LUCA ROVINI Avanzi e Guai (autoproduzione, 2013)
25 Aprile, Festa della Liberazione. Un sole che quest'anno non si era ancora visto così, le nuvole a riposare nel lato invisibile del cielo, pronte per il violento risveglio del giorno dopo, sentieri prealpini di terra e pietre come serpenti striscianti e ubriachi, alberi finalmente colorati che cercano di far ombra a tartarughe sdraiate a bordo stagno, verdi pascoli con pigri cavalli disturbati e accecati da raggi killer. Vago e cammino, felice, è il primo vero giorno di Primavera. La Liberazione dall'inverno. Con me, il solito simil iPod. Oggi, si ascolta anche il Luca Rovini da Cascina (Pisa), con quella copertina evocativa è un invito a nozze. Uno di quegli incontri casuali quello con il geometra e coscritto Rovini, via facebook, non ricordo nemmeno bene come, forse c'era Bob Dylan di mezzo. Dylan c'entra sempre in qualche modo. Poi scopro che siamo clienti di uno stesso negozio di dischi, io a due passi a piedi, lui più lontano, distante km e regioni. La scoperta migliore, però, la faccio quando scopro le sue doti artigianal-musicali, prima con le foto giornaliere che posta sul web, documentando, passo dopo passo, la nascita di una chitarra assemblata con le sue stesse braccia e con maniacale dovizia di particolari, un po' come fa il nostro idolo Seasick Steve, poi quando fa circolare Scoppia La Testa, la canzone trainante di questo suo primo CD. Rovini non è solo un liutaio a tempo perso che affida le sue opere (chitarre acustiche e Resonator di metallo) alle sapienti dita di Claudio Bianchini- unico compagno di viaggio in questo sogno musicale che si è avverato- ma anche un artigiano della musica suonata con spirito DIY, come si diceva una volta. Racconta storie piene di metafore, cantate in italiano (qui ci va l'applauso), che potrebbero essere uscite da un crocicchio di Chicago, o soffiate dal vento sulle polverose strade di Nashville, cantate da un hobo solitario in un marciapiede di Dublino, girare tra le malelingue di bordelli di periferia o passare di bocca in bocca tra gli avventori di una qualsiasi bettola di un paesino toscano di provincia, quella dove anziani e giovani uniscono lo sguardo all'entrata dell'avvenente Marilyn di turno. Tra solitudini, illusioni e sogni di rock'n'roll, Rovini ci lascia il cuore, quello che batte ardentemente per il folk, il blues acustico, il rockabilly '50, per gli idoli musicali americani della sua bella collezione di vinili. Quelli più famosi: Johhny Cash (Avanzi e Guai, Sguardo di Pietra), il primo Bob Dylan (Tra La Polvere Ed il Cielo, Corri Come vuoi), Willy Deville che omaggia pure esplicitamente nella conclusiva strumentale Late Night Blues, For Willy Deville e quelli italiani, Massimo Bubola, e il De Gregori (Cosa Fai) del folkstudio in testa. Mi ricorda anche i siciliani Il Pan Del Diavolo nella voglia di accompagnare per mano Elvis tra le vie (acustiche) dei nostri antichi borghi e le verdi colline toscane traformandole in una itinerante Graceland tricolore.
Potremmo stare qui a discutere sulla sua voce imperfetta, la produzione a bassissimo costo come quei demo-registrati e confezionati alla grande però- che giravano di mano in mano negli anni ottanta, il minimalismo musicale, l'omogeneità che prevale. Potremmo, ma non avremmo capito nulla di un disco che riporta al centro dell'attenzione la spontaneità della musica, i desideri, la strada, la passione, il sudore di serate post-lavoro passate a costruire chitarre e sogni. Doti rimaste rare in un mondo digitale. Da
preservare e ascoltare come le storie che ci canta. " ...vola vola via, sporca danza vola via/ slaccia questi fili, nel mattino volerai/ lascia questa gabbia, labirinto di follia...vola vola via, sporca danza vola via, che la rabbia sia un ricordo/ la tua fuga il nostro amare/ le tue urla sian speranza, da imparare, da insegnare/ io ti guarderò come si guarda la realtà/ io ti sognerò come si sogna la libertà..." da Sporca Danza.
vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE- (2012)
vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)
vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE- Hubcap Music (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE MARTIN & EDIE BRICKELL-Love Has Come To You (2013)
venerdì 10 maggio 2013
giovedì 9 maggio 2013
RECENSIONE: STEVE MARTIN & EDIE BRICKELL (Love has Come For You)
STEVE MARTIN & EDIE BRICKELL Love Has Come For You (Rounder Records, 2013)
13 canzoni brevi, piacevoli nella loro uniformità di fondo -che potrebbe trasformarsi nell' unico difetto per chi è poco avvezzo a certi suoni-garbate e carezzevoli come un leggero soffio di vento sugli Appalachi (When You Get To Aheville, Love Has Come For You), con qualche buona e frizzante scossa up tempo come in Get Along Stray Dog, piacevoli sconfinamenti pop trainati da melodie contagiose pur mantenendo la tradizionalità di banjo, violino e banjo in Siamese Cat, oppure incursioni irish/folk come nella ballata Who You Gonna Take?
Un lavoro di squadra, corale, ben riuscito. Una combinazione che farà sicuramente del bene alle carriere dei due musicisti e che potrebbe portare anche ad un seguito.
vedi anche RECENSIONE: KURT VILE- Wakin On A Pretty Daze (2013)
vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE- Hubcap Music (2013)
Nel
1988 fu difficile non innamorarsi della semplicità (e sorriso a fossette) di quella decisa ragazza texana
vestita di lunghi stivali e cappello che insieme a suoi New Bohemians rilasciò
un disco (Shooting Rubberbands At The Stars) che ancora oggi suona piacevole, fresco e vitale nel mio giradischi di casa. La Brickell ha continuato la
sua carriera incidendo dischi, ma mantenendo un basso profilo cantautorale più legato al folk e sfiorando il jazz, non riuscendo più a ripetere l'exploit commerciale di quel debutto (forse solo il secondo Ghost Of A Dog si avvicinò) e vivendo all’ombra dell’importante
uomo con il quale da vent'anni divide la vita: un tale di nome Paul Simon. Ci voleva una star acclamata
come Steve Martin per riportarla al centro dell'attenzione delle cronache musicali che le
competono pur con un'esposizione mediatica che difficilmente espatrierà fuori dal settore di nicchia. Steve Martin, brillante e celebrato attore comico della commedia americana all’apice
della fama nei ’70/'80, lanciato dal Saturday Night Live e fresco papà alla veneranda età di 67 anni, ha una passione, in verità mai nascosta, per il banjo e la musica country/bluegrass, partita alla grande fin dal 1977. Passione premiata dalla
vittoria di un secondo Grammy Award nel 2002 (il primo nel 1978) e da una carriera musicale, prima interrotta e poi esplosa definitivamente negli ultimi cinque anni.
Love Has Come For You è
frutto di una collaborazione attiva e non improvvisata, che coniuga
perfettamente le partiture bluegrass melodiche, rootsy e garbate-mai sopra le righe-per banjo scritte da
Martin con le liriche narrative e calate nel presente, la voce e l’interpretazione della Brickell, ancora fascinosamente
uguale a 25 anni fa pur se privata di incisivi graffi che lascino il segno, ma tuttavia si limita a seguire fedelmente il mood melanconico e rilassato delle composizioni che tendono spesso a sfiorare il folk. Completano: la
produzione dell'esperto musicista Peter Hasher (James Taylor, Neil Diamond, Linda Ronstadt), la presenza del veterano lungocrinito Waddy Watchell alla chitarra, della giovane jazzista Esperanza Spalding al basso, degli Steep Canyon Rangers a legare il tutto e numerosissimi altri ospiti. 13 canzoni brevi, piacevoli nella loro uniformità di fondo -che potrebbe trasformarsi nell' unico difetto per chi è poco avvezzo a certi suoni-garbate e carezzevoli come un leggero soffio di vento sugli Appalachi (When You Get To Aheville, Love Has Come For You), con qualche buona e frizzante scossa up tempo come in Get Along Stray Dog, piacevoli sconfinamenti pop trainati da melodie contagiose pur mantenendo la tradizionalità di banjo, violino e banjo in Siamese Cat, oppure incursioni irish/folk come nella ballata Who You Gonna Take?
Un lavoro di squadra, corale, ben riuscito. Una combinazione che farà sicuramente del bene alle carriere dei due musicisti e che potrebbe portare anche ad un seguito.
vedi anche RECENSIONE: KURT VILE- Wakin On A Pretty Daze (2013)
vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE- Hubcap Music (2013)
martedì 7 maggio 2013
RECENSIONE: KURT VILE (Wakin On A Pretty Daze)
KURT VILE Wakin On A Pretty Daze (Matador Records, 2013)
Per Kurt Vile, il tempo sembra non avere confini da rispettare, come vorremmo sia sempre quando tutto va per il verso giusto. A lui ora, neo padre di famiglia, sembra andare bene pur con tutti i dubbi che si trascina dietro nel suo personalissimo mondo, tanto da testimoniarcelo con una foto stampata direttamente sul CD che lo ritrae insieme alla figlioletta in un normalissimo quadretto domestico di quotidiana routine.
Tempo autonomo di prolungarsi all'infinito, attorcigliato ad una melodia, a degli accordi prolungati come immense praterie younghiane, ad un testo nostalgico. Tutto può essere in anticipo, in orario o in ritardo. Poco importa. Ascoltando il suo quinto lavoro solista-in sei anni- lo si percepisce quando dal primo minuto dell'iniziale Wakin On A Pretty Day (non è da tutti iniziare con una canzone di 9 minuti con una lunga coda strumentale, a meno che, di cognome non fai Young, e allora puoi anche arrivare a 28) fino alla nota finale della conclusiva Gold Tone, si attraversano 69 minuti di musica veleggiando in uno stato atemporale, cullante e quasi rassicurante pur con la malinconia dipinta di nero sul fondo, con poche scosse ma ben posizionate (l'up tempo di Snowflakes Are Dancing, e Shame Chamber che mi porta alla mente gli Eels) ma con la placida certezza di stare ad ascoltare il suo lavoro definitivo (fino ad ora), riuscendo anche a superare il precedente e acclamatissimo Smoke Ring For My Halo (2011) che era un disco diretto e viscerale, confezionato dentro ad una copertina anonima e in bianco e nero; ora, la copertina, costruita su misura sui muri della sua Philadelphia, è a colori e lo ritrae che sembra un "fratello minore dei Ramones" in Rocket To Russia mentre le canzoni, questa volta, sono meno immediate, più strutturate, pur mantenendo il basso profilo di sempre. "Era il passo più logico da compiere dopo aver realizzato un LP di canzoni pop 'succinte'. Che cosa si può fare dopo? Canzoni pop più lunghe ed epiche. Immaginate di stare in un'auto e di ascoltare il proprio pezzo preferito senza il bisogno di farlo ripartire più volte" racconta Vile in una intervista rilasciata a Exclaim!
Le tre canzoni che arrivano quasi a toccare i dieci minuti non sono che la testimonianza di una consapevolezza/libertà di scrittura arrivata ad una maturità definitiva. Un percorso in crescendo il suo: dopo la breve parentesi con i The War On Drugs e la vera partenza solista con Constant Hitmaker del 2008, una costante crescita mantenendo bene i piedi equamente divisi tra tradizione e rock alternativo lo-fi.
