venerdì 26 ottobre 2012

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Psychedelic Pill)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE  Psychedelic Pill  (Reprise Records, 2012)

Non c'è nulla da fare. Ci sono incontri che sono frutto del destino, scritti per durare nel tempo, più forti dei lutti, delle sbandate artistiche, delle enfatuazioni passeggere, della vita stessa. Quello tra Neil Young e i Crazy Horse è uno di questi. Quando nel lontano 1969 i Crazy Horse, che si chiamavano ancora Rockets, incrociarono la vena creativa del giovane Neil Young e uscirono fuori i primi semi che costruirono una parte importante della loro intera carriera (a partire da Cowgirl in the sand, passando da Cinnamon Girl) nessuno poteva immaginare che quarantatré anni dopo, il mondo musicale fosse ancora lì ad aspettare con trepidante attesa una loro nuova collaborazione. I Crazy Horse sono sempre stati lì ad aspettare e Neil Young non ha mai nascosto il suo piacere nell'alzare i volumi per suonare con loro, tanto da lasciare, in passato, lusinghieri attestati di stima, definendoli i "Rolling Stones americani" e facendoli sempre primeggiare quando doveva confrontarli con le altre band della sua carriera, CSN in primis. Terminati gli ispirati anni settanta in bilico tra buchi neri e vena creativa ai massimi livelli, Billy Talbot, Ralph Molina e Frank"Poncho"Sampedro (l'ultimo arrivato in sostituzione dello scomparso Danny Whitten) hanno saputo aspettare gli esperimenti solitari del grande capo: partiti dai primi anni ottanta e passati attraverso il country plastificato e ordinario, l'amore per i synth, il rock'n'roll revival tutto rosa shocking e brillantina, il rhythm and blues, la reiterata voglia di rispolverare a più riprese i tempi andati, quelli gravitanti intorno ad Harvest(1972), e riuscendoci a metà, la voglia di confrontarsi con quei giovani gruppi (Pearl Jam in testa) che proprio da Young e i Crazy Horse si sentivano ispirati; ma i Crazy Horse hanno saputo tornare quando chiamati in causa, in modo convincente come in Ragged Glory(1990), ispirato e riflessivo in Sleep with Angels(1994), squassante in Broken Arrow(1996) e qualche volta anche in modo sommesso, poco convincente e deludente come in Life (1987).
Questo 2012 sarà ricordato, ancora una volta, come "l'anno del cavallo". L'aperitivo Americana, uscito solo pochi mesi fa, era, in verità, uno strambo ma riuscito antipasto. Un modo originale per riscaldare i motori e ricordare le proprie origini musicali perse nella tradizione, dopo diciotto anni di assenza, interrotti solamente dalle due ultime apparizioni live insieme, quella del 2004 e l'ultima nel febbraio di quest'anno, occasione in cui si sono gettate le basi per gli allora futuri impegni ora concretizzatosi e mantenuti: 2 dischi e nuovo tour iniziato ai primi di Ottobre negli States, con la speranza che tocchi anche l'Europa e perchè no, l'Italia.
Psychedelic Pill, con un titolo che sembra rimandare inevitabilmente ai periodi "stonati" di Tonight's The Night(1975), si presenta subito in modo sontuoso ed estremo, incutendo pure un po' di timore reverenziale: 2 CD (o 3 LP) con solamente otto tracce (più una bonus track) tra cui spiccano immediatamente all'occhio i 28 minuti di Driftin'Back e i 16 di Ramada Inn e Walk Like A Giant. Dentro, tutto quello che il connubio ci ha regalato negli anni: lunghe jam chitarristiche, assalti ruvidi, cavalcate, feedback, ma anche folk e nostalgiche melodie '50. Prodotto da John Hanlon e Mark Humphreys e registrato nello studio Audio Casablanca come il precedente Americana.
L'iniziale e lunga Driftin'Back sembra essere la traduzione in musica dell'autobiografia "Waging Heavy Peace"appena uscita in America, musicata su un mid-tempo che da folk si trasforma presto in rock ondivago, e che purtroppo ha l'unico difetto nella eccessiva e strabordante lunghezza. Un ostacolo che si lascia comunque superare anche se messo proprio lì, all'inizio, potrebbe indurre a malsane azioni di skip.
Born In Ontario è l'omaggio alla sua verde terra canadese, dipinto con leggerezza, ironia e armonia, cosa che ai Crazy Horse riesce anche bene. "You might see me down in Alabama/Or Baton Rouge down in Louisiana/I might make it up to Detroit City/Where people work hard and life is gritty/It don't really matter where I am/It's what I do, it's what I can/This old world has been good to me/So I try to give back and I want to be free/I was born in Ontario".
I sedici minuti sui sogni infranti della sua gioventù in Walk like A Giant sono pura carta vetrata corrosiva e pericolosa, ma maneggiata con cura e indirizzata, con tutto l'amore possibile, verso gli anni cinquanta nei cori doo-wop e incanalata verso la strada della spensieratezza con un fischiettio (umano) contagioso che si staglia in mezzo al grattugiare terremotante e i fischi (disumani) delle chitarre. Intanto passeggi e ti ritrovi a cantare:"Voglio camminare come un gigante sulla terra".
Il muro chitarristico di She's Always Dancing potrebbe diventare un nuovo classico se  Like A Hurricane non fosse già stata scritta qualche anno prima.
La title track Psychedelic Pill, con i suoi 3:26 minuti è la canzone più corta, straniante e disturbante, piena di effetti che pare uscita dai primi anni ottanta, da Re-Ac-Tor(1981) o da Trans(1982). Ripresa anche a fine disco in una versione Alternate Mix"You're never gonna see a tear in her eye/Never see her break a frown/She's lookin' for a good time". E scopri che una donna, a volte, può essere meglio di certe sostanze allucinogene, e viceversa.
Twisted Road è pura nostalgia messa in musica che rievoca i primi fremiti rock'n'roll che passavano le radio, la prima conoscenza con il diavolo musicale, la prima volta che la dylaniana Like A Rolling Stone entrò in circolo. Da allora, nulla fu più come prima, e non ci fu più una prima (vera) volta.
Ramada Inn sembra rappresentare fedelmente  la quintessenza del suono dei Crazy Horse: crudezza da buona alla prima, assoli e psichedelia chitarristica dilatata che si traducono in un chorus nostalgico-ma appassionato-sui rapporti di coppia che ti si stampa presto in testa "...and every morning comes the sun/ and they both rise into the day/ holding on to what they've done...". Tutto è inconfondibilmente da Neil Young e Crazy Horse. Difficile sbagliarsi. I signori continuano a divertirsi come fosse la prima prova in garage, incuranti se davanti a loro ci siano centinaia di Chevrolet parcheggiate e tirate a lucido o centinaia di rockers rumoreggianti e sfatti. In modo semplice, divertente, rumoroso, senza pensarci troppo come da sempre nella indole di Neil Young e con i testi che indagano nelle pieghe del suo passato e un po' nel suo presente altamente tecnologico ma rispettoso verso la natura.
Infine la dolcezza ipnotica di For The Love Of Man, canzone già conosciuta nei primissimi anni ottanta con il titolo di I Wonder Why, messa nei cassetti dei suoi archivi e qui rispolverata e tirata a lucido. Una delicata e sentita dedica al figlio Ben, nato con gravi disfunzioni cerebrali. "Let The Angels/Ring The Bells/In The Holy Hall/Let Them Hear/The Voice That Calls/For The love Of Man/Who Will Understand/It's Alright/But I Wonder Why" .
"Il Rock'n'Roll non può morire". Neil Young e il suo cavallo pazzo ce lo dissero già, più di trent'anni fa. Psychedelic Pill è qui a ribadirlo in modo epico, coraggioso, testardo, a suo modo ancora nuovo e stimolante, una sfida lanciata a 66 anni, che piaccia o meno. A me piace (ancora una volta).  









