mercoledì 19 marzo 2014

RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO (Images 13)

DEX ROMWEBER DUO  Images 13 ( Bloodshot Records /IRD, 2014)


Inquietudine. Di quella positiva, se mai esistesse in qualche piega nascosta delle nostre menti. Questo è lo stato in cui mi fa cadere Images 13, terzo lavoro del progetto Dex Romweber Duo e la canzone finale Weird (Aurora Borealis) (scritta da Harry Lubin ed estrapolata dalla colonna sonora di un vecchio show televisivo), è una intima, minimale e inquietante traccia strumentale, quasi tribale nel suo ipnotico incedere, che congeda l'ascoltatore e conferma la mia ansia. Il buio e la luna piena che scorgo dalla finestra amplificano il tutto all'ennesima potenza. Sento ululati sulla collina.
Il chitarrista Dex Romweber è un veterano con carisma da vendere, anche se giovanissimo nei suoi quarantasette anni d'età, di quelli che hanno girato di notte i più malfamati sottoboschi musicali, quelli dove la luna piena entrava dalle finestre di un sottoscala e perforava le menti solo per far danni, quelli dove rockabilly, country e surf scorrevano come rigoli di sangue amaro sopra i palchi e scendevano giù dalle scale che conducevano ai maleodoranti cessi di qualche locale infimo. Uno con una cultura musicale immensa, capace di ripercorrere la storia americana ma anche attraversare l'oceano e approdare in Gran Bretagna: si parte da Eddie Cochran e Johnny Cash, si passa dal sempre dimenticato Link Wray, i Blasters e i Cramps, si arriva a Kinks e Who. E poi, vuoi lasciare fuori l'Australia di Nick Cave?
Uno a cui Jack White e Black Keys dovrebbero erigere un monumento: in verità, White già lo fa, indicandolo come uno dei suoi punti di riferimento musicali. Dex Romweber insieme alla versatile sorella Sara-che siede dietro alla batteria- si è inventato questo duo che ha il maggior pregio nell'approccio  secco e minimale alla musica, pur seguendo quanto già fatto con la sua vecchia band Flat Duo Jets, attiva dal 1990 al 1999 e nata sulle ceneri ancora ardenti della scena post-punk  di Athens e dedita ad un psycho punk travolgente ed energico che comunque rimane in scaletta, diventando solo una parte dei suoi nuovi orizzonti musicali, costruiti su: abbondanti dosi di garage suonato senza fronzoli, gothic blues, oscuro country'n'roll (Beyond The Moonlight), caldi sipari latineggianti, e sinistri temi surf (la strumentale Blackout! con l'immancabile riverbero della chitarra "alla Dick Dale", anticipata da un altro nero strumentale Prelude In G Minor) che farebbero faville nelle pellicole di Quentin Tarantino (la frizzante-ancora strumentale-Blue Surf).
Difficile non farsi conquistare dalla rocambolesca e ringhiosa apertura (Roll On), riscaldamento per la sua chitarra; dalle atmosfere pop '60 della conosciuta So Sad About Us degli amati e fonte d'ispirazione The Who che vede la partecipazione di Mary Huff alla voce; dalla ballata dark a ritmo di lento valzer in stile '50 di I Don't Want To Listen cantata con voce baritonale da consumato crooner; da We'll Be Togheter Again, altro lento con più luce, composto da Sharon Sheeley, compagna del povero Eddie Cochran. La canzone fu scritta dopo la morte di Cochran, ma mai nessuno la pubblicò. Romweber ne è venuto in possesso e l'ha fatta sua in maniera splendida.
Ma anche la nostalgica Baby I Know What It's Like To Be Alone, gli inserti calypso che si introducono tra le pieghe rock'n'roll di Long Battle Coming, e il folk di One Sided Love Affair, ballata scritta da Johnny Burnette. Lasciano tutte il segno. La lunga linea compresa tra romantico dramma e alta tensione che percorre l'intero disco (sono solo trenta minuti e una decina di minuti in più li avrei apprezzati) scorre piacevole e veloce. Il mio disco rock'n'roll di Marzo.




vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST- Warsaw Holiday (2014)
vedi anche RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS- English Ocean (2014)
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venerdì 14 marzo 2014

RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS (English Oceans)

DRIVE-BY TRUCKERS English Oceans (ATO, 2014)



Un altro bel passo in avanti che non ti aspetti. Non musicale-da loro sappiamo cosa aspettarci- ma di solidità e longevità. Sono passati tre anni-tanti per i loro canoni-dal rilassato, nero e trascinato (con classe) Go-Go Boots (in verità nato già come un sequel di The Big To-Do), ma la band texana di Patterson Hood e Mike Cooley (ampio il suo apporto in fase di scrittura questa volta) dimostra di non avere ancora le pile completamente scariche dopo vent'anni di onorata carriera e il prestigioso merito di aver tenuto alto il vessillo di un certo modo di suonare e vivere il rock tutto americano, impreziosito da liriche sempre al di sopra della media, anche qualcosina in più come dimostrato anche questa volta nell'attacco politico di The Part Of Him e nei consueti dipinti quasi gotici delle terre del sud (l'up country alla Willie Nelson di First Air Of Autumn). Negli anni duemila, anni poveri e senza veri scossoni musicali, avere tutte queste caratteristiche e qualità è un pregio da difendere con i denti e loro sembrano farlo fin dall'attacco dell'iniziale e dura Shit Shots Count, chitarre che non lasciano il respiro se non nell'irruzione dei fiati, nel finale, che virano la canzone al suono di New Orleans. Fedeli agli stilemi dettati da loro stessi nella monumentale rock opera sudista che ha aperto il nuovo millennio (Southern Rock Opera del 2001) dove southern rock e americana convogliavano a nozze per non separarsi più, English Oceans è un disco che guarda più a quel passato, spogliandosi di tutti gli orpelli superflui e maestosi dell'altro ieri (nuovamente cambi in formazione intorno ai due leader, questa volta ad abbandonare i camionisti sono Shonna Tucker sostituita da Matt Patton proveniente dalla band ‘The Dexateens’ e John Neff , mai sostituito) registrato in pochi giorni e con il groppo in gola dopo la scomparsa di Craig Lieske, roadie tuttofare del loro entourage, a cui il disco è dedicato. La lunga, malata e conclusiva Grand Canyon è tutta per lui.
Ne hanno beneficiato l'immediatezza e la schiettezza. Le chitarre riprendono il comando del suono, correndo nervose come il vecchio "cavallo pazzo" montato da Neil Young (When He's Gone, Hearing Jimmy Loud), il pianoforte è una presenza gradita e sempre vivace nel riempire i pochi buchi della loro musica come avviene in Til He's Dead Or Rising e nel bellissimo e sbilenco honky tonk Natural Light , e quando cala l'oscurità sulle terrose strade del sud, calano anche i ritmi ma non l'intensità: Made Up English Oceans, Hangin On, la pianistica When Walter Went Crazy sono ballate amare, condite dalla consueta ironia, ma distese e pacificanti. Nessuna novità, ma non è questo che ci si aspetta da un gruppo come loro.  Band da tenere stretta stretta.






vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)



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martedì 11 marzo 2014

RECENSIONE:LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS (J.A.B.) & INTERVISTA A CRISTIANO CARNIEL

LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS  J.A.B. (autoproduzione, 2014)



