e soprattutto fuoriclasse: Neal Casal, cantautore solista e chitarra nei Cardinals di Ryan Adams e nei stupefacenti e lisergici Chris Robinson Brotherhood, il bassista Dave Schools, fondatore dei torrenziali Widespread Panic, il batterista dal pregiato pedigree Duane Trucks e il tastierista Chad Staehly (Great American Taxi). Un disco che ricava i suoi maggiori talenti dall’atmosfera estremamente rilassata, libera e divertita con cui sono state registrate (in soli 5 giorni) queste undici cover non banali e scelte con cura e rispetto, capaci di distendersi in modo sinuoso tra roots rock, folk, approccio jam e la forza del southern rock.
Il filo nascosto che lega le undici canzoni sta tutto nel patriottico nome del gruppo: nel voler raccogliere canzoni nate dal basso, dalla strada, che parlano delle persone comuni costrette a sbarcare il lunario per vivere. Una scelta non banale e poco scontata quella fatta da Snider che in queste canzoni ha rivisto la sua scrittura, almeno quella degli esordi, di dischi fondamentali come ‘Songs For The Daily Planet’ e ‘Step Right Up’: “negli ultimi 20 anni ho raccolto una valigia di quelle che definirei canzoni perfette, tutte scritte da miei amici, molti dei quali sono etichettati come cantautori di ‘Americana’. Negli ultimi 10 anni o giù di lì, sono stato anche impegnato in numerosi festival con un buon numero di musicisti, molti dei quali nel circuito delle jam band. Perché non mettere queste cose insieme? Perché non combinare i migliori cantautori con i migliori musicisti?”.
La band ve l’ho presentata, le canzoni, pur provenendo da artisti e periodi anche differenti tra loro, sono legate in modo assolutamente istintivo ma perfetto: dall’iniziale e sardonica ‘Blackland Farmer’ scritta nel ‘59 dal vecchio countryman Frankie Miller, fino alla finale, dimessa e acustica ‘Wrecking Ball’ della coppia Gillian Welch e David Rawlings. Passando dalla sagace ‘Mr.President Have Pity On The Working Man’, datata 1974 e presa dal brillante ritratto degli stati del sud dipinto da quel geniaccio di Randy Newman nell’album ‘Good Old Boys’, il rock tout court dei Bottle Rockets in ‘Welfare Music’, dei Br5-49 in ‘Run A Mile’ e di Will Kimbrough in ‘Another Train’ dove la chitarra di Casal fuma, fino alle ultime generazioni: Kevin Kinney dei Drivin N Cryin (‘Straight To Hell’), Kevin Gordon (‘Down To The Well’) e Hayes Carll, trentottenne cantautore texano tra i più accreditati eredi di Snider nella rutilante e sudista ‘Stomp And Holler’ che ospita John Popper dei Blues Traveler all’armonica. “Vogliamo che canzoni epiche e virtuosismi musicali coesistano insieme in un stanza, e vi vogliamo in camera con noi. La porta è aperta”. Avanti.
(Enzo Curelli) da CLASSIX! #39 (disco del mese Aprile/Maggio 2014)
A completare l'anno del super gruppo, la recente uscita The First Waltz (se esiste l'ultimo valzer, doveva pur esserci il primo, no?), DVD più CD che raccontano il vero spirito stradaiolo e live della band attraverso filmati di concerti, backstage e di vita "on the road", con un packaging bello e intrigante, che non guasta mai.
vedi anche
RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Phosphorescent Harvest THE CADILLAC THREE-Tennessee Mojo WHISKEY MYERS-Early Morning Shakes (2014)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Leave A Scar-Live In North Carolina (2014)
RECENSIONE: BEN GLOVER-Atlantic (2014)
lunedì 8 dicembre 2014
RECENSIONE: BEN GLOVER (Atlantic)
BEN GLOVER Atlantic (Carpe Vita Creative/IRD, 2014)
Se un disco lo consiglia una come Mary Gauthier, potrei finire qui e lasciarvi liberi mentre vi allacciate le scarpe e uscite di casa per fare vostro Atlantic. No niente download, please. Se poi la cantautrice lascia la sua firma su tre canzoni, nelle battenti blues Oh Soul (presente anche nel suo ultimo e splendido Trouble And Love), Too Long Gone e in Take And Pay-conflitti di interesse che piacciono-, il cantautore Rod Picott collabora alla stesura dell'apertura This World is a Dangerous Place (fuoco nell'acqua, chiodi in strada, un cane in lontananza, una bugia che ha detto qualcuno. Questo mondo è un posto pericoloso...) e la brava Gretchen Peters lascia la voce in Blackbirds e The Mississippi Turns Blue, potete uscire di casa anche scalzi. Eh sì, Ben Glover arriva al quarto album solista e ti inchioda all'ascolto con una profondità di scrittura rara ma ben definita, gelida come un'onda che sbatte sugli scogli e calda come un raggio di sole che ti punta mentre contempli le acque ferme del Mississippi. L'animo agrodolce, malinconico e vagabondo di un irlandese del nord incontra Nashville e ne escono undici canzoni atemporali da innamoramento al primo ascolto. Una geografia musicale che non ha confini. Glover vive a Nashville da alcuni anni, ma la terra natia è rimasta profondamente radicata nel cuore (Sing A Song Boys invita al ballo come fossimo in un pub festante al sabato sera) tanto che il disco è stato registrato in presa diretta nel soggiorno della sua casa a Ballytiffin sulla costa del Donegal in Irlanda (le finestre davano sull'oceano), terra che ora si mescola bene anche con le palate di umido terriccio proveniente dal Delta del Mississippi, nei luoghi (e qui aleggia il mistero) dove riposa Robert Johnson e da dove è partita l'idea per questo disco (ben raccontata in Oh Soul), che deve tanto anche ai racconti del sud romanzati da William Faulkner quanto alla forte curiosità da giramondo dell'autore, senza dimenticare la moglie americana. "La musica è una cosa sacra, e devo andare nei posti che hanno un simbolismo sacro per me, è dovere di ogni buon pellegrino!" Racconta a No Depression.
C'è un oceano di mezzo, ma Glover lo attraversa con navigata disinvoltura, senza uso di sofisticati apparecchi, a bracciate alterne, nuotando verso l'amore, schivando la morte e guardando in faccia la redenzione, Prisoner (Oh Mio Signore, Oh Mio Signore perdonami, Oh mio Signore, Io Sono Prigioniero Della Mia Storia): una voce accomodante che canta gli spigoli della vita senza imbattersi mai in spigoli musicali, arriva diritta tra il folk semplice e scheletrico di How Much Longer Can We Bend? e New Years Day, sulle piacevoli deviazioni country (True Love's Breaking My Heart a ritmo di valzer) e sul blues (Take And Pay). Un disco spoglio e di una semplicità disarmante. Basta questo poco per piacere. Come (quasi) sempre.