mercoledì 24 ottobre 2012

RECENSIONE: JEFF LYNNE ( Long Wave )

JEFF LYNNE   Long Wave  (Frontiers Records, 2012)


Totalmente incurante della stasi del mercato discografico, Jeff Lynne fa uscire in contemporanea due nuovi lavori che di nuovo non hanno pressoché nulla, se non la data 2012 stampata sul retro copertina. Uno, di pochissima utilità, è la fittizia raccolta degli ELO, Mr.Blue Sky, in verità trattasi di un greatest hits che racchiude le canzoni più gettonate del suo vecchio gruppo risuonate totalmente da se stesso, giustificando il tutto con un semplice ed eloquente "mi piace suonare". L'altro è questo Long Wave.
Strano destino quello di Jeff Lyne. Nei primi anni settanta ereditò e si mise sulle spalle il successo degli Electric Light Orchestra (ELO), dopo la dipartita di Roy Wood. Un successo commerciale costruito assumendosi tutte le responsabilità di un suono pomposo,altisonante ed orchestrale con manie di grandezza che elevavano la tradizione del rock'n'roll, e soprattutto l'amore per i Beatles, ad un suono che spesso travalicava il consentito pur di accontentare il suo smisurato ego produttivo, con buona pace dei puristi del rock. Eppure il successo gli arrise per buona parte degli anni settanta, sfruttando e tappando i buchi lasciati dai quattro baronetti, mentre la sua ossessione, anche maniacale, per la perfezione dei suoni lo portò a divenire uno dei produttori più richiesti degli anni ottanta e novanta. Dagli ex Beatles, George Harrison, Ringo Starr e Paul McCartney che cercavano il loro passato ed in lui rivedevano il nuovo George Martin (lo stesso Lynne, in un momento di alta autostima, si autoproclamò suo erede), da Dylan, a Tom Petty fino a Roy Orbison, finendo per diventare parte integrante, e anello debole per caratura artistica, del supergruppo Travelling Wilburys ( in bella compagnia di Bob Dylan, Roy Orbison, Tom Petty e George Harrison) che finì anche per produrre, naturalmente a suo modo (il primo Volume). Sono sempre stato convinto che da questi artisti ci si poteva aspettare veramente di più, anche se le registrazioni nacquero con il carattere "divertito" e di svago. 
Non sorprende che il suo ritorno solista (un solo altro album a suo nome, ma di canzoni originali, Armchair Theatre del 1990) avvenga con un album di cover raccolte nella profondità della sua memoria di adolescente quando negli anni cinquanta davanti al solo canale radio della BBC ascoltava questi brani, un po' come è avvenuto con gli ultimi lavori di  Paul McCartney e Phil Collins. Quasi a voler confermare questa sua incapacità dallo staccarsi da certi stilemi musicali, che da ispirazione iniziale, si sono trasformati in ossessione, vivendo un po' la sindrome del secondo arrivato. Cosa darebbe per trasformarsi nel "quinto beatle" o prendere il posto di Paul McCartney lungo le striscie pedonali di Abbey Road
11 canzoni per la risicata durata di 28 minuti, che escono per la partenopea Frontiers Records. Canzoni che lo stesso Lynne si suona completamente da solo, senza nessun aiuto esterno se non per gli arrangiamenti orchestrali ad opera di Marc Mann e l'aiuto di Steve Jay; a tal proposito, eloquente il divertente e ironico video registrato per Mercy,Mercy, che lo ritrae clonato più volte a formare una fittizia band che di finto, a questo punto, ha ben poco. Un altro modo per affermare la sua megalomania.
Ascoltando She di Charles Aznavour, If I Loved You canzone del 1945 del musical Carousel, Smile di Chaplin, So Sad degli Everly Brothers datata 1960, At Last portata al successo da Etta James, la curiosità si trasforma presto in sbadiglio, constatando quanto la maggior parte delle canzoni siano state trasferite verso la sua cifra stilistica che continua a rimanere quella legata ai Beatles più melodici e orchestrali, meno sperimentali, finendo presto per stancare ed uniformare la quasi totalità del disco verso le fin troppe rassicuranti, avolgenti e calde atmosfere melodiche dei sixties.    
Un disco che passerebbe via in un batter d'occhio (complice anche la risicata durata, e possiamo aggiungerci anche l'aggettivo "benedetta"), anche in modo piacevole e divertente se i punti più movimenti come il soul di Mercy, Mercy, o il rock di Let It Rock di Chuck Berry non fossero rimasti in netta minoranza.
Rimane da chiedersi quanto un prodotto di questo genere possa interessare ad un pubblico che non ascolta nulla di originale da Lynne da circa vent'anni, se non constatare quanto sia solamente un mero sfizio e capriccio che Lynne si toglie aspettando che una ventata di originale ispirazione passi vicino alla sua zazzera di capelli. Per chi ha ancora voglia di aspettarlo. 

lunedì 22 ottobre 2012

RECENSIONE: THE PROCLAIMERS (Like Comedy)



THE PROCLAIMERS  Like  Comedy  ( Cooking Vinyl, 2012)