Vile segue una linea di spontaneità personale, prerogativa dei grandi (da Lou Reed a Neil Young), che non ammette barriere, costrizioni e invasioni nella sua musica, a parte l'aiuto in produzione di Rob Laakso, John Agnello e Matt Boynton, i suoi fidi Violators (lo stesso Rob Laakso al basso e Jesse Trbovich alla chitarra) e alcuni musicisti ospiti; che si permette di citare il rapporto con il padre in Too Hard, snocciolato sul foglio con la stessa intensità emotiva che appartiene a Leonard Cohen.
Tra arpeggi folk stranianti e psichedelici (Girl Caled Alex), effetti elettronici e i Synth dell'autoanalitica ("c'era una volta nella mia vita") e veloce Was All Talk, il dondolante ritmo di valzer di Pure Pain che cambia velocità trasformandosi in un british folk dal retrogusto medioevale, fino all' intensità ipnotizzante e spolverata di glam dalla chitarra che potrebbe essere la sei corde del compianto Mick Ronson in Kv Crimes. Kurt Vile percorre le contorte vie della sua mente con placida andatura, voce strascicata, languido ritmo che dopo il terzo ascolto non puoi fare altro che tenere il suo passo e andargli silenziosamente dietro.
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth And Nail (2013)
vedi anche RECENSIONE: THOM CHACON-Thom Chacon (2013)
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
Per Kurt Vile, il tempo sembra non avere confini da rispettare, come vorremmo sia sempre quando tutto va per il verso giusto. A lui ora, neo padre di famiglia, sembra andare bene pur con tutti i dubbi che si trascina dietro nel suo personalissimo mondo, tanto da testimoniarcelo con una foto stampata direttamente sul CD che lo ritrae insieme alla figlioletta in un normalissimo quadretto domestico di quotidiana routine.
Tempo autonomo di prolungarsi all'infinito, attorcigliato ad una melodia, a degli accordi prolungati come immense praterie younghiane, ad un testo nostalgico. Tutto può essere in anticipo, in orario o in ritardo. Poco importa. Ascoltando il suo quinto lavoro solista-in sei anni- lo si percepisce quando dal primo minuto dell'iniziale Wakin On A Pretty Day (non è da tutti iniziare con una canzone di 9 minuti con una lunga coda strumentale, a meno che, di cognome non fai Young, e allora puoi anche arrivare a 28) fino alla nota finale della conclusiva Gold Tone, si attraversano 69 minuti di musica veleggiando in uno stato atemporale, cullante e quasi rassicurante pur con la malinconia dipinta di nero sul fondo, con poche scosse ma ben posizionate (l'up tempo di Snowflakes Are Dancing, e Shame Chamber che mi porta alla mente gli Eels) ma con la placida certezza di stare ad ascoltare il suo lavoro definitivo (fino ad ora), riuscendo anche a superare il precedente e acclamatissimo Smoke Ring For My Halo (2011) che era un disco diretto e viscerale, confezionato dentro ad una copertina anonima e in bianco e nero; ora, la copertina, costruita su misura sui muri della sua Philadelphia, è a colori e lo ritrae che sembra un "fratello minore dei Ramones" in Rocket To Russia mentre le canzoni, questa volta, sono meno immediate, più strutturate, pur mantenendo il basso profilo di sempre. "Era il passo più logico da compiere dopo aver realizzato un LP di canzoni pop 'succinte'. Che cosa si può fare dopo? Canzoni pop più lunghe ed epiche. Immaginate di stare in un'auto e di ascoltare il proprio pezzo preferito senza il bisogno di farlo ripartire più volte" racconta Vile in una intervista rilasciata a Exclaim!
Le tre canzoni che arrivano quasi a toccare i dieci minuti non sono che la testimonianza di una consapevolezza/libertà di scrittura arrivata ad una maturità definitiva. Un percorso in crescendo il suo: dopo la breve parentesi con i The War On Drugs e la vera partenza solista con Constant Hitmaker del 2008, una costante crescita mantenendo bene i piedi equamente divisi tra tradizione e rock alternativo lo-fi.
Vile segue una linea di spontaneità personale, prerogativa dei grandi (da Lou Reed a Neil Young), che non ammette barriere, costrizioni e invasioni nella sua musica, a parte l'aiuto in produzione di Rob Laakso, John Agnello e Matt Boynton, i suoi fidi Violators (lo stesso Rob Laakso al basso e Jesse Trbovich alla chitarra) e alcuni musicisti ospiti; che si permette di citare il rapporto con il padre in Too Hard, snocciolato sul foglio con la stessa intensità emotiva che appartiene a Leonard Cohen.
Tra arpeggi folk stranianti e psichedelici (Girl Caled Alex), effetti elettronici e i Synth dell'autoanalitica ("c'era una volta nella mia vita") e veloce Was All Talk, il dondolante ritmo di valzer di Pure Pain che cambia velocità trasformandosi in un british folk dal retrogusto medioevale, fino all' intensità ipnotizzante e spolverata di glam dalla chitarra che potrebbe essere la sei corde del compianto Mick Ronson in Kv Crimes. Kurt Vile percorre le contorte vie della sua mente con placida andatura, voce strascicata, languido ritmo che dopo il terzo ascolto non puoi fare altro che tenere il suo passo e andargli silenziosamente dietro.
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth And Nail (2013)
vedi anche RECENSIONE: THOM CHACON-Thom Chacon (2013)
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
venerdì 3 maggio 2013
RECENSIONE:SEASICK STEVE (Hubcap Music)
SEASICK STEVE Hubcap Music (Fiction/Polydor, 2013)
La leggendaria favola d'altri tempi con lieto presente di Seasick Steve è diventata di dominio pubblico. Ora che è stato sdoganato dal grande pubblico, complici i numerosi musicisti che spintonano per suonare con lui-anche su disco come vedremo (tra i primi ci fu Nick Cave)-il settantunenne vecchio bluesman di Oakland ma con base in Europa (Norvegia) non cambia il suo approccio genuino e viscerale alla musica e i rombanti cavalli del motore di un vecchio e amato trattore John Deere che si sentono in apertura dell'hard boogie Down On The Farm, dove pare trasformarsi nel quarto ZZ Top, vogliono marchiare il concetto, unitamente al testo che non ammette troppe repliche: " Amo l'odore dei negozi di forniture agricole/ un misto di semi, tute da lavoro, olio e tanto altro/ Puoi prendere una nuova pala e un nuovo rastrello/ prendere la tua motosega affilata/ Ma devi attendere/ Sono in pausa Caffè". Sembra quasi di vederlo, come un "maturo" ragazzo di campagna in trasferta in città, mentre esce dal negozio e si dirige verso il trattore parcheggiato con i nuovi acquisti in spalla, così come in Home dipinge i suoi amori con ingenua innocenza (due vecchi trattori gialli e verdi, un anziano cane, e un' arrugginita Chevy 51), aiutato dalla chitarra sudista di Luther Dickinson.
Registrato a Nashville, Hupcap Music -titolo dedicato ad una delle mitiche chitarre che si costruisce con meticolosa cura artigianale, quella ricavata dal manico di una zappa in disuso e due vecchi coprimozzi di ruota (vedi copertina ed esilarante video)-continua a rotolare nella vecchia, semplice, rustica e incontaminata strada del blues (anche se dice di amare più il rock'n'roll), come lo stesso Seasick Steve preme a sottolineare, ribadendo che per la realizzazione del disco non sono stati utilizzati moderni computers ma solo un vetusto nastro analogico. In fondo, caro vecchio Steve non era nemmeno necessario segnalarcelo. Ti crediamo, anche se qualche limata a certe ruvidezze e maggior pulizia sono state apportate: il confidenziale country a due voci di Purple Shadows insieme alla splendida Elizabeth Cook con le pedal steel evocative di Fats Kaplin a creare scenografia e la finale Coast Is Clear, un numero soul/r&b condotto con voce da astuto crooner alla Joe Cocker con tanto di sezione fiati e hammond a condurre il gioco, sono lì a dimostrarcelo e...stupirci anche un po'.
Per il resto, Seasick Steve, a capo basso, un logoro baseball cap calato in testa, camicia a quadri con maniche arrotolate, jeans sdruciti e scarpe grosse, ci regala quello che ci aspettiamo da lui: blues a tutta full band, ora vitaminico (in maggiore quantità rispetto al precedente You Can't Teach An Old Dog New Tricks -2011) quasi volesse mascherare la sua reale età facendo a cazzotti con il diavolo, come nell' autobiografico boogie Self Sufficient Man, nel talkin' blues scatenato di Keep On Keepin' On suonato con la Cigar box guitar, nella pesante e cadenzata The Way I Do dove compare magicamente l'inconfondibile chitarra di Jack White, in Heavy Weight, nella marcia per la libertà Freedom Road; oppure sedendosi comodamente su un vecchio sedile d'auto abbandonato nel mezzo di un campo arato, gambe incrociate, chitarra folkie, mandolino, ukulele (Over You, la speranzosa Hope) e un tramonto rosso che chiama l'oscurità all'orizzonte.
Ad aiutarlo, l'inseparabile compagno di bevute Dan Magnusson alla batteria e l'altrettanto sempre presente John Paul Jones (Led Zeppelin) al basso, voce, hammond, ukulele e mandolino, che evidentemente deve averci preso gusto nel suonare sui palchi di campagna attorniato da galline dopo una carriera da venerata (ma defilata) rockstar.
I giorni passati sui campi saranno pur sempre uguali a se stessi, sette su sette. Però, vuoi mettere?
vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-You Can't Teach An Old Dog New Tricks (2011)
vedi anche RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON 'S BIG DAMN BAND-Between The Ditches (2012)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & The HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
La leggendaria favola d'altri tempi con lieto presente di Seasick Steve è diventata di dominio pubblico. Ora che è stato sdoganato dal grande pubblico, complici i numerosi musicisti che spintonano per suonare con lui-anche su disco come vedremo (tra i primi ci fu Nick Cave)-il settantunenne vecchio bluesman di Oakland ma con base in Europa (Norvegia) non cambia il suo approccio genuino e viscerale alla musica e i rombanti cavalli del motore di un vecchio e amato trattore John Deere che si sentono in apertura dell'hard boogie Down On The Farm, dove pare trasformarsi nel quarto ZZ Top, vogliono marchiare il concetto, unitamente al testo che non ammette troppe repliche: " Amo l'odore dei negozi di forniture agricole/ un misto di semi, tute da lavoro, olio e tanto altro/ Puoi prendere una nuova pala e un nuovo rastrello/ prendere la tua motosega affilata/ Ma devi attendere/ Sono in pausa Caffè". Sembra quasi di vederlo, come un "maturo" ragazzo di campagna in trasferta in città, mentre esce dal negozio e si dirige verso il trattore parcheggiato con i nuovi acquisti in spalla, così come in Home dipinge i suoi amori con ingenua innocenza (due vecchi trattori gialli e verdi, un anziano cane, e un' arrugginita Chevy 51), aiutato dalla chitarra sudista di Luther Dickinson.