vedi anche
RECENSIONE: HOLLY WILLIAMS-The Highway (2014)
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO- Faithless World (2014)
RECENSIONE: SCOTT H.BIRAM-Nothin' But Blood (2014)
RECENSIONE: CORY BRANAN-The No-Hit Wonder (2014)
RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
Se un disco lo consiglia una come Mary Gauthier, potrei finire qui e lasciarvi liberi mentre vi allacciate le scarpe e uscite di casa per fare vostro Atlantic. No niente download, please. Se poi la cantautrice lascia la sua firma su tre canzoni, nelle battenti blues Oh Soul (presente anche nel suo ultimo e splendido Trouble And Love), Too Long Gone e in Take And Pay-conflitti di interesse che piacciono-, il cantautore Rod Picott collabora alla stesura dell'apertura This World is a Dangerous Place (fuoco nell'acqua, chiodi in strada, un cane in lontananza, una bugia che ha detto qualcuno. Questo mondo è un posto pericoloso...) e la brava Gretchen Peters lascia la voce in Blackbirds e The Mississippi Turns Blue, potete uscire di casa anche scalzi. Eh sì, Ben Glover arriva al quarto album solista e ti inchioda all'ascolto con una profondità di scrittura rara ma ben definita, gelida come un'onda che sbatte sugli scogli e calda come un raggio di sole che ti punta mentre contempli le acque ferme del Mississippi. L'animo agrodolce, malinconico e vagabondo di un irlandese del nord incontra Nashville e ne escono undici canzoni atemporali da innamoramento al primo ascolto. Una geografia musicale che non ha confini. Glover vive a Nashville da alcuni anni, ma la terra natia è rimasta profondamente radicata nel cuore (Sing A Song Boys invita al ballo come fossimo in un pub festante al sabato sera) tanto che il disco è stato registrato in presa diretta nel soggiorno della sua casa a Ballytiffin sulla costa del Donegal in Irlanda (le finestre davano sull'oceano), terra che ora si mescola bene anche con le palate di umido terriccio proveniente dal Delta del Mississippi, nei luoghi (e qui aleggia il mistero) dove riposa Robert Johnson e da dove è partita l'idea per questo disco (ben raccontata in Oh Soul), che deve tanto anche ai racconti del sud romanzati da William Faulkner quanto alla forte curiosità da giramondo dell'autore, senza dimenticare la moglie americana. "La musica è una cosa sacra, e devo andare nei posti che hanno un simbolismo sacro per me, è dovere di ogni buon pellegrino!" Racconta a No Depression.
C'è un oceano di mezzo, ma Glover lo attraversa con navigata disinvoltura, senza uso di sofisticati apparecchi, a bracciate alterne, nuotando verso l'amore, schivando la morte e guardando in faccia la redenzione, Prisoner (Oh Mio Signore, Oh Mio Signore perdonami, Oh mio Signore, Io Sono Prigioniero Della Mia Storia): una voce accomodante che canta gli spigoli della vita senza imbattersi mai in spigoli musicali, arriva diritta tra il folk semplice e scheletrico di How Much Longer Can We Bend? e New Years Day, sulle piacevoli deviazioni country (True Love's Breaking My Heart a ritmo di valzer) e sul blues (Take And Pay). Un disco spoglio e di una semplicità disarmante. Basta questo poco per piacere. Come (quasi) sempre.
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giovedì 4 dicembre 2014
INTERVISTA W.I.N.D.
Il penultimo disco nascondeva già nel titolo (Walkin On A New Direction) gli intenti del presente. I friulani W.I.N.D., in attività dal 1999, ma partiti discograficamente solo nel 2000 (sei album all'attivo) pur non snaturando l'approccio hard blues di inizio carriera sono riusciti a evolversi in maniera esponenziale, grazie ad una formazione finalmente stabile e ai tanti semi di black music seminati lungo il percorso. Temporary Happiness presenta un suono in continua evoluzione che mai come ora sembra abbracciare Memphis e stringere un occhio ai suoni stax. Intanto stanno già lavorando ad un nuovo successore (con sorpresa). Ecco cosa dice Fabio Drusin, cantante e bassista.
In Temporary Happiness, fin dalla prima traccia, si nota uno spostamento più marcato verso sonorità soul, funk, R&B. Un lento processo che vi ha portato verso queste direzioni, riuscendo anche a fare meglio (e non era facile) del vostro disco precedente. Quali sono state le tappe che vi hanno portato fino a qui?
La nostra line up stabile da oltre cinque anni (Silver Bassi, Anthony Basso, Fabio Drusin), i molti concerti e tour, la nostra compatibilità musicale. Suoniamo un genere di rock che abbraccia diverse sfaccettature, dal vintage rock al soul, dal RnB alle jam psichedeliche, blues e hard blues, inoltre ci piace offrire qualcosa di nuovo, sempre rimanendo fedeli al nostro sound da power trio, siamo tipicamente rock, e questa musica, come un tempo, può facilmente sposarsi con altri generi più "neri". Poi siamo tutti amanti del vecchio soul, specie dei cantanti di quel genere.
Anche a livello di testi, il disco sembra seguire un percorso ben definito. Calato nel presente…
Diamo molta importanza ai testi, ci piace andare giù nel profondo delle nostre anime e scrivere in maniera introspettiva, Temporary Happiness parla di come oggi si viva in modo superficiale, appesi ad un filo di speranza, ma anche di amore, che è la cosa che fa ruotare il mondo. Scrivere testi è come fare un incontro di box, e quando esce qualcosa di buono significa che ne hai prese tante.
Dopo alcuni mesi dall’uscita, i riscontri della critica (anche estera) e delle vendite sono stati molto positivi, rafforzati anche dalle ristampe. Stupiti? Dal vivo come stanno andando le cose?
Siamo molto soddisfatti e piuttosto sorpresi che dopo sole tre settimane la prima tiratura era esaurita. Ci reputiamo una live band, dal vivo ci sentiamo a nostro agio ed è la cosa che ci piace più fare, anche lavorando in studio come su un palco, per non togliere la freschezza e il momento, specie nelle improvvisazioni. Porteremo in giro Temporary Happiness in diverse date, anche all'estero, cercando di offrire agli ascoltatori sempre qualcosa di diverso, cambiando e rinfrescando il nostro set list.
Avete avuto l’onore di suonare con grandi musicisti internazionali sia live che in studio…
Sono state tutte grandi esperienze, sia emotivamente che come bagaglio musicale. Con Alvin Youngblood Hart abbiamo suonato moltissimo sin dal 2008, lunghi tour in Europa, un festival in Brasile, l'apertura alle dieci date in Germania di Gary Moore nel 2009, una registrazione alla BBC di Londra, a volte anche in formazione a 4 con Anthony Basso alla seconda chitarra. Anche con Johnny Neel (ex Allman Brothers Band)è stato molto bello, 18 date in Europa e la partecipazione con due brani registrati dal vivo nel suo nuovo album ‘Every Kinda Blues’. Poi alcune jam con Gov't Mule, Warren Haynes Band e Dana Fuchs. Per noi è importante essere un trio indipendente e autonomo, una chitarra, un basso, una batteria e due voci, con questa formazione possiamo suonare tutto il nostro repertorio autonomamente, anche il brano che apre la compilation americana Truckers Tracks, di Johnny Neel la abbiamo registrata in trio, suonando Ice Road Trucker senza l'ausilio di altri strumenti. Crediamo che una band, prima di tutto, debba essere indipendente, per avere un proprio sound e personalità.
So che state scrivendo nuovo materiale. Che direzione sta prendendo la vostra musica, questa volta?
Il materiale per il prossimo disco è già pronto, vogliamo solo prendere confidenza con i nuovi brani prima di entrare in studio, solitamente non prefiggiamo mai cosa scrivere, arriva tutto molto naturalmente. Posso dirti che sarà un disco che guarderà al passato, con l'acceleratore spinto al massimo e retromarcia inserita, abbiamo curato molto le melodie dei cantati e le voci, ci saranno delle ballate,ma non solo, sarà frutto esclusivamente da trio, lo registreremo live in studio come al solito, registrando tre o quattro take per brano e scegliendone una, soli compresi, tutta la parte strumentale sarà live. E ci sarà una bella sorpresa per gli amanti del "retro rock"..
In queste settimane si sta parlando molto degli Allman Brothers Band, sembra che la band con l'uscita di Warren Haynes e Derek Trucks sia arrivata veramente al capolinea. Se così fosse, sarebbe una grande perdita per la musica...per i W.I.N.D. che posizione occupa una band del genere?