Per chi li segue attentamente fin dall' esordio This Is The Story (1987), la vera novità risiede in copertina: per la prima volta i due fratelli Reid non sono raffigurati in foto con i tipici occhiali da nerd (o da Buddy Holly se preferite), bensì sostituiti da una classica mascherina da teatro. E dire che la loro doppia figura fu uno tra gli elementi caratterizzanti e di curiosità che li fece spiccare nell'inflazionato panorama pop britannico di metà anni ottanta. I Clash non c'erano più, e il video di Letter From America, con le immagini dei due biondi fratelli immersi nelle verdi campagne scozzesi che si inframezzavano con quelle in bianco e nero degli emigranti che attraversavano l'oceano in cerca di fortuna, erano una rarità (condivisa con The Smiths e Housemartins), in mezzo a tante acconciature cotonate e vestiti colorati. Due mosche bianche poco appariscenti che finirono per brillare e farsi notare, pur se una breve stagione. Mentre new wave e pop da classifica continuavano ad imperversare, in Scozia, i due gemelli Craig e Charlie Reid imbracciavano le chitarre acustiche e come un Woody Guthrie allo specchio e seguendo la strada aperta da Billy Bragg iniziarono a suonare folk e cantare la loro personalissima protesta. Con l'aiuto prima di Kewin Roland, poi degli Housemartins iniziarono ad uscire da Edimburgo e far conoscere il loro verbo, costituito da canzoni che rivendicavano l'indipendenza della patria natia, senza risparmiare stoccate al Regno Unito, ma anche di sentimenti ed emozioni, senza mancare mai di sarcastica ironia. Folk britannico e americano, acustico ed elettrico uniti, con il tempo sempre più saldamente, armonie vocali cantate con il tipico accento scozzese, che diventerà presto oggetto di scherzo e scherno da parte dei saccenti vicini di regno. Qualche hit ben piazzata: la già citata Letter From America, la trascinante I'm Gonna Be(500 Miles) che sicuramente qualcuno avrà ascoltato nella colonna sonora di Shrek senza riuscire a dare un volto ed un nome agli interpreti, o ancora I'm On My Way dal secondo disco Sunshine On Leith (1988) ed uno stile che con il tempo si affina sempre più, direttamente ad una popolarità internazionale che va piano piano scemando, rimanendo altissima solamente in Scozia.
I Proclaimers non hanno mai smesso di registrare dischi, Like Comedy è il nono album e arriva dopo due prove interessanti come Life With You( 2007) e Notes & Rhymes (2009), arrivando anche a toccare il ragguardevole traguardo dei 25 anni di carriera. Like Comedy gioca spesso di fino nelle sue dodici tracce, facendo prevalere il carattere più sofisticato del loro songwriting, conseguenza della loro maturità musicale e di vita (quest'anno si sono spente le 50 candeline), divenendo, forse, il loro disco più blando e meno diretto in carriera. Niente più stoccate velenose ma canzoni d'amore, con qualche eccezione  folk/rock come la trascinante apertura Whatever You've Got, veloce e memore dei vecchi tempi, o come la rockeggiante The Throught Of You con il prezioso aiuto alla chitarra elettrica del produttore Steve Evans (anche al pianoforte). Il folk lascia spazio al sentimentalismo di mezza età, all'amore, all'evocazione del tempo che toccano quasi tutte le composizioni, giocate spesso sul pianoforte e sui toni morbidi degli archi come in Simple Things o There's. Non mancano comunque i pezzi di rilievo e bravura come Spinning Around In The Air con le loro tipiche ed inconfondibili armonie vocali che emergono prepotenti, la sognante After You're Gone,  l'esuberanza compositiva di Women and Wine o la scarna teatralità di I Think That's What I Believe per sola voce, chitarra acustica e pianoforte.
Nella limited edition, come da tradizione da alcuni dischi, un bonus CD con cinque canzoni registrate live al SECC di Glagow nel Novembre del 2009, tra cui spicca My Old Friend The Blues, cover di Steve Earle, comparsa per la prima volta su Sunshine On Leith  
Non esattamente il disco da consigliare a chi si avvicina ai due fratelli Reid per la prima volta, ma un disco che in modo onesto porta avanti una carriera che non ha mai fatto uso di sensazionalismi per emergere. Ai gemelli Reid la loro piccola Scozia non è mai andata stretta-chissà quanta felicità a sapere che nel 2014 si farà uno storico referendum per l'indipendenza della Scozia-, anche se musicalmente hanno sempre sognato l'America.  
E se qualcuno (l'attore inglese Matt Lucas) disse "... Sunshine On Leith mi dice più della mia vita e di come mi sento di quanto Morrisey e Cobain abbiano mai scritto" un motivo ci sarà.




giovedì 18 ottobre 2012

RECENSIONE: WANDA JACKSON ( Unfinished Business )

WANDA JACKSON  Unfinished Business ( Sugar Hill records, 2012)

Quando solo l'anno scorso ci diceva che la festa non era finita (The Party Ain't Over), bisognava crederle, non stava mica scherzando, la signora Jackson. Nè con la vita nè con l'età e nemmeno con la musica. Meno lustrini, meno fiati a festa, meno chitarre protagoniste ed invadenti e più tradizione, e il party continua al piano inferiore, in veranda, sopra le assi di legno, sotto i  gonfaloni e le bandiere americane ben in vista, tra i fondi di cocktail annacquati e rimasugli di tramezzini e tortillas. Quasi una festa da dopo sbronza. Con la pettinatura sempre in ordine, lo smalto ed il rossetto ancora al loro posto, ma con meno luci artificiali a farli luccicare.
Mi fa tenerezza che giovani musicisti si stiano prendendo cura di una icona del rock'n'roll come Wanda Jackson. Il precedente album, prodotto da Jack White, ci aveva dimostrato che la regina del rockabilly all'età di 74 anni è ancora in forma sgargiante. La festa era ai piani alti e White ci mise tanto di suo, anche troppo, per divertire e presentare ai suoi giovani invitati la vecchia zia dal passato ribelle. Fu successo e il nome dell'arzilla Jackson tornò a circolare come una volta, anche se un po' adombrato dalla stella di White che sembrava impossessarsi indebitamente del titolo di  primadonna
Dopo i bagordi della notte, si fa mattina. Questa volta tocca al più defilato figlio d'arte Justin Townes Earle, classe 1982, che con un colpo di spugna cancella le atmosfere più festose, funk e ballabili del precedente disco per dare alle canzoni un tocco da vecchia America: più rilassato, rootsy e accomodante ma con la voce della Jackson ancora inconfondibilmente graffiante, tra ruggiti e teneri miagolii da teenager, a volte anche piacevolmente irritante, tenuta in allenamento-nell'ultimo anno-addiritura aprendo i concerti di una nuova e giovane icona musicale come Adele.
Che Unfinished Business sia un disco diverso dal suo predecessore lo si capisce andando a leggere gli autori delle canzoni, divise tra cover ed altre scritte appositamente dal giovane Earle, come The Graveyard Shift, ballroom song con il piano di Skylar Wilson a dettare i tempi e What Do You Do You're Lonesome?. I due duettano anche, tra la pedal steel sognante di Am I Even A Memory, scritta appositamente dal cantautore country Greg Garing, e sembra quasi di vederli ballare come madre e figlio, con le suole delle scarpe che rigano il parquet e il sole che piano piano lascia il posto all'oscurità. 
Un ritorno al country (registrazione rigorosamente avvenuta a Nashville) e al blues che Wanda Jackson sembra aver apprezzato fin dal primo momento, definendolo un ritorno alle sue radici, quando, negli anni cinquanta, per prima colorò e abbellì il country con lustrini e tacchi alti, prima ancora che avvenisse l'incontro decisivo con Elvis e il battessimo nella blasfema chiesa del rock'n'roll.
California Stars, canzone persa di Woody Guthrie, musicata da Wilco e Billy Bragg nel primo capitolo "Mermaid Avenue" potrebbe essere la canzone simbolo del disco, anche se è piazzata lì, alla fine.
Non mancano comunque i momenti più divertenti come nel precedente disco, anche se resi meno sensazionali-e ad effetto- da una produzione più povera e attenta alle sfumature: come l'iniziale blues Tore Down di Sonny Thompson portata al successo da Freddy King, come il civettuolo doo-wop Pushover interpretato con piglio da ragazzina, come in It's All Over Now di Bobby Womack- conosciuta per essere stato il primo grande successo dei Rolling Stones- ed il gospel di Two Hands di Townes Van Zandt.
Fra pochi giorni (20 Ottobre), gli anni saranno 75. Auguri. 



