The BROWN SPACEBOB In The Jam LEM (Indie, 2011)
Gli amplificatori incandescenti piazzati al centro di Joshua Tree e le corse da inferno su ruote possono benissimo rivivere nel nord del Piemonte, senza che nessuna alterazione sensoriale ci aiuti ad immaginare il tutto.
The Brown Spacebob, sono attivi dal 2009 ma solo ora , dopo anni spesi in altre esperienze arrivano al primo lavoro autoprodotto.
Il loro percorso musicale è una continuazione attuale del movimento stoner che suonato venti/quindici anni fa, poteva apparire "moda", suonato oggi vuol dire totale amore e dedizione verso certi suoni che non hanno mai ottenuto la ribalta che altri movimenti del periodo ottennero(Grunge?), ma che si propagarono nel sottosuolo contaminando ed influenzando tanto quanto il Grunge. Cosa che avviene rappresentata benissimo durante l'ascolto di In The Jam LEM.
Ascoltando gli spazi dilatati dell'apertura John Quijote, dall'incedere psichedelico , con i suoi quasi otto minuti che si concludono sulle note spagnoleggianti di una chitarra; o le frequenze disturbate e il conto alla rovescia che introducono la circolare pesantezza space/psichedelica della strumentale Werner.
Ascoltando le più dirette ed immediate: Mork go to Work con le chitarre a duellare(Cristian Perini e Roberto Tobia), la più immediata Also Floats, guidata dal basso(Roberto Tambone), o gli sprazzi di rock'n'roll saltellante che esce da War.
Il retrogusto blues e settantiano, caro a gruppi come i Clutch, introdotto dalla batteria(Francesco tambone) che apre Monsterlike, con l'ottima coralità delle linee vocali(diverse e cangianti lungo tutto il disco) e il suo finale rallentato o nelle esplosioni che squarciano il lento incedere blues di Tainted che porta alla coda cosmic e jammata finale.
Canzoni che, come Reborn, anche quando chiamano in causa ingombranti riferimenti come l'ormai storico rifferama di Josh Homme e i più recenti QOTSA, riescono a nascondere spunti interessanti come le linee vocali e assoli di chitarra ficcanti.
Scorrevolezza d'ascolto che non guarda all'originalità ma che trasporta a quegli anni novanta fatti di rumore di ampli in saturazione che facevano da introduzione a sfocate e accecanti visioni. Amplificatori che aspettano un contratto discografico per viaggiare anche nel presente, lontani dalle mode, perchè dove c'è il fuoco di una batteria, un basso e due chitarre che suonano, non c'è posto per ciò che fa moda.
Per ascoltare tutto l'album in streaming: http://soundcloud.com/the-brown-spacebob
Per scaricarvi l'album gratis: http://www.tbsb.it/
mercoledì 7 dicembre 2011
lunedì 5 dicembre 2011
INTERVISTA ai MOJO FILTER
A pochi giorni dall'uscita del loro album "Mrs. Love Revolution", i riscontri sono già molto positivi.
I Mojo Filter, qui rappresentati da Alessandro Battistini (Voce e chitarra)e Carlo Lancini(chitarra) ci raccontano la loro "personale" rivoluzione rock e come è nato un disco "vero, sincero e sofferto".
Avete una definizione o una piccola frase da lasciare a chi non vi conosce per presentarvi?
Alessandro: i Mojo Filter sono una rock and roll band… niente di più, niente di meno.
Il vostro è un disco costruito sull'impatto e sulla spontaneità live. Come è avvenuto il lavoro con Jono Manson e come vi siete messi in contatto con lui?Carlo: ho conosciuto Jono nel 2000, dopo un suo concerto a Chiari. Jono è un artista di talento ed una persona amabile e cordiale. Ad ogni sua tournee ci si incontrava, anche in occasione di qualche show privato. Gradualmente ho introdotto la musica di Jono al resto della band. Quando nel 2009 i Mojo Filter hanno iniziato a lavorare a del materiale originale dopo la classica gavetta, Jono si è interessato alle nostre canzoni e al nostro primo disco, l’ep The Spell, uscito a marzo 2010. Partendo dalle nostre idee, dai riff e dal songwriting di Alessandro abbiamo poi gettato le basi per Mrs Love Revolution, verso la fine dell’estate 2010.
Alessandro: il lavoro con Jono si è sviluppato sostanzialmente a distanza. A settembre-ottobre dello scorso anno gli abbiamo inviato la bozza delle canzoni che avrebbero composto Mrs Love Revolution. Insieme abbiamo discusso sulla direzione da prendere e su alcuni elementi di omogeneità. Non abbiamo avuto il benché minimo dubbio sulla strada da prendere e sul fatto che il disco dovesse essere registrato in presa diretta e con suoni veri. Durante le registrazioni con il tecnico del suono Mauro Galbiati, la direzione di Jono è stata principalmente gestita a distanza, mentre il missaggio è stato fatto nel suo studio di Santa Fe, negli Stati Uniti.
Qual'è la "rivoluzione" del titolo dell'album?
Alessandro: negli anni Sessanta, quando l’intero sistema era in crisi, gli hippie hanno intrapreso una rivoluzione pacifica (“Love Revolution”) a suon di rock and roll… la musica allora era anche un modo per rivendicare la propria identità, difendere l’originalità dei singoli e combattere un piatto e diffuso conformismo… questo disco è un nostro modesto tentativo di rompere con gli schemi attuali e con l’insulsa musica mainstream che le major ci costringono a sentire ovunque… questa è la nostra rivoluzione pacifica.
Carlo: i Mojo Filter sono una band molto unita e coesa, proveniente da background musicali simili, ma con percorsi personali diversi. Mrs Love Revolution arriva ed è stato concepito in un periodo difficile per tutti noi, per motivi differenti. Insomma, la famosa “crisi” c’è e si sente, sia dal punto di vista economico che di tensioni psicologiche… Credo che ognuno attribuisca a questo disco un significato anche intimo, un manifesto di una rivoluzione personale, che può anche rappresentare il primo passo per una svolta. Senza presunzione, non voglio parlare di successo e soldi, quella non è una svolta che ci appartiene, soprattutto in questo mondo e in questa vita. Piuttosto lo vedo come il nostro modo di sentirci parte di un mondo sempre meno popolato e sempre più isolato e pieno di insidie, quello dei musicisti rock, lontano dal mainstream, appunto…
Parole e musica hanno la stessa importanza nell'economia di una vostra canzone?