Ho visto gli Allman dal vivo una decina di volte, con diverse formazioni, al Beacon di N.Y., ho assistito anche come ospite ad un loro concerto dal palco, indimenticabile. Sono stati una band straordinaria, anche con l'ultima formazione, solo legato a tutti loro, conosco bene Warren Haynes, Johnny Neel, ho speso delle belle serate con Derek Trucks, incontrato Gregg. Per noi sono stati sicuramente una grande influenza, ma credo che abbiano chiuso una dignitosa e lunga carriera...se sarà proprio così.
Come si presenta la scena (hard) rock italiana vista da un gruppo, passatemi il termine, di “veterani” come voi?
Ci sono delle buone band in giro attualmente, condividiamo amicizie con i Bullfrog di Verona, da molti anni attivi discograficamente, i Buttered Bacon Biscuits, poi purtroppo ce ne sono molte che partono e si fermano per diversi motivi, cambi di line up, altri impegni, attitudine...it's a long way to the top if you wanna rock'n'roll...
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporay Happiness (2013)
vedi anche INTERVISTA W.I.N.D. (2011)
domenica 30 novembre 2014
RECENSIONE/REPORT (le parole, i deliri, il sudore) EDDA live @ Blah Blah, Torino, 22 Novembre 2014
le parole
[Metà concerto]. Un rigolo di sudore scende dalla pelata, i capelli sono andati a fare un giro da alcuni anni e non svolgono più una delle loro funzioni principali: fermare il sudore generato da un concerto di Stefano Rampoldi. Non sono più tornati i capelli. Non li aspetto nemmeno più, sto bene così. Edda sì, lui è tornato veramente. Sta bene pure lui, però. Oddio, ho anche i brividi e non è colpa nemmeno di Edda, questa volta. Devo assolutamente uscire dalla sala. Non respiro. Mi ritrovo in Via Po in maniche di T-Shirt, è un sabato sera di fine Novembre e la movida torinese è in pieno fermento. Chissà se qualcuno di questi ragazzi ventenni che mi stanno a guardare-potrebbero pure essere miei figli- sa che lì dentro al Blah Blah c’è un tizio che si fa chiamare Edda e il suo nuovo disco è così chiacchierato (tutta colpa di una sparata di Umberto Palazzo) quanto stupendamente bello e osannato dalla critica (tutto merito suo). Non sono miei figli e nemmeno mi stanno guardando veramente. Rientro nel locale, sono un po’ confuso e il mal di schiena che mi perseguita da tutta la settimana sembra saperlo e infierisce. Mi fermo davanti ai cessi, c’è una parvenza di coda o forse no, è solo gente che riempie il locale come può. Non indago, ma nemmeno piscio. Rientro nella piccola sala concerto tutta nera con la vescica carica, il mal di schiena e il sudore non ancora asciutto. Praticamente uno straccio. Sono peggio di Edda quando si faceva, che invece trovo in forma smagliante: prima del concerto cena davanti al palco con band e amici, lo osservo da lontano. Promette bene. Lo invidio anche un po’. Un gruppo di famiglie francesi sta facendo apericena (si dice così oggi) di fianco al mio tavolo, uno dei papà assomiglia a Claudio Lippi poco più magro e fa continuamente spola tra il tavolo e i vassoi del cibo. Mangia, mangia che fra poco non sai cosa ti aspetta. Verrà invitato ad alzarsi con tutta la famiglia per far posto agli spettatori del concerto. Così si fa. C'è un tempo per tutto e stasera siamo tutti qua per Edda. Claudio Lippi no.
[Metà concerto e qualcosa in più]. Riprendo la mia posizione con la vescica piena, il sudore e tutte le altre cose fuori posto. Forse mi sono perso una canzone, forse due, non lo saprò mai. Edda questa sera ha deciso di metterla sul cabaret e mi risolleva il morale. Quando prima di Io E Te, coglie l'assist di una ragazza: “Ti tocca!”, “Mi tocco” è la risposta, è pure la fine ed inizia a delirare con un monologo infarcito di oceani di latte (sì, ok, è sperma) e lontane avventure "bagnate" Hare Krishna in quel di Londra. Mi risollevo, respiro forte e sarà tutto in discesa fino alla fine e appuro che lui, in fondo in fondo, sta sempre peggio di me. E' così che mi piace. Intanto Marco Maccarini imperversa da destra a sinistra della sala con un cavalletto e una video camera, da pure un po’ fastidio. Ma cosa puoi dirgli? Cosa puoi dire a tutte queste persone che stasera hanno deciso di passare qualche ora (alla fine sarà un’ora sola e poco più) in compagnia di Edda? Bravi, continuate così. Edda guarda l’orologio: “sono le undici, per mezzanotte conto di mandarvi tutti a casa”. Pater te la aspetti in conclusione, invece è giocata subito (colpa del batterista Fabio Capalbo, dice Edda, "decide lui la scaletta"), Bellissima si presta bene ad essere suonata a Torino, Uomini (unica concessione al passato tribale) è stravolta e privata di phatos ma va ancora una volta benissimo così. Edda è come il gioco del martello al luna park: quando la martellata è pesante e forte ti stende con la babele noise di Coniglio Rosa, con i growl quasi alla Phil Anselmo su Stellina, con la stupenda HIV (“una canzone beneaugurante…tanto si muore”), tra le cose migliori dell’ultimo disco, con l’urgenza punk di Ragazza Meridionale, suonata come forse faceva solo nel 1985 a Villa Amantea, con la carica stoner di Mademoiselle; quando la martellata è debole e molle ti stende ugualmente con il pianoforte di Saibene (canzone stupenda con l'unico difetto -o pregio?-di trovarsi a fine disco, l'ultimo), sulla nuotata in crescendo (anche mimata) di Organza, sulla nuotata tossica (anche vissuta) tra le vie di Milano (“sapessi come è strano voi di Torino, e mi Milan”), Odio I Vivi in solitaria e l’Innamorato, il mio picco emozionale della serata.
Edda imbraccia la chitarra come un pesante attrezzo da lavoro assassino e comanda e detta i tempi, bisticciando con le parole e la scaletta, riprendendo scherzosamente e a più riprese Fabio Capalbo alla batteria e Luca Bossi al basso e tastiere, arrangiatori su disco (“arrangiatori che si arrangiano”) ma bravissimi. In verità sono loro a tenere in piedi il sound intorno alla sua spiazzante e potentissima voce (ah, cosa potrebbe fare con quella voce?), ma non ditelo a Edda. Lo sa già.
Finisce il concerto, Edda non pantomima nessun bis e si siede immediatamente davanti al palco per foto e autografi. Vorrei fargli i complimenti, una foto con lui già ce l’ho, ma la mancanza d’aria ha ancora la meglio e dovrei fare la coda, come ai cessi. Esco veloce, nemmeno saluto alcuni amici, e penso: va bene così, con i propri miti bisogna tenere sempre le distanze. Salgo in macchina e mi sparo nuovamente Stavolta Come Mi Ammazzerai? da cima a fondo. Cazzo, potevo fare la foto.