domenica 14 ottobre 2012

RECENSIONE/REPORT live: WILCO+The Hazey Janes live@Teatro della Concordia, Venaria Reale (TO) 12 Ottobre 2012

Cosa fai stasera? Vado a vedere i Wilco. E cosa suonano? Se qualche amico sprovveduto vi ha fatto una domanda del genere, sono contento per voi. Vuol dire che almeno una volta nella vita avete visto la band di Jeff Tweedy, se siete riusciti anche a rispondere, avete pure tutta la mia stima. Io non ci sono riuscito, mi sono barcamenato, mettendo sul piatto due possibilità: o li invitate al prossimo concerto in modo da renderli partecipi in prima persona e fare in modo che se ne innamorino (possibilità accertata e garantita), o cercate di spiegarlo, tirando fuori la parabola della puntura del buon Mario Brega alle prese con una siringa e la sora Lella nel film Bianco, Rosso e Verdone. La musica dei Wilco "pò esse' piuma e pò esse' fero", proprio come la mano del buon Brega. In alcuni momenti anche tutte e due le cose contemporaneamente, come avviene nella pazzesca e terremotante esecuzione di Via Chicago, primo dei tanti encores di stasera. Possono farti nuotare comodamente nel velluto con la leggerezza di una piuma e un momento dopo penetrarti la pelle e scorticarla a carne viva, come un ferro incandescente che marchia indelebilmente. Aprirti le porte del sogno americano con la visione di infiniti paesaggi assolati che saporano di libertà, elevarti a mille miglia da terra fino a farti vedere le stelle (nel senso meno doloroso del termine), per poi farti ripiombare sul suolo, infierendo ulteriormente e frustandoti nel retro bottega della periferia più sporca di una metropoli, mettendoti a nudo di fronte ai vuoti labirinti della mente.
Prima di tutto questo, ad aprire la serata, i giovani scozzesi The Hazey Janes (tre ragazzi ed una ragazza), in giro già da un decennio, un paio di dischi incisi, ma sconosciuti ai più. Il loro set strappa timidi applausi grazie ad una miscela di alt-folck/pop che va tanto di moda oggi. Nulla di nuovo ma una occasione che sfruttano a dovere per far circolare il nome.
Le radiazioni dei Wilco volano subito alte nell'aria satura del Teatro della Concordia a Venaria Reale(TO), illuminata dagli abat-jour al contrario, appesi in sala come già avvenuto nelle date dei concerti della scorsa primavera. Un modo per farti sentire comodo come sul divano di casa, in ciabatte ed un televisore 3D davanti, mentre invece: i piedi da terra sono già sollevati alle prime note di Misunderstood e i suoni, che sembrano provenire ed attaccarti da tutte le parti, arrivano dal palco che hai di fronte, dagli strumenti di 6 musicisti al massimo della ispirazione e di livello artistico eccelso.
Jeff Tweedy è un capobanda che comanda senza alzare troppo la voce, imbardato dentro al suo stretto giubbotto di jeans, al cappellaccio stampato in testa e alle sue grandi scarpe, indice di cervello fino, come si diceva una volta. Un cervello che ha attraversato momenti più bui e sofferenti ma di grande ispirazione, mentre ora sembra godersi il meritato successo con disincantata serenità, complice una formazione che ha ormai trovato la quadra ideale, dopo aver superato anche il lutto per la morte di Jay Bennett. Alla sua destra, la geniale schizofrenia chitarristica di Nels Cline, le sue performance sono una gioia per orecchie e occhi, e portano il suono del gruppo a livelli inimmaginabili; tecnica, virtuosismo e follia unita ad una esaltazione interpretativa che ha pochi eguali. Alla sua sinistra, il fido bassista John Stirratt unico membro originale insieme a Tweedy, sempre preciso ed utile a cori, poi il solido "tutto fare" british -style Patrick Sansone a chitarre e tastiere. Infine, la retroguardia formata dall'instancabile martellatore Glenn Kotche alla batteria e l'occhialuto Mikael Jorgensen alle tastiere e valvole varie, che sa giocare di fino ma anche strappare i tasti quando serve.
L'ultimo album The Whole Love è un buon biglietto da visita che la band di Chicago ci ha rilasciato nel 2011. Un disco di totale indipendenza. Dentro c'era tutto l'immenso immaginario della mente ondivaga di Tweedy, c'era il posto per i vecchi ricordi alt-country alla Uncle Tupelo di Born Alone e Whole love, l'amore per il pop/sixties di I Might, il tormentone power-pop trascinante di Dawned On Me, la psichedelia. Le stesse mille sfumature (altro che quelle di grigio colorate che vanno di moda in libreria, qui si gode e si sogna di più) che permeano i loro live. Art Of Almost è pura bizzaria musicale contaminata da effetti ad incastro che permette alla band di scatenare le tre chitarre. I momenti migliori del concerto si vivono, infatti, durante questi assalti che vedono i Wilco esaltarsi, dimostrando coesione e precisione che attualmente poche band possono vantare, il tutto con estrema classe, senza mai cadere nella banalità che il rock spesso predilige.
Tweedy è meticoloso nel proporre ogni sera qualcosa di nuovo al suo pubblico, ne sono testimonianza le altre due scalette di Padova e Firenze. Ogni sera prepara ombre e radiazioni per stupire i suoi adepti. 
Raggi e oscurità che rapiscono i sensi nelle immancabili Impossible Germany da Sky Blue Sky(2007), diventata punto saldo di ogni loro concerto con la sua eleganza e con il suo finale jammato, la vecchia Passenger Side dal loro primo disco A.M.(1995), la controversa Jesus Etc. con Tweedy che invita tutto il pubblico a cantare, la beatlesiana Hate It Here, le scosse blues di Walken, e I'm the Man who loves you per l' iniziale trionfo personale del batterista Glenn Kotche.
Nell'ultimo quarto d'ora di concerto c'è tutta l'esaltazione del rock: le chitarre ruggiscono nei riff stonesiani di  Monday, e Outtaside (Outta Mind), accoppiata vincente del loro secondo album Being There(1996), mentre si fa festa in Hoodoo Voodoo, presa dal primo capitolo Mermaid Avenue(1998)(come anche California Stars), disco che musicava i testi perduti di Woody Guthrie insieme a Billy Bragg. Qui, a salire sul palco anche lo scatenato roadie baffuto rimasto a torso nudo, che partecipa alla festa, suonando il suo campanaccio. Ed un pensiero a salire con loro a far festa e ringraziarli ti assale. Ma è troppo tardi. Si esce dopo più di due ore, tutti con il sorriso stampato in faccia e solo buoni e lusinghieri commenti positivi. Tutto perfetto per essere vero. 