Alessandro: no, assolutamente. Apprezzo enormemente i bei testi, quelli semplici e pieni di significato, ma la nostra musica è più ritmo, vibrazioni, chitarre distorte… e comunque talvolta il messaggio può arrivare indipendentemente dal testo della canzone… è semplicemente nell’aria.
Carlo: Alessandro è sempre molto diretto ed essenziale, sia nel comporre che nel rispondere alle domande di un giornalista. E’ fatto così! Provo ad estendere il concetto…l’elemento portante è quello musicale, il testo spesso arriva in una seconda fase. Proviamo comunque, a nostro modo, a far passare “il messaggio”. Penso a What I’ve Got: oggi in un battito di ciglia chiunque può volare a Shanghai, ma poi nessuno di noi ha una direzione, è perso. Gli imbonitori oggi ci vendono un sacco di stronzate, ma noi vediamo tensione, disoccupazione, disillusione e smarrimento. Liar (bugiardo), titolo inequivocabile, parla della fede persa…
In molte vostre canzoni, compare una componente molto soul che mi riporta a gruppi come i Creedence Clearwater Revival, in grado di unire soul, country, blues e rock'n'roll. Quali sono le vostre principali influenze?
Alessandro: Creedence, appunto, ma anche Led Zeppelin, Hendrix, Rolling Stones, Cream… ci piace il rock blues degli anni Sessanta, quello grezzo, diretto e senza troppi fronzoli.
Carlo: la nostra formazione è di quattro elementi, tipicamente rock. Ed è giusto che se tu trovi in noi elementi soul, il primo riferimento vada ai Creedence. La forma e la sostanza stanno lì. Ed effettivamente l’elemento soul c’è, e sta anche nella voce di Alessandro, che riesce ancora, ogni volta, a sorprendermi.
Las Vegas, musicalmente si stacca notevolmente dal resto dell'album. Come è nata?
Alessandro: il pezzo vuole essere un momento di rottura nella continuità del disco. La canzone è nata nel deserto dei Mojave, in viaggio verso Las vegas…è incredibile: dal nulla, all’improvviso, salta fuori un luogo assurdo, fuori dal mondo e dal tempo… una vera e propria città dell’oro dove gente da tutto il mondo arriva alla ricerca della propria pepita…magari anche con un sogno da realizzare….
Avete avuto modo di aprire per nomi di tutto rispetto del rock americano (Willie Nile, North Mississippi All Stars...), come sono state queste esperienze e quali segreti siete riusciti a carpire a questi artisti?
Carlo: Onestamente l’incontro con Willie Nile è durato il tempo di consegnargli il nostro primo disco, mentre Luther e Cody Dickinson sono stati molto cordiali e disponibili. Hanno apprezzato il nostro rock e – subito dopo il nostro set - ci han fatto molti complimenti. Luther e Alessandro hanno in comune una bella collezione di chitarre, sulle quali si sono confrontati. E’ stato interessante vedere come Luther le gestiva e come giravano feeling, groove e dinamiche all’interno di un power duo. Credo sia stato uno dei nostri migliori set, abbiamo assistito poi ad uno show intenso e il post-concerto è stato decisamente gratificante ed istruttivo. D’altra parte, sono i figli di Jim Dickinson…
Alessandro: personalmente sono rimasto colpito dalla naturalezza con cui questi musicisti affrontano la scena…
Cosa vuol dire suonare rock'n'roll nella provincia italiana e cosa pensate della scena rock italiana?
Alessandro: qualcuno può considerare assurdo suonare rock and roll in un paese che ne è l’antitesi assoluta, ma il rock è proprio questo: lo fai perché ne hai bisogno, non esistono alternative ne spiegazioni.
Carlo: come già ti ho detto, fare rock and roll vuol dire far parte di un piccolo mondo in estinzione. Un mondo che si arrabatta fra mille difficoltà, spesso ostacolandosi da solo… Purtroppo fare rock originale in Italia vuol dire confrontarsi anche con situazioni che di rock non hanno proprio niente. Spesso si fa confusione: c’è chi tenta di dare un messaggio intimo e personale – noi come tanti altri – e chi si limita a clonare. Purtroppo la gente non è in grado di scindere le categorie. E questa è la cosa peggiore. Frank Zappa diceva “nella lotta fra te e il mondo, stai dalla parte del mondo”. Ma credo fosse un consiglio che neppure lui ha mai seguito. E noi facciamo la stessa cosa. Suonare rock and roll vuol dire soffrire, sudare e fare molti chilometri per cercare la propria “strada”, senza la certezza di trovarla. Stare dei giorni su una canzone, discutere ed arrabbiarsi durante la registrazione di un disco, mangiare in due minuti mentre il fonico è a pisciare e trovare un riff che trasforma una canzone mentre bevi un caffè alle otto di mattina, prima di ripartire con le registrazioni. Ed Alessandro in questo è un maestro.
Quali sono i vostri obiettivi futuri?
Alessandro: suonare il più possibile
Carlo: nell’immediato la cosa che più ci interessa è riprendere l’autostrada e suonare le nostre canzoni ovunque e il più possibile. Come ha detto prima Alessandro, ne abbiamo bisogno…sembra retorica, ma è così ed è una necessità. Sicuramente c’è la voglia, da subito, di continuare la nostra piccola rivoluzione con un nuovo disco. In cantiere ci sono almeno 20 canzoni nuove sulle quali lavorare.
Se poteste scegliere un solo artista italiano o straniero con cui collaborare chi scegliereste e perchè?
Alessandro: Jono Manson a parte, io ne dico due: Dan Auerbach e Patrick Carney, i Black Keys.
Carlo: a questo punto, io dico Jack White e Ethan Johns. Jack White è grezzo e geniale, rigenera il country e il rockabilly, crea i Raconteurs e distrugge i White Stripes. Ethan Johns ha lavorato su dischi importanti.