Vuoi fare l'americano? Fallo almeno bene. Questa è una regola non scritta che pochi seguono, ma quei pochi che lo fanno sono degni, degnissimi di nota, tanto da meritare lande musicali più vaste dei nostri traballanti e miopi confini nazionali, e gli esempi in questi ultimi anni sono fortunatamente tanti. I Little Angel & The Bonecrashers, band del varesotto attiva dal 2000, arrivano al secondo album con dieci canzoni autografe che sono una piccola lezione di umiltà e rispetto verso un'intera scena musicale talmente vasta  che il rischio di perdersi è alto e sempre in agguato: si  parte dalle radici e si arriva agli albori di quell'alt country che è stato una delle ultime vere novità che ha condizionato, anche per vie traverse, tutte le nuove generazioni di musicisti americani.
In mezzo, a tenere tutto unito, lo swamp rock, la lezione di band universali, buone per ogni occasione, epoca e pubblico, come i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty (ascoltate l'iniziale country/rock Harry's Wife e capirete). I Little Angel &The Bonecrashers sanno fare gli americani, non per puro spirito d'emulazione ma per vero amore verso un suono ruspante (tre chitarre in formazione), caldo e dal fascino incalzante che alza polvere sulle secche strade e che la simpaticissima copertina vuole anticipare prima ancora di leggerne i titoli e ascoltare le canzoni. Ma anche viaggiare a passo lento lungo il nulla del deserto, tra meditazione, sogno e contemplazione del paesaggio: la lentezza ha il suo fascino. C'è il loro cuore che pulsa in queste dieci canzoni. Si sente.
"La cultura, anche se bassa, come la musica che noi suoniamo, ti rende più bello. Dentro (darei un braccio per farvi provare quello che sento quando suono qualcosa che mi piace o quando una canzone mi si aggrappa allo stomaco) e anche fuori (i Little Angel quando suonano insieme sono bellissimi, cieco chi non se ne accorge). Scrivono nel loro profilo facebook.
Difficile etichettarli, perché il gruppo guidato da Cristiano Carniel  sa trottare in solitaria per gli ultimi lunghi e misteriosi viaggi ( My Last Ride con la chitarra ospite di Davide Buffoli) come farebbe un Johnny Cash spirituale davanti alle sue amate ferrovie; adagiarsi pigramente sopra ai tasti di un pianoforte (suonato da Agostino Barbieri) in Birdies; avanzare sardonicamente in Troubled Everyday, canzone che si alza e si abbassa seguendo umori cari a Neil Young; girare intorno ad un valzer western (Cowboy's Prayer); cavalcare il suono rock e ruspante che esce da 1000 Miles Amelia; sprigionare vivacità nell' autobiografica e ironica Just Another Band, nella spensieratezza di Regrets (Sweet Revenge Song); il tutto legato dalle buone armonie vocali (oltre a Carniel, alla voce anche i due chitarristi Stefano Tosi e Andrea Bergamin, completano la formazione: Marco Sola alla batteria, Gianluca Lavazza al basso). Veri, freschi e vivaci: può bastare?


INTERVISTA
Due parole con Cristiano Carniel, voce e chitarra del gruppo.
Come è nata la band?
"I Little Angel & the Bonecrashers nascono sul border Milano-Varese nel 2000. Cinque amici di lunga data con diverse collaborazioni in band musicali della zona del varesotto. L'idea di partenza è, dopo molti anni passati a suonare nei locali quello che piace alla gente, di suonare finalmente quello che piaceva a noi: Los Lobos, Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Eagles, Creedence Clearwater Revival, Neil Young e la per noi bellissima musica che in quegli anni arrivava dal movimento alt-country. Quindi le prime scalette vedevano brani degli Uncle Tupelo, tra gli altri, vicino a pezzi dei mostri sacri di cui sopra. Nel 2003 registriamo un demo di  sei cover e a marzo 2006 esce il primo cd che contiene 6 brani originali e 3 cover. Nel novembre 2008  abbiamo aperto il concerto della cantautrice americana Sarah Pierce e nell'ottobre 2009 partecipiamo per la prima volta al Townes Van Zandt Tribute (bis nel 2013).

 Una delle cose che si notano maggiormente è la vostra totale immersione nella tradizione musicale americana, tanto che è difficile inquadrarvi in un solo genere, quindi vi ho inquadrato in un gruppo: i Creedence Clearwater Revival. Totalizzanti. Cosa ne pensi?
Penso che hai fatto centro. Come puoi ben immaginare, è difficile che cinque persone abbiano gli stessi gusti musicali. E così è per noi. Qualcuno è appassionato di country, qualcuno predilige il punk e qualcuno addirittura l'heavy metal (penso che l'ultimo concerto a cui sia stato Totò (Stefano Tosi) sia stato quello degli Slipknot o dei Ramstein, non ricordo bene, 'not my cup of tea'. Però ci sono tre o quattro gruppi/artisti per cui tutti e cinque nutriamo una passione sfrenata: Creedence Clearwater Revival, Uncle Tupelo, Los Lobos e Johnny Cash. Quando qualche anno fa John Fogerty venne all'Alcatraz eravamo tutti e cinque sotto il palco. Fu una messa celebrata dal reverendo Fogerty. Noi i suoi adepti. Non ti nascondo che ogni volta che predo in mano la chitarra per vedere se c'è un pezzo nuovo pronto ad uscire, l'idea è quella della "3 minutes song" dei Creedence. Semplice ma non banale e che faccia cantare e ballare tutti quelli che l'ascoltano".

E’ ormai un obbligo chiedere ad una band con il proprio repertorio originale, che difficoltà incontra nel trovare date e locali per suonare in Italia senza essere una cover band. Voi come siete messi? Il brano Just Another Band sembra collegarsi anche a questo.
Noi abbiamo iniziato come cover band. Solo pezzi che piacevano a noi però. Abbiamo poi iniziato a inserire qualche pezzo nostro e adesso abbiamo una scaletta con il 75% di brani originali e il 25% di cover (sempre riarrangiate e ripensate "a modo nostro" comunque). Siamo stati fortunati perché sul nostro cammino abbiamo incontrato due persone senza le quali non saremmo riusciti ad arrivare fino qui. Una è Max, il proprietario del Nidaba Theatre di Milano, a cui abbiamo inviato il nostro primo cd, senza conoscerlo di persona e senza nessuna "raccomandazione". Lui se l'è ascoltato e ci ha chiamato a suonare nel suo locale. Le serate al Nidaba, davanti a un pubblico che viene per ascoltare quel tipo di musica, diciamo un pubblico competente, sono state una delle migliori palestre per il gruppo e per il suono. L'altra è Claudio Giuliani del Buscadero che crede in noi più di quanto ci crediamo noi stessi. E ci ha dato la possibilità di aprire per qualche artista americano che si esibiva dalle nostre parti, più di una volta. In questo momento trovare date è molto difficile. I locali cercano la via più semplice per fare incasso (le tribute band per esempio) e di gestori appassionati ce ne sono sempre meno. Tieni conto poi che paradossalmente in un momento in cui la comunicazione dovrebbe essere semplice, visti i mezzi a nostra disposizione (mail, facebook, ecc.), tutto diventa più difficile. Passi i giorni a mandare mail o cd che nessuno leggerà, né ascolterà.

Due parole sull’originale e intrigante progetto grafico...
"La grafica del cd è opera di Dario Arcidiacono, un mio ex collega di lavoro, (http://www.darioarcidiacono.org/) che su FB usa lo pseudonimo di Nom Couture e che già aveva disegnato il logo della band per il disco precedente. Ha questo stile "splatter" apocalittico con cui illustra temi di attualità internazionale. E ha anche ottimi riscontri. A maggio inaugura a Milano una sua esposizione. Il suo stile descrive efficacemente il modo ironico e scanzonato con cui scriviamo e ci presentiamo"


Tra le canzoni più particolari, mi ha colpito 1000 Miles Amelia. Come è nata?
"L'Amelia, chiamata anche la Millemiglia o la Bersagliera, era una signora che dagli anni '50 occupava ogni giorno una postazione fissa, qualsiasi tempo facesse, lungo una strada che collegava Castellanza (il paese da cui veniamo) a Busto Arsizio e "donava a tutti la stessa rosa". Dai nostri nonni a noi, tre generazioni l'hanno vista sempre là, sotto il sole o sotto la pioggia. Ci ha lasciato circa cinque anni fa. I giornali locali ne hanno tutti parlato. Non mi sorprenderebbe sapere che ai funerali ci fosse anche il sindaco. Un'istituzione delle nostre parti. La canzone è ispirata a lei".