SETLIST:Misunderstood/Art Of Almost/Standing O/I Am Trying to Break Your Heart/I Might/Sunken Treasure/Born Alone/Laminated Cat/Impossible Germany/Shouldn't be Ashamed/Jesus Etc./Whole Love/HandShake Drugs/War On War/I'm Always in Love/Heavy Metal Drummer/Dawned on Me/Hummingbird/A Shot in The Arm/Via Chicago/Passenger Side/California Stars/Hate It Here/Walken/I'm The Man Who Loves You/Monday/Outtaside(Outta Mind)/Hoodoo Voodoo

venerdì 12 ottobre 2012

RECENSIONE: JAKE BUGG (Jake Bugg)

JAKE BUGG    Jake Bugg (Mercury Records, 2012)

Non fate quelle facce. Già immagino i vostri commenti mentre osservate la copertina di questo disco. No, lui non è il fratello gemello di Justin Bieber. Ha la stessa età, classe 1994, e per portarvi sulla retta via potrebbe anche permettersi-vista la raggiunta maturità- un accenno di barba come va di moda oggi tra gli hipster-folker, ma evidentemente l'aspetto fisico non gli interessa molto, preferendo mantenere la sua faccia pulita da bravo e broncioso ragazzo british in stile mod. L'unica cosa in comune con Bieber, fortunatamente, sono queste, l'età e il taglio dei capelli. Ora che siete più tranquilli, potete proseguire (non è un obbligo, comunque).
Pure io ho mancato il primo appuntamento con Jake Bugg e non sapevo nemmeno che faccia avesse. Complice del mio non avvenuto incontro è stato l'assurdo orario d'inizio del concerto di un altro giovane artista al suo debutto italiano: Michael Kiwanuka. Per dare spazio alla immancabile serata da discoteca del venerdì sera, ai Magazzini Generali di Milano si pensò di anticipare i tempi dei concerti e Jake Bugg che doveva aprire il set suonò quasi in orario da aperitivo. Me lo persi, e non ci feci caso più di tanto.
Ora però lo ritrovo con il primo disco omonimo, volutamento registrato quasi fosse un demo, anticipato di qualche mese dall'Ep Taste It che conteneva anche Kentucky (il suo sogno di musicista è chiuso qua dentro) e Green Man, qui non presenti .
Jake Bugg è nato nella operosa ed operaia Nottingham, ma potrebbe benissimo essere uscito da qualche Coffee House di Minneapolis, gli stessi frequentati dal giovane Bob Dylan. Sì, per il fiorente Bugg, l'appellativo di "nuovo Dylan" è già stato usato, e non così inutilmente. I riferimenti sono tanti, dalla fragile voce nasale che ricorda il primo Dylan, al carattere acustico delle sue canzoni, ai riferimenti artistici votati ai '50 (da Guthrie a Buddy Holly, da Hank Williams a Seeger) che sono gli stessi che influenzarono il giovane Zimmerman.
Arrivato alla musica quasi per caso a dodici anni, dopo l'abbandono del più popolare gioco del football, Jake Bugg ci è arrivato senza le scorciatoie, spesso illusorie di oggi. Niente talent show, quindi, ma una passione smodata tramandata dai genitori sia per il vecchio blues primigenio di Robert Johnson e quello contaminato di Hendrix, sia per il folk americano del primissimo Dylan, e di Donovan, ma anche per il rock'n'roll di Buddy Holly, e per le sue band preferite: i Beatles e gli Oasis. Proprio in questi mesi sta coronando un sogno, aprendo i concerti del suo idolo Liam Gallagher (che a sua volta stravede per lui), senza dimenticare i tour con Stone Roses, Snow Patrol e il già citato Michael Kiwanuka.
Lightning Bolt, il primo singolo, è un up-tempo a metà strada tra l'originario Dylan e quello prossimo alla scoperta elettrica di "Bringing It All Back Home", con un testo che sembra mettere subito in chiaro le cose: dichiarazione di vita precisa e dimostrazione di totale indipendenza dentro alla sua città (Sirens of an ambulance comes howling/Right through the centre of town and/No one blinks an eye/And I look Up to the sky in the path of a lightning Bolt), così come Trouble Town che potrebbe essere uscita dalle famose session tra Dylan e Johnny Cash del 1969.
Country Song ha la semplicità acustica e penetrativa del folk, così come la delicatezza da cuori infranti di Someone Told Me
Ma anche la potenzialità da tormentone sulla scia dei fratelli Gallagher di Seen It All, o l'accenno alla brit/beat generation di Two Fingers, (I drink to remember/I smoke to Forget) tra Beatles, Kinks e eredi (Oasis, Blur, Artic monkeys), o ancora il vecchio e veloce rock'n'roll alla Buddy Holly di Taste It . Insomma il ragazzo si presenta più che bene. La BBC e la Mercury Records non hanno perso molto tempo e il suo lancio a livello mondiale è imminente, con il conseguente rischio di bruciarlo prima di accenderlo. Anche se mi piace ancora credere alla favola di un ragazzo che ce la fa da solo grazie alle sue capacità. 
Dopo Johnny Flynn (che fine ha fatto?) e Mumford & Sons, l'Inghilterra piazza un altro bel colpo. Un talento che pur avendo ancora tantissima strada davanti e tempo per scrollarsi di dosso paragoni ingombranti ma utili per inquadrarlo (insomma non è Dylan, tanto per intenderci e scongiurare l'arrivo di insulti gratuti) dimostra uno straordinario carattere vincente, un buon songwriting e maturità. Ne sentiremo parlare, e spero nei posti più adatti e consoni.




vedi anche RECENSIONE-JAKE BUGG-Shangri La (2013)



 

mercoledì 10 ottobre 2012

RECENSIONE: KISS (Monster)

KISS  Monster  ( Universal, 2012)