Registrato a Nashville, Hupcap Music -titolo dedicato ad una delle mitiche chitarre che si costruisce con meticolosa cura artigianale, quella ricavata dal manico di una zappa in disuso e due vecchi coprimozzi di ruota (vedi copertina ed esilarante video)-continua a rotolare nella vecchia, semplice, rustica e incontaminata strada del blues (anche se dice di amare più il rock'n'roll), come lo stesso Seasick Steve preme a sottolineare, ribadendo che per la realizzazione del disco non sono stati utilizzati moderni computers ma solo un vetusto nastro analogico. In fondo, caro vecchio Steve non era nemmeno necessario segnalarcelo. Ti crediamo, anche se qualche limata a certe ruvidezze e maggior pulizia sono state apportate: il confidenziale country a due voci di Purple Shadows insieme alla splendida Elizabeth Cook con le pedal steel evocative di Fats Kaplin a creare scenografia e la finale Coast Is Clear, un numero soul/r&b condotto con voce da astuto crooner alla Joe Cocker con tanto di sezione fiati e hammond a condurre il gioco, sono lì a dimostrarcelo e...stupirci anche un po'.
Per il resto, Seasick Steve, a capo basso, un logoro baseball cap calato in testa, camicia a quadri con maniche arrotolate, jeans sdruciti e scarpe grosse, ci regala quello che ci aspettiamo da lui: blues a tutta full band, ora vitaminico (in maggiore quantità rispetto al precedente You Can't Teach An Old Dog New Tricks -2011) quasi volesse mascherare la sua reale età facendo a cazzotti con il diavolo, come nell' autobiografico boogie Self Sufficient Man, nel talkin' blues scatenato di Keep On Keepin' On suonato con la Cigar box guitar, nella pesante e cadenzata The Way I Do dove compare magicamente l'inconfondibile chitarra di Jack White, in Heavy Weight, nella marcia per la libertà Freedom Road; oppure sedendosi comodamente su un vecchio sedile d'auto abbandonato nel mezzo di un campo arato, gambe incrociate, chitarra folkie, mandolino, ukulele (Over You, la speranzosa Hope) e un tramonto rosso che chiama l'oscurità all'orizzonte.
Ad aiutarlo, l'inseparabile compagno di bevute Dan Magnusson alla batteria e l'altrettanto sempre presente John Paul Jones (Led Zeppelin) al basso, voce, hammond, ukulele e mandolino, che evidentemente deve averci preso gusto nel suonare sui palchi di campagna attorniato da galline dopo una carriera da venerata (ma defilata) rockstar.
I giorni passati sui campi saranno pur sempre uguali a se stessi, sette su sette. Però, vuoi mettere?
vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-You Can't Teach An Old Dog New Tricks (2011)
vedi anche RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON 'S BIG DAMN BAND-Between The Ditches (2012)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & The HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
venerdì 26 aprile 2013
RECENSIONE: CLUTCH (Earth Rocker)
CLUTCH Earth Rocker ( Weathermaker Music , 2013)
Quando si scrive Clutch, si legge spesso "sottovalutati". Triste ma vero, provare per credere. Per una band che da anni continua a sfornare dischi di altissimo livello dando risalto solo ed esclusivamente alla musica, lasciando in un angolo polveroso l'aspetto più epidermico del music business a favore del lato sudicio, fangoso e spontaneo, ben rappresentato dal look trasandato del barbuto e bizzarro cantante Neil Fallon, il tutto può anche rappresentare un valore aggiunto e di distinzione. Una presa di distanza da tutto quello che ha poco a che vedere con la musica e nell'iniziale Earth Rocker, Fallon lo ribadisce, indossando una delle sue tante voci, con proclami recitati con l'ugola da orco cattivo. Dalle parti di Germantown nel Maryland hanno sempre dato importanza a strumenti e amplificatori, e Earth Rocker non si sposta di una virgola dal terroso humus da cui nascono le loro canzoni e da dove sono spuntati e cresciuti i loro devoti fan, soprattutto in patria. E' sempre stato difficile etichettare la loro proposta: si è spesso scomodato lo stoner rock, ma un semplice e vetusto termine come "rock blues" lo trovo meno limitante e più aperto a contenere le numerose radici musicali che riescono a seminare con disordinata cura ma anche a strappare con forza bruta quando necessario. Si ascolti l'hard boogie ad alto testosterone di Cyborg Bette, con la sezione ritmica (Dan Maines al basso e Jean-Paul Gaster alla batteria) che scalcia sederi a ripetizione per farsi largo o il veloce attacco di belligerante punk' n' roll di Unto The Breach, quasi motorheadiana nella sua urgenza. Non un caso fortuito che proprio con i Motorhead (e Thin Lizzy) hanno diviso i palchi ultimamente.
Sempre fuori moda ma eternamente sempre sul pezzo. Veri, sia quando seguono le strade del blues, quello lento, gelido, nero e fumoso di Gone Cold con la voce di Fallon che sembra entrarti nell'anima e strapparti il cuore con spietata freddezza; quello hard, caldo, più feroce con tanto di armonica di DC Sound Attack!; e il lato psichedelico ben presente e contaminante in Oh Isabella, solidale e a pari passo con i possenti riff che la sorreggono.
Complessivamente, tutto l'album preferisce la fase di attacco. Uno dei loro album (il decimo) più aggressivi in carriera. Heavy e spietati in Crucial Velocity, pieni di groove nella cadenzata pesantezza di The Face, tambureggianti nell'inizio di Book, Saddle & Go che precede un hard blues che pare nascere dai tizzoni (h)ardenti del fuoco hendrixiano con il chitarrista Tim Sult grande protagonista, così come nella pesante The Wolf Man Kindly Request...con il suo veloce, fuzzy e rutilante break centrale a ricordare quanto i Clutch siano una jam band nata per stare sopra i palchi, e Earth Rocker non aspetta altro che sprigionare ulteriore forza in viaggio sulle strade.
vedi anche RECENSIONE: HOGJAW- Sons Of The Western SkIes (2012)
vedi anche RECENSIONE: SUICIDAL TENDENCIES-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In my Blood (2013)
Quando si scrive Clutch, si legge spesso "sottovalutati". Triste ma vero, provare per credere. Per una band che da anni continua a sfornare dischi di altissimo livello dando risalto solo ed esclusivamente alla musica, lasciando in un angolo polveroso l'aspetto più epidermico del music business a favore del lato sudicio, fangoso e spontaneo, ben rappresentato dal look trasandato del barbuto e bizzarro cantante Neil Fallon, il tutto può anche rappresentare un valore aggiunto e di distinzione. Una presa di distanza da tutto quello che ha poco a che vedere con la musica e nell'iniziale Earth Rocker, Fallon lo ribadisce, indossando una delle sue tante voci, con proclami recitati con l'ugola da orco cattivo. Dalle parti di Germantown nel Maryland hanno sempre dato importanza a strumenti e amplificatori, e Earth Rocker non si sposta di una virgola dal terroso humus da cui nascono le loro canzoni e da dove sono spuntati e cresciuti i loro devoti fan, soprattutto in patria. E' sempre stato difficile etichettare la loro proposta: si è spesso scomodato lo stoner rock, ma un semplice e vetusto termine come "rock blues" lo trovo meno limitante e più aperto a contenere le numerose radici musicali che riescono a seminare con disordinata cura ma anche a strappare con forza bruta quando necessario. Si ascolti l'hard boogie ad alto testosterone di Cyborg Bette, con la sezione ritmica (Dan Maines al basso e Jean-Paul Gaster alla batteria) che scalcia sederi a ripetizione per farsi largo o il veloce attacco di belligerante punk' n' roll di Unto The Breach, quasi motorheadiana nella sua urgenza. Non un caso fortuito che proprio con i Motorhead (e Thin Lizzy) hanno diviso i palchi ultimamente.
Sempre fuori moda ma eternamente sempre sul pezzo. Veri, sia quando seguono le strade del blues, quello lento, gelido, nero e fumoso di Gone Cold con la voce di Fallon che sembra entrarti nell'anima e strapparti il cuore con spietata freddezza; quello hard, caldo, più feroce con tanto di armonica di DC Sound Attack!; e il lato psichedelico ben presente e contaminante in Oh Isabella, solidale e a pari passo con i possenti riff che la sorreggono.
Complessivamente, tutto l'album preferisce la fase di attacco. Uno dei loro album (il decimo) più aggressivi in carriera. Heavy e spietati in Crucial Velocity, pieni di groove nella cadenzata pesantezza di The Face, tambureggianti nell'inizio di Book, Saddle & Go che precede un hard blues che pare nascere dai tizzoni (h)ardenti del fuoco hendrixiano con il chitarrista Tim Sult grande protagonista, così come nella pesante The Wolf Man Kindly Request...con il suo veloce, fuzzy e rutilante break centrale a ricordare quanto i Clutch siano una jam band nata per stare sopra i palchi, e Earth Rocker non aspetta altro che sprigionare ulteriore forza in viaggio sulle strade.
vedi anche RECENSIONE: HOGJAW- Sons Of The Western SkIes (2012)
vedi anche RECENSIONE: SUICIDAL TENDENCIES-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In my Blood (2013)
martedì 23 aprile 2013
RECENSIONE:THOM CHACON (Thom Cachon)
THOM CHACON Thom Chacon ( Pie Records, 2013)
Se cercate novità rivoluzionarie in campo musicale dalle canzoni di Thom Cachon, statene pure alla larga. Se invece amate la continuità di quel suono folk/rock americano, ombroso e ridotto all'osso, raccolto sotto l'ormai onnipresente termine Americana, che partendo da Dylan, tocca John Prine, arriva a Steve Earle, John Mellencamp, allo Springsteen acustico e minimalista, fino ai giorni nostri ben rappresentati dai defilati Chris Knight e Hayes Carll e dal più celebrato Ryan Bingham di Junky Star, allora sì, un ascolto al terzo disco di questo ragazzo nato a Sacramento, ma proveniente dalle montagne di Durango, Colorado, potete anche darlo. Ma anche le ombre di songwriters di frontiera come Joe Ely e Tom Russell affiorano tra le note di sole, sabbia, acqua, fuga, libertà, banditi e stelle luminose di Bus Drivin' Blues e Juarez, Mexico. "Riesco a vedere attraverso la frontiera fino a El Paso/posso sentire la musica risuonare/la gente che ride nella notte/dove mi trovo è buio/E il fiume rosso scorre/sono bloccato qui a Juarez, Messico/Questa notte starò vicino all'acqua/dormirò con un occhio chiuso e il mio dito sul grilletto e l'altro intorno ad una rosa/ho dei progetti per noi per lasciare questo posto".
Se poi, per voi, tutto quello che tocca Dylan, anche indirettamente, è oro che luccica, sappiate che sul terzo disco di Thom Chacon ci suona anche la sezione ritmica che accompagna il "vecchio" Bob nel suo Never Ending Tour, ossia gli inossidabili Tony Garnier al basso e George Recile alla batteria, a cui si aggiunge Arlan Schierbaum (John Hiatt, Joe Bonamassa, Richie Kotzen) alle tastiere. Senza dimenticare il suo DNA (metà libanese e metà messicano) e la parentela con il pugile Bobby Chacon, che ispirò il suo precedente disco assai più "rockista" Featherweight Fighter, nonchè avversario di quel Ray "Boom Boom" Mancini cantato da Warren Zevon.
