martedì 7 maggio 2013

RECENSIONE: KURT VILE (Wakin On A Pretty Daze)

KURT VILE  Wakin On A Pretty Daze (Matador Records, 2013)

Per Kurt Vile, il tempo sembra non avere confini da rispettare, come vorremmo sia  sempre quando tutto va per il verso giusto. A lui ora, neo padre di famiglia, sembra andare bene pur con tutti i dubbi che si trascina dietro nel suo personalissimo mondo, tanto da testimoniarcelo con una foto stampata direttamente sul CD che lo ritrae insieme alla figlioletta in un normalissimo quadretto domestico di quotidiana routine.
Tempo autonomo di prolungarsi all'infinito, attorcigliato ad una melodia, a degli accordi prolungati come immense praterie younghiane, ad un testo nostalgico. Tutto può essere in anticipo, in orario o in ritardo. Poco importa. Ascoltando il suo quinto lavoro solista-in sei anni- lo si percepisce quando dal primo minuto dell'iniziale Wakin On A Pretty Day (non è da tutti iniziare con una canzone di 9 minuti con una lunga coda strumentale, a meno che, di cognome non fai Young, e allora puoi anche arrivare a 28) fino alla nota finale della conclusiva Gold Tone, si attraversano 69 minuti di musica veleggiando in uno stato atemporale, cullante e quasi rassicurante pur con la malinconia dipinta di nero sul fondo, con poche scosse ma ben posizionate (l'up tempo di Snowflakes Are Dancing,Shame Chamber che mi porta alla mente gli Eels) ma con la placida certezza di stare ad ascoltare il suo lavoro definitivo (fino ad ora), riuscendo anche a superare il precedente e acclamatissimo Smoke Ring For My Halo (2011) che era un disco diretto e viscerale, confezionato dentro ad una copertina anonima e in bianco e nero; ora, la copertina, costruita su misura sui muri della sua Philadelphia, è a colori e lo ritrae che sembra un "fratello minore dei Ramones" in Rocket To Russia mentre le canzoni, questa volta, sono meno immediate, più strutturate, pur mantenendo il basso profilo di sempre. "Era il passo più logico da compiere dopo aver realizzato un LP di canzoni pop 'succinte'. Che cosa si può fare dopo? Canzoni pop più lunghe ed epiche. Immaginate di stare in un'auto e di ascoltare il proprio pezzo preferito senza il bisogno di farlo ripartire più volte" racconta Vile in una intervista rilasciata a Exclaim!
Le tre canzoni che arrivano quasi a toccare i dieci minuti non sono che la testimonianza di una consapevolezza/libertà di scrittura arrivata ad una maturità definitiva. Un percorso in crescendo il suo: dopo la breve parentesi con i The War On Drugs e la vera partenza solista con Constant Hitmaker del 2008, una costante crescita mantenendo bene i piedi equamente divisi tra tradizione e rock alternativo lo-fi.
Vile segue una linea di spontaneità personale, prerogativa dei grandi (da Lou Reed a Neil Young), che non ammette barriere, costrizioni e invasioni nella sua musica, a parte l'aiuto in produzione di Rob Laakso, John Agnello e Matt Boynton, i suoi fidi Violators (lo stesso Rob Laakso al basso e Jesse Trbovich alla chitarra) e alcuni musicisti ospiti; che si permette di citare il rapporto con il padre in Too Hard, snocciolato sul foglio con la stessa intensità emotiva che appartiene a Leonard Cohen.
Tra arpeggi folk stranianti e psichedelici (Girl Caled Alex), effetti elettronici e i Synth dell'autoanalitica ("c'era una volta nella mia vita") e veloce Was All Talk, il dondolante ritmo di valzer di Pure Pain che cambia velocità trasformandosi in un british folk dal retrogusto medioevale, fino all' intensità ipnotizzante e spolverata di glam dalla chitarra che potrebbe essere la sei corde del compianto Mick Ronson in Kv Crimes. Kurt Vile percorre le contorte vie della sua mente con placida andatura, voce strascicata, languido ritmo che dopo il terzo ascolto non puoi fare altro che tenere il suo passo e andargli silenziosamente dietro.



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