Tra gli ospiti in My Last Ride (una delle mie preferite) c'è Davide Buffoli. Come vi siete conosciuti?
Davide Buffoli è ormai un amico di lunga data. Quando ancora i Little Angel non esistevano lo vedevo aprire i concerti di artisti americani organizzati da Carlo Carlini nella nostra zona. Non aveva ancora vent'anni, ma aveva già quel suono e quel tocco sullo strumento che fanno di lui, secondo me, uno dei più bravi chitarristi italiani. Grazie a Claudio Giuliani, i Little Angel e la Davide Buffoli Band hanno condiviso spesso lo stesso palco. È risultato naturale, nel momento in cui ci siamo ritrovati a volere un suono di chitarra diverso dalle nostre in una canzone (My Last Ride) del disco, rivolgerci a lui. E lui ha preso in mano la canzone, l'ha riarrangiata e gli ha dato quella veste che si può sentire sul disco. È stato poi un preziosissimo aiuto in fase di missaggio dove ha affiancato Atos Travaglini, il tecnico del suono dei Nomadi.

La classica domanda finale: progetti futuri a corto e lungo termine?
La domanda più difficile. In fin dei conti siamo dei dopolavoristi. Siamo già sorpresi di essere arrivati a incidere due dischi. Mai avremmo pensato di poter continuare a suonare insieme per quattordici anni. Prendiamo quello che viene. Qualche data nell'immediato futuro per promuovere il disco e poi sotto a scrivere i pezzi per il terzo cd.



vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)

vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)



 

lunedì 3 marzo 2014

RECENSIONE:JONO MANSON (Angels On The Other Side)

JONO MANSON  Angels On The Other Side (Appaloosa Records/IRD, 2014)

Jono Manson ha tre case: una negli States, nato e cresciuto-anche musicalmente a fine anni settanta- a New York, da più di vent'anni vive a Santa Fe nel New Mexico dove è stato registrato il disco e dove si porta la maggior parte del lavoro da produttore, una in Italia, sua seconda patria dove ha abitato per tre anni e custode di tanti amici musicisti (e non) sempre pronti ad accoglierlo per suonare, farsi produrre o semplicemente ospitarlo per godere della sua gioviale compagnia e sincera passione, la terza è
nel cuore umile della musica, rifugio dove sta a proprio agio sempre e comunque. Artista ben voluto e cercato, uno che non si tira indietro mai e che si è costruito il percorso musicale con la coerenza dei classici "piccoli passi ma ben distesi"-anche se il suo curriculum potrebbe impressionare- che lo hanno portato a registrare l'ennesimo buon album in carriera ( l'ultimo fu November  del 2008 se si esclude il progetto Barnetti Bros Band con i "fratelli italiani" Massimo Bubola, Andrea Parodi e Massimiliano Larocca) dove la consueta vena soul che abita imperiosa la sua preziosa ugola-caratteristica che lo accomuna e lo porta ad essere paragonato da sempre ad un mostro sacro come John Hiatt- lega il folk con il country, il country al blues, il blues al rock e con i testi (presenti tutte le traduzioni ad opera della meticolosa Appallosa Records) che evocano i fantasmi dei ricordi, gli spettri dell' amore, i misteri che tengono uniti i forti legami famigliari, la fede, i segreti nascosti dei grandi paesaggi naturali, creando un fascinoso concept dove la positività in tutti i suoi aspetti sembra brillare su tutto e penetrare la vita come il raggio di sole fa con il paesaggio in copertina. "Un album dedicato a tutti gli angeli custodi dall'altra parte e a quelli che vivono alla mia destra, qui in terra." Così Jono Manson chiosa nel libretto e canta nel delicato country d'apertura guidato dalla slide di Jay Boy Adams: "Perché ho ali sotto i vestiti/Ho i miei angeli custodi dall'altra parte/E ho abbastanza amore nel mio cuore/Per godermi il viaggio".
Io ci aggiungo: "Un' anima non è mai senza la scorta degli Angeli, questi spiriti illuminati sanno benissimo che l'anima nostra ha più valore che non tutto il mondo" . Lo diceva il monaco francese San Bernardo di Chiaravalle, uno che apparve perfino a Dante nel Paradiso della Divina Commedia.
Un disco positivo, di fede e speranza. Sospinto dall'energia illuminante di alcuni membri del gruppo texano Shurman che lasciano l'impronta soprattutto nei pezzi più tirati e rock: nel bar nascosto e vizioso che popola le nostre menti nel tiro southern di  Honky Tonk In My Mind, nelle chitarre garage di There's a Whole World On Fire, e nel trascinante blues da "american dream" spezzato di I'm Gonna Get It.
Angels On The Other Side è un disco a tre velocità ma con un'unica profondità. Oltre ai già citati episodi più elettrici e terreni, lascia il maggior segno  negli episodi intimistici e rallentati, ballate dove il leggero e arioso country si insinua tra famiglia e fede (Togheter Again, i contorni che contano nella stupenda The Frame la cui stesura risale a qualche anno fa), e tra le salvifiche e intense dichiarazioni d'amore di Angelica e Everething To Me, nella tenue brezza che soffia sopra il lato bello della natura (Silver Lining) sospinta dall'armonica dell'amico di sempre John Popper dei Blues Traveler e sceneggiata come piacerebbe ai suoi cugini registi, i fratelli Coen; ma anche nei mezzi toni melodici di Snowed It, soffice schizzo d'amore invernale lasciato cadere come neve sul tappeto '60, lo stesso che accoglie l'illuminante e speranzosa The Other Yesterday.
Nella finale Grateful tra le maglie di una slide e il vintage sound dell'hammond è scritto tutto il testamento del disco, ma anche la sua appagante filosofia di vita: "non ho niente di romantico da aggiungere/Sono stato sulla strada ma non è andata così male/ho scontato la mia parte di pena/Ho scontato la mia parte d'inferno/Ma sono sempre stato protetto/E sono sempre stato servito bene".
Ma c'è ancora il tempo per una intensa e sentita interpretazione al pianoforte di Never Never Land, rilettura di L'isola Che Non C'è di un altro vecchio amico italiano, Edoardo Bennato, presente come bonus track nella sola versione italiana. Sembra che Bennato abbia già approvato.
Che gli angeli siano con voi e continuino a vegliare sulla musica scritta con passione e onestà.




vedi anche RECENSIONE: BLUES TRAVELER-Suzie Cracks The Whip (2012)
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vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST- Warsaw Holiday (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA-ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)

giovedì 27 febbraio 2014

RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI (Cosmic Sessions)

ALESSANDRO BATTISTINI   Cosmic Sessions  (Club De Musique/IRD, 2014)