Le prime coordinate sono queste, al resto ci pensano una voce adulta, vissuta, spezzata e profonda, ben caratterizzante e canzoni che in alcuni casi riescono a stenderti al primo ascolto come il singolo American Dream ha fatto con me fin da subito. Una canzone che si lascia ascoltare in continuazione pur nella sua esigua durata e sconcertante semplicità melodica che supera di poco i due minuti. A conquistarmi è il suono acustico, secco, asciutto, senza fronzoli, solo chitarra, drum and bass che mi riporta all'urgenza dylaniana di un album come John Wesley Harding. Rievocazione di antichi fantasmi che Chacon deve aver incontrato e ascoltato all'infinito, riuscendo a a metabolizzare, e facendone il verso in modo magistrale, aggiungendoci buona e sana freschezza compositiva. E non importa se i suoi testi hanno poco da spartire con le complicate parabole bibliche che costruivano quel lontano capolavoro del 1967, mentre lui parla dell'ennesima delusione di un sogno americano che di avverarsi ha sempre poca voglia e preferirebbe vederti morto piuttosto che vivo. I fantasmi "buoni" del passato, di nero vestiti, che ha inseguito anche suonando alla Folsom Prison, ad inizio carriera, cercando, trovandolo, un battesimo che desse forza e coordinate sane e giuste alla sua futura carriera. "Un'esperienza che mi ha cambiato la vita" dice.
Poca luce nelle sue canzoni, a rispecchiare fedelmente questi hard times. Ritratti poetici, scuri, dolenti, con l'occhio che ogni tanto si allunga verso la disperazione, nella ricerca della redenzione come succede in Innocent Man (vera storia del condannato "innocente" Anthony Graves) e A Life Beyond Here, elettro-acustici sorretti da chitarra e armonica.
Quando i tempi duri sono falsi consiglieri, ci si aggrappa a tutto: e si cade nei più facili degli abissi in cui l'uomo può scivolare, "ho perso gli amici/e anche tutto il denaro se ne andato/sto male, ho i brividi di freddo/non voglio niente di più che trascorrere tutto il tempo con te/Alcohol" in Alcohol, oppure si puntano gli occhi al cielo e si prega "quando sei giù è difficile vedere una luna scura splendere tra gli alberi...lo so che è difficile/sei sconsolato e sfregiato/lo so che sei debole/ma con Dio dalla tua parte puoi riuscirci/più nessun problema e nessuna paura" canta nella scarna essenzialità acustica di No More Trouble.
Thom Chacon è un innovatore della continuità. Suoni roots che non cercano i colpi ad effetto, buon seguace di tradizioni solide, dure a morire e megafono mai troppo invasivo ma sempre acceso per dar voce agli ultimi (Grant Country Side), quelli che cercano ancora le risposte tra le acque del grande fiume (Big River con Bess Chacon) e il vento che soffia in superficie, scompigliando i capelli dell'America più profonda e nascosta.
vedi anche RECENSIONE: CHRIS KNIGHT-Little Victories (2012)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)
Se cercate novità rivoluzionarie in campo musicale dalle canzoni di Thom Cachon, statene pure alla larga. Se invece amate la continuità di quel suono folk/rock americano, ombroso e ridotto all'osso, raccolto sotto l'ormai onnipresente termine Americana, che partendo da Dylan, tocca John Prine, arriva a Steve Earle, John Mellencamp, allo Springsteen acustico e minimalista, fino ai giorni nostri ben rappresentati dai defilati Chris Knight e Hayes Carll e dal più celebrato Ryan Bingham di Junky Star, allora sì, un ascolto al terzo disco di questo ragazzo nato a Sacramento, ma proveniente dalle montagne di Durango, Colorado, potete anche darlo. Ma anche le ombre di songwriters di frontiera come Joe Ely e Tom Russell affiorano tra le note di sole, sabbia, acqua, fuga, libertà, banditi e stelle luminose di Bus Drivin' Blues e Juarez, Mexico. "Riesco a vedere attraverso la frontiera fino a El Paso/posso sentire la musica risuonare/la gente che ride nella notte/dove mi trovo è buio/E il fiume rosso scorre/sono bloccato qui a Juarez, Messico/Questa notte starò vicino all'acqua/dormirò con un occhio chiuso e il mio dito sul grilletto e l'altro intorno ad una rosa/ho dei progetti per noi per lasciare questo posto".
Se poi, per voi, tutto quello che tocca Dylan, anche indirettamente, è oro che luccica, sappiate che sul terzo disco di Thom Chacon ci suona anche la sezione ritmica che accompagna il "vecchio" Bob nel suo Never Ending Tour, ossia gli inossidabili Tony Garnier al basso e George Recile alla batteria, a cui si aggiunge Arlan Schierbaum (John Hiatt, Joe Bonamassa, Richie Kotzen) alle tastiere. Senza dimenticare il suo DNA (metà libanese e metà messicano) e la parentela con il pugile Bobby Chacon, che ispirò il suo precedente disco assai più "rockista" Featherweight Fighter, nonchè avversario di quel Ray "Boom Boom" Mancini cantato da Warren Zevon.
Le prime coordinate sono queste, al resto ci pensano una voce adulta, vissuta, spezzata e profonda, ben caratterizzante e canzoni che in alcuni casi riescono a stenderti al primo ascolto come il singolo American Dream ha fatto con me fin da subito. Una canzone che si lascia ascoltare in continuazione pur nella sua esigua durata e sconcertante semplicità melodica che supera di poco i due minuti. A conquistarmi è il suono acustico, secco, asciutto, senza fronzoli, solo chitarra, drum and bass che mi riporta all'urgenza dylaniana di un album come John Wesley Harding. Rievocazione di antichi fantasmi che Chacon deve aver incontrato e ascoltato all'infinito, riuscendo a a metabolizzare, e facendone il verso in modo magistrale, aggiungendoci buona e sana freschezza compositiva. E non importa se i suoi testi hanno poco da spartire con le complicate parabole bibliche che costruivano quel lontano capolavoro del 1967, mentre lui parla dell'ennesima delusione di un sogno americano che di avverarsi ha sempre poca voglia e preferirebbe vederti morto piuttosto che vivo. I fantasmi "buoni" del passato, di nero vestiti, che ha inseguito anche suonando alla Folsom Prison, ad inizio carriera, cercando, trovandolo, un battesimo che desse forza e coordinate sane e giuste alla sua futura carriera. "Un'esperienza che mi ha cambiato la vita" dice.
Poca luce nelle sue canzoni, a rispecchiare fedelmente questi hard times. Ritratti poetici, scuri, dolenti, con l'occhio che ogni tanto si allunga verso la disperazione, nella ricerca della redenzione come succede in Innocent Man (vera storia del condannato "innocente" Anthony Graves) e A Life Beyond Here, elettro-acustici sorretti da chitarra e armonica.
Quando i tempi duri sono falsi consiglieri, ci si aggrappa a tutto: e si cade nei più facili degli abissi in cui l'uomo può scivolare, "ho perso gli amici/e anche tutto il denaro se ne andato/sto male, ho i brividi di freddo/non voglio niente di più che trascorrere tutto il tempo con te/Alcohol" in Alcohol, oppure si puntano gli occhi al cielo e si prega "quando sei giù è difficile vedere una luna scura splendere tra gli alberi...lo so che è difficile/sei sconsolato e sfregiato/lo so che sei debole/ma con Dio dalla tua parte puoi riuscirci/più nessun problema e nessuna paura" canta nella scarna essenzialità acustica di No More Trouble.
Thom Chacon è un innovatore della continuità. Suoni roots che non cercano i colpi ad effetto, buon seguace di tradizioni solide, dure a morire e megafono mai troppo invasivo ma sempre acceso per dar voce agli ultimi (Grant Country Side), quelli che cercano ancora le risposte tra le acque del grande fiume (Big River con Bess Chacon) e il vento che soffia in superficie, scompigliando i capelli dell'America più profonda e nascosta.
vedi anche RECENSIONE: CHRIS KNIGHT-Little Victories (2012)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)
venerdì 19 aprile 2013
RECENSIONE:STEVE EARLE & THE DUKES ( & DUCHESSES ) (The Low Highway)
STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES) The Low Highway ( New West Records, 2013)
"C'è qualcosa di strano quando una persona guida la macchina mentre tutti gli altri sognano con le loro vite affidate alla sua mano ferma, qualcosa di nobile, qualcosa di antico nella sua umanità, una sorta di antica fiducia nel Buon Vecchio Amico." Jack Kerouac
Lasciamoci tranquillamente guidare da un "autista della vita" come Steve Earle, che conosce la strada molto bene, anche se in passato ha sbandato, rischiando di andare fuori carreggiata e compromettere il viaggio fin troppo in fretta. Ma proprio gli incidenti di percorso lo rendono, oggi, consapevole e affidabile. Un saggio dalla lunga barba ascetica e cappellaccio calato in testa di cui fidarsi ad occhi chiusi e orecchie sempre aperte. Il Buon Vecchio Amico che cerchiamo, in grado di raccontare storie che ti rivoltano la pelle, ti fanno pensare, ma anche sognare. Consapevolezza del proprio passato e degli errori fatti che sembra uscire dalle liriche della confessionale Pocket Full Of Rain, adagiate su un tappeto di pianoforte che accompagna un lento boogie da fine serata sonnolenta con un sussulto improvviso a darti la sveglia. "Mi ricordo ancora quando ero solito uccidere il dolore, ma mi svegliavo ogni mattina con una manciata di pioggia".
Il quindicesimo album di Steve Earle non delude anche se sai già cosa ti aspetta, perchè, in fondo le strade sono sempre quelle, magari percorse centinaia di volte ma con il fascino sempre intatto della prima volta. "Ho percorso ogni singola strada che attraversa gli Stati Uniti e non mi sono mai stancato dello spettacolo. Ho visto un bel po' di mondo e il mio passaporto consumato è una delle cose più preziose che ho, ma per me, non c'è niente come la prima notte di un viaggio nel Nord America", racconta Earle nella presentazione del disco che inaugura il libretto.
L'ultima uscita discografica I'll Never Get Out Of This World Alive (2011) parlava di viaggi molto più tristi e ultraterreni, segnata profondamente dalla perdita del padre e dalla placida uniformità musicale di fondo. Questa volta le scorribande puzzano di copertoni fumanti su asfalto bollente, gasolio perso lungo la strada, paesaggi fantasmi, emarginazione sociale e fantasmi in carne ed ossa a bordo strada, ricordi immaturi di una infanzia trascorsa tra la middle class americana (Burnin' It Down, quasi cajun con la contagiosa fisarmonica), e un tenerissimo passaggio di consegne alle future generazioni quello cantato in compagnia di una spoglia chitarra folk che ricama sopra alla steel guitar nella conclusiva Remember Me. Il tutto accompagnato da tiepido cibo americano a sfamare durante le soste, e spalmato su una maggiore varietà musicale.
"Tutti quanti, band e compagnia al completo, ammassati in macchina, mangiando il pollo piccante di Nashville e il formaggio al peperoncino fatto in casa di Betty Herbert, raccontandosi sempre le stesse vecchie storie ad alta voce per via del continuo sferragliare e ronzare delle auto sulla strada. E sono sempre io il primo a dire buonanotte all'autista Charlie Quick e a rinchiudermi in cuccetta. Perché per me è come la notte della vigilia quando ancora credevo a Babbo Natale. Dio, come amo tutto questo".