Tre buone ragioni per avvicinarsi al vostro disco?
Carlo: Mrs Love Revolution è stato una necessità. Uso tre aggettivi per tentare di semplificarlo, anche se è difficile: vero, sincero e sofferto.
Alessandro: me ne viene in mente solo una: è un bel disco.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Mrs.Love Revolution (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Roadkill Songs (2013)
I Mojo Filter, qui rappresentati da Alessandro Battistini (Voce e chitarra)e Carlo Lancini(chitarra) ci raccontano la loro "personale" rivoluzione rock e come è nato un disco "vero, sincero e sofferto".
Avete una definizione o una piccola frase da lasciare a chi non vi conosce per presentarvi?
Alessandro: i Mojo Filter sono una rock and roll band… niente di più, niente di meno.
Il vostro è un disco costruito sull'impatto e sulla spontaneità live. Come è avvenuto il lavoro con Jono Manson e come vi siete messi in contatto con lui?Carlo: ho conosciuto Jono nel 2000, dopo un suo concerto a Chiari. Jono è un artista di talento ed una persona amabile e cordiale. Ad ogni sua tournee ci si incontrava, anche in occasione di qualche show privato. Gradualmente ho introdotto la musica di Jono al resto della band. Quando nel 2009 i Mojo Filter hanno iniziato a lavorare a del materiale originale dopo la classica gavetta, Jono si è interessato alle nostre canzoni e al nostro primo disco, l’ep The Spell, uscito a marzo 2010. Partendo dalle nostre idee, dai riff e dal songwriting di Alessandro abbiamo poi gettato le basi per Mrs Love Revolution, verso la fine dell’estate 2010.
Alessandro: il lavoro con Jono si è sviluppato sostanzialmente a distanza. A settembre-ottobre dello scorso anno gli abbiamo inviato la bozza delle canzoni che avrebbero composto Mrs Love Revolution. Insieme abbiamo discusso sulla direzione da prendere e su alcuni elementi di omogeneità. Non abbiamo avuto il benché minimo dubbio sulla strada da prendere e sul fatto che il disco dovesse essere registrato in presa diretta e con suoni veri. Durante le registrazioni con il tecnico del suono Mauro Galbiati, la direzione di Jono è stata principalmente gestita a distanza, mentre il missaggio è stato fatto nel suo studio di Santa Fe, negli Stati Uniti.
Qual'è la "rivoluzione" del titolo dell'album?
Alessandro: negli anni Sessanta, quando l’intero sistema era in crisi, gli hippie hanno intrapreso una rivoluzione pacifica (“Love Revolution”) a suon di rock and roll… la musica allora era anche un modo per rivendicare la propria identità, difendere l’originalità dei singoli e combattere un piatto e diffuso conformismo… questo disco è un nostro modesto tentativo di rompere con gli schemi attuali e con l’insulsa musica mainstream che le major ci costringono a sentire ovunque… questa è la nostra rivoluzione pacifica.
Carlo: i Mojo Filter sono una band molto unita e coesa, proveniente da background musicali simili, ma con percorsi personali diversi. Mrs Love Revolution arriva ed è stato concepito in un periodo difficile per tutti noi, per motivi differenti. Insomma, la famosa “crisi” c’è e si sente, sia dal punto di vista economico che di tensioni psicologiche… Credo che ognuno attribuisca a questo disco un significato anche intimo, un manifesto di una rivoluzione personale, che può anche rappresentare il primo passo per una svolta. Senza presunzione, non voglio parlare di successo e soldi, quella non è una svolta che ci appartiene, soprattutto in questo mondo e in questa vita. Piuttosto lo vedo come il nostro modo di sentirci parte di un mondo sempre meno popolato e sempre più isolato e pieno di insidie, quello dei musicisti rock, lontano dal mainstream, appunto…
Parole e musica hanno la stessa importanza nell'economia di una vostra canzone?
Alessandro: no, assolutamente. Apprezzo enormemente i bei testi, quelli semplici e pieni di significato, ma la nostra musica è più ritmo, vibrazioni, chitarre distorte… e comunque talvolta il messaggio può arrivare indipendentemente dal testo della canzone… è semplicemente nell’aria.
Carlo: Alessandro è sempre molto diretto ed essenziale, sia nel comporre che nel rispondere alle domande di un giornalista. E’ fatto così! Provo ad estendere il concetto…l’elemento portante è quello musicale, il testo spesso arriva in una seconda fase. Proviamo comunque, a nostro modo, a far passare “il messaggio”. Penso a What I’ve Got: oggi in un battito di ciglia chiunque può volare a Shanghai, ma poi nessuno di noi ha una direzione, è perso. Gli imbonitori oggi ci vendono un sacco di stronzate, ma noi vediamo tensione, disoccupazione, disillusione e smarrimento. Liar (bugiardo), titolo inequivocabile, parla della fede persa…
In molte vostre canzoni, compare una componente molto soul che mi riporta a gruppi come i Creedence Clearwater Revival, in grado di unire soul, country, blues e rock'n'roll. Quali sono le vostre principali influenze?
Alessandro: Creedence, appunto, ma anche Led Zeppelin, Hendrix, Rolling Stones, Cream… ci piace il rock blues degli anni Sessanta, quello grezzo, diretto e senza troppi fronzoli.
Carlo: la nostra formazione è di quattro elementi, tipicamente rock. Ed è giusto che se tu trovi in noi elementi soul, il primo riferimento vada ai Creedence. La forma e la sostanza stanno lì. Ed effettivamente l’elemento soul c’è, e sta anche nella voce di Alessandro, che riesce ancora, ogni volta, a sorprendermi.
Las Vegas, musicalmente si stacca notevolmente dal resto dell'album. Come è nata?
Alessandro: il pezzo vuole essere un momento di rottura nella continuità del disco. La canzone è nata nel deserto dei Mojave, in viaggio verso Las vegas…è incredibile: dal nulla, all’improvviso, salta fuori un luogo assurdo, fuori dal mondo e dal tempo… una vera e propria città dell’oro dove gente da tutto il mondo arriva alla ricerca della propria pepita…magari anche con un sogno da realizzare….