Un "out on the weekend" lontano dalla sua band madre che negli ultimi tre anni lo ha tenuto impegnato e continua a farlo. Mentre scrivo, i Mojo Filter sono occupati in un piccolo tour in Germania, "il tour è andato molto bene, abbiamo conosciuto gente che apprezza il rock and roll e che non ha paura di fare km su km per sentire un concerto", arrivando a guadagnarsi una vistosa e continua crescita esponenziale nel panorama rock italiano, confermata dall'ultimo, ottimo disco in studio The Roadkill Songs (2013). Cosmic Sessions è un viaggio introspettivo dentro al suo, ma anche un po' nostro, mondo. Una bizzarra nave/mongolfiera (bella la cover art, opera di Zeppelin Studio) che, piuttosto che solcare mari, sembra alzarsi in aria permettendo uno sguardo a 360 gradi sopra alle sue passioni musicali, quelle che confluiscono molto spesso in un'unica direzione temporale: la California a cavallo tra gli anni 60 e i 70, posto ancora carico di suggestioni a distanza di anni e nonostante la tecnologia di mezzo a fare da ostacolo. Stacca spesso l'amplificazione delle chitarre, quelle che graffiano nei Mojo Filter, si spoglia di ogni orpello elettrico, si circonda di buoni e anche prestigiosi amici, scruta l'infinito spazio e mette in moto la fantasia: "Antonio Gramentieri (Sacri Cuori) aveva già collaborato con i Mojo Filter e si è offerto di suonare una parte di chitarra in 'Wise Rabbit' e devo dire che sono felicissimo che l’abbia fatto… è un artista che ammiro molto e che ha grande gusto e talento, ha saputo riconoscere e enfatizzare il lato acido e vintage di 'Wise Rabbit'. John Egenes e Craig Dreyer sono due grandi musicisti con un curriculum infinito e decisamente all’altezza della loro fama: mi è piaciuto molto lavorare con loro, adoro il solo di sax di Craig alla fine di 'Wise Rabbit', sembra che si spalanchino le porte dell’inferno… è l’ira del coniglio saggio!! … John, invece, ha reso speciali 'All Of Those Rainy Days' e 'Nothing More To Say' … molto di più di quello che mi aspettavo"
Alessandro Battistini, chitarra e voce dei comaschi Mojo Filter rilascia il primo disco solista in modo semplice e spontaneo, registrando il tutto come fosse una session tra vecchi amici intorno ad un falò estivo a tarda notte sotto le luci guida di luna e stelle; ma il filo luminoso che lega le dieci canzoni riesce a trasmettere in modo chiaro la scossa che anima la sua devota passione musicale. "Appartengono in effetti più o meno tutte allo stesso periodo… all’incirca Dicembre 2013… all’improvviso ho sentito che era il momento di assecondare una parte di me e della mia creatività a cui non avevo mai dato il giusto peso e, quando mi sono messo a scrivere, le canzoni sono uscite in blocco… chissà forse sono sempre state lì ad attendere…"
Dondolanti barrelhouse songs (Staring At Your Splendor con il pianoforte di Simone Spreafico), corali e ruzzolanti bluegrass con la sarabanda di un banjo in azione (Fill My World), country accomodanti e rassicuranti sotto le pigre note di una pedal steel come succede in All Of Those Rainy Days e dove anche la "povera" semplicità di Home, che suona tanto scarna con la sola presenza di un ukulele, si arricchisce all'infinito grazie alla voce pregna di soul dell'ospite Jono Manson, cantautore (è appena uscito il suo nuovo album Angels On The Other Side-vedi recensione) e produttore americano-di casa in Italia e già collaboratore degli stessi Mojo Filter- che si è portato il lavoro a casa, masterizzando il tutto nei suoi magici studi di Santa Fe nel New Mexico. "In questo disco Jono si è occupato della masterizzazione (impeccabile come sempre), mentre in ‘Mrs.Love Revolution’ aveva fatto anche il mix. Jono poi mi ha regalato un’interpretazione fantastica di 'Home', uno dei pezzi del disco a cui tengo di più".
Ma anche l'antico rhythm & blues di Rufus Thomas in Walking A Dog (unica cover ed episodio più terroso del disco), la soffice e leggera apertura Nothing More To Say che sale fino ad esplodere in un  gospel nel finale (i cori sono di Francesca Arrigoni), la spensierata chiusura con il fischiettio di Xmas Time's Outside My Door, i momenti più psichedelici (Wise Rabbit) e rarefatti nella connessione con il paradiso tentata nella splendida The Inner Side e portata avanti da un Rhodes e dalle percussioni incantatrici suonate da Mr.Lobo Jim. Disco corto ma intenso, che va diritto al punto, anche quando l'approccio assolutamente "free" delle canzoni porterebbe a pensare il contrario, e immaginare lunghe parti strumentali e minutaggi elevati :"Cosmic Sessions, come dice lo stesso titolo, si rifà a un certo approccio sixties molto jam che ho sempre adorato, ma è comunque anche un tentativo di rendere quello spirito più attuale e diretto. Nei live, tuttavia, avremo sicuramente modo e voglia (molta) di approfondire quelle parti strumentali…quelle che, se riescono, rendono ogni gig speciale e unica".




vedi anche INTERVISTA MOJO FILTER
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vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: BOCEPHUS KING-Amarcord (2014)
vedi anche RECENSIONE: JONO MANSON-Angels On The Other Side (2014)

martedì 25 febbraio 2014

RECENSIONE: BOCEPHUS KING (Amarcord)

BOCEPHUS KING   Amarcord (Appaloosa Records/IRD, 2014)



Un passaporto alla cui scritta "segni particolari" segue un "cittadino del mondo libero". James Perry in arte Bochephus King, nomignolo scelto senza un vero perché dopo essere stato a Nashville, è uno spirito senza dimora che ha inseguito-sta ancora inseguendo-il suo sogno musicale, lo stesso sogno che da bambino lo portava a dire "volevo essere un detective o un predicatore". Oggi che gli anni sono diventati quelli della saggezza, essere un musicista è l'unico modo in cui riesce realisticamente a conciliare gli aspetti più importanti di quei due lavori, almeno nella sua testa, come racconta nello splendido libretto che accompagna il Cd e che l'italiana Appaloosa Records ha preparato per presentare nel migliore dei modi, al pubblico italiano, un cantautore totalmente fuori dagli schemi ma meritevole di tutte le attenzioni possibili. Testi tradotti in italiano, uno scritto di presentazione preparato dall'amico Andrea Parodi e un'autopresentazione scritta di suo pugno ci introducono nel suo personale, strano, istrionico e ricco mondo, ma non bastano a contenerlo tutto fino a quando non partono le note dell'iniziale On The Allelujiah Side, canzone presa dal primo disco Joco Music del 1996, registrato nella casa di famiglia in Canada, con pochi mezzi e tanti sogni in tasca. Da qui in avanti si capisce di più, e fidatevi, dopo il primo ascolto riiniziare da capo viene naturale. Buon viaggio. Un percorso a sedici tappe che attraversa una carriera che sembra aver camminato sempre in quelle zone franche e poco battute nascoste dietro alla curiosità musicale, l'esplorazione, la genuinità: quelle vie che dal nativo Canada portano agli States, alle terre del sud, e poi all'Europa, quelle periferie buie e pericolose ai margini della città, quei paesi costruiti lontano dall'umanità conformista, quelle spiagge libere e abbandonate dove girare nudi non è reato ma solo libertà. Bochepus King riesce a camminare nello stesso lato del marciapiede calpestato dal primo romantico e sognatore Tom Waits, per poi fermarsi in un diner e osservare il calare della sera e i passi delle persone; raccogliere gli umori gipsy di un Willy De Wille sotto il falò di un accampamento nomade; scannerizzare il lato desolante dell'America (Cowboy Neal e Willie Dixon God Damn dal suo ultimo album in studio Willie Dixon God Damn uscito nel 2011) come farebbero solo Townes Van Zandt, John Prine e Steve Earle o i grandi scrittori della beat generation, guidando sopra ud un van e girando in lungo ed in largo i grandi spazi; far brillare le desertiche allucinazioni alla Calexico come succede nella splendida Blues For Buddy Bolden, uno dei suoi tanti picchi artistici; condividere tutto l'amore per il cinema italiano di Fellini e le colonne sonore di Morricone (da qui Amarcord per il titolo dell'antologia) in una Eight And Half che si insinua tra pazzia e libertà, ma anche cercare tra gli anfratti del presente quei modernismi-comunque moderati-presentati in Goodnight Forever Montgomery Clift  e Jesus The Bookie estrapolati dall' album All Children Believe In Heaven, che ci mostrano anche il suo lato più soul e gospel.
Bocephus King è tutto questo e molto di più: dentro ai suoi testi carichi di immagini, visioni e quel velo di mistero che sempre affascina e incuriosisce, c'è la vita.
Fino ad arrivare ad una splendida e originale versione di Senor, estrapolata da Street Legal, disco di Dylan che adoro in tutto e per tutto e che lo stesso Bochephus dice di aver risuonato per intero in compagnia di un manipolo di musicisti indiani conosciuti per caso in un locale. Dylan è il suo idolo da sempre e prima o poi farà uscire il suo personale omaggio, come già fa nei suoi comunicativi concerti.



vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2014)



mercoledì 19 febbraio 2014

RECENSIONE: EUGENIO FINARDI (Fibrillante)

EUGENIO FINARDI Fibrillante (Universal Music, 2014)



Nella bellissima autobiografia Spostare L'orizzonte (consigliata) uscita tre anni fa e scritta a quattro mani con Antonio G.D'Errico ci sono molti passi che anticipano almeno la metà dei testi contenuti nei dieci brani del suo nuovo album Fibrillante tanto da farci capire quanto Finardi sia coerente con se stesso, con i suoi inizi, con la sua storia, anche dopo le tante parentesi aperte sul pianeta musica negli ultimi anni: dalla musica sacra alla classica, fino al bellissimo Anima Blues (speravo nella seconda parte, ma ci sarà tempo), uno dei suoi picchi artistici di sempre, da avere assolutamente. Un esilio autoimposto, una fuga dal personaggio che, a suo dire, si era creato con il tempo, tanto da diventare "una condanna, privilegiata, una sorta di arresti domiciliari di me stesso...dovevo uscire..." dice Finardi.
Fibrillante, titolo dell'album-e della canzone-preso in prestito, suo malgrado, dalla fibrillazione atriale a cui è soggetto a causa di un problema di ipertiroidismo, è un ritorno al cantautore che dava battaglia negli anni settanta, uno dei primissimi esempi di cantautorato rock del nostro paese. L'ingenua voglia di cambiare il mondo dettata dalla gioventù si è trasformata in resistenza che solo distrattamente si potrebbe confondere con la rassegnazione di un uomo che ci ha sempre creduto e combatte ancora o cerca di farlo, in altri modi, anche urlando, cercando qualcuno che lo ascolti come canta in Come Savonarola: "so che ti faccio soffrire con le mie facce scure e la mia negatività/Ma devo solo ritrovare un nuovo modo di lottare per la nostra dignità/E una vita che sia umana più libera e più sana di giustizia e verità". Lotta che continua nella dura Cadere Sognare, con la partecipazione di Manuel Agnelli (Afterhours)-che Finardi proclamò suo erede-, un inno di ribellione alla conformità, agli sporchi giochi, una sorta di "non mi avrete mai come volete voi", un inno alla ribellione in questi anni zero (leggasi: zero uguale a vuoto). Una generazione che sembra aver perso, o perlomeno non aver vinto, ma che continua a sperare, aspettando: "ho bisogno di rispetto, di pace e tranquillità del calore di un affetto e di un po' di serenità di avere un ruolo e un posto nella società e sicurezza nel futuro " canta nell'apertura Aspettando, ma c'è anche chi non prende posizione, non rischia mai (Moderato) e rimane immobile, ingessato mentre tutto scorre e corre intorno a lui. "Muoviti, sbattiti, sbrigati, dai, lavora ancora un po'. Io mi ammazzo di fatica , e tu invece no"
Con un piede nei suoni seventies garantiti da ospiti come Patrizio Fariselli (Area) e Vittorio Cosma (ex PFM) ed uno nel presente assicurato dalla collaborazione con i Perturbazione, Manuel Agnelli e Max Casacci dei Subsonica, produttore e tuttofare, Fibrillante è un disco di una onestà disarmante che a tratti diventa fin troppo schietto e puro, calato perfettamente nel mondo odierno, trattando temi d'attualità anche con durezza, senza scorciatoie e giri di parole, preferendo la descrizione della scarna quotidianità creando quadretti di cronaca quotidiana come nella commovente La Storia Di Franco, disavventure di un padre separato senza più un tetto, costretto a vivere come un'ombra invisibile pur di vedere l'unico amore della sua vita, la figlia: "lei pensa che sono in Africa a combattere la povertà, infatti la combatto ma la mia Africa è qua" . Quanti uomini si ritroveranno in Franco?
O raccontando la forza e la superiorità delle donne  (Lei S'illumina dedicata alla moglie e alla madre), Le Donne Piangono In Macchina, ballata pianistica che conferma Finardi come uno dei più delicati e attenti cantautori dell'universo femminile.
Non tutto è perfetto e la finale Me Ne Vado costruita su un tappeto quasi improvvisato di free prog guidato magistralmente da Patrizio Fariselli vede Finardi recitare un testo di finanza quasi fossero i titoli di un telegiornale con il rischio di cadere nella retorica più spiccia. Una pretenziosa lezione di economia che pare eccessiva in un disco tanto onesto e diretto. Da ascoltare assolutamente.




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vedi anche: FRANCESCO DE GREGORI-Sulla Strada (2012)
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lunedì 10 febbraio 2014

RECENSIONE: ANDI ALMQVIST (Warsaw Holiday)

ANDI ALMQVIST   Warsaw Holiday (Rootsy/IRD, 2013)