vedi anche
RECENSIONE: EDDA-In Orbita (2010)
RECENSIONE: EDDA-Odio i Vivi (2012)
INTERVISTA a EDDA
LIVE EDDA, Tronzano Vercellese, 8 Gennaio 2011
RECENSIONE: RITMO TRIBALE-Bahamas
RECENSIONE: NO GURU-Milano Original Sountrack (2010)
INTERVISTA NO GURU (Alex Marcheschi)
RECENSIONE: ILVOCIFERO-Amorte (2013)
RECENSIONE: UOMINI-I Ritmo Tribale, Edda e la scena musicale milanese. Di ELISA RUSSO (2014)
EDDA live @ Torino, Blah Blah, 22 Novembre 2014
RECENSIONE: EDDA-Stavolta Come Mi Ammazzerai? (2014)
[Metà concerto]. Un rigolo di sudore scende dalla pelata, i capelli sono andati a fare un giro da alcuni anni e non svolgono più una delle loro funzioni principali: fermare il sudore generato da un concerto di Stefano Rampoldi. Non sono più tornati i capelli. Non li aspetto nemmeno più, sto bene così. Edda sì, lui è tornato veramente. Sta bene pure lui, però. Oddio, ho anche i brividi e non è colpa nemmeno di Edda, questa volta. Devo assolutamente uscire dalla sala. Non respiro. Mi ritrovo in Via Po in maniche di T-Shirt, è un sabato sera di fine Novembre e la movida torinese è in pieno fermento. Chissà se qualcuno di questi ragazzi ventenni che mi stanno a guardare-potrebbero pure essere miei figli- sa che lì dentro al Blah Blah c’è un tizio che si fa chiamare Edda e il suo nuovo disco è così chiacchierato (tutta colpa di una sparata di Umberto Palazzo) quanto stupendamente bello e osannato dalla critica (tutto merito suo). Non sono miei figli e nemmeno mi stanno guardando veramente. Rientro nel locale, sono un po’ confuso e il mal di schiena che mi perseguita da tutta la settimana sembra saperlo e infierisce. Mi fermo davanti ai cessi, c’è una parvenza di coda o forse no, è solo gente che riempie il locale come può. Non indago, ma nemmeno piscio. Rientro nella piccola sala concerto tutta nera con la vescica carica, il mal di schiena e il sudore non ancora asciutto. Praticamente uno straccio. Sono peggio di Edda quando si faceva, che invece trovo in forma smagliante: prima del concerto cena davanti al palco con band e amici, lo osservo da lontano. Promette bene. Lo invidio anche un po’. Un gruppo di famiglie francesi sta facendo apericena (si dice così oggi) di fianco al mio tavolo, uno dei papà assomiglia a Claudio Lippi poco più magro e fa continuamente spola tra il tavolo e i vassoi del cibo. Mangia, mangia che fra poco non sai cosa ti aspetta. Verrà invitato ad alzarsi con tutta la famiglia per far posto agli spettatori del concerto. Così si fa. C'è un tempo per tutto e stasera siamo tutti qua per Edda. Claudio Lippi no.
[Metà concerto e qualcosa in più]. Riprendo la mia posizione con la vescica piena, il sudore e tutte le altre cose fuori posto. Forse mi sono perso una canzone, forse due, non lo saprò mai. Edda questa sera ha deciso di metterla sul cabaret e mi risolleva il morale. Quando prima di Io E Te, coglie l'assist di una ragazza: “Ti tocca!”, “Mi tocco” è la risposta, è pure la fine ed inizia a delirare con un monologo infarcito di oceani di latte (sì, ok, è sperma) e lontane avventure "bagnate" Hare Krishna in quel di Londra. Mi risollevo, respiro forte e sarà tutto in discesa fino alla fine e appuro che lui, in fondo in fondo, sta sempre peggio di me. E' così che mi piace. Intanto Marco Maccarini imperversa da destra a sinistra della sala con un cavalletto e una video camera, da pure un po’ fastidio. Ma cosa puoi dirgli? Cosa puoi dire a tutte queste persone che stasera hanno deciso di passare qualche ora (alla fine sarà un’ora sola e poco più) in compagnia di Edda? Bravi, continuate così. Edda guarda l’orologio: “sono le undici, per mezzanotte conto di mandarvi tutti a casa”. Pater te la aspetti in conclusione, invece è giocata subito (colpa del batterista Fabio Capalbo, dice Edda, "decide lui la scaletta"), Bellissima si presta bene ad essere suonata a Torino, Uomini (unica concessione al passato tribale) è stravolta e privata di phatos ma va ancora una volta benissimo così. Edda è come il gioco del martello al luna park: quando la martellata è pesante e forte ti stende con la babele noise di Coniglio Rosa, con i growl quasi alla Phil Anselmo su Stellina, con la stupenda HIV (“una canzone beneaugurante…tanto si muore”), tra le cose migliori dell’ultimo disco, con l’urgenza punk di Ragazza Meridionale, suonata come forse faceva solo nel 1985 a Villa Amantea, con la carica stoner di Mademoiselle; quando la martellata è debole e molle ti stende ugualmente con il pianoforte di Saibene (canzone stupenda con l'unico difetto -o pregio?-di trovarsi a fine disco, l'ultimo), sulla nuotata in crescendo (anche mimata) di Organza, sulla nuotata tossica (anche vissuta) tra le vie di Milano (“sapessi come è strano voi di Torino, e mi Milan”), Odio I Vivi in solitaria e l’Innamorato, il mio picco emozionale della serata.
Edda imbraccia la chitarra come un pesante attrezzo da lavoro assassino e comanda e detta i tempi, bisticciando con le parole e la scaletta, riprendendo scherzosamente e a più riprese Fabio Capalbo alla batteria e Luca Bossi al basso e tastiere, arrangiatori su disco (“arrangiatori che si arrangiano”) ma bravissimi. In verità sono loro a tenere in piedi il sound intorno alla sua spiazzante e potentissima voce (ah, cosa potrebbe fare con quella voce?), ma non ditelo a Edda. Lo sa già.
Finisce il concerto, Edda non pantomima nessun bis e si siede immediatamente davanti al palco per foto e autografi. Vorrei fargli i complimenti, una foto con lui già ce l’ho, ma la mancanza d’aria ha ancora la meglio e dovrei fare la coda, come ai cessi. Esco veloce, nemmeno saluto alcuni amici, e penso: va bene così, con i propri miti bisogna tenere sempre le distanze. Salgo in macchina e mi sparo nuovamente Stavolta Come Mi Ammazzerai? da cima a fondo. Cazzo, potevo fare la foto.
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RECENSIONE: EDDA-In Orbita (2010)
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EDDA live @ Torino, Blah Blah, 22 Novembre 2014
RECENSIONE: EDDA-Stavolta Come Mi Ammazzerai? (2014)
lunedì 24 novembre 2014
COUNTING CROWS live@Milano, Alcatraz, 23/11/2014
Le due ore di ieri sera sono ciò che si avvicina di più alla mia personale definizione di “magia della musica”. Andare ad un concerto con la testa infarcita di mille preconcetti verso una band, ed uscirne totalmente estasiato. Capita. Sapete, quando ad un certo punto invece di seguire quello che succede sopra al palco, la mente inizia a vagare nel domani, a pensare alla strada del ritorno, al lavoro che ti aspetta, alle cazzate… No, ieri sera non è successo. Mi sono goduto ogni singola nota, ogni singolo movimento. Ero concentrato e rapito, tanto da invidiare anche le magliette di Duritz (Electric Warrior dei T.Rex e Sonic Reducer dei Dead Boys: le voglio). Non so se cambierà il mio (NON) rapporto con i loro dischi. Sicuramente NO. Sicuramente sarò presente all’appuntamento promesso da Adam Duritz a fine serata sulle note di ‘California Dreamin’. A presto.