Potrebbero bastare le parole di Earle a presentazione del disco per dipingere il quadro sincero e veritiero (compreso un sentito ringraziamento ai suoi fan) su cui si posano queste nuove 12 canzoni che riportano il nome dei Dukes in copertina ( Chris Masterson alle chitarre, Kelley Looney al basso, Will Rigby alla batteria). Ma non solo, questa volta ci sono anche le Duchesses a simboleggiare una nutrita rappresentanza femminile: la moglie Allison Moorer al piano, Eleanor Whitmore al violino, e Siobham Kennedy, moglie del produttore Roy Kennedy ai cori, a cui aggiungerei Lucia Micarelli, coautrice della evocativa After Mardi Gras e di Love's Gonna Blow My Way, canzoni che hanno già fatto la loro comparsa nella serie televisiva americana Treme, ambientata nella New Orleans post Katrina. Sorte che toccò anche a This City del precedente disco. Steve non dimentica.
Bellezza dei paesaggi americani che entra da un finestrino ed esce dall'altro, contrapposta alle comparse solitarie senza un tetto, quasi "invisibili" ma che, con la forza della dignità, popolano i vicoli abbandonati dalla grazia di Dio di ogni città americana. Una passeggiata salvifica."C'e un buco nella mia scarpa, ma non mi dispiace perchè mi tiene collegato alla terra..." canta appena attacca Invisible, cristallino esempio della vitalità ancora presente nella sua scrittura.
La stessa sorte nella placidità country/folk di The Low Highway, posta in apertura, con voce aspra, una chitarra acustica, steel guitar e violino a raccontare di paesaggi diventati spettrali; chitarra che diventa tagliente, elettrica, rock ed incisiva quando i Dukes entrano prepotentemente in scena nella circolare Calico County o nella presa di coscienza sui mali del secolo in corso in 21st Century Blues, quasi springsteeniana (post 11 Settembre) nel suo incedere."Non è il futuro che Kennedy mi aveva promesso nel ventunesimo secolo".
Musicalmente vario, pesca a piene mani nell'abbondante sacca della sua carriera, ritrovando un trascinante violino che guida il bluegrass affogato irish della corta Warren Hellman's Banjo, lo swing old style di Love's Gonna Blow My Way, il country di Down The Road Pt.II, le atmosfere zydeco di frontiera in That All You Got?, in duetto con la moglie e una fisarmonica che invita al ballo.
The Low Highway è pieno di vita, nato sulle strade, durante quei rituali sempre uguali ma costantemente adrenalinici, immersi in quegli odori che i chilometri di strada sventagliano a più riprese, tutte cose che Earle conosce a memoria fin dai suoi primi passi musicali segnati dai continui spostamenti in cerca dell'ispirazione giovanile, della buona sorte, dei suoi miti giovanili: San Antonio, poi Houston, Nashville, ora New Orleans, tappe che oggi ripercorre con spirito diverso, coscenzioso, portando in giro le canzoni durante i tour. Ora che è un punto di riferimento per tutte le nuove generazioni di musicisti americani, non ha più nulla da cercare ma tutto da insegnare...e che lezione! L'ennesima. Guida Steve, guida, tieni forte il volante!
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive (2011)
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorroland (2012)
vedi anche ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
"C'è qualcosa di strano quando una persona guida la macchina mentre tutti gli altri sognano con le loro vite affidate alla sua mano ferma, qualcosa di nobile, qualcosa di antico nella sua umanità, una sorta di antica fiducia nel Buon Vecchio Amico." Jack Kerouac
Lasciamoci tranquillamente guidare da un "autista della vita" come Steve Earle, che conosce la strada molto bene, anche se in passato ha sbandato, rischiando di andare fuori carreggiata e compromettere il viaggio fin troppo in fretta. Ma proprio gli incidenti di percorso lo rendono, oggi, consapevole e affidabile. Un saggio dalla lunga barba ascetica e cappellaccio calato in testa di cui fidarsi ad occhi chiusi e orecchie sempre aperte. Il Buon Vecchio Amico che cerchiamo, in grado di raccontare storie che ti rivoltano la pelle, ti fanno pensare, ma anche sognare. Consapevolezza del proprio passato e degli errori fatti che sembra uscire dalle liriche della confessionale Pocket Full Of Rain, adagiate su un tappeto di pianoforte che accompagna un lento boogie da fine serata sonnolenta con un sussulto improvviso a darti la sveglia. "Mi ricordo ancora quando ero solito uccidere il dolore, ma mi svegliavo ogni mattina con una manciata di pioggia".
Il quindicesimo album di Steve Earle non delude anche se sai già cosa ti aspetta, perchè, in fondo le strade sono sempre quelle, magari percorse centinaia di volte ma con il fascino sempre intatto della prima volta. "Ho percorso ogni singola strada che attraversa gli Stati Uniti e non mi sono mai stancato dello spettacolo. Ho visto un bel po' di mondo e il mio passaporto consumato è una delle cose più preziose che ho, ma per me, non c'è niente come la prima notte di un viaggio nel Nord America", racconta Earle nella presentazione del disco che inaugura il libretto.
L'ultima uscita discografica I'll Never Get Out Of This World Alive (2011) parlava di viaggi molto più tristi e ultraterreni, segnata profondamente dalla perdita del padre e dalla placida uniformità musicale di fondo. Questa volta le scorribande puzzano di copertoni fumanti su asfalto bollente, gasolio perso lungo la strada, paesaggi fantasmi, emarginazione sociale e fantasmi in carne ed ossa a bordo strada, ricordi immaturi di una infanzia trascorsa tra la middle class americana (Burnin' It Down, quasi cajun con la contagiosa fisarmonica), e un tenerissimo passaggio di consegne alle future generazioni quello cantato in compagnia di una spoglia chitarra folk che ricama sopra alla steel guitar nella conclusiva Remember Me. Il tutto accompagnato da tiepido cibo americano a sfamare durante le soste, e spalmato su una maggiore varietà musicale.
"Tutti quanti, band e compagnia al completo, ammassati in macchina, mangiando il pollo piccante di Nashville e il formaggio al peperoncino fatto in casa di Betty Herbert, raccontandosi sempre le stesse vecchie storie ad alta voce per via del continuo sferragliare e ronzare delle auto sulla strada. E sono sempre io il primo a dire buonanotte all'autista Charlie Quick e a rinchiudermi in cuccetta. Perché per me è come la notte della vigilia quando ancora credevo a Babbo Natale. Dio, come amo tutto questo".
Potrebbero bastare le parole di Earle a presentazione del disco per dipingere il quadro sincero e veritiero (compreso un sentito ringraziamento ai suoi fan) su cui si posano queste nuove 12 canzoni che riportano il nome dei Dukes in copertina ( Chris Masterson alle chitarre, Kelley Looney al basso, Will Rigby alla batteria). Ma non solo, questa volta ci sono anche le Duchesses a simboleggiare una nutrita rappresentanza femminile: la moglie Allison Moorer al piano, Eleanor Whitmore al violino, e Siobham Kennedy, moglie del produttore Roy Kennedy ai cori, a cui aggiungerei Lucia Micarelli, coautrice della evocativa After Mardi Gras e di Love's Gonna Blow My Way, canzoni che hanno già fatto la loro comparsa nella serie televisiva americana Treme, ambientata nella New Orleans post Katrina. Sorte che toccò anche a This City del precedente disco. Steve non dimentica.
Bellezza dei paesaggi americani che entra da un finestrino ed esce dall'altro, contrapposta alle comparse solitarie senza un tetto, quasi "invisibili" ma che, con la forza della dignità, popolano i vicoli abbandonati dalla grazia di Dio di ogni città americana. Una passeggiata salvifica."C'e un buco nella mia scarpa, ma non mi dispiace perchè mi tiene collegato alla terra..." canta appena attacca Invisible, cristallino esempio della vitalità ancora presente nella sua scrittura.
La stessa sorte nella placidità country/folk di The Low Highway, posta in apertura, con voce aspra, una chitarra acustica, steel guitar e violino a raccontare di paesaggi diventati spettrali; chitarra che diventa tagliente, elettrica, rock ed incisiva quando i Dukes entrano prepotentemente in scena nella circolare Calico County o nella presa di coscienza sui mali del secolo in corso in 21st Century Blues, quasi springsteeniana (post 11 Settembre) nel suo incedere."Non è il futuro che Kennedy mi aveva promesso nel ventunesimo secolo".
Musicalmente vario, pesca a piene mani nell'abbondante sacca della sua carriera, ritrovando un trascinante violino che guida il bluegrass affogato irish della corta Warren Hellman's Banjo, lo swing old style di Love's Gonna Blow My Way, il country di Down The Road Pt.II, le atmosfere zydeco di frontiera in That All You Got?, in duetto con la moglie e una fisarmonica che invita al ballo.
The Low Highway è pieno di vita, nato sulle strade, durante quei rituali sempre uguali ma costantemente adrenalinici, immersi in quegli odori che i chilometri di strada sventagliano a più riprese, tutte cose che Earle conosce a memoria fin dai suoi primi passi musicali segnati dai continui spostamenti in cerca dell'ispirazione giovanile, della buona sorte, dei suoi miti giovanili: San Antonio, poi Houston, Nashville, ora New Orleans, tappe che oggi ripercorre con spirito diverso, coscenzioso, portando in giro le canzoni durante i tour. Ora che è un punto di riferimento per tutte le nuove generazioni di musicisti americani, non ha più nulla da cercare ma tutto da insegnare...e che lezione! L'ennesima. Guida Steve, guida, tieni forte il volante!
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive (2011)
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorroland (2012)
vedi anche ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried Man (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
lunedì 15 aprile 2013
RECENSIONE:VOLBEAT ( Outlaw Gentlemen & Shady Ladies)
VOLBEAT Outlaw Gentlemen & Shady Ladies ( Republic Records/Vertigo, 2013)
Non hanno più bisogno di troppe presentazioni: negli ultimi anni, i danesi Volbeat hanno raggiunto una tale popolarità, confermata dalle buone cifre di vendita (l'ultimo Beyond Hell/ Above Heaven ha venduto 750.000 copie, tantissime, di questi tempi), dalle buonissime prestazioni live in giro per il mondo-mi hanno fatto veramente una buona impressione-, dai buoni feedback da parte dei colleghi musicisti, e soprattutto dalla loro originale mistura musicale dove thrash metal, hard rock e punk prendono a braccetto atmosfere western in stile morriconiano, rockabilly '50 e accenni country-di grana grossa-formando canzoni epiche, anthemiche, trascinanti come se Metallica, Misfits e Johhny Cash iniziassero a jammare insieme, a tarda notte, in qualche squallido saloon abbandonato di una sperduta ghost town con la greve, rassicurante e caratterizzante voce del cantante Michael Poulsen a dominare il vecchio microfono che scende dal soffitto. Continuazione e affinamento del lavoro iniziato dai veterani The Waltons (chi se li ricorda?), band tedesca antesignana del cowpunk europeo. Cercate il loro Remain In Rust (1992).