Warsaw Holiday, quarto lavoro in studio del cantautore svedese Andi Almqvist, ha quel raro dono concesso solo a pochi dischi: sa graffiare le ossa fin dal primo ascolto. O lo ami o lo detesti. Non lascia indifferenti. Quasi disturba. Lascia quei brividi che potrebbero essere generati da una lama che scalfisce l'osso. Sveglia gli incubi funesti assiepati tra gli alti (pochi e preziosi) e i bassi (tanti ma forse neppure inutili) della vita . Merito di una voce greve e bellissima, nera e paludosa con l'abissale profondità appartenente a Mark Lanegan, e la forza disperata di un songwriting cupo e darkeggiante che si aggrappa alla vita attraverso sottilissimi e delicati fili, spesso talmente assurdo, cinico, sbeffeggiante da diventare anche umoristico e dissacrante quanto il migliore Nick Cave di inizio carriera, dove vita e morte sembrano danzare sull'ultimo valzer concesso ai bordi del precipizio che porta direttamente alla fine del mondo. Il tutto accompagnato da un folk scarno (No More Songs For You), dal blues minimale ma corale tenuto insieme da un Hammond sullo stile Al Kooper nei dischi di Dylan (No) e da lente e inquietanti ballate pianistiche dal color bianco e nero, intrise di pathos funereo come l'iniziale e ululante Worwood, o la stupenda e cinematografica Pornography così carica di immagini d'effetto, o meglio ancora la malinconica intensità di In The Land Of Slumber con un violoncello a tessere ragnatele sulla lunga profondità. Un disco che incuriosisce fin dalla copertina (no, non è Almqvist quello) che ritrae un personaggio bizzarro e "vissuto" che Almqvist ha conosciuto in una piccola cittadina della Repubblica Ceca. A lui è dedicato il disco e nel libretto troverete solo sue foto ed uno speciale invito a pagargli una birra se mai capiterete dalle sue parti: lui si chiama Vaclav, il paese è Český Krumlov, è lì è un personaggio ben voluto da tutti, soprannominato "el presidente".
Oh La La  (con una "o" in meno dei Faces) gira intorno ad un cupo e prepotente giro di blues che esalta l'alienazione tanto da farmi materializzare davanti agli occhi il fantasma di Layne Staley e gli Alice In Chains unplugged arricchiti da uno straniante sax, canzone che viene ripetuta in una versione full band. Unica vera concessione al rock del disco.
Kinski (già presentata in versione live-insieme ad un paio di altri brani-nel suo precedente disco dal vivo The Misadventures Of Andi Almqvist uscito nel 2011) ha l'andatura sbilenca, folle, felliniana e clownesca del Tom Waits di metà carriera, Happy End è una stridente preghiera acustica per sola voce (ecco il paragone con Mark Lanegan che si materializza), chitarra e violino da recitare ai bordi della fossa, quando l'ultimo respiro affannoso uscirà dalle labbra, gli occhi spalancati saranno coperti dalla terra e le orecchie sentiranno solo il rumore della pala di un becchino in azione. Addio. Mentre la title track Warsaw Holiday si dipana sinuosa e sinistra sulle note di un Fender Rhodes suonato da dita decise, Insomnia promette nottate senza chiuder occhio con un inquietante e paranoico coro fanciullesco (un crescente lalalala) ed un carillon a dettare i secondi. Insomma c'è poco da stare allegri con Almqvist in circolazione. Svegliate i vostri incubi e mettete a riposo i bambini.
Anche se uscito nel 2013, Warsaw Holiday è una delle migliori folgorazioni di questo mio inizio anno. Spengo la luce e ascolto il mio gravedigger che sposta la terra.








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vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY- Le's Start Again (2014)



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giovedì 6 febbraio 2014

RECENSIONE: NASHVILLE PUSSY (Up The Dosage)

NASHVILLE PUSSY  Up The Dosage (SPV/Steamhammer, 2014)




Tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, anche se... Quando necessito di una malata e sboccata dose di becero rock'n'roll senza troppe pretese, i Nashville Pussy, quartetto misto di Atlanta, riescono sempre a portare a casa la partita sopra al piatto del mio stereo, ci riescono ormai dal lontano 1998 quando la copertina sguaiata di Let Them Eat Pussy era cosa da non lasciare in vista ai piccoli nipoti che giravano per casa. Persa per strada la componente più rusticamente sessista, belluina e punk della gioventù, ben rappresentata figurativamente dalla prima bassista Corey Banks, una poco raccomandabile, tatuata e svestita valchiria di razza, quello che non è mai mancato è l'umorismo da squallida bettola di infima categoria e la provocazione a buon mercato basata su sesso e droghe anche quando il suono della band, negli anni, ha preso sempre più la strada polverosa del southern rock, del blues ipervitaminico alla ZZ Top (recentemente hanno anche coronato il sogno di aprire per i loro barbuti idoli, rimettendoci pure molto in dollari) e del country più sporcaccione in rappresentanza di tutti gli stereotipi americani più marcati e con la scritta "vietato ai minori" sempre ben in vista. Iconicamente legati all'immagine dei due coniugi chitarristi, anche ora che i capelli di Blaine Cartwright sono sempre più radi sotto il cappellaccio da cowboy, la sua pancia da trucker diventa sempre più rotonda e la  voce simile ad un Alice Cooper passato alla carta vetrata-lo zio americano che tutti vorremmo per uscire a rimorchiare il venerdì sera anche se Milano non è l'America, cantava qualcuno- mentre il seno di sua moglie Ruyter Suys  rimane sempre ben in vista e schiacciato sopra alla fiammeggiante chitarra che durante i live diventa l'incontrollabile manico della perversione che tanto la trasforma in un indemoniato Angus Young in reggiseno (provare un loro live per crederci), i Nashville Pussy sono una collaudata macchina da guerra che non vuole smettere di macinare riff su amplificatori tarati al massimo, chilometri su strade secondarie e parolacce di quart'ordine, con il batterista Jeremy Thompson-dalla barba sempre più lunga-pronto a dare la carica e con una continua girandola di bassiste che dopo Corey Banks e Tracy Alzaman, questa volta si ferma sulla nuova e massiccia Bonnie Buitrago dopo la dipartita della precedente Karen Cuda.
Up The Dosage, sesto album in discografia, sembra rappresentare una piccola svolta d'immagine fin dalla copertina, una sorta di black album ("è il nostro Back In Black" dice Blaine), che vuole forse testimoniare un nuovo inizio nella volontà di puntare tutto sulla musica (il mitico Eddie Spaghetti dei Supersuckers collabora come autore su buona parte delle 12 canzoni) e meno sull'immagine provocatoria della band, con il divertimento sempre e comunque al centro dell'attenzione. Nessuno è diventato serio qui, sia chiaro. Il contenuto è un buon calcio sulle palle fin dall'iniziale Everybody's Fault But Mine, dal veloce  rifferama dove southern rock e AC/DC stipulano un patto di sangue, e tutto il resto è un buon bilanciamento tra le caratteristiche seminate in tutti gli anni di attività: anthemici e pesanti hard rock boogie con la  chitarra solista di Ruyter Suys sempre presente negli assalti "motorheadiani" di Rub It To Death, Pillbilly e Spent, nella cadenzata Till The Meat Falls Off The Bone, nel riff circolare della viziosa Up The Dosage (un colpo che si stampa bene in testa), nel punk anthemico di The South 's Too Fat To Rise Again , nell'honky tonk  blues "drogato" di Before The Drugs Wear Off (presente come bonus track in una versione alternativa unitamente all'inedito Begging For A Taste nella digipack edition) con il pianoforte suonato dalla stessa Ruyter e l'assolo di chitarra dell'ospite Earl Crim, nel boogie hard rock'n'roll di Beginning Of The End.
Un inno selvaggio al party nella scheggia di 48 secondi cantata dalla stessa Ruyter Suys (Takin' It Easy, cover della band Dethklok protagonista della serie televisiva Metalocalypse) che si contrappone alla pesantezza '70 di White And Loud dove dai fumi emergono gli spiriti sabbathiani, che a sua volta precede di poco la divertente country song  Hooray For Cocaine, Hooray For Tennessee con il dobro di Andy Gibson (nella band di Hank III) e il mandolino della Ruyter. Il loro mondo sta tutto qua.
Si diceva: tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, ma questa volta il rock'n'roll sembra averla vinta. Ma poi arriva la finale Pussy's Not A Dirty Word, un numero alla AC/DC che ci ricorda che: pussy non è una parola sporca e fa girare il mondo. Divertitevi finchè potete, per diventare vecchi c'è ancora tempo e Up The Dosage ve lo ricorderà a lungo, senza più il timore di lasciare la copertina del disco sopra al tavolo in cucina. Proprio ora che i nipoti sono cresciuti...






giovedì 30 gennaio 2014

RECENSIONE: DAVID CROSBY (Croz)

DAVID CROSBY  Croz (Blue Castle Records, 2014)