SETLIST: Round Here/Scarecrow/Richard Manuel Is Dead/Cover Up The Sun/Mr. Jones/Colorblind/Mercy/Omaha/Possibility Days/1492/Miami/Like Teenage Gravity (Kasey Anderson)/God Of Ocean Tides/Goodnight L.A./Big Yellow Taxi (Joni Mitchell)/Earthquake Driver/Blues Run The Game (Jackson C. Frank)/A Long December/Hanginaround/Palisades Park/Rain King/Holiday In Spain
domenica 23 novembre 2014
mercoledì 19 novembre 2014
RECENSIONE: HOLLY WILLIAMS (The Highway)
HOLLY WILLIAMS The Highway (Georgiana Records/IRD, 2014)
Basterebbero i nomi che accompagnano la sua biografia e le note in calce a questa sua terza uscita discografica per far posare su Holly Williams tutta l'attenzione di qualunque musicofilo con le antenne diritte e puntate in America, sintonizzate su qualche radio a tema, quelle che trovi solo negli States, divulgata lungo interminabili highway da percorrere in solitaria. Avvenenza a parte, naturalmente. Oppure basterebbe il solo cognome, anche se è meglio non farlo notare ad alta voce: "mi fanno sempre le stesse domande a cui potrei rispondere per tutto il giorno: cosa fa ora tuo padre? o come ci si sente?, è una benedizione o una maledizione?, ma penso che ormai, al terzo album, la gente stia cominciando a capire che non canto perché mio padre è un musicista, hanno finalmente capito che suono da dieci anni in una band". Figlia di Hank Williams Jr.-a sua volta figlio della tradizione musicale americana del ventesimo secolo, tradotto in Hank Williams Sr,- sorellastra di quello scavezzacollo senza età di Hank III (chi lo avrebbe mai detto?), per questo terzo album- il migliore dopo The Ones We Never Knews (2004) e Here With Me (2009)-uscito da circa un anno in patria ma distribuito solo ora in Europa, si avvale inoltre della collaborazione di Jackson Browne-un piccolo sogno avverato- nei cori della delicata Gone Away From Me, molto vicina alle corde del cantautore, di un altro figliol prodigo, Jackob Dylan-a proposito di famiglie che contano-seconda voce della pianistica e melanconica Without You, e di una amica come l'attrice Gwyneth Paltrow, voce in Waiting On June, canzone dedicata ai nonni che chiude splendidamente il disco, senza dimenticare il marito Chris Coleman, musicista presente e determinante e il produttore Charlie Peacock, buon lavoratore dietro ai dischi dei Civil On War.
Holly Williams, però, vive la musica diversamente dal restante nucleo famigliare, apparentemente in modo distaccato: ha una grande passione per la moda, è proprietaria di una boutique d'abbigliamento, partecipa a programmi televisivi di cucina, altra sua grande passione, ma ogni tanto si ricorda dei geni che gli scorrono sotto pelle e quando lo fa è capace di lasciare piccoli e piacevoli segni attraverso una scrittura profonda, scavando tra gioie e dolori della vita, sua (tra le gioie la prossima maternità), e dei tanti personaggi che popolano le sue liriche, a partire dalla donna alcolizzata presente nell'iniziale Drinkin'.
Scrittura intimista, più vicina ai grandi songwriter dei '70 piuttosto che alla grande tradizione country nashvilliana. Il riuscito up tempo country (Railroads), l'amore, il senso di appartenenza famigliare (Giving Up), introspettiva ma fortemente ancorata, attraverso un country/folk delicato che non perde mai di vista la melodia-a volte eccedendo- ma dove violini e lap steel fanno comunque il loro lavoro: nella ballata The Highway che esorcizza l'incidente stradale che la vide coinvolta nel 2006, anche se il meglio arriva quando si lascia andare, uscendo dai binari che si è auto imposta, concedendosi alla semplicità più rozza e spartana come succede in Let You Go, solitario folk per sola chitarra, lap steel e mandolino o nella più rockata ed elettrica 'Till It Runs Dry.
Brillante ma omogeneo, privo pure di quell'affondo da ricordare, in The Highway fila un po' tutto liscio come un'autostrada senza curve. Per incantare i serpenti dell'outlaw country a ciglio strada o chi cerca solamente paragoni senza uscire dall'ambito famigliare serve ben altro, eppure possiede in dote quell'onestà che spesso fa la differenza e porta a casa la partita. Qui c'è.
vedi anche
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO-Faithless World (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
Basterebbero i nomi che accompagnano la sua biografia e le note in calce a questa sua terza uscita discografica per far posare su Holly Williams tutta l'attenzione di qualunque musicofilo con le antenne diritte e puntate in America, sintonizzate su qualche radio a tema, quelle che trovi solo negli States, divulgata lungo interminabili highway da percorrere in solitaria. Avvenenza a parte, naturalmente. Oppure basterebbe il solo cognome, anche se è meglio non farlo notare ad alta voce: "mi fanno sempre le stesse domande a cui potrei rispondere per tutto il giorno: cosa fa ora tuo padre? o come ci si sente?, è una benedizione o una maledizione?, ma penso che ormai, al terzo album, la gente stia cominciando a capire che non canto perché mio padre è un musicista, hanno finalmente capito che suono da dieci anni in una band". Figlia di Hank Williams Jr.-a sua volta figlio della tradizione musicale americana del ventesimo secolo, tradotto in Hank Williams Sr,- sorellastra di quello scavezzacollo senza età di Hank III (chi lo avrebbe mai detto?), per questo terzo album- il migliore dopo The Ones We Never Knews (2004) e Here With Me (2009)-uscito da circa un anno in patria ma distribuito solo ora in Europa, si avvale inoltre della collaborazione di Jackson Browne-un piccolo sogno avverato- nei cori della delicata Gone Away From Me, molto vicina alle corde del cantautore, di un altro figliol prodigo, Jackob Dylan-a proposito di famiglie che contano-seconda voce della pianistica e melanconica Without You, e di una amica come l'attrice Gwyneth Paltrow, voce in Waiting On June, canzone dedicata ai nonni che chiude splendidamente il disco, senza dimenticare il marito Chris Coleman, musicista presente e determinante e il produttore Charlie Peacock, buon lavoratore dietro ai dischi dei Civil On War.
Holly Williams, però, vive la musica diversamente dal restante nucleo famigliare, apparentemente in modo distaccato: ha una grande passione per la moda, è proprietaria di una boutique d'abbigliamento, partecipa a programmi televisivi di cucina, altra sua grande passione, ma ogni tanto si ricorda dei geni che gli scorrono sotto pelle e quando lo fa è capace di lasciare piccoli e piacevoli segni attraverso una scrittura profonda, scavando tra gioie e dolori della vita, sua (tra le gioie la prossima maternità), e dei tanti personaggi che popolano le sue liriche, a partire dalla donna alcolizzata presente nell'iniziale Drinkin'.
Scrittura intimista, più vicina ai grandi songwriter dei '70 piuttosto che alla grande tradizione country nashvilliana. Il riuscito up tempo country (Railroads), l'amore, il senso di appartenenza famigliare (Giving Up), introspettiva ma fortemente ancorata, attraverso un country/folk delicato che non perde mai di vista la melodia-a volte eccedendo- ma dove violini e lap steel fanno comunque il loro lavoro: nella ballata The Highway che esorcizza l'incidente stradale che la vide coinvolta nel 2006, anche se il meglio arriva quando si lascia andare, uscendo dai binari che si è auto imposta, concedendosi alla semplicità più rozza e spartana come succede in Let You Go, solitario folk per sola chitarra, lap steel e mandolino o nella più rockata ed elettrica 'Till It Runs Dry.
