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Tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, anche se... Quando necessito di una malata e sboccata dose di becero rock'n'roll senza troppe pretese, i Nashville Pussy, quartetto misto di Atlanta, riescono sempre a portare a casa la partita sopra al piatto del mio stereo, ci riescono ormai dal lontano 1998 quando la copertina sguaiata di Let Them Eat Pussy era cosa da non lasciare in vista ai piccoli nipoti che giravano per casa. Persa per strada la componente più rusticamente sessista, belluina e punk della gioventù, ben rappresentata figurativamente dalla prima bassista Corey Banks, una poco raccomandabile, tatuata e svestita valchiria di razza, quello che non è mai mancato è l'umorismo da squallida bettola di infima categoria e la provocazione a buon mercato basata su sesso e droghe anche quando il suono della band, negli anni, ha preso sempre più la strada polverosa del southern rock, del blues ipervitaminico alla ZZ Top (recentemente hanno anche coronato il sogno di aprire per i loro barbuti idoli, rimettendoci pure molto in dollari) e del country più sporcaccione in rappresentanza di tutti gli stereotipi americani più marcati e con la scritta "vietato ai minori" sempre ben in vista. Iconicamente legati all'immagine dei due coniugi chitarristi, anche ora che i capelli di Blaine Cartwright sono sempre più radi sotto il cappellaccio da cowboy, la sua pancia da trucker diventa sempre più rotonda e la voce simile ad un Alice Cooper passato alla carta vetrata-lo zio americano che tutti vorremmo per uscire a rimorchiare il venerdì sera anche se Milano non è l'America, cantava qualcuno- mentre il seno di sua moglie Ruyter Suys rimane sempre ben in vista e schiacciato sopra alla fiammeggiante chitarra che durante i live diventa l'incontrollabile manico della perversione che tanto la trasforma in un indemoniato Angus Young in reggiseno (provare un loro live per crederci), i Nashville Pussy sono una collaudata macchina da guerra che non vuole smettere di macinare riff su amplificatori tarati al massimo, chilometri su strade secondarie e parolacce di quart'ordine, con il batterista Jeremy Thompson-dalla barba sempre più lunga-pronto a dare la carica e con una continua girandola di bassiste che dopo Corey Banks e Tracy Alzaman, questa volta si ferma sulla nuova e massiccia Bonnie Buitrago dopo la dipartita della precedente Karen Cuda.
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Un inno selvaggio al party nella scheggia di 48 secondi cantata dalla stessa Ruyter Suys (Takin' It Easy, cover della band Dethklok protagonista della serie televisiva Metalocalypse) che si contrappone alla pesantezza '70 di White And Loud dove dai fumi emergono gli spiriti sabbathiani, che a sua volta precede di poco la divertente country song Hooray For Cocaine, Hooray For Tennessee con il dobro di Andy Gibson (nella band di Hank III) e il mandolino della Ruyter. Il loro mondo sta tutto qua.
Si diceva: tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, ma questa volta il rock'n'roll sembra averla vinta. Ma poi arriva la finale Pussy's Not A Dirty Word, un numero alla AC/DC che ci ricorda che: pussy non è una parola sporca e fa girare il mondo. Divertitevi finchè potete, per diventare vecchi c'è ancora tempo e Up The Dosage ve lo ricorderà a lungo, senza più il timore di lasciare la copertina del disco sopra al tavolo in cucina. Proprio ora che i nipoti sono cresciuti...
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