Quando lo vedi sopra al palco catalizza l'attenzione con il solo carisma senza spostarsi di un centimetro, tanto da mettere in ombra i suoi fidi compagni di sempre: il lunatico e bizzoso Stephen Stills e l'etereo e più ginnico Graham Nash. I pochi ma sempre lunghi e candidi capelli bianchi al vento, i baffoni come li portava già nel 1969-gli manca solamente la giacca di renna scamosciata con le frange, la stessa indossata poi da Dennis Hopper in Easy Rider-la voce inconfondibilmente pura che fluttua nell'aria, il fisico segnato dalla vita- ma poi nemmeno troppo diverso rispetto a noi comuni mortali-David Crosby ha sempre incarnato lo spirito del suo tempo "migliore", quello sognante, quello ancora lontano da una tentata autodistruzione culminata negli anni ottanta e costruita su abusi, armi da fuoco illegali, galere e dalle inevitabili conseguenze prodotte da un trapianto di fegato avvenuto nel 1994 e da ripetuti attacchi al suo debole ma roccioso cuore. Nonostante tutto sembra ancora lo specchio di quel periodo, epoca che apriva e chiudeva il sogno americano con la conseguente rassegnazione di chi si è bruciato tutto, troppo in fretta, per troppi ideali disattesi e troppe utopie. Una generazione che ci ha provato: "un grande uomo disse 'ho un sogno'. Un altro arriva e gli spara in testa" canta in Time I Have. La fortuna di guardarsi indietro e spiare in avanti fa spesso capolino tra i testi (Slice Of Time, Holding On To Nothing). La  fortuna di un sopravvissuto. Crosby ringrazia. Di tutte queste cadute con relative rinascite canta nella personale Set That Baggage Down, uno dei picchi confessionali e musicali del disco con una chitarra elettrica che fa il suo, un groove che sale ed un'esortazione ad alzarsi sempre e comunque davanti ad ogni sciagura: "Rise Up, Rise Up" canta nel finale.
Dopo un capolavoro epocale e tanto "malato" da non fargli nemmeno ricordare il proprio nome (If I Could Only Remember My Name del 1971), disco che lo consacrò guida spirituale dell'intero movimento della West Coast Californiana e tra i manifesti più puri e lisergici dell'epoca, dopo la risposta a quella domanda avvenuta a quasi vent'anni di distanza, anni di rinascita soprattutto fisica (Oh,Yes I Can del 1989), dopo le tante strade percorse, anche sbagliate, del poco significativo disco di cover Thousand Roads del 1993: ad altri vent'anni dal quest'ultimo disco, ci rivela il nome, la sua identità. Chiamatemi tutti Croz sembra voler dire, sbattendo un significativo primo piano del suo faccione in copertina senza nessuna remora nel mostrare rughe e segni di vecchiaia (il CD è avvolto in un digipack veramente ben rifinito). Con l'unico rimpianto-suo e nostro-di essere arrivato al solo quarto disco solista in cinquant'anni di carriera, trascorsi come si farebbe sopra ad una montagna russa senza fine, dai fasti inarrivabili di Byrds e CSN & Y ai buchi degli anni ottanta pur con qualche sporadica e buona perla da cercare nei dischi targati CSN (Delta, Compass, Dream From Him).
Un disco che non lascia sorprese epocali, non si avvicina minimamente al capolavoro della vita anche se ha in comune quella impalpabile flessuosità che lo accompagna da sempre, ma  è una foto fedele del suo autore negli ultimi anni, uno sguardo attento alla sua anima interiore e a quello che lo circonda, perché lontano dalle scene e dalla vita, nell'ultimo ventennio, non ci è mai stato veramente. In pista sia con i compagni di una vita girando il mondo in tour, con il solo fraterno Nash (bello e spesso dimenticato è il loro disco del 2004), e con il gruppo CPR messo in piedi con il figlio ritrovato James Raymond (qui arrangia, produce e suona molto). Proprio da qui si riparte. Scritto interamente con il figlio, Croz è un album  dal passo lento, armonico, dal feeling jazzato che non ha fretta di arrivare, che non cerca i facili consensi: "l'ho scritto per me stesso" dice Crosby.
Un album contemplativo fin dall'iniziale What's Broken con la chitarra carezzevole di Mark Knopfler, brano piacevole anche se i due non si sono mai incontrati veramente-hanno collaborato a distanza-un qualcosa che ai tempi d'oro non sarebbe mai successo. A pensarci si perde un po' di quella antica magia che invece sembra avvolgere tutto il lavoro. Se ne prende atto e si va avanti tra stoccate alla moderna politica militare USA (la fumosa Morning Falling); acuti quadretti sulla prostituzione giovanile condotti con sola voce e chitarra arpeggiata (If She Called) e dipinti con la saggezza paterna dopo aver visto delle giovani ragazze al lavoro in un marciapiede fuori da un hotel dove soggiornava in Belgio; le immancabili armonie vocali che escono da Radio; i raffinati velluti jazzistici sia in Holding On To Nothing offerti dalla tromba di Wynton Marsalis che si mescola ad una chitarra acustica e nella finale Find A Heart vetrina musicale per i virtuosi ospiti Steve Taglione (sax) e Leland Sklar (basso); ma anche la sorprendente esplosione elettrica nella seconda metà di The Clearing, tra le più rock delle undici tracce -insieme a Set That Baggage Down- con il synth del figlio James Raymond e le chitarre di Marcus Eaton e di Shane Fontayne (che qualcuno ricorderà alla corte di Bruce Springsteen nel tour del 1993) a  dar battaglia. Però non tutto gira bene e Dangerous Night cade nello scalino di un AOR stanco e poco incisivo.
Eterno rispetto per un uomo (superstite) che ci fa visita solo quando ha qualcosa da dire. Un disco che avrà scritto solamente per se stesso, come dice, ma con la classe appartenente a pochi e la capacità di arrivare ancora a molti. Primo grande disco del 2014.


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lunedì 27 gennaio 2014

RECENSIONE: TEX MEX (Hang Loose, Tex Mex!) & INTERVISTA a FRANK GET

TEX MEX  Hang Loose, Tex Mex!  (atoproduzione, 2014)