I teatranti del rock, i veri depositari di quello che il rock'n'roll dovrebbe essere, portato all'estremo eccesso, per convincere anche i più scettici, scaltri uomini d'affari travestiti da rocker a loro volta travestiti, un modello per tante band hard rock in erba? I Kiss possono accontentare tutti, ammiratori e denigratori, e penso che, in questo momento, al conto in banca di un vero asshole come Gene Simmons non importi più di tanto sapere quanti siano a tifare da una parte e quanti dall'altra. La verità è racchiusa in quasi 40 anni di carriera. I Kiss sono stati tutte queste cose e continuano ad esserlo, incuranti dell'età e forse prigionieri del mostro da loro stessi creato. Un mostro che quando ha tentato di cambiare volto, abbracciando anche la serietà compositiva in dischi più articolati come Music From The Elder(1981), o seguire le mode del periodo con Carnival Of Souls(1996) ha faticato ad imporsi. 
Fossi stato in loro avrei continuato ancora senza maschere, ma vi parla uno che continua a considerare Revenge(1992) il loro miglior disco di sempre, e l'MTV Unplugged (1996) un signor live (senza dimenticare il primo epocale Alive-1975), dimostrazione di bravura della vecchia guardia in piena epopea grunge. Un marchio depositato nella storia del rock, volenti o nolenti: lo trovi in edicola nei fumetti, al supermarket, nei cartoons, nei film (chi si ricorda di  The Phantom Of The Park?), dal tabaccaio, scritto a pennarello negli zainetti di giovani scolari, e da chi progetterà il nostro funerale con bare di legno autografate. Ma anche nelle sale prova di giovani bands che vogliono ancora divertisrsi con il rock'n'roll, e qui sta il trionfo. 
Monster, accompagnato da una delle loro più brutte copertine della fase mascherata, poteva anche non venire alla luce. E' il destino di tutte le band dal passato importante ed ingombrante: fai pure uscire il tuo disco nuovo, ma l'importante è sentire dal vivo Deuce, Black Diamond, I Was Made for Lovin' You, Lick It Up, Love It Loud, Love Gun e tutte le altre 20 "imperdibili" in scaletta. E così sarà, a meno di clamorose e sporadiche sorprese, e Modern Day Delilah dal precedente Sonic Boom(2009) è un buona eccezione.
Invece Monster è qui, ripetizione riuscita (a metà) di quello che i Kiss hanno sempre rappresentato-quest'anno si è rifatto vivo anche il loro best seller Destroyer(1976) rimasterizzato ed ampliato, con un (Resurrected) in più nel titolo- ma una delle uscite migliori da quando la band ha deciso di ritornare sulle scene con il trucco. Meglio di Psycho Circus(1998) e alla pari di Sonic Boom.
C'è tutto l'immaginario che vogliamo da loro: sesso, divertimento, ruffianeria a palate, ammiccamenti, oscuro horror di serie B, la carica sensuale della voce maschia di Paul Stanley, i chorus efficaci, in più, il tutto è suonato da una delle migliori formazioni di sempre del "bacio". A parte i due masters Gene Simmons e Paul Stanley (co-produttore insieme a Greg Collins) c'è il batterista Eric Singer, il migliore e più completo mai avuto in formazione, entrato ed uscito dal gruppo a partire dagli anni '90, seguendo più o meno gli umori di Peter Criss ed il destino avverso del povero Eric Carr, ed il chitarrista Tommy Thayer che dopo il suo debutto nel precedente Sonic Boom(2009), si prende più spazio in fase di composizione, consacrandosi e seminando assoli lungo tutto il disco, senza far rimpiangere Ace Frehley, il solo e vero chitarrista dei Kiss per la fedele legione dei Kiss Army.
Parte benissimo Monster! Il singolo Hell Or Hallelujah, piazzata all'inizio e la seguente Wall Of Sound, che sembra addirittura omaggiare Helter Skelter dei Beatles (solo un caso?) hanno tutto il necessario per diventare due nuovi classici a metà strada tra i '70 e lo street degli '80: chorus immediati, incalzanti, grassi riff di chitarra e veloce dinamicità, la stessa che animava un disco come Lick It Up(1983). 
Freak (con l'unica concessione esterna al gruppo, affidata al piano di Brian Whelan) cala di ritmo, aumenta la pesantezza, quella che troviamo anche in Back To The Stone Age e più avanti in Devil In Me, con le sempre oscure vocals di Gene Simmons, non troppo lontane dal già citato Revenge, l'episodio più dark ed heavy della loro carriera.
You Wanted the best, You Got The Best....A questa domanda/affermazione vorrei rispondere sinceramente "Yes", ma diventa difficile farlo quando mancano vere sorprese, botti e fuochi di artificio. Un disco che parte in quarta e che arriva alla fine con un po' di ripetitiva stanchezza (o forse monotonia?) in alcuni episodi. A poco serve un nuovo inno al rock'n'roll come la più rootsy All For The Love Of Rock & Roll, cantata dal batterista Eric Singer, che difficilmente potrà scalzare dal trono nelle scalette dei loro concerti e nell'immaginario dei fan, canzoni come Rock and roll All Nite e God Gave Rock'n'roll to You, così come la finale Last Chance, travolgente e contagiosa se non l'avessimo già sentita centinaia di volte, celata sotto altri titoli. 
Gene Simmons nel 2001, apriva la sua autobiografia con queste parole:"...Dopo ventinove anni di gloria e tumulti, anni pieni di alti supremi e infimi bassi, l'America vedrà per l'ultima volta i Kiss in concerto...". Dieci anni dopo è tutto da aggiornare e riscrivere. In fondo il (hard) rock senza i Kiss non sarebbe lo stesso e si sa, un bacio tira sempre l'altro. Voto 7

vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)




lunedì 8 ottobre 2012

RECENSIONE: HIDALGO/NANJI/DICKINSON (3 Skulls And The Truth)

DAVID HIDALGO/MATO NANJI/LUTHER DICKINSON  3 Skulls And the Truth (Shraphel/Mascot Music, 2012)