Avete avuto modo di aprire per nomi di tutto rispetto del rock americano (Willie Nile, North Mississippi All Stars...), come sono state queste esperienze e quali segreti siete riusciti a carpire a questi artisti?
Carlo: Onestamente l’incontro con Willie Nile è durato il tempo di consegnargli il nostro primo disco, mentre Luther e Cody Dickinson sono stati molto cordiali e disponibili. Hanno apprezzato il nostro rock e – subito dopo il nostro set - ci han fatto molti complimenti. Luther e Alessandro hanno in comune una bella collezione di chitarre, sulle quali si sono confrontati. E’ stato interessante vedere come Luther le gestiva e come giravano feeling, groove e dinamiche all’interno di un power duo. Credo sia stato uno dei nostri migliori set, abbiamo assistito poi ad uno show intenso e il post-concerto è stato decisamente gratificante ed istruttivo. D’altra parte, sono i figli di Jim Dickinson…
Alessandro: personalmente sono rimasto colpito dalla naturalezza con cui questi musicisti affrontano la scena…
Cosa vuol dire suonare rock'n'roll nella provincia italiana e cosa pensate della scena rock italiana?
Alessandro: qualcuno può considerare assurdo suonare rock and roll in un paese che ne è l’antitesi assoluta, ma il rock è proprio questo: lo fai perché ne hai bisogno, non esistono alternative ne spiegazioni.
Carlo: come già ti ho detto, fare rock and roll vuol dire far parte di un piccolo mondo in estinzione. Un mondo che si arrabatta fra mille difficoltà, spesso ostacolandosi da solo… Purtroppo fare rock originale in Italia vuol dire confrontarsi anche con situazioni che di rock non hanno proprio niente. Spesso si fa confusione: c’è chi tenta di dare un messaggio intimo e personale – noi come tanti altri – e chi si limita a clonare. Purtroppo la gente non è in grado di scindere le categorie. E questa è la cosa peggiore. Frank Zappa diceva “nella lotta fra te e il mondo, stai dalla parte del mondo”. Ma credo fosse un consiglio che neppure lui ha mai seguito. E noi facciamo la stessa cosa. Suonare rock and roll vuol dire soffrire, sudare e fare molti chilometri per cercare la propria “strada”, senza la certezza di trovarla. Stare dei giorni su una canzone, discutere ed arrabbiarsi durante la registrazione di un disco, mangiare in due minuti mentre il fonico è a pisciare e trovare un riff che trasforma una canzone mentre bevi un caffè alle otto di mattina, prima di ripartire con le registrazioni. Ed Alessandro in questo è un maestro.
Quali sono i vostri obiettivi futuri?
Alessandro: suonare il più possibile
Carlo: nell’immediato la cosa che più ci interessa è riprendere l’autostrada e suonare le nostre canzoni ovunque e il più possibile. Come ha detto prima Alessandro, ne abbiamo bisogno…sembra retorica, ma è così ed è una necessità. Sicuramente c’è la voglia, da subito, di continuare la nostra piccola rivoluzione con un nuovo disco. In cantiere ci sono almeno 20 canzoni nuove sulle quali lavorare.
Se poteste scegliere un solo artista italiano o straniero con cui collaborare chi scegliereste e perchè?
Alessandro: Jono Manson a parte, io ne dico due: Dan Auerbach e Patrick Carney, i Black Keys.
Carlo: a questo punto, io dico Jack White e Ethan Johns. Jack White è grezzo e geniale, rigenera il country e il rockabilly, crea i Raconteurs e distrugge i White Stripes. Ethan Johns ha lavorato su dischi importanti.
Tre buone ragioni per avvicinarsi al vostro disco?
Carlo: Mrs Love Revolution è stato una necessità. Uso tre aggettivi per tentare di semplificarlo, anche se è difficile: vero, sincero e sofferto.
Alessandro: me ne viene in mente solo una: è un bel disco.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Mrs.Love Revolution (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Roadkill Songs (2013)
venerdì 2 dicembre 2011
RECENSIONE: NILS LOFGREN (Old School)
NILS LOFGREN Old School ( Vision Music, 2011)
Il piccolo Nils, l'ultimo entrato nella E Street Band, 27 anni fa,(escludendo il tastierista Charlie Giordano e la violinista Soozie Tyrell ), d'ora in avanti, ne siamo certi, si ritaglierà un posto maggiore alla destra del grande capo(il tour estivo di Springsteen è alle porte). Tutto, suo malgrado. Lui avrebbe continuato volentieri a stare sotto l'ombra del gigante Clarence, fare le sue piroette chitarristiche e proseguire il suo prezioso lavoro di gregario con gli occhi vispi di Federici puntati addosso. Il destino purtroppo non avvisa e in poco tempo riesce a cambiare le carte in tavola, a suo piacimento e poco si può fare se non continuare a portare avanti lo show e fare quello per cui si è nati.
Old School, anche se idealmente nato e progettato prima della scomparsa di Clemons, nel titolo nasconde una piccola dedica a quella vecchia scuola che traina ancora il rock'n'roll, di cui il sassofonista e il tastierista erano buona immagine.
Lofgren vanta una carriera strabiliante all'ombra dei grandi, contribuendo alla fortuna di due delle più grandi rock band americane: i primi Crazy Horse(esperienza breve) e la seconda incarnazione della E Street Band, quella che iniziò a frequentare i grandi stadi. Carriera iniziata appena diciasettenne come pianista e chitarrista di Neil Young e lasciando i suoi contributi sugli imperdibili After the Goldrush(1970) e Tonight's the Night(1975) e sul trascurabile Trans(1982).
Entrato quasi per caso, è in pianta stabile nella E Street Band dal 1984. Non ne è più uscito, ed ora, ne è un senatore tanto quanto i "vecchi" Van Zandt, Tallent, Bittan e Weinberg.
La carriera di Lofgren è anche piena di tanti dischi solisti, spesso passati inosservati. Non so il perchè, ma credo che questo avrà il giusto palcoscenico che si merita. L'ondata emotiva purtroppo ne è complice. Ma Danny e Clarence ne sarebbero contenti, soprattutto perchè è un bel disco, sentito.