Brillante ma omogeneo, privo pure di quell'affondo da ricordare, in The Highway fila un po' tutto liscio come un'autostrada senza curve. Per incantare i serpenti dell'outlaw country a ciglio strada o chi cerca solamente paragoni senza uscire dall'ambito famigliare serve ben altro, eppure possiede in dote quell'onestà che spesso fa la differenza e porta a casa la partita. Qui c'è.
vedi anche
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO-Faithless World (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
lunedì 10 novembre 2014
RECENSIONE : DAMIEN RICE (My Favourite Faded Fantasy)
DAMIEN RICE My Favourite Faded Fantasy (Atlantic, 2014)
Ti attacca quando hai la guardia abbassata. Quando il sistema immunitario del cuore ha finito il suo turno giornaliero, lasciando l'entrata incustodita per pochi attimi. Basta poco e tac, ti penetra dentro. E' facile entrare e impossessarsi delle emozioni quando sono lasciate incustodite, rivoltarle come un calzino usato da mettere in lavatrice, centrifugarle e farle uscire quasi come nuove, pronte di nuovo all'uso fino a renderle nuovamente lise dopo un altro ascolto, e poi un altro ancora. Da principio. E' facile se ti chiami Damien Rice, hai una voce cristallina ed emozionante, hai una delle migliori opere prime degli anni 2000 in tasca, quel O (2002) che fece prima spalancare le orecchie di tanti, poi lanciare il suo nome in alto nell'olimpo dei grandi paragoni (il nuovo Tim Buckley? il nuovo Jeff Buckley?), infine diventare a sua volta qualcuno da imitare, è facile se vivi la musica in modo apparentemente distaccato in un mondo che invece vuole tutto e subito, dove la quantità supera molto spesso la qualità, e raramente viaggiano insieme. Qui sì. E' facile per lui, difficile per molti altri. L'ultimo Rhythm and Repose (2012) di Glen Hansard ci va vicino, soprattutto nelle tematiche: l'abbandono.
E' tutto quello che è successo dopo l'ascolto di My Favourite Faded Fantasy e dire che queste canzoni non fanno assolutamente nulla per compiacere più di tanto l'ascoltatore-anche quello più distratto-arrivano a toccare gli otto minuti di durata (la folkie innalzata al gospel Trusty And True), tanto che qualcuno ci ha già visto dietro la noia (siete dei bugiardi). Ascoltare i nove minuti e trentadue secondi della seconda traccia It Takes A Lot To Know A Man è puro godimento: inizio pianistico, l'entrata degli archi a sbuffare aria fredda, la voce cullante, i silenzi, un fuoco che brucia, le onde in lontananza, e poi nuovamente pianoforte e archi a condurre verso un crescendo finale che brucia. Il piccolo capolavoro del disco.
L'irlandese triste Damien Rice è un puro di natura, un'anima semplice e sfuggente a cui piace lavare i panni dell'anima in solitudine, in contemplazione e intimità, senza fretta, con tutta la calma concessagli dalla parte più slow di questo mondo (tre album in dodici anni, il terzo disco uscito a ben otto anni dal secondo 9). Perché il marciapiede da condurre con lentezza esiste ancora, non è un caso che si sia autoesiliato per anni dal mondo (lui la chiama "transizione") e sia poi giunto in Islanda per scrivere e suonare, l'oasi meno contaminata d'Europa, e poco importa se di mezzo c'è un volo di andata e ritorno nella convulsa Los Angeles ai piedi di Rick Rubin. E' stato un viaggio di lavoro. Il barbuto vate dei produttori moderni ha fatto uno straordinario lavoro di bilanciamento tra il soffuso e quasi silenzioso lato folk e i convulsi crescendo orchestrali, un leitmotiv di quasi tutte le otto canzoni (Colour Me In, Long Long Way), che diventa facile bersaglio per i detrattori in cerca di difetti: la ripetitività, i testi non eccelsi. Ma cazzo se funzionano bene messi insieme (l'ipnoticità del singolo I Don't Want To Change You).
Un sarto che ama cucire le ferite con meticolosa pazienza, e le ferite amorose vengono in superficie con evidenza fin dall' apertura My Favourite Faded Fantasy dove la voce in falsetto squilla rimpianto, e proseguono in The Greatest Bastard (...sono il più grande bastardo che conosci, l’unico che ti ha lasciato andare, l’unico a cui non sopporti di far tanto male...). La sua musa e partner in musica Lisa Hannigan lo ha lasciato, non è più parte integrante della sua vita, ha lasciato un buco che Damien riempie con il talento compositivo, e anche quando pare eccedere in melodramma, c'è una molla che fa tornare tutto a posto. "A volte devi andare via da ciò che ami, per provare ad amarlo di nuovo. Darei via tutto, carriera, canzoni, fama per poter riavere Lisa " dichiara Rice.
Ha maturato la propria arte con discrezione, con piccoli passi, senza snaturarsi troppo da quell'ormai lontano esordio, continuità che le incisive ma sobrie copertine dei suoi dischi suggeriscono. Quei piccoli passi che vorresti compiere anche tu nell'ascolto, ma tramortito e rapito ti ritrovi a volerne ancora, preda di quella bulimica voglia di farsi del male. In questo periodo va così.
Damian Rice è un quarantenne alla continua ricerca di se stesso. Non è nemmeno l'unico. Non guardate me. Forse il segreto è proprio lì: quando centri l'obiettivo e malauguratamente raggiungi il sogno, finisce tutto.
Arrivi a Novembre con le tue certezze musicali dell'anno già impresse in testa come fa il calcare in una lavatrice, e poi tutto viene spazzato via dalla purezza di un bicarbonato di sodio bianco e naturale. My Favourite Faded Fantasy è una leggera carezza sulle ferite aperte e sanguinanti che immediatamente brucia ma poi lenisce, lasciando limpidezza e purezza. Ce n’è bisogno. Ne ho bisogno. Long long way…
vedi anche
RECENSIONE: GLEN HANSARD-Rhythm and Repose (2012)
RECENSIONE: EDDA-Stavolta Come Mi Ammazzerai? (2014)
RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO- Faithless World (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG- Storytone (2014)
Ti attacca quando hai la guardia abbassata. Quando il sistema immunitario del cuore ha finito il suo turno giornaliero, lasciando l'entrata incustodita per pochi attimi. Basta poco e tac, ti penetra dentro. E' facile entrare e impossessarsi delle emozioni quando sono lasciate incustodite, rivoltarle come un calzino usato da mettere in lavatrice, centrifugarle e farle uscire quasi come nuove, pronte di nuovo all'uso fino a renderle nuovamente lise dopo un altro ascolto, e poi un altro ancora. Da principio. E' facile se ti chiami Damien Rice, hai una voce cristallina ed emozionante, hai una delle migliori opere prime degli anni 2000 in tasca, quel O (2002) che fece prima spalancare le orecchie di tanti, poi lanciare il suo nome in alto nell'olimpo dei grandi paragoni (il nuovo Tim Buckley? il nuovo Jeff Buckley?), infine diventare a sua volta qualcuno da imitare, è facile se vivi la musica in modo apparentemente distaccato in un mondo che invece vuole tutto e subito, dove la quantità supera molto spesso la qualità, e raramente viaggiano insieme. Qui sì. E' facile per lui, difficile per molti altri. L'ultimo Rhythm and Repose (2012) di Glen Hansard ci va vicino, soprattutto nelle tematiche: l'abbandono.
E' tutto quello che è successo dopo l'ascolto di My Favourite Faded Fantasy e dire che queste canzoni non fanno assolutamente nulla per compiacere più di tanto l'ascoltatore-anche quello più distratto-arrivano a toccare gli otto minuti di durata (la folkie innalzata al gospel Trusty And True), tanto che qualcuno ci ha già visto dietro la noia (siete dei bugiardi). Ascoltare i nove minuti e trentadue secondi della seconda traccia It Takes A Lot To Know A Man è puro godimento: inizio pianistico, l'entrata degli archi a sbuffare aria fredda, la voce cullante, i silenzi, un fuoco che brucia, le onde in lontananza, e poi nuovamente pianoforte e archi a condurre verso un crescendo finale che brucia. Il piccolo capolavoro del disco.