Come tutte le storie più belle, anche il viaggio dei triestini Tex Mex giunge al termine del percorso, proprio ora che li ho conosciuti ed iniziavano a viziarmi con il loro blues costruito con l'antica cura di una volta e domiciliato nell'estremo est del nostro paese, terra sempre ricca di tradizioni e buonissima musica rock. Ma non è un addio definitivo alle scene, solo un "arrivederci" che prestissimo si tramuterà in una nuova band, un power trio che ha già un nome scritto e un futuro segnato: Ressel Brothers Blues Band. Scelta maturata durante l'incisione di due nuove tracce in studio: il southern rock dai forti umori Lynyrd Skynyrd di Dancing Around To The Fire e l'ancora più possente Can You See, canzoni qui presenti e registrate nel Novembre del 2013, buone testimoni del futuro nuovo corso. "E' curioso il fatto che le due nuove registrazioni, che rappresentano la fine del percorso per la band Tex Mex, racchiudano comunque gli elementi che troveremo nel nuovo album che stiamo già registrando con il nuovo gruppo (Ressel Brothers), in questo caso potrei dire che segnano un cambio di direzione sicuramente non studiato a tavolino ma raggiunto in maniera assolutamente spontanea.... posso sicuramente dire che i cambiamenti (quando si è pronti ad accettarli) portano ad aperture mentali e stilistiche a volte inaspettate". Così mi racconta Frank Get, cantante e bassista del gruppo. Una scelta dettata principalmente da una lenta revisione della formazione originale che negli anni ha visto snaturare il significato di partenza del progetto, suppongo. Il modo migliore per abbandonare il vecchio monicker è racchiudere la "storia", seppur breve, in un disco live che comprende alcune testimonianze raccolte lungo le tante strade percorse durante gli ultimi tre anni. Trattandosi di canzoni estrapolate da diverse date e location, si è pensato di tagliare, in gran parte, pause e pubblico tra una canzone e l'altra, tanto che potrebbe benissimo essere un disco di studio registrato in presa diretta  come lo fu-veramente-il precedente The Best Has  Yet To Come (2012)-vedi recensione. Perché durante i live, la band triestina (oltre a GetMatteo Zecchini alle chitarre, Giovanni Vianelli al piano, Sandro Bencich alla batteria) riesce a tirare fuori il meglio di stessa. Band amante delle lunghe jam strumentali-spesso mi torna in mente la libertà compositiva dei Little Feat-e dei voli pindarici, e qui a spiccare è la parentesi quasi prog di My Obsession con il flauto ospite dello statunitense James Thompson a spadroneggiare. "Il lato jam band è forse la componente più divertente in questa band ed è una caratteristica soprattutto dei singoli musicisti che son portati a cercare i momenti di jam.... anche se gran parte dei pezzi son scritti da me, all'interno di ciascun arrangiamento c'è sempre spazio per qualunque tipo di interazione tra tutti noi (forse sarà dettato dal fatto che tutti quanti per moltissimi anni abbiamo suonato in varie formazioni in giro per l'Europa in situazioni in cui le prove al massimo si facevano per telefono ). Riguardo a James posso dirti che ci conosciamo e siamo amici da quasi trent'anni (il primo incontro avvenne ad un festival dell'Unità nell' 87 dove James si esibiva con Arthur Miles ed io facevo il fonico) poi ci siamo frequentati sia quando suonava con il pianista Stefano Franco sia quando suonava con Zucchero (in quel periodo ho suonato anche con Derek Wilson e Mario Schilirò). Qualche anno fa abbiamo pure fatto assieme un mini tour con No Stress Brothers (blues band austriaca). James oltre ad esser stato ospite nel CD Tex Mex e aver suonato con noi in alcuni concerti; ha suonato pure nel mio CD solista "Hard Blues" del 2009".
Fortemente ancorata alle radici terrose che attorcigliano le grandi southern/blues band dei seventies, si ascolti il divertentissimo e cavalcante blues di Don't Step Along The Line, corsa a tutta slide (Matteo Zecchini) e armonica (Marco Beccari) ma anche quando a prevalere è il suono più raffinato, acustico e unplugged, il calore non smette di cessare, anzi, corre ancora più forte lungo i tasti di un presentissimo pianoforte. Succede in tre composizioni: quelle che aprono il disco (Don't Think Twice, Hot Aliens Aftrnoon, Work On Time) registrate con il compianto primo batterista Dario "Doppio" Vatovac, le sue due ultime registrazioni prima di lasciarci. "Dario oltre ad esser stato uno dei fondatori della band è stato soprattutto un grande amico, era la persona che con l'esperienza (è stato, negli anni 70, batterista dei Boomerang, rock band della ex Yugoslavia, e poi ha vissuto negli Stati Uniti per più di 15 anni) e la capacità di sintesi sapeva dire la parola giusta al momento giusto. La registrazione testimonia l'ultima volta in cui si è seduto dietro la batteria ed abbiamo suonato assieme....è incredibile come nella registrazione ( è l'unica di tutto il CD non a tracce separate, quindi senza possibilità di remix) siamo riusciti a catturare il feeling ed il momento assolutamente unico!! Grazie Dario!"
A lui è dedicata anche la springsteeniana No Surrender, registrata live durante il release party del loro primo Cd e che vede la partecipazione di Elisa Maiellaro ai cori.
Un disco che riesce a trasmettere la vera passione per la musica dei rodati protagonisti, creando quell'ideale aggancio tra l'America musicale e le radici della loro terra, tanto che il nome della futura band sarà Ressel Brothers, monicker ispirato dal cognome di un loro concittadino del 1800, il ceco Josef Ressel, inventore dell'elica navale nonché con il prestigioso merito di aver iniziato un importante progetto di rimboschimento del loro Carso.
Arrivederci a prestissimo, quindi.




vedi anche RECENSIONE: TEX MEX-The Best Has Yet To Come (2013)
vedi anche RECENSIONE: RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE-Roadsigns (2012)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)

martedì 21 gennaio 2014

RECENSIONE: BAP KENNEDY (Let's Start Again)

BAP KENNEDY  Let's Start Again  (Proper Records/IRD, 2014)



La "penna" di Bap Kennedy è una stilografica di valore, di quelle che usi solo nelle buone occasioni per scrivere cose importanti. Quelle parole che devono rimanere nel tempo. E di cose buone e importanti il cinquantenne cantautore di Belfast ne ha sempre lasciate sul foglio bianco, nonostante abbia portato avanti la sua carriera senza i meritati riconoscimenti di pubblico che gli spetterebbero, proprio come una penna di valore tenuta sempre nascosta per paura d'essere consumata dai più. Di bellezza non fa eccezione nemmeno questo nuovo Let's Start Again che esce a soli due anni di distanza dal precedente Sailor's Revenge che gli fu prodotto da Mark Knopfler, forse il picco artistico come autore; fu il perfetto incontro tra la musica americana incrociata fin dall'esordio solista Domestic Blues sotto l'ala protettrice di Steve Earle che lo volle fortissimamente in quel di Nashville-american roots amplificate poi dal personale tributo a Hank Williams-e le sue vere radici celtiche, sviluppate nel passato remoto collaborando con il mentore Van Morrison che ha sempre stravisto per lui fin da quando faceva il "rocker" suonando negli Energy Orchard, sua prima band con cinque dischi in discografia. Sostanzialmente meno brumoso e malinconicamente irish del precedente, questa volta, Kennedy, autore onesto e musicalmente curioso come un vero marinaio dei due mondi, ritorna al suo passato musicale, riabbracciando sì il country ma tornando a registrare nella sua Irlanda Del Nord con l'aiuto in produzione del vecchio amico "ritrovato" Mudd Wallace, e suonando insieme alla fedele band che lo accompagna dal vivo più un nutrito numero di musicisti del posto: la moglie Brenda Boyd al basso, Gordy McAlliser alle chitarre, Rabb Bennett alla batteria, John McCullough alle tastiere, Noel Lenaghan al mandolino, Richard Nelson  alla pedal steel e dobro e John Fitzpatrick al violino.
Semplicità, maturità e stile, abbinate alla romantica positività dei testi, sono caratteristiche che affiorano in ognuna delle undici canzoni che spaziano a tutto campo, rivisitando l'intera carriera: il country da grandi spazi condotto da pedal steel e slide (Let's Start Again, l'up tempo della corale Revelation Blues, la contagiosa leggerezza di un ardente desiderio in Song Of Her Desire), l'amore per il rock'n'roll dei '50 nel doo-woop di If Things Don't Change e Heart Trouble  quasi ad accarezzare il jazz ma con un ispiratissimo violino guida ,il folk a passo di lento valzer (Let It Go), le cullanti e nostalgiche onde radio che pervadono Radio Waves, l'ardente Under My Wing tra caraibi e Van Morrison, e tuffi in atmosfere calienti, tex mex e latine (Fool's Paradise e King Of Mexico che si muove con lo stesso passo de La Bamba) a dimostrazione che la sua "penna" possiede più colori: meno grigi e freschi rispetto al precedente Sailor's Revenge ma più rossi e cocenti.
Degna di nota, infine, la deluxe edition che include un disco in più. Una sorta di greatest hits contenente altre undici tracce scelte tra i suoi vecchi dischi: Domestic Blues, Lonely Street, Howl On, The Big Picture, più due versioni acustiche di Jimmy Sanchez e Please Return To Jesus.
Un disco di altissima classe cantautorale con ancora impresse la freschezza e la vitalità del debuttante ma scritto con la maturità del veterano, e in grado di traghettare, a passo lento ma con qualche lunga falcata, le mie uggiose giornate di questo inverno verso l'imminente primavera.
In uscita il 3 Febbraio 2014.





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