Old School presenta tutto il range musicale del sessantenne Lofgren, recentemente, anche lui alle prese con problemi di salute fisica. Una voce non strabiliante ma profonda e credibile(quella che solo i chitarristi possiedono, tra Richards e Wood, ma molto meglio), le sue chitarre acustiche ed elettriche suonano alla grande e il livello di songwritings delle canzoni si attesta su livelli più che eccellenti, andando ad esplorare più territori (particolare, è certamente la riuscita Dream Big, tra fiati e beat elettronici) con un suono molto vero e live, anche se a conti fatti le ballads trionfano. Anni al fianco di mostri come Young e Springsteen si fanno pesare in positivo.
Omaggio al tempo andato e a quello che verrà: Old School tra Rock'n'roll e Jersey Sound. I fiati soul di Greg Varlotta interagiscono con le chitarre e le voci di Nils e dell'ospite Lou Gramm, vocalist dei Foreigner; 60 is the new 18 è un attestato di vitalità e non resa su un tambureggiante garage rock; Miss you Ray è la ballad omaggio a Ray Charles che può tramutarsi in omaggio agli amici Danny e Clarence, siamo sui territori dello Springsteen post 11 Settembre.
Love Stumbles On, il rock teso e chitarristico di Ain't too many Of Us Left con la voce soul di Sam Moore; il bel blues Amy Joan Blues, con le slide e con il sempre giovanile(anche Lofgren comunque non scherza) ex Free, Paul Rodgers a duettare, sono il lato più rock del disco.
L'altro lato si presenta più meditativo e riflessivo. Irish Angel è una delicata canzone scritta dal songwriter Bruce McCabe, When you're Mine è una ballad springsteeniana fino al midollo così come Just Because you love me , sentita dedica alla bella compagna Amy , con un suono che ci riporta ai tempi di Born In the USA.
A chiudere il chitarrismo sognante da grandi spazi di Why Me, questa sulla scia di Young, degna chiusura di un disco piacevole e superiore alle mie aspettative.
Ora lo aspettiamo, lì alla destra di Bruce, attendendo le sue giravolte con una grande ombra e i vispi occhi che lo seguono ancora. Stavolta da un posto molto speciale e privilegiato, lassù.
Il piccolo Nils, l'ultimo entrato nella E Street Band, 27 anni fa,(escludendo il tastierista Charlie Giordano e la violinista Soozie Tyrell ), d'ora in avanti, ne siamo certi, si ritaglierà un posto maggiore alla destra del grande capo(il tour estivo di Springsteen è alle porte). Tutto, suo malgrado. Lui avrebbe continuato volentieri a stare sotto l'ombra del gigante Clarence, fare le sue piroette chitarristiche e proseguire il suo prezioso lavoro di gregario con gli occhi vispi di Federici puntati addosso. Il destino purtroppo non avvisa e in poco tempo riesce a cambiare le carte in tavola, a suo piacimento e poco si può fare se non continuare a portare avanti lo show e fare quello per cui si è nati.
Old School, anche se idealmente nato e progettato prima della scomparsa di Clemons, nel titolo nasconde una piccola dedica a quella vecchia scuola che traina ancora il rock'n'roll, di cui il sassofonista e il tastierista erano buona immagine.
Lofgren vanta una carriera strabiliante all'ombra dei grandi, contribuendo alla fortuna di due delle più grandi rock band americane: i primi Crazy Horse(esperienza breve) e la seconda incarnazione della E Street Band, quella che iniziò a frequentare i grandi stadi. Carriera iniziata appena diciasettenne come pianista e chitarrista di Neil Young e lasciando i suoi contributi sugli imperdibili After the Goldrush(1970) e Tonight's the Night(1975) e sul trascurabile Trans(1982).
Entrato quasi per caso, è in pianta stabile nella E Street Band dal 1984. Non ne è più uscito, ed ora, ne è un senatore tanto quanto i "vecchi" Van Zandt, Tallent, Bittan e Weinberg.
La carriera di Lofgren è anche piena di tanti dischi solisti, spesso passati inosservati. Non so il perchè, ma credo che questo avrà il giusto palcoscenico che si merita. L'ondata emotiva purtroppo ne è complice. Ma Danny e Clarence ne sarebbero contenti, soprattutto perchè è un bel disco, sentito.
Old School presenta tutto il range musicale del sessantenne Lofgren, recentemente, anche lui alle prese con problemi di salute fisica. Una voce non strabiliante ma profonda e credibile(quella che solo i chitarristi possiedono, tra Richards e Wood, ma molto meglio), le sue chitarre acustiche ed elettriche suonano alla grande e il livello di songwritings delle canzoni si attesta su livelli più che eccellenti, andando ad esplorare più territori (particolare, è certamente la riuscita Dream Big, tra fiati e beat elettronici) con un suono molto vero e live, anche se a conti fatti le ballads trionfano. Anni al fianco di mostri come Young e Springsteen si fanno pesare in positivo.
Omaggio al tempo andato e a quello che verrà: Old School tra Rock'n'roll e Jersey Sound. I fiati soul di Greg Varlotta interagiscono con le chitarre e le voci di Nils e dell'ospite Lou Gramm, vocalist dei Foreigner; 60 is the new 18 è un attestato di vitalità e non resa su un tambureggiante garage rock; Miss you Ray è la ballad omaggio a Ray Charles che può tramutarsi in omaggio agli amici Danny e Clarence, siamo sui territori dello Springsteen post 11 Settembre.
Love Stumbles On, il rock teso e chitarristico di Ain't too many Of Us Left con la voce soul di Sam Moore; il bel blues Amy Joan Blues, con le slide e con il sempre giovanile(anche Lofgren comunque non scherza) ex Free, Paul Rodgers a duettare, sono il lato più rock del disco.
L'altro lato si presenta più meditativo e riflessivo. Irish Angel è una delicata canzone scritta dal songwriter Bruce McCabe, When you're Mine è una ballad springsteeniana fino al midollo così come Just Because you love me , sentita dedica alla bella compagna Amy , con un suono che ci riporta ai tempi di Born In the USA.