L'irlandese triste Damien Rice è un puro di natura, un'anima semplice e sfuggente a cui piace lavare i panni dell'anima in solitudine, in contemplazione e intimità, senza fretta, con tutta la calma concessagli dalla parte più slow di questo mondo (tre album in dodici anni, il terzo disco uscito a ben otto anni dal secondo 9). Perché il marciapiede da condurre con lentezza esiste ancora, non è un caso che si sia autoesiliato per anni dal mondo (lui la chiama "transizione") e sia poi giunto in Islanda per scrivere e suonare, l'oasi meno contaminata d'Europa, e poco importa se di mezzo c'è un volo di andata e ritorno nella convulsa Los Angeles ai piedi di Rick Rubin. E' stato un viaggio di lavoro. Il barbuto vate dei produttori moderni ha fatto uno straordinario lavoro di bilanciamento tra il soffuso e quasi silenzioso lato folk e i convulsi crescendo orchestrali, un leitmotiv di quasi tutte le otto canzoni (Colour Me In, Long Long Way), che diventa facile bersaglio per i detrattori in cerca di difetti: la ripetitività, i testi non eccelsi. Ma cazzo se funzionano bene messi insieme (l'ipnoticità del singolo I Don't Want To Change You).
Un sarto che ama cucire le ferite con meticolosa pazienza, e le ferite amorose vengono in superficie con evidenza fin dall' apertura My Favourite Faded Fantasy dove la voce in falsetto squilla rimpianto, e proseguono in The Greatest Bastard (...sono il più grande bastardo che conosci, l’unico che ti ha lasciato andare, l’unico a cui non sopporti di far tanto male...). La sua musa e partner in musica Lisa Hannigan lo ha lasciato, non è più parte integrante della sua vita, ha lasciato un buco che Damien riempie con il talento compositivo, e anche quando pare eccedere in melodramma, c'è una molla che fa tornare tutto a posto. "A volte devi andare via da ciò che ami, per provare ad amarlo di nuovo. Darei via tutto, carriera, canzoni, fama per poter riavere Lisa " dichiara Rice.
Ha maturato la propria arte con discrezione, con piccoli passi, senza snaturarsi troppo da quell'ormai lontano esordio, continuità che le incisive ma sobrie copertine dei suoi dischi suggeriscono. Quei piccoli passi che vorresti compiere anche tu nell'ascolto, ma tramortito e rapito ti ritrovi a volerne ancora, preda di quella bulimica voglia di farsi del male. In questo periodo va così.
Damian Rice è un quarantenne alla continua ricerca di se stesso. Non è nemmeno l'unico. Non guardate me. Forse il segreto è proprio lì: quando centri l'obiettivo e malauguratamente raggiungi il sogno, finisce tutto.
Arrivi a Novembre con le tue certezze musicali dell'anno già impresse in testa come fa il calcare in una lavatrice, e poi tutto viene spazzato via dalla purezza di un bicarbonato di sodio bianco e naturale. My Favourite Faded Fantasy è una leggera carezza sulle ferite aperte e sanguinanti che immediatamente brucia ma poi lenisce, lasciando limpidezza e purezza. Ce n’è bisogno. Ne ho bisogno. Long long way…
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RECENSIONE: GLEN HANSARD-Rhythm and Repose (2012)
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RECENSIONE: MARY CUTRUFELLO- Faithless World (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG- Storytone (2014)
lunedì 3 novembre 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG (Storytone)
NEIL YOUNG Storytone (Reprise Records, 2014)
Alcuni versi di I Want To Drive My Car ritraggono splendidamente ciò che è, e non è, Neil Young oggi. Perché ancora nessuno di noi l'ha capito bene. Diciamo la verità. Un uomo, un anziano rocker-se vogliamo esagerare ed essere cinici e realisti-di 69 anni che vive la sua vita dentro ad un vortice creativo in continuo sconquassamento ma che va a pari passo con la sua vita sociale, le sue idee e la più intima vita privata. Un tutt'uno. Un blocco da prendere per intero così com'è. In I Want To drive My Car, un bel blues, canta: "voglio guidare la mia auto, voglio guidare la mia auto, sempre più avanti lungo la strada, voglio guidare la mia auto, ho bisogno di un posto dove andare...devo trovare la mia strada". Versi semplici, ingenui, ma c'è tutto. C'è l'amore per le automobili, ben rappresentato dall'acquerello in copertina e nei disegni che illustreranno la seconda parte di biografia in uscita (Special Deluxe: A Memoir of Life & Cars) che partirà proprio dalla sua collezione di automobili per snocciolare aneddoti di carriera, percorsi di strada e amici; c'è la continua ricerca del posto ideale dove poter vivere serenamente, luogo che nella sua testa esiste già ed è dipinto di ecologico verde; c'è il tormentato amore che dopo 36 anni di matrimonio con Pegi Young ha imboccato la strada che porta verso una nuova fiamma, l'attrice Daryl Hannah che condivide con lui l'impegno ambientalista; c'è la voglia di mettersi continuamente alla prova come artista, assecondando tutte le idee che passano tra la sua testa: l'altro ieri era la cabina sforna 45 giri di Jack White, un posto bizzarro dove poter registrare (volutamente male) un intero disco di vecchie cover, oggi è un'orchestra di 92 elementi sotto la regia di Michael Bearden e Chris Walden a cui ha dato carta bianca per rimpolpare le sue canzoni all'osso, nate acustiche naturalmente.
Altro doppio come Psychedelic Pill (dieci canzoni acustiche e dieci canzoni, le stesse, risuonate con l'orchestra, ma solo nella deluxe edition, consigliata), altro ambizioso progetto ma interessantissimo per poter saggiarne lo stato della vena creativa (buona) e vedere lo sviluppo delle canzoni, dieci buone canzoni. Nel primo disco, il più tradizionale e meno sorprendente per alcuni versi, troviamo il lato primitivo e solitario in bilico tra la tesa drammaticità al pianoforte di un album epocale come After The Goldrush (i rimpianti amorosi della bella Plastic Flowers, tutto il nuovo amore in I'm Glad I Found You e Glimmer) e la bucolica passeggiata tra i campi di Harvest prima, di Harvest Moon dopo, accompagnata da pianoforte, voce, chitarra e armonica che tingono il quadro di lievi colori, con alcune piccole gemme dove canta di nuove albe e nuovi amori: All Those Dreams , la commovente e "younghiana che più younghiana" non si può When I Watch You Sleeping e la ancor più leggera Tumbleweed.
"Quando ti guardo dormire, non c'è nulla che tu possa nascondere, quando ti sento respirare, c'è dolcezza intorno..." canta in When I Watch You Sleeping
La presenza dell'orchestra, invece, poteva spaventare, perché se i rimandi a A Man Needs A Maid e There’s A World evocano i piacevoli ricordi di Harvest (altro pathos aleggiava nel ’72 comunque), dietro l'angolo incombeva minacciosa la mannaia della magniloquente pomposità che se ripetuta per dieci volte, poteva trasformarsi in un pesante martellata data alle parti basse. " Sapevamo che era un'esagerazione ma lo avevamo fatto e lo adoravamo" scrive in Il Sogno Di Un Hippie a proposito di quelle registrazioni datate 1972 con la London Symphony Orchestra e Jack Nitzsche. Oggi, potrebbe ripetere le stesse parole.