Questa volta però, e mi spiace aggiungere questo "però" vista l'enorme stima che nutro per loro, il disco mi convince a metà, complici sicuramente un fattore sorpresa ormai svanito dopo 5 dischi di studio ma soprattutto alcune scelte melodiche e stucchevoli, da voler essere "piacioni " a tutti i costi, che pur presenti da sempre nel loro suono, sembrano abbondare fuori misura e convincere veramente poco nella loro prevedibilità (Pearl Hat, The Sinner Is You, Cape Of Your Hero), rischiando di far storcere il naso soprattutto a chi li segue dai tempi del debutto nel 2005 o da quello che rimane il loro capolavoro Guitar Gangsters & Cadillac Blood (2008). Sotto al buon messaggio del singolo Cape Of Your Hero si nasconde una canzone musicalmente scontata, senza anima che strizza eccessivamente l'occhio all'airplay radiofonico in cerca di nuovi seguaci tra gli ascoltatori più giovani e distratti. La cover di My Body dei Young The Giant, buon successo commerciale dello scorso anno sembra confermare la tesi e rafforzare i timidi segnali di alleggerimento provenienti già dal precedente disco. Ma i Volbeat che abbiamo sempre conosciuto dove sono finiti? Fortunatamente ci sono ancora.
Allora meglio quando toccano gli estremi della loro musica. Da una parte, il lato hard/metal come il thrash tout court di Dead But Rising, The Hangman's Body Count, la velocissima Black Bart e i suoi cambi di tempo, o meglio ancora in Room 24, vero masterpiece del disco: oscura, sinistra, dall'intro sabbathiano e dall'incedere sulfureo alla Mercyful Fate che può vantare il malefico connazionale King Diamond e la sua incredibile "doppia" voce pienamente calata nella parte. Canzone che vale sicuramente l'acquisto del disco.
L'altro estremo conferma una spiccata vena narrativa sospesa tra finzione e realtà che esplora il mondo western e alcuni suoi "mitici" personaggi come la focosa e affascinante ballerina Lola Montez, donna dai mille aspetti che il compositore Richard Wagner non esitò a definire "un essere demoniaco" nel tirato rock'n'roll a lei dedicato e nella epica Doc Holliday, fedele al famoso fuorilegge del selvaggio west da cui prese il nome anche la band di southern rock attiva negli anni '70/'80, introdotta da un banjo suonato da Rod Sinclair, e con la voce di Poulsen che si fa sempre più simile a quella di James Hetfield. Una western'n'thrash song ben confezionata e dai chorus sinistri e vincenti.
Ancora: la buona Lonesome Rider, riuscito country/rockabilly con tanto di slide e contabbasso, cantata in coppia con Sarah Blackwood e la finale Our Loved Ones, semi-ballad che farebbe comodo ai Metallica odierni in crisi di canzoni che lascino il segno.
Tra le novità più importanti c'è sicuramente da segnalare l'entrata in formazione di Rob Caggiano (ex chitarrista degli Anthrax) che oltre a portare esperienza e produrre il disco, inizialmente unico suo compito, è diventato il nuovo axe man della band dopo la fuoriuscita di Thomas Bredahl.
Un disco sicuramente piacevole e poliedrico, ben confezionato, che porterà nuovi seguaci alla band danese, ma che, devo essere onesto, per la prima volta non mi convince in toto. In alcuni episodi manca quella naturale spontaneità, presente nei precedenti dischi, che li aveva innalzati sopra al piedistallo riservato alle band più fresche e genuine degli ultimi anni. A volte sembrano viaggiare con il freno a mano tirato, cercando la soluzione più facile e melodica, vittime e schiavi di una formula che si è fatta sempre più accattivante, ma che inizia a ripetersi a scapito di una esplorazione più esaustiva in territori rockabilly/country '50 che molte volte sembrano solo accennati per confermare il loro trademark, senza procedere, perchè no, in uno sviluppo reale, approfondito e concreto, sicuramente nelle loro corde visto lo smisurato amore del cantante Poulsen per certe sonorità. Disco di transizione nella loro discografia o inizio di una nuova era mainstream? Voto 6,5
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
Non hanno più bisogno di troppe presentazioni: negli ultimi anni, i danesi Volbeat hanno raggiunto una tale popolarità, confermata dalle buone cifre di vendita (l'ultimo Beyond Hell/ Above Heaven ha venduto 750.000 copie, tantissime, di questi tempi), dalle buonissime prestazioni live in giro per il mondo-mi hanno fatto veramente una buona impressione-, dai buoni feedback da parte dei colleghi musicisti, e soprattutto dalla loro originale mistura musicale dove thrash metal, hard rock e punk prendono a braccetto atmosfere western in stile morriconiano, rockabilly '50 e accenni country-di grana grossa-formando canzoni epiche, anthemiche, trascinanti come se Metallica, Misfits e Johhny Cash iniziassero a jammare insieme, a tarda notte, in qualche squallido saloon abbandonato di una sperduta ghost town con la greve, rassicurante e caratterizzante voce del cantante Michael Poulsen a dominare il vecchio microfono che scende dal soffitto. Continuazione e affinamento del lavoro iniziato dai veterani The Waltons (chi se li ricorda?), band tedesca antesignana del cowpunk europeo. Cercate il loro Remain In Rust (1992).
Questa volta però, e mi spiace aggiungere questo "però" vista l'enorme stima che nutro per loro, il disco mi convince a metà, complici sicuramente un fattore sorpresa ormai svanito dopo 5 dischi di studio ma soprattutto alcune scelte melodiche e stucchevoli, da voler essere "piacioni " a tutti i costi, che pur presenti da sempre nel loro suono, sembrano abbondare fuori misura e convincere veramente poco nella loro prevedibilità (Pearl Hat, The Sinner Is You, Cape Of Your Hero), rischiando di far storcere il naso soprattutto a chi li segue dai tempi del debutto nel 2005 o da quello che rimane il loro capolavoro Guitar Gangsters & Cadillac Blood (2008). Sotto al buon messaggio del singolo Cape Of Your Hero si nasconde una canzone musicalmente scontata, senza anima che strizza eccessivamente l'occhio all'airplay radiofonico in cerca di nuovi seguaci tra gli ascoltatori più giovani e distratti. La cover di My Body dei Young The Giant, buon successo commerciale dello scorso anno sembra confermare la tesi e rafforzare i timidi segnali di alleggerimento provenienti già dal precedente disco. Ma i Volbeat che abbiamo sempre conosciuto dove sono finiti? Fortunatamente ci sono ancora.
Allora meglio quando toccano gli estremi della loro musica. Da una parte, il lato hard/metal come il thrash tout court di Dead But Rising, The Hangman's Body Count, la velocissima Black Bart e i suoi cambi di tempo, o meglio ancora in Room 24, vero masterpiece del disco: oscura, sinistra, dall'intro sabbathiano e dall'incedere sulfureo alla Mercyful Fate che può vantare il malefico connazionale King Diamond e la sua incredibile "doppia" voce pienamente calata nella parte. Canzone che vale sicuramente l'acquisto del disco.
L'altro estremo conferma una spiccata vena narrativa sospesa tra finzione e realtà che esplora il mondo western e alcuni suoi "mitici" personaggi come la focosa e affascinante ballerina Lola Montez, donna dai mille aspetti che il compositore Richard Wagner non esitò a definire "un essere demoniaco" nel tirato rock'n'roll a lei dedicato e nella epica Doc Holliday, fedele al famoso fuorilegge del selvaggio west da cui prese il nome anche la band di southern rock attiva negli anni '70/'80, introdotta da un banjo suonato da Rod Sinclair, e con la voce di Poulsen che si fa sempre più simile a quella di James Hetfield. Una western'n'thrash song ben confezionata e dai chorus sinistri e vincenti.
Ancora: la buona Lonesome Rider, riuscito country/rockabilly con tanto di slide e contabbasso, cantata in coppia con Sarah Blackwood e la finale Our Loved Ones, semi-ballad che farebbe comodo ai Metallica odierni in crisi di canzoni che lascino il segno.
Tra le novità più importanti c'è sicuramente da segnalare l'entrata in formazione di Rob Caggiano (ex chitarrista degli Anthrax) che oltre a portare esperienza e produrre il disco, inizialmente unico suo compito, è diventato il nuovo axe man della band dopo la fuoriuscita di Thomas Bredahl.
Un disco sicuramente piacevole e poliedrico, ben confezionato, che porterà nuovi seguaci alla band danese, ma che, devo essere onesto, per la prima volta non mi convince in toto. In alcuni episodi manca quella naturale spontaneità, presente nei precedenti dischi, che li aveva innalzati sopra al piedistallo riservato alle band più fresche e genuine degli ultimi anni. A volte sembrano viaggiare con il freno a mano tirato, cercando la soluzione più facile e melodica, vittime e schiavi di una formula che si è fatta sempre più accattivante, ma che inizia a ripetersi a scapito di una esplorazione più esaustiva in territori rockabilly/country '50 che molte volte sembrano solo accennati per confermare il loro trademark, senza procedere, perchè no, in uno sviluppo reale, approfondito e concreto, sicuramente nelle loro corde visto lo smisurato amore del cantante Poulsen per certe sonorità. Disco di transizione nella loro discografia o inizio di una nuova era mainstream? Voto 6,5
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
giovedì 11 aprile 2013
RECENSIONE:TEX MEX (The Best Has Yet To Come)
TEX MEX The Best Has Yet To Come (autoproduzione, 2013)
Appena parte The Swamp, la prima cosa che balza all'orecchio e poi rimbalza all'occhio è "l'apparente" asincronia tra il calore epicamente tambureggiante di una batteria e l'entrata dell 'armonica con la bianca, asettica e anonima copertina con il nome del gruppo stampato quasi fosse il marchio di una azienda meccanica-magari in crisi- del loro estremo nord est. Singolare. Eppure: credo non ci sia miglior colore e sobrietà per rappresentare l'enorme parco cromatico musicale e d' esperienza che il debutto thebesthasyettocome dei triestini Tex Mex riesce a mettere in campo lungo le ardenti 12 canzoni. Altre tipologie di copertina, altri colori sarebbero stati limitanti...e meno sorprendenti.
Pur formatasi solamente nel 2010, la band è un concentrato di esperienza ad altissimi livelli. Nati dalle ceneri dei Blue Roots, trio formato da due esuli W.I.N.D. insieme al bassista e cantante Frank Get (nel suo curriculum un lungo elenco di collaborazioni internazionali come turnista e fonico, più un disco solista Hard Blues-2010), dopo vari cambi di formazione si è arrivati all'assetto odierno che comprende oltre a Frank Get, anche Matteo "Zekka" Zecchini alle chitarre, Marco "Skiantini" Beccari all'armonica e Sandro Bencich alla batteria in sostituzione di Dario "Doppio"Vatovac, batterista presente su gran parte delle tracce ma purtroppo scomparso recentemente a cui il disco è stato giustamente dedicato, in particolar modo la bella e riuscitissima interpretazione acustica della springsteeniana No Surrender, unica cover dell'album e posta in chiusura come ricordo e saluto per un amico che non c'è più. No Surrender è diventata anche un bel video e le parole del suo testo dicono tutto: "Adesso giovani facce diventano tristi e vecchie/e cuori in fiamme si raffreddano/noi giurammo fratelli di sangue contro il vento/sono pronto a ritornare di nuovo giovane/e ascoltare la voce di tua sorella/che ci chiama a casa attraverso i campi aperti/credo che possiamo ritagliarci/un posto tutto nostro/con questa batteria e queste chitarre".