A chiudere il chitarrismo sognante da grandi spazi di Why Me, questa sulla scia di Young, degna chiusura di un disco piacevole e superiore alle mie aspettative.
Ora lo aspettiamo, lì alla destra di Bruce, attendendo le sue giravolte con una grande ombra e i vispi occhi che lo seguono ancora. Stavolta da un posto molto speciale e privilegiato, lassù.
martedì 29 novembre 2011
RECENSIONE: The BLACK KEYS (El Camino)
The BLACK KEYS El Camino (Nonesuch Records, 2011)
I Black Keys si divertono e noi con loro. Piazzano un minivan vintage(Chrysler) in copertina(...e un'altra ventina tra nuovi e usati nel booklet, degno di una rivista stile "Quattroruote"), intitolano il loro album El Camino come la famosa chevrolet che non c'entra nulla con la foto e registrano l'album a Nashville, patria del country , nuovamente sotto la regia di Danger Mouse, già produttore del loro "Attack & Release"(2008) e con lo zampino anche nel fortunatissimo album "Brothers"(2010), che fece anche incetta di Grammys. Tutte nozioni che potrebbero portare a leggere l'album sotto l'aspetto sbagliato. Perchè i Black Keys sopra al van, sembrano salirci e ripercorrere a ritroso il cammino della loro carriera e Nashville non è altro che la nuova città dove Dan Auerbach abita e dove si è costruito il suo personale studio di registrazione(Easy Eye Studio). Un ritorno alle radici istintive e primordiali del loro essenziale rock'n'roll, rivisto e rivisitato con le esperienze accumulate fino ad ora. Abbandonando, seppur non totalmente, l'impronta soul e black di "Brothers"( tracce di quell'album sono ancora presenti in Stop Stop e disseminate in buona quantità in tutto il disco) per tuffarsi in canzoni più dirette e snelle ma che mantengono tutte quelle sfumature che l'incontro con Danger Mouse(Gnarls Barkley) ha fatto uscire, più tante altre nuove influenze incontrate strada facendo. Tastiere vintage suonate da B.Burton, inoltre, rimpolpano la musica del duo che da minimalista è diventato una calda e revisionistica band con il presente sempre ben focalizzato che sa unire pop e rock mantenendo quel sapore di antico che li rende, oggi come oggi, unici.
El Camino è quindi la strada che i nostri hanno percorso durante gli ultimi due anni di tour, strada che è stata la madre di queste undici canzoni spalmate in quasi quaranta minuti. Già ci avevano avvisato, nelle prime indiscrezioni, che i suoni sarebbero stati figli di The Clash e The Cramps e le promesse sono in parte mantenute, purchè non cerchiate il grezzo blues dei primi dischi perchè di esso non vi è più traccia se non nei loro infuocati set live. Il primo singolo Lonely Boy, già da qualche settimana era entrato in circolo con i suoi riff di chitarra che sembravano sbucare dai riccioloni glam di Marc Bolan e i suoi T.Rex e un appeal soul che furiusciva dai chorus femminili. Un brano sulle pene in amore che cattura al primo ascolto. Difficile starsene fermi. Dead and Gone è una London Calling immersa nel bagno soul dei suoi coretti, e ancora i Clash "contaminati" fuoriescono da Hell of a season che presenta un inusuale intermezzo reggaeggiante. Little Black Submarines parte come una delicata ballad per sola voce e acustica, sembra un estratto dell'album solista di Dan Auerbach(il bellissimo "Keep It Hid", uscito nel 2009) fino a metà canzone quando entra un'elettrica e la terremotante batteria di Patrick Carney. La canzone cambia totalmente umore. Davvero difficile non pensare ai Led Zeppelin di IV. Ritorna il blues: nell'evocativa Run Right Back, una delle mie tracce preferite, faceva da retro al singolo Lonely Boy e nasconde uno dei migliori riff del disco, insieme a Gold on the Ceiling, pura e contagiosa con gli incalzanti clap-hands; alla più cattiva e settantiana Money Maker e la finale Mind Eraser. Stravaganze ben riuscite sembrano essere:Sister, marziale e ordinata, con uno strano sapore new Wave e ottantiano, inusuale e piacevole così come Nova baby che strizza l'occhio agli U2 di metà carriera nell'apertura del ritornello e nel chitarrismo alla The Edge. I Black Keys recuperano l'essenzialità e l'urgenza sacrificata in Brothers, senza rinunciare a battere strade nuove, sporcando in continuazione il loro suono che dopo sette album poteva diventare stanco e di routine. Tradizione e presente hanno trovato la loro unione. Sicuramente sono diventati una portata in grado di sfamare più di un ascoltatore di musica. I loro divertenti video promozionali si diffondono e il loro nome non è più nella bocca dei pochi. Ora sono attesi nella loro tappa italiana all'Alcatraz di Milano il 30 Gennaio 2012. Io non mancherei...Sold Out permettendo.
vedi anche RECENSIONE: THE BLACK KEYS- Brothers (2010)
I Black Keys si divertono e noi con loro. Piazzano un minivan vintage(Chrysler) in copertina(...e un'altra ventina tra nuovi e usati nel booklet, degno di una rivista stile "Quattroruote"), intitolano il loro album El Camino come la famosa chevrolet che non c'entra nulla con la foto e registrano l'album a Nashville, patria del country , nuovamente sotto la regia di Danger Mouse, già produttore del loro "Attack & Release"(2008) e con lo zampino anche nel fortunatissimo album "Brothers"(2010), che fece anche incetta di Grammys. Tutte nozioni che potrebbero portare a leggere l'album sotto l'aspetto sbagliato. Perchè i Black Keys sopra al van, sembrano salirci e ripercorrere a ritroso il cammino della loro carriera e Nashville non è altro che la nuova città dove Dan Auerbach abita e dove si è costruito il suo personale studio di registrazione(Easy Eye Studio). Un ritorno alle radici istintive e primordiali del loro essenziale rock'n'roll, rivisto e rivisitato con le esperienze accumulate fino ad ora. Abbandonando, seppur non totalmente, l'impronta soul e black di "Brothers"( tracce di quell'album sono ancora presenti in Stop Stop e disseminate in buona quantità in tutto il disco) per tuffarsi in canzoni più dirette e snelle ma che mantengono tutte quelle sfumature che l'incontro con Danger Mouse(Gnarls Barkley) ha fatto uscire, più tante altre nuove influenze incontrate strada facendo. Tastiere vintage suonate da B.Burton, inoltre, rimpolpano la musica del duo che da minimalista è diventato una calda e revisionistica band con il presente sempre ben focalizzato che sa unire pop e rock mantenendo quel sapore di antico che li rende, oggi come oggi, unici.