Prendete tre carcasse di bufalo (copertina brutta, brutta) ancora paradossalmente sbuffanti e scalcianti, ricucite addosso la polposa carne grondante rosso sangue e date loro tre chitarre Gibson/Fender; rinchiudete il tutto dentro ad uno studio con il produttore guru dei chitarristi Mike Varney e chiamate per nome e cognome quello che avete ottenuto, così come si faceva una volta con i supergruppi, e avrete uno dei dischi di hard/blues più spumeggianti e freschi dell'anno.
Arriva a sorpresa questo 3 Skulls And The Truth, dopo la  partecipazione dei tre axe men al Experience Hendrix Tour, tributo annuale ed itinerante dedicato al leggendario chitarrista di Seattle, che vedeva, tra i tanti, anche la partecipazione di altri luminari viventi della chitarra come Steve Vai, Buddy Guy, Johhny Lang, Eric Johnson... Una collaborazione nata quasi in modo improvviso, fortunoso e fatta di reciproco rispetto che riesce in 12 canzoni (per 65 minuti) a camuffare tutta questa apparente casualità e diversità musicale grazie ad una intesa collaborativa che sembra frutto di anni trascorsi insieme sopra ad un palco a jammare. I tre si dividono in modo equo, soli e vocals, facendosi aiutare dallo stesso produttore Varney e Steve "Lightin" Malcolm in fase di scrittura (l'unica firma assente nei credits è quella di Hidalgo) e dalla sezione ritmica formata da Jeff Martin alla batteria e Steve Evans al basso.
Luther Dickinson dopo North Mississippi AllStars e Black Crowes, ed un anno solare impegnatissimo tra dischi solisti e collaborazioni con South Menphis String Band, papà Jim e The Wandering è diventato, a tutti gli effetti, il nuovo prezzemolino del rock/southern/blues americano, cercato e venerato un po' da tutti, David Hidalgo è in libera uscita dai suoi Los Lobos, in vena di divertimento ed in cerca di decibel dopo la collaborazione su Tempest di Dylan e Mato Nanji , è leader e chitarrista pellerossa degli Indigenous, carriera marchiata e devota al blues, che si porta dietro il batterista della sua band.
Per chi è rimasto parzialmente deluso dalla cura Rubin, e dal ventilato (anche qui, parziale) ritorno alle radici dei nuovi ZZ Top in La Futura, in 3 Skulls And The Truth potrà trovare la semplicità di quel hard/blues grezzo, poderoso ed incontaminato. Canzoni crude e corpose come The Truth ain't What It Seems o l'opener Have My Way With You perfetto incrocio tra ZZ Top e Hendrix. 
Duelli chitarristici che raramente sfociano in jam improvvisate, preferendo la forma canzone: il funk/blues di Make It Right, il trascinante vortice boogie di Coming Home, il southern di All I Know, l'incedere hard di The worldly And The Divine, la calma dilatata e darkeggiante di Cold as Hell, i devoti omaggi a Hendrix in Natural Comb Woke Up Alone che chiedono solo un palco dove essere suonate, se mai capiterà e se il progetto non si fermerà qui, sul più bello.
Un equilibrio quasi perfetto, per un gruppo improvvisato, dove tecnica, feeling e canzoni non prevalgono mai l'una sull'altro. A prevalere sono sempre le chitarre, assolute protagoniste. Poco originale, certo, ma assolutamente fresco, di impatto e piacevole.Non so se è sola casualità, ma tre dei dischi più interessanti, sorprendenti, anarchici e divertenti dell'anno (gli altri due sono i lavori firmati Chris Robinson Brotherhood)  arrivano da progetti messi in piedi da membri dei Black Crowes in libera uscita. Sempre aria buona dalle parti di Atlanta.





mercoledì 3 ottobre 2012

RECENSIONE: ROBERT FRANCIS (Strangers In The First Place)

ROBERT FRANCIS   Strangers in the First Place (Vanguard Records , 2012)

Che fosse un predestinato della musica, lo si poteva capire leggendo la sua breve ma pesante biografia. Cosa fareste se un certo Ry Cooder vi regalasse un chitarra quando il vostro maggiore pensiero nella vita è terminare le scuole elementari? Al piccolo Robert Francis capitò veramente, anche se da una posizione privilegiata: il papà musicista, pianista classico e produttore, una mamma di origini messicane ed uno stuolo di sorelle già canterine che all'età di sette anni lo coinvolsero a cantare delle ranchera songs. Il giovane Robert ebbe anche il privilegio di essere l'unico studente di chitarra nella personale scuola di John Frusciante e di frequentare concerti, backstages ed artisti di livello in tenerissima età. Tutto fa brodo, quando arriva il momento di decidere cosa vuoi fare da grande, e Robert Francis, di dubbi non ne ha mai avuti.
Il risultato minimo fu il suo debutto discografico One by One (2007) avvenuto a soli diciannove anni, permettendosi di apparire in copertina  rivisitando graficamente, a suo modo, la cover di The Time They Are A-Changin' di Bob Dylan, cercando di ripeterne anche la formula sonora ridotta ad un minimale folk acustico.
Oggi, Francis, di anni ne ha venticinque, è un polistrumentista a tutto tondo, e dopo il debutto ha inciso un secondo disco Before Nightfall (2009), più ricco musicalmente e che conteneva il successo Junebug, ma è questo nuovo Strangers In The First Place a disegnarne l'avvenuta maturità e (forse) cifra stilistica, pur lasciando, per il futuro, ancora tante porte da aprire. Canzoni nate in solitaria tra il buen retiro di Malibu e viaggi nelle west highways in compagnia delle quattro ruote di un van e del suo inseparabile cane-quello ritratto in copertina. Essenziali canzoni d'amore, ordinate ed eleganti nella loro formula che spesso sconfinano nel pop/rock (Perfectly Yours, Eighteen, il singolo dalle alte potenzialità Heroin Lovers) senza perdere l'estrema profondità delle sue liriche intimamente segnate dalle sofferenze d'amore e messe su foglio come piccole poesie, e potendo contare sull'aiuto, in studio, di personaggi di prim'ordine, dallo stesso Ry Cooder (presente anche nel precedente disco), a Joachim  figlio dello stesso Cooder, Jim Keltner, Blake Mills a Mike Capbell, fino alle sue adorate sorelle ai cori.
Da una Alibi, che segue la profondità solcata da Leonard Cohen, arrivando quasi a plagiarne il capolavoro Suzanne, ad episodi più rootsy-pochi in verità se confrontati con il passato- come la dylaniana The Closet ExitStar Crossed Memories che sovrappone spazi mentali e paesaggi naturali tra banjo, armonica e fini arrangiamenti, a ballate beatlesiane battente bandiera MacCartney come I Sail Ship.
Una vocalità calda, chiara e rassicurante che emerge negli episodi più ricercati con ricchi ma mai invadenti arrangiamenti orchestrali come in Some things never Change e l'iniziale Tunnels.
Pur alzando poco la voce e pagando dazio ad una omogeneità e rilassatezza a volte eccessiva lungo tutto il disco, Robert Francis riesce a mettere a fuoco la sua grande facilità di scrittura, fluida ed eterea, fini arrangiamenti ed un potenziale altissimo ma ancora tutto da scoprire in futuro.







martedì 2 ottobre 2012

RECENSIONE: RIVAL SONS ( Head Down )

RIVAL SONS  Head Down ( Earache Records, 2012 )