Il disco prende forma sopra i palchi dei loro numerosi concerti e si sente, tanto da essere registrato durante due sessions di studio per non disperdere la vera natura "genuina" del gruppo: tutto l'amore per le jam band '70, dove southern rock, blues e soul (The Secret) si univano, canzoni che non hanno mai la fretta di guardare l'orologio; mentre su disco si fanno bastare cinque minuti, durante i live possono trasformarsi e allungarsi a piacimento senza risentirne.
I sapori sono quelli del sud degli States, quelli delle soluzioni più ardite e anticonvenzionali di gruppi come The Marshall Tucker Band, di band totalitarie e poco etichettabili come i Little Feat, della solidità rock/blues dei Gov't Mule, il calore è dato dalle background vocals femminili ben presenti e avvolgenti (Elisa Bombacigno, Elisa Maiellaro), il ritmo è affidato ad una sezione ritmica pulsante e grintosa (l'hard/blues You Don't Know). A questo punto, dopo aver ascoltato anche gli ultimi lavori dei corregionali W.I.N.D. e Rusted Pearls & The Fancy Free, il dubbio che a Trieste e dintorni ci sia un'aria particolarmente simile a quella che si respira in certi territori americani "di confine", mi assale. "Trieste is rock!" dice qualcuno. Vero. Ne sono ancor più convinto quando partono le chitarre pregne di umori sudisti in Playin' With My Mind, la splendida Straight On che si staglia tra le rocce per poi tuffarsi nelle stesse acque verdi salmastre da dove emergevano i corpi nudi dei fratelli Allman, le atmosfere da saloon "ancora sveglio alle quattro di mattina" nell' honky tonk boogie Hot Aliens Afternoon, buon esercizio per pianoforte da parte del presentissimo Giovanni "Staxx" Vianelli , ma anche le derive cantautorali soul, che ricordano Van Morrison, di Don't Let Me Down e di Good Times, particolarmente vicina anche al John Hiatt più paludosamente soul con il sax di James Thompson ottimamente vivace e ficcante. Tutti colori che, se uniti insieme, formano quel candido bianco della copertina, sinonimo di purezza e passione musicale che all'estremo nord-est della nostra penisola è più presente che mai. Diminueranno le aziende, ma il gioco dell'equazione sembra far aumentare la buona musica.
vedi anche RECENSIONE: RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE-Roadsigns (2012)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.- Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND-Play It Loud! (2013)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
Appena parte The Swamp, la prima cosa che balza all'orecchio e poi rimbalza all'occhio è "l'apparente" asincronia tra il calore epicamente tambureggiante di una batteria e l'entrata dell 'armonica con la bianca, asettica e anonima copertina con il nome del gruppo stampato quasi fosse il marchio di una azienda meccanica-magari in crisi- del loro estremo nord est. Singolare. Eppure: credo non ci sia miglior colore e sobrietà per rappresentare l'enorme parco cromatico musicale e d' esperienza che il debutto thebesthasyettocome dei triestini Tex Mex riesce a mettere in campo lungo le ardenti 12 canzoni. Altre tipologie di copertina, altri colori sarebbero stati limitanti...e meno sorprendenti.
Pur formatasi solamente nel 2010, la band è un concentrato di esperienza ad altissimi livelli. Nati dalle ceneri dei Blue Roots, trio formato da due esuli W.I.N.D. insieme al bassista e cantante Frank Get (nel suo curriculum un lungo elenco di collaborazioni internazionali come turnista e fonico, più un disco solista Hard Blues-2010), dopo vari cambi di formazione si è arrivati all'assetto odierno che comprende oltre a Frank Get, anche Matteo "Zekka" Zecchini alle chitarre, Marco "Skiantini" Beccari all'armonica e Sandro Bencich alla batteria in sostituzione di Dario "Doppio"Vatovac, batterista presente su gran parte delle tracce ma purtroppo scomparso recentemente a cui il disco è stato giustamente dedicato, in particolar modo la bella e riuscitissima interpretazione acustica della springsteeniana No Surrender, unica cover dell'album e posta in chiusura come ricordo e saluto per un amico che non c'è più. No Surrender è diventata anche un bel video e le parole del suo testo dicono tutto: "Adesso giovani facce diventano tristi e vecchie/e cuori in fiamme si raffreddano/noi giurammo fratelli di sangue contro il vento/sono pronto a ritornare di nuovo giovane/e ascoltare la voce di tua sorella/che ci chiama a casa attraverso i campi aperti/credo che possiamo ritagliarci/un posto tutto nostro/con questa batteria e queste chitarre".
Il disco prende forma sopra i palchi dei loro numerosi concerti e si sente, tanto da essere registrato durante due sessions di studio per non disperdere la vera natura "genuina" del gruppo: tutto l'amore per le jam band '70, dove southern rock, blues e soul (The Secret) si univano, canzoni che non hanno mai la fretta di guardare l'orologio; mentre su disco si fanno bastare cinque minuti, durante i live possono trasformarsi e allungarsi a piacimento senza risentirne.
I sapori sono quelli del sud degli States, quelli delle soluzioni più ardite e anticonvenzionali di gruppi come The Marshall Tucker Band, di band totalitarie e poco etichettabili come i Little Feat, della solidità rock/blues dei Gov't Mule, il calore è dato dalle background vocals femminili ben presenti e avvolgenti (Elisa Bombacigno, Elisa Maiellaro), il ritmo è affidato ad una sezione ritmica pulsante e grintosa (l'hard/blues You Don't Know). A questo punto, dopo aver ascoltato anche gli ultimi lavori dei corregionali W.I.N.D. e Rusted Pearls & The Fancy Free, il dubbio che a Trieste e dintorni ci sia un'aria particolarmente simile a quella che si respira in certi territori americani "di confine", mi assale. "Trieste is rock!" dice qualcuno. Vero. Ne sono ancor più convinto quando partono le chitarre pregne di umori sudisti in Playin' With My Mind, la splendida Straight On che si staglia tra le rocce per poi tuffarsi nelle stesse acque verdi salmastre da dove emergevano i corpi nudi dei fratelli Allman, le atmosfere da saloon "ancora sveglio alle quattro di mattina" nell' honky tonk boogie Hot Aliens Afternoon, buon esercizio per pianoforte da parte del presentissimo Giovanni "Staxx" Vianelli , ma anche le derive cantautorali soul, che ricordano Van Morrison, di Don't Let Me Down e di Good Times, particolarmente vicina anche al John Hiatt più paludosamente soul con il sax di James Thompson ottimamente vivace e ficcante. Tutti colori che, se uniti insieme, formano quel candido bianco della copertina, sinonimo di purezza e passione musicale che all'estremo nord-est della nostra penisola è più presente che mai. Diminueranno le aziende, ma il gioco dell'equazione sembra far aumentare la buona musica.
vedi anche RECENSIONE: RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE-Roadsigns (2012)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.- Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND-Play It Loud! (2013)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
lunedì 8 aprile 2013
RECENSIONE:DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS (Whisky In My Blood)
DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS Whisky In My Blood ( Blue North Records, 2013)
Esattamente un anno fa, Dave Arcari mi aveva anticipato le sue future mosse in questa intervista. Il futuro non ha tardato ad arrivare, ed ecco il disco con le canzoni registrate in Finlandia, durante alcune pause dei suoi tour, insieme agli amici finlandesi The Hellsinki Hellraisers ( Juuso Haapasalo alla batteria e Honey Aaltonen al contrabbasso). Collaborazione nata quasi per caso che vede ora i suoi frutti su disco.
Scozzese granitico e simpatico con antiche tracce d'Italia nel sangue, Arcari si conferma personaggio genuino e schietto, in giro da parecchi anni, prima con i Radiotones poi come solista con cinque album nel sacco. Un bluesman diretto e amante del lavoro artigianale che vive ancora la musica con ardore indipendente, lontano da compromessi commerciali ma con trasporto contagioso che, inutile dirlo, tramuta nella sua musica: un misto di blues, rockabilly, country e folk suonato con fervore, voce aspra quasi growl, chitarre slide infuocate-ma non solo- approccio diretto e minimale che in questo disco sembra sfiorare addirittura l'antico skiffle nelle tracce più semplici e acustiche- ma ad alta tensione- come le iniziali Whisky In My Blood e Cherry Wine, due titoli che lasciano poco all'immaginazione e tanto al bicchiere, ai cereali fermentati ivi contenuti, al sangue e alla sua terra "degli immortali".
Il precedente Nobody's Fool (2012) raccoglieva nuove e vecchie canzoni risuonate, quasi un greatest hits, e aveva il prestigioso lasciapassare di un personaggio come Seasick Steve (il suo nuovo album Hubcap Music è in dirittura d'arrivo), amico prodigo di complimenti e consigli con il quale ha diviso anche il palco.
Questo nuovo Whisky In My Blood è stato registrato in presa diretta in Filandia negli Sonic Pump Studios di Helsinki, mixato a Glasgow e masterizzato a Chicago, tanto per rimarcare il carattere giramondo dello scozzese e trasportare al meglio l'ascoltatore dentro ad un suo tipico show fatto di chitarre, sudore e assi del palco tremolanti sotto i colpi dei suoi pesanti stivali. Molte volte affronta il pubblico da solo, questa volta è in buona compagnia.
L'ardore diretto e l'entusiamo quasi punk di queste canzoni escono prepotenti sia quando le sue chitarre incrociano il rockabilly (Tell Me Baby, e la dura quotidianità cantata in Day Job), sia quando "maltratta" un banjo in Third Time Lucky e lo "accarezza" nella minimale e inaspettatamente (quasi) dolce Still Friends, o quando fa uscire la sua anima folkie (Wherever I Go) o Country (Rough Justice), perchè in fondo, per lui, tutto iniziò da lì: "il primo disco che comprai fu una raccolta di Johnny Cash - un doppio album ... dopo aver ascoltato "25 minutes to go", a sette anni, a casa di amici".
Poi c'è l'amato blues, la sua National Steel Guitar incandescente nell'immancabile omaggio malefico e indiavolato a Robert Johnson con Travelling Riverside Blues e Preachin'Blues, al primordiale delta blues di Bukka White (Jitterbug Swing) e le sue composizioni: il blues che sbuffa fumo nero e denso in Heat Is Rising, See Me Laughing e la finale Getta Outta My Way, elettrica, aggressiva, marziale e malata, sulla stessa lunghezza d'onda di Dragonfly che concludeva il precedente disco.
Passione, attitudine cruda, viscerale e diretta non mancano anche questa volta, anzi aumentano. Bravo Dave.
INTERVISTA a DAVE ARCARI
RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)
Esattamente un anno fa, Dave Arcari mi aveva anticipato le sue future mosse in questa intervista. Il futuro non ha tardato ad arrivare, ed ecco il disco con le canzoni registrate in Finlandia, durante alcune pause dei suoi tour, insieme agli amici finlandesi The Hellsinki Hellraisers ( Juuso Haapasalo alla batteria e Honey Aaltonen al contrabbasso). Collaborazione nata quasi per caso che vede ora i suoi frutti su disco.
Scozzese granitico e simpatico con antiche tracce d'Italia nel sangue, Arcari si conferma personaggio genuino e schietto, in giro da parecchi anni, prima con i Radiotones poi come solista con cinque album nel sacco. Un bluesman diretto e amante del lavoro artigianale che vive ancora la musica con ardore indipendente, lontano da compromessi commerciali ma con trasporto contagioso che, inutile dirlo, tramuta nella sua musica: un misto di blues, rockabilly, country e folk suonato con fervore, voce aspra quasi growl, chitarre slide infuocate-ma non solo- approccio diretto e minimale che in questo disco sembra sfiorare addirittura l'antico skiffle nelle tracce più semplici e acustiche- ma ad alta tensione- come le iniziali Whisky In My Blood e Cherry Wine, due titoli che lasciano poco all'immaginazione e tanto al bicchiere, ai cereali fermentati ivi contenuti, al sangue e alla sua terra "degli immortali".
Il precedente Nobody's Fool (2012) raccoglieva nuove e vecchie canzoni risuonate, quasi un greatest hits, e aveva il prestigioso lasciapassare di un personaggio come Seasick Steve (il suo nuovo album Hubcap Music è in dirittura d'arrivo), amico prodigo di complimenti e consigli con il quale ha diviso anche il palco.
Questo nuovo Whisky In My Blood è stato registrato in presa diretta in Filandia negli Sonic Pump Studios di Helsinki, mixato a Glasgow e masterizzato a Chicago, tanto per rimarcare il carattere giramondo dello scozzese e trasportare al meglio l'ascoltatore dentro ad un suo tipico show fatto di chitarre, sudore e assi del palco tremolanti sotto i colpi dei suoi pesanti stivali. Molte volte affronta il pubblico da solo, questa volta è in buona compagnia.
L'ardore diretto e l'entusiamo quasi punk di queste canzoni escono prepotenti sia quando le sue chitarre incrociano il rockabilly (Tell Me Baby, e la dura quotidianità cantata in Day Job), sia quando "maltratta" un banjo in Third Time Lucky e lo "accarezza" nella minimale e inaspettatamente (quasi) dolce Still Friends, o quando fa uscire la sua anima folkie (Wherever I Go) o Country (Rough Justice), perchè in fondo, per lui, tutto iniziò da lì: "il primo disco che comprai fu una raccolta di Johnny Cash - un doppio album ... dopo aver ascoltato "25 minutes to go", a sette anni, a casa di amici".
Poi c'è l'amato blues, la sua National Steel Guitar incandescente nell'immancabile omaggio malefico e indiavolato a Robert Johnson con Travelling Riverside Blues e Preachin'Blues, al primordiale delta blues di Bukka White (Jitterbug Swing) e le sue composizioni: il blues che sbuffa fumo nero e denso in Heat Is Rising, See Me Laughing e la finale Getta Outta My Way, elettrica, aggressiva, marziale e malata, sulla stessa lunghezza d'onda di Dragonfly che concludeva il precedente disco.
Passione, attitudine cruda, viscerale e diretta non mancano anche questa volta, anzi aumentano. Bravo Dave.
INTERVISTA a DAVE ARCARI
RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)
venerdì 5 aprile 2013
RECENSIONE: SUICIDAL TENDENCIES (13)
SUICIDAL TENDENCIES 13 ( Suicidal Records, 2013)
A giugno uscirà dall'urna un altro 13 molto atteso, quello che i fan dei Black Sabbath attendono sulla ruota del rock da circa 35 anni. Nel frattempo ci si può accontentare dello "Chinese Democracy" dei Suicidal Tendencies. Un disco che ha attraversato una via crucis lunga tredici anni, fatta di tanti annunci d'uscita lanciati a scadenza regolare ma sempre disattesi come tappe di un pellegrinaggio senza una fine. Pur continuando assiduamente l'attività live, bisogna risalire al 2000 per trovare l'ultimo disco di studio di Mike Muir e soci, il poco riuscito e stanco Free Your Soul And Save My Mind. Sarebbe stato poco glorioso per una band di guerrieri, porre fine ad una carriera con l'episodio più debole di una discografia che li ha visti tra gli antesignani del "crossover" hardcore/thrash (ma non solo) nei primissimi anni ottanta ( Suicidal Tendencies -1983 è album buono e fondamentale per la scena e la musica tutta), per poi gettarsi nelle più affollate maglie del thrash metal, uscendone comunque a testa alta grazie ai testi al vetriolo di Muir, la carica live e alla fantasia di una sezione ritmica piena di groove funky, meglio sviluppata nei progetti collaterali Infectious Grooves e Cyco Mico.
Join The Army (1987), How Will I Laugh...(1988), Lights...Camera...Revolution!(1990) e The Art Of Rebellion (1992) sono tutti dischi che continuano ad acquistare valore storico con il tempo.
Eppure, la fama, come un skate senza una ruota lanciato sui marciapiedi di Venice Beach, non ha mai superato pienamente il muro dell'underground e della devozione totalitaria dei fan suicycos, vera famiglia degna delle migliori e pericolose gang losangeline. Sottovalutati o mai capiti? La loro forza è diventata anche il principale ostacolo: troppo punk per i metalheads, troppo metal per i punkers. Troppo Funk per tutti. Prerogativa dei grandi, quelli poco allineati.
Non fosse per la musica, un personaggio come Mike Muir, tutto canotta, calzettoni, bandana e skate, meriterebbe un posto tra le personalità più influenti e carismatiche della scena crossover '80/'90. Intorno a lui, tutto anima,cuore e invettive, è sempre ruotata la line up, rifondata totalmente dopo che lo storico chitarrista Mike Clark ha abbandonato la nave nel 2012. Ecco che accanto a Muir, ora troviamo il chitarrista Dean Pleasants ormai diventato il secondo veterano, ed i novelli Nico Santora alla chitarra, Eric Moore alla batteria e Tim Williams al basso.
,La lancetta dell'orologio ritorna indietro di almeno vent'anni appena parte la chiamata alle armi di Shake It Out. La lunga assenza sembra aver giovato al quasi cinquantenne Muir, carico come una molla senza troppa ruggine negli ingranaggi, ma oliata per affrontare una rinnovata sfida sopra i palchi. Nel disco convivono tutte le anime della band californiana con la quasi totale esclusione dei primi vagiti punk/hardcore rappresentati dalla corta e anthemica This Ain't A Celebration, unico episodio veramente veloce del disco, ma preferendo il periodo di mezzo, a cavallo tra il 1990 e il 1995: dai riff thrash metal di Smash It! e Cyco Style, alla pesante e cadenzata Slam City, fino a toccare l'anima più sperimentale e funk in God Only Knows Who I Am con Dan Pleasants in grande spolvero negli assoli, e soprattutto la fantasia crossover di Show Some Love...Tear It Down con la sua breve parentesi jazz e il cameo vocale di alcuni skaters professionisti, nei mille umori di Make Your Stand tra cadenzati arpeggi, acidi solos di chitarra e belluine ripartenze, nel basso martellante di Till My Last Breath, Life (Can't Live ), negli accenni blues della finale This World.
Per chi li ha amati ed è cresciuto con la loro musica, 13 rappresenta un piacevole salto indietro nel tempo. Un colpo di spugna all'ormai vecchio e stanco Free Your Soul And save my Mind...e un grido di appartenenza che risuona ancora forte: Still Cyco after all these years.
A giugno uscirà dall'urna un altro 13 molto atteso, quello che i fan dei Black Sabbath attendono sulla ruota del rock da circa 35 anni. Nel frattempo ci si può accontentare dello "Chinese Democracy" dei Suicidal Tendencies. Un disco che ha attraversato una via crucis lunga tredici anni, fatta di tanti annunci d'uscita lanciati a scadenza regolare ma sempre disattesi come tappe di un pellegrinaggio senza una fine. Pur continuando assiduamente l'attività live, bisogna risalire al 2000 per trovare l'ultimo disco di studio di Mike Muir e soci, il poco riuscito e stanco Free Your Soul And Save My Mind. Sarebbe stato poco glorioso per una band di guerrieri, porre fine ad una carriera con l'episodio più debole di una discografia che li ha visti tra gli antesignani del "crossover" hardcore/thrash (ma non solo) nei primissimi anni ottanta ( Suicidal Tendencies -1983 è album buono e fondamentale per la scena e la musica tutta), per poi gettarsi nelle più affollate maglie del thrash metal, uscendone comunque a testa alta grazie ai testi al vetriolo di Muir, la carica live e alla fantasia di una sezione ritmica piena di groove funky, meglio sviluppata nei progetti collaterali Infectious Grooves e Cyco Mico.
Join The Army (1987), How Will I Laugh...(1988), Lights...Camera...Revolution!(1990) e The Art Of Rebellion (1992) sono tutti dischi che continuano ad acquistare valore storico con il tempo.
Eppure, la fama, come un skate senza una ruota lanciato sui marciapiedi di Venice Beach, non ha mai superato pienamente il muro dell'underground e della devozione totalitaria dei fan suicycos, vera famiglia degna delle migliori e pericolose gang losangeline. Sottovalutati o mai capiti? La loro forza è diventata anche il principale ostacolo: troppo punk per i metalheads, troppo metal per i punkers. Troppo Funk per tutti. Prerogativa dei grandi, quelli poco allineati.
Non fosse per la musica, un personaggio come Mike Muir, tutto canotta, calzettoni, bandana e skate, meriterebbe un posto tra le personalità più influenti e carismatiche della scena crossover '80/'90. Intorno a lui, tutto anima,cuore e invettive, è sempre ruotata la line up, rifondata totalmente dopo che lo storico chitarrista Mike Clark ha abbandonato la nave nel 2012. Ecco che accanto a Muir, ora troviamo il chitarrista Dean Pleasants ormai diventato il secondo veterano, ed i novelli Nico Santora alla chitarra, Eric Moore alla batteria e Tim Williams al basso.
,La lancetta dell'orologio ritorna indietro di almeno vent'anni appena parte la chiamata alle armi di Shake It Out. La lunga assenza sembra aver giovato al quasi cinquantenne Muir, carico come una molla senza troppa ruggine negli ingranaggi, ma oliata per affrontare una rinnovata sfida sopra i palchi. Nel disco convivono tutte le anime della band californiana con la quasi totale esclusione dei primi vagiti punk/hardcore rappresentati dalla corta e anthemica This Ain't A Celebration, unico episodio veramente veloce del disco, ma preferendo il periodo di mezzo, a cavallo tra il 1990 e il 1995: dai riff thrash metal di Smash It! e Cyco Style, alla pesante e cadenzata Slam City, fino a toccare l'anima più sperimentale e funk in God Only Knows Who I Am con Dan Pleasants in grande spolvero negli assoli, e soprattutto la fantasia crossover di Show Some Love...Tear It Down con la sua breve parentesi jazz e il cameo vocale di alcuni skaters professionisti, nei mille umori di Make Your Stand tra cadenzati arpeggi, acidi solos di chitarra e belluine ripartenze, nel basso martellante di Till My Last Breath, Life (Can't Live ), negli accenni blues della finale This World.
Per chi li ha amati ed è cresciuto con la loro musica, 13 rappresenta un piacevole salto indietro nel tempo. Un colpo di spugna all'ormai vecchio e stanco Free Your Soul And save my Mind...e un grido di appartenenza che risuona ancora forte: Still Cyco after all these years.
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