El Camino è quindi la strada che i nostri hanno percorso durante gli ultimi due anni di tour, strada che è stata la madre di queste undici canzoni spalmate in quasi quaranta minuti. Già ci avevano avvisato, nelle prime indiscrezioni, che i suoni sarebbero stati figli di The Clash e The Cramps e le promesse sono in parte mantenute, purchè non cerchiate il grezzo blues dei primi dischi perchè di esso non vi è più traccia se non nei loro infuocati set live. Il primo singolo Lonely Boy, già da qualche settimana era entrato in circolo con i suoi riff di chitarra che sembravano sbucare dai riccioloni glam di Marc Bolan e i suoi T.Rex e un appeal soul che furiusciva dai chorus femminili. Un brano sulle pene in amore che cattura al primo ascolto. Difficile starsene fermi. Dead and Gone è una London Calling immersa nel bagno soul dei suoi coretti, e ancora i Clash "contaminati" fuoriescono da Hell of a season che presenta un inusuale intermezzo reggaeggiante. Little Black Submarines parte come una delicata ballad per sola voce e acustica, sembra un estratto dell'album solista di Dan Auerbach(il bellissimo "Keep It Hid", uscito nel 2009) fino a metà canzone quando entra un'elettrica e la terremotante batteria di Patrick Carney. La canzone cambia totalmente umore. Davvero difficile non pensare ai Led Zeppelin di IV. Ritorna il blues: nell'evocativa Run Right Back, una delle mie tracce preferite, faceva da retro al singolo Lonely Boy e nasconde uno dei migliori riff del disco, insieme a Gold on the Ceiling, pura e contagiosa con gli incalzanti clap-hands; alla più cattiva e settantiana Money Maker e la finale Mind Eraser. Stravaganze ben riuscite sembrano essere:Sister, marziale e ordinata, con uno strano sapore new Wave e ottantiano, inusuale e piacevole così come Nova baby che strizza l'occhio agli U2 di metà carriera nell'apertura del ritornello e nel chitarrismo alla The Edge. I Black Keys recuperano l'essenzialità e l'urgenza sacrificata in Brothers, senza rinunciare a battere strade nuove, sporcando in continuazione il loro suono che dopo sette album poteva diventare stanco e di routine. Tradizione e presente hanno trovato la loro unione. Sicuramente sono diventati una portata in grado di sfamare più di un ascoltatore di musica. I loro divertenti video promozionali si diffondono e il loro nome non è più nella bocca dei pochi. Ora sono attesi nella loro tappa italiana all'Alcatraz di Milano il 30 Gennaio 2012. Io non mancherei...Sold Out permettendo.
vedi anche RECENSIONE: THE BLACK KEYS- Brothers (2010)
lunedì 28 novembre 2011
RECENSIONE: ZZ TOP-AA. VV. ( A Tribute From Friends)
ZZ TOP AA.VV. A Tribute From Friends ( Show Dog, Universal Music, 2011)
Si potrebbe quasi dire che Billy Gibbons se le canti e se le suoni, o meglio che le band se le scelga e le faccia suonare. In attesa del nuovo album, prodotto da Rick Rubin, che sarà il seguito del poco riuscito Mescalero, ultimo disco in studio dei texani e ormai lontano, essendo uscito nel 2003, gli ZZ Top, nella persona del barbuto chitarrista come supervisore, fanno uscire un appetitoso aperitvo che servirà a creare attesa e attenzione, traghettando i fans verso l'uscita del nuovo album.
Gli ZZ Top tributano se stessi, scegliendo nell'ampio mondo musicale, guardando molto al presente e bisogna dire in modo coraggioso, vario ed originale. Gibbons comunque non ha mai negato collaborazioni e passione per suoni più moderni e gli ZZ Top (e la loro discografia) parlano chiaro, a volte esagerando anche troppo. Poi, che senso avrebbe avuto chiamare vecchi coetanei a rifare le loro canzoni, anche se, vedremo, non mancano nemmeno quelli. Tutti comunque hanno rifatto le canzoni in modo devoto e passionale chi stravolgendo le originali e chi no, dimostrando quanto i barbuti texani hanno comunque influenzato il blues e l'hard blues.
Ed eccoli, subito in apertura, i più vecchietti della line up: sotto l'acronimo The M.O.B. si nascondono i due Fleetwood Mac, Mick Fleedwood alla batteria e John McVie al basso con Steven Tyler (Aerosmith) alla voce e il giovane Jonny Lang alla chitarra. Sharp Dressed Man ricalca l'originale con l'aggiunta della voce di Tyler che tra una rovinosa caduta e l'altra(palco e doccia sono il suo forte ultimamente) si conferma grande vocalist.
Spazio alle giovani leve quindi. Chi rimane fedelmente sul pezzo: come gli australiani Wolfmother, forti della personalità e voce plantiana del cantante e chitarrista Andrew Stockdale in Cheap Sunglasses; la miglior formazione hard/metal degli ultimi anni, i Mastodon (perchè Lou Reed non ha scelto loro per musicare "Lulu"?) alle prese con Just Got Paid e la bella, sensuale e brava Grace Potter con i suoi Nocturnals, che canta Tush come avrebbe fatto Janis Joplin ai tempi.
C'è poi chi estremizza i suoni come i Nickelback che appesantiscono a dismisure Legs, rendendola comunque piacevole o la personale band dell'ex bassista dei Guns'n' Roses, i Duff McKagan's Loaded che rivestono di sleaze rock'n'roll, Got me Under Pressure.