I californiani Rival Sons battono il ferro finche' è caldo. E' passato solamente un anno dal loro secondo disco Pressure & Time, lavoro che li proiettò in cima alle preferenze di chi non disdegna quei giovani gruppi con lo sguardo proiettato sempre al passato del rock. (Sì, va bene chiamiamolo retro-rock). Un anno che li ha visti protagonisti sopra ai palchi di tutto il mondo,confermare ed amplificare quanto la musica che usciva dal loro precedente album di studio, aveva dietro quattro artisti di tutto rispetto (il debutto Before The Fire-2009 fu autoprodotto e passò inosservato). Chi ha avuto la fortuna di vederli, potrà confermare. Nessun inganno. I ragazzi ci sanno fare veramente e questo Head Down riesce anche a superare tutto ciò che è stato prodotto fino ad ora, in virtù di una maturità acquisita con il sudore del palco, attitudine e dedizione assoluta al verbo rock a 360 gradi, sfruttando la voce del cantante Jay Buchanan, vero asso nella manica da calare con orgoglio.
I punti di riferimento erano e rimangono sempre gli stessi, ma questa volta si aggiunge un tocco di personalità che fa la differenza, mentre anche la durata totale delle canzoni si allunga (circa 55 minuti) andando quasi a doppiare quella del precedente album. Testimone: la lunga suite Manifest Destiny che nasce tra i fumi psichedelici, dilatata e divisa in due parti, che complessivamente supera i dodici minuti.
Se Pressure & Time rappresentava l'urgenza di arrivare e toccare tutto e subito, scivolando sulla superficie dell'hard rock più belluino, questo Head Down penetra nelle fessure, si allarga e scopre nuove possibilità tra la psichedelia, il R&B, il glam, il soul, il folk, il garage e il beat degli anni sessanta, rallentando i ritmi e giocando con la profondità, aiutati dalla produzione della coppia Dave Cobb e Vance Powell, e forse influenzati dalla quiete musicale che Nashville, città dove è stato registrato il disco, è riuscita a trasmettere.
Pur non mancando di immediatezza: You Want To è una kick-ass song veloce e diretta che colpisce in modo furioso, dove la chitarra di Scott Holiday gioca con la voce di Jay Buchanan, in un continuo alternarsi di accelerazioni, pause e ripartenze, come dei novelli Page-Plant o Townshend-Daltrey.
Jay Buchanan continua a rimanere una delle migliori voci rock sentite negli ultimi anni (anche la presenza scenica non è da meno) e lo si può verificare fin dall'apertura Keep On Swinging, un calcio ben assestato e mirato verso i '70 tra le reti di Led Zeppelin, Free e Thin Lizzy, ma soprattutto nella staordinaria e delicata drammaticità folkie di True, che chiude il disco; pressapoco una prova solista in cui il cantante, dimostrando maturità e tecnica vocale eccelsa, riesce quasi a toccare  le vette e l'estensione di Tim Buckley, mentre  Jordan è un esercizio soul non alla portata di tutti. Ascoltare per credere.
C'è ancora il divertimento negli ammiccamenti viziosi e sensuali di Until The sun Comes, i ritmi soul/pop in Wild Animal, song che non si stacca troppo dalle ultime produzioni di casa Black Keys, la strumentale, acustica e poco significativa Nava, i colpi all'anima nel hard/blues sporco di Run From Revelation e nella saltellante All The War. 
Varietà è la parola d'ordine di un gruppo, tra i più credibili e completi dell'ultima generazione. Derivativi e riciclatori, certo, ma con superiorità e classe.
Gordon Fletcher, giornalista e critico di Rolling Stone negli anni settanta, iniziò la recensione di Houses Of The Holy, album dei Led Zeppelin del 1973 con questa frase:"I Led Zeppelin hanno rappresentato l'epitome di tutto quello che il rock ha di buono: un buon lavoro di chitarra,voce e sezione ritmica potenti, devozione alle primordiali forme del blues e soprattutto una tonante eccitazione live e su disco...", la recensione continuerà con altre parole-meno belle- che bocciarono il disco. Con i dovuti e rispettosi distinguo, Head Down dei  Rival Sons si accontenterebbe di queste prime.  



sabato 29 settembre 2012

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE ( The Whippoorwill )

BLACKBERRY SMOKE  The Whippoorwill ( Southern Ground Recording Group, 2012)

Nel sud degli States c'è una band che da alcuni anni sta riportando sui palchi  i vecchi fervori del southern rock più datato ed emozionale. Quello semplice e radicato. Quello che riesce ancora a trattenere ed incarnare gli ideali dei '70 e bilanciare musicalmente, in modo quasi perfetto, la parte country con quella più rock e blues, gli assalti chitarristici con la melodia. Lo fanno con estenuanti tour da headliner o aprendo per celebrità come ZZ Top, Lynyrd Skynyrd e The Marshall Trucker Band. I concerti ed il pubblico sono la loro linfa vitale e non mancano occasione per evidenziarlo.
Vengono da Atlanta, il loro nome è Blackberry Smoke e The Whippoorwill è il terzo album in carriera dopo Bad Luck ain't no Crime (2004) e Little Piece of Dixie (2009).
Anche se in questo nuovo lavoro non mancano deviazioni verso la parte più bucolicamente country e melodica della loro musica, niente è immutato nella loro scrittura e nella loro attitudine. Una canzone come la memonica One Horse Town farebbe invidia a più di un songwriter di country/americana e potrebbe portarli ad un grande successo commerciale. Gli spazi dilatati, aperti da lap steel e piano in un sogno chiamato The Whippoorwill con una chitarra  che ricama come un Neil Young a Zuma, non lasciano indifferenti, così come l'apparente semplicità dell'honk-tonk blues acustico di Ain't Got the Blues con dobro e piano.
Guidati dalla calda voce del singer e chitarrista Charlie Starr e dalla chitarra di Paul Jackson, con la sezione ritmica formata da Brit Turner alla batteria e Richard Turner al basso, con il prezioso intervento Brandon Still al piano e organo, i Blacberry Smoke innaffiano le radici del genere southern con devozione e rispetto ma anche con la schietta e fresca spavalderia giovanile.
L'apertura Six Ways to Sunday è quel southern/rock boogie con pianoforte che difficilmente si può trovare negli ultimi lavori dei Lynyrd Skynyrd. L'equazione è presto fatta: le nuove generazioni suonano vecchio e vintage, le vecchie band strizzano l'occhio al moderno, non sempre in modo credibile purtroppo. Qui di moderno troverete poco. Il camino acceso, il vino nel frigo e la voglia di perdonare le scappatelle di un vecchio amore nella melodia di Pretty little Lie, parlano chiaro.
Ancora amore e donne in Everybody knows she's Mine , fede in Ain't Much Left of Me che  battono dalle parti dei fratelli Robinson.
Leave A Scar è la canzone più veloce, con un taglio chitarristico molto hard ma con  banjo e hammond che cercano di farsi spazio, così come Crimson Moon e Sleeping Dogs bilanciate tra esplosioni hard di stampo '70 e riflessiva armonia acustica. Rock da grandi arene ma sempre funzionale e trascinante.
Dopo una Shakin Hands With the Holy Ghost dove il riff sembra provenire dal vasto repertorio degli AC/DC, il disco si conclude con Up the Road, ballata che sembra essere la loro dichiarazione di vita, con un finale in crescendo tra chitarre duellanti e cori gospel. 
Perfettamente prodotti da Clay Cook (presente alle percussioni in quasi tutte le canzoni), Matt Mangano e Zac Brown, il disco, che esce per l'etichetta discografica dello stesso Brown, si presenta in una veste grafica volutamente vintage e affascinatamente seppiata.
Per avere il quadro clinico del southern rock odierno, è obbligatorio passare per le strade della Georgia calpestate dai Blackberry Smoke. Sui cartelli stradali leggerete: in salute.