Nulla di tutto questo però, anzi, anche il drammatico crescendo del nuovo inno ecologista Who’s Gonna Stand Up sembra acquistare il giusto valore, rispetto alla più tamarra versione presentata nei live estivi con i Crazy Horse (per me ha pagato lo scotto di essere l'ultima canzone in scaletta). Piace perfino quando si infila il vestito tutto paillettes e lustrini da sabato sera, si trasforma in crooner, e in Say Hello To Chicago ritorna al R&B con tanto di big band al seguito, facendo riferimento a un disco da rivalutare assolutamente come This Note's For You. In quel 1988 dietro al bancone di regia c'era Niko Bolas, oggi pure, e i due si conoscono bene anche se si nascondono da sempre dietro al nome "Volume Dealers". I Want To Drive My Car diventa un trascinante e affascinante blues con chitarre elettriche (le poche presenti lungo tutto il disco), e fa coppia con Like You Used To Do.
Sintetizzato, questo è un atto d'amore verso la vita, sincero e pure ingenuo in molti punti, ma sempre vero. L'ennesimo. Un contrasto vincente-e confuso- come lo è stata tutta la sua carriera: Neil Young è innamorato come un ragazzino ma ha un ingombrante peso dentro da espiare dopo una relazione importante finita, la terra su cui vive gli sta a cuore ma la vede continuamente minacciata, i suoi hobby lo tengono talmente impegnato da diventare i fari guida delle sue autobiografie. In pochi mesi ha portato a termine un tour elettrico con i Crazy Horse, si è rinchiuso dentro ad una cabina di un metro quadrato con una chitarra acustica, ha aperto i portoni ad un'orchestra, ha finito un altro libro, e chissà cos'altro che non sappiamo. Tutto questo mentre deve ancora trovare la sua strada. Ecco il segreto: non stancarsi mai di macinare chilometri di esperienze.
O stai dalla sua…o lo hai abbandonato da tempo.
Voi da che parte state?
vedi anche RECENSIONE:NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Americana (2012)
vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, Collisioni, 21 Luglio 2014
vedi anche COVER ART#4: NEIL YOUNG (On The Beach, 1974)
Alcuni versi di I Want To Drive My Car ritraggono splendidamente ciò che è, e non è, Neil Young oggi. Perché ancora nessuno di noi l'ha capito bene. Diciamo la verità. Un uomo, un anziano rocker-se vogliamo esagerare ed essere cinici e realisti-di 69 anni che vive la sua vita dentro ad un vortice creativo in continuo sconquassamento ma che va a pari passo con la sua vita sociale, le sue idee e la più intima vita privata. Un tutt'uno. Un blocco da prendere per intero così com'è. In I Want To drive My Car, un bel blues, canta: "voglio guidare la mia auto, voglio guidare la mia auto, sempre più avanti lungo la strada, voglio guidare la mia auto, ho bisogno di un posto dove andare...devo trovare la mia strada". Versi semplici, ingenui, ma c'è tutto. C'è l'amore per le automobili, ben rappresentato dall'acquerello in copertina e nei disegni che illustreranno la seconda parte di biografia in uscita (Special Deluxe: A Memoir of Life & Cars) che partirà proprio dalla sua collezione di automobili per snocciolare aneddoti di carriera, percorsi di strada e amici; c'è la continua ricerca del posto ideale dove poter vivere serenamente, luogo che nella sua testa esiste già ed è dipinto di ecologico verde; c'è il tormentato amore che dopo 36 anni di matrimonio con Pegi Young ha imboccato la strada che porta verso una nuova fiamma, l'attrice Daryl Hannah che condivide con lui l'impegno ambientalista; c'è la voglia di mettersi continuamente alla prova come artista, assecondando tutte le idee che passano tra la sua testa: l'altro ieri era la cabina sforna 45 giri di Jack White, un posto bizzarro dove poter registrare (volutamente male) un intero disco di vecchie cover, oggi è un'orchestra di 92 elementi sotto la regia di Michael Bearden e Chris Walden a cui ha dato carta bianca per rimpolpare le sue canzoni all'osso, nate acustiche naturalmente.
Altro doppio come Psychedelic Pill (dieci canzoni acustiche e dieci canzoni, le stesse, risuonate con l'orchestra, ma solo nella deluxe edition, consigliata), altro ambizioso progetto ma interessantissimo per poter saggiarne lo stato della vena creativa (buona) e vedere lo sviluppo delle canzoni, dieci buone canzoni. Nel primo disco, il più tradizionale e meno sorprendente per alcuni versi, troviamo il lato primitivo e solitario in bilico tra la tesa drammaticità al pianoforte di un album epocale come After The Goldrush (i rimpianti amorosi della bella Plastic Flowers, tutto il nuovo amore in I'm Glad I Found You e Glimmer) e la bucolica passeggiata tra i campi di Harvest prima, di Harvest Moon dopo, accompagnata da pianoforte, voce, chitarra e armonica che tingono il quadro di lievi colori, con alcune piccole gemme dove canta di nuove albe e nuovi amori: All Those Dreams , la commovente e "younghiana che più younghiana" non si può When I Watch You Sleeping e la ancor più leggera Tumbleweed.
"Quando ti guardo dormire, non c'è nulla che tu possa nascondere, quando ti sento respirare, c'è dolcezza intorno..." canta in When I Watch You Sleeping
La presenza dell'orchestra, invece, poteva spaventare, perché se i rimandi a A Man Needs A Maid e There’s A World evocano i piacevoli ricordi di Harvest (altro pathos aleggiava nel ’72 comunque), dietro l'angolo incombeva minacciosa la mannaia della magniloquente pomposità che se ripetuta per dieci volte, poteva trasformarsi in un pesante martellata data alle parti basse. " Sapevamo che era un'esagerazione ma lo avevamo fatto e lo adoravamo" scrive in Il Sogno Di Un Hippie a proposito di quelle registrazioni datate 1972 con la London Symphony Orchestra e Jack Nitzsche. Oggi, potrebbe ripetere le stesse parole.
Nulla di tutto questo però, anzi, anche il drammatico crescendo del nuovo inno ecologista Who’s Gonna Stand Up sembra acquistare il giusto valore, rispetto alla più tamarra versione presentata nei live estivi con i Crazy Horse (per me ha pagato lo scotto di essere l'ultima canzone in scaletta). Piace perfino quando si infila il vestito tutto paillettes e lustrini da sabato sera, si trasforma in crooner, e in Say Hello To Chicago ritorna al R&B con tanto di big band al seguito, facendo riferimento a un disco da rivalutare assolutamente come This Note's For You. In quel 1988 dietro al bancone di regia c'era Niko Bolas, oggi pure, e i due si conoscono bene anche se si nascondono da sempre dietro al nome "Volume Dealers". I Want To Drive My Car diventa un trascinante e affascinante blues con chitarre elettriche (le poche presenti lungo tutto il disco), e fa coppia con Like You Used To Do.
Sintetizzato, questo è un atto d'amore verso la vita, sincero e pure ingenuo in molti punti, ma sempre vero. L'ennesimo. Un contrasto vincente-e confuso- come lo è stata tutta la sua carriera: Neil Young è innamorato come un ragazzino ma ha un ingombrante peso dentro da espiare dopo una relazione importante finita, la terra su cui vive gli sta a cuore ma la vede continuamente minacciata, i suoi hobby lo tengono talmente impegnato da diventare i fari guida delle sue autobiografie. In pochi mesi ha portato a termine un tour elettrico con i Crazy Horse, si è rinchiuso dentro ad una cabina di un metro quadrato con una chitarra acustica, ha aperto i portoni ad un'orchestra, ha finito un altro libro, e chissà cos'altro che non sappiamo. Tutto questo mentre deve ancora trovare la sua strada. Ecco il segreto: non stancarsi mai di macinare chilometri di esperienze.
O stai dalla sua…o lo hai abbandonato da tempo.
Voi da che parte state?
vedi anche RECENSIONE:NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Americana (2012)
vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, Collisioni, 21 Luglio 2014
vedi anche COVER ART#4: NEIL YOUNG (On The Beach, 1974)
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