L'immortale La Grange viene trasformata in una lunga jam che tocca gli otto minuti dal songwriter country americano Jamey Johnson. Più che riuscita.
Chi dona maggiormente il proprio tocco personale alla canzone sono gli industrial /rocker Filter con una Gimme All your Lovin, rilucidata completamente a nuovo.
Senza infamia e senza lode Beer Drinkers and Hell Raisers dei Coheed & Cambria e Waitin' for the Bus / Jesus Just Left Chicago rifatta dai Daughtry, usciti vincitori, anni fa, da American Idol e dir poco pessima Rough Boy che Wyclef Jean rifà in modo asettico, soporifero ed inutile.
Il classico disco "poco utile" ma piacevole che guadagna mezzo punto in più solamente perchè messo in piedi dalla stessa band texana.
Ora avanti con Rubin e gli originali, però.
Si potrebbe quasi dire che Billy Gibbons se le canti e se le suoni, o meglio che le band se le scelga e le faccia suonare. In attesa del nuovo album, prodotto da Rick Rubin, che sarà il seguito del poco riuscito Mescalero, ultimo disco in studio dei texani e ormai lontano, essendo uscito nel 2003, gli ZZ Top, nella persona del barbuto chitarrista come supervisore, fanno uscire un appetitoso aperitvo che servirà a creare attesa e attenzione, traghettando i fans verso l'uscita del nuovo album.
Gli ZZ Top tributano se stessi, scegliendo nell'ampio mondo musicale, guardando molto al presente e bisogna dire in modo coraggioso, vario ed originale. Gibbons comunque non ha mai negato collaborazioni e passione per suoni più moderni e gli ZZ Top (e la loro discografia) parlano chiaro, a volte esagerando anche troppo. Poi, che senso avrebbe avuto chiamare vecchi coetanei a rifare le loro canzoni, anche se, vedremo, non mancano nemmeno quelli. Tutti comunque hanno rifatto le canzoni in modo devoto e passionale chi stravolgendo le originali e chi no, dimostrando quanto i barbuti texani hanno comunque influenzato il blues e l'hard blues.
Ed eccoli, subito in apertura, i più vecchietti della line up: sotto l'acronimo The M.O.B. si nascondono i due Fleetwood Mac, Mick Fleedwood alla batteria e John McVie al basso con Steven Tyler (Aerosmith) alla voce e il giovane Jonny Lang alla chitarra. Sharp Dressed Man ricalca l'originale con l'aggiunta della voce di Tyler che tra una rovinosa caduta e l'altra(palco e doccia sono il suo forte ultimamente) si conferma grande vocalist.
Spazio alle giovani leve quindi. Chi rimane fedelmente sul pezzo: come gli australiani Wolfmother, forti della personalità e voce plantiana del cantante e chitarrista Andrew Stockdale in Cheap Sunglasses; la miglior formazione hard/metal degli ultimi anni, i Mastodon (perchè Lou Reed non ha scelto loro per musicare "Lulu"?) alle prese con Just Got Paid e la bella, sensuale e brava Grace Potter con i suoi Nocturnals, che canta Tush come avrebbe fatto Janis Joplin ai tempi.
C'è poi chi estremizza i suoni come i Nickelback che appesantiscono a dismisure Legs, rendendola comunque piacevole o la personale band dell'ex bassista dei Guns'n' Roses, i Duff McKagan's Loaded che rivestono di sleaze rock'n'roll, Got me Under Pressure.
L'immortale La Grange viene trasformata in una lunga jam che tocca gli otto minuti dal songwriter country americano Jamey Johnson. Più che riuscita.
Chi dona maggiormente il proprio tocco personale alla canzone sono gli industrial /rocker Filter con una Gimme All your Lovin, rilucidata completamente a nuovo.
Senza infamia e senza lode Beer Drinkers and Hell Raisers dei Coheed & Cambria e Waitin' for the Bus / Jesus Just Left Chicago rifatta dai Daughtry, usciti vincitori, anni fa, da American Idol e dir poco pessima Rough Boy che Wyclef Jean rifà in modo asettico, soporifero ed inutile.
Il classico disco "poco utile" ma piacevole che guadagna mezzo punto in più solamente perchè messo in piedi dalla stessa band texana.
Ora avanti con Rubin e gli originali, però.
sabato 26 novembre 2011
INTERVISTA: The CYBORGS
Arrivano dal futuro,suonano blues, i loro nomi sono ZERO e ONE. Le loro facce? Nascoste da due maschere da saldatori.
Il disco omonimo, uscito quest'anno e i loro live set sono stati una delle migliori sorprese dell'anno.
Da un piccolo locale svizzero, dove la loro astronave ha fatto tappa, tra una data e l'altra del tour europeo, i The Cyborgs hanno trovato il tempo per rispondere con il loro linguaggio stringato da "codice binario" ad alcune domande.
Ormai è noto che voi provenite da un altro pianeta. Da dove esattamente...e perchè avete scelto l'Italia per diffondere il verbo del "blues"?
Non è dato sapere da dove veniamo, ma di sicuro ne abbiamo viste tante... l'Italia è sicuramente un posto dove i nostri corpi possono trovare la giusta temperatura... inoltre è molto vicino all'Africa, la patria reale del blues.
Cosa si dice del nostro paese in giro?
Si dice che adesso è ora di cambiare...
Avete già trovato qualche buon compagno di viaggio in Italia? C'è qualche artista blues italiano con cui andate d'accordo?Fino ad ora abbiamo avuto il piacere di condividere palchi con numerosi artisti italiani e non... tra i tanti ci piace ricordare l'esperienza vissuta con i WAINES, artisti siciliani con cui abbiamo instaurato un ottimo feeling.
Avete già viaggiato negli States? Vi piacerebbe?Si, ma non portando i Cyborgs su un palco... presto pensiamo di farlo.
Perchè avete scelto il blues? Non c'erano generi più moderni ,adatti a voi che provenite dal 2110?Cosa credi possa esserci meglio del Blues ?
Il vostro è un blues povero e minimale, quasi primordiale. Che strumenti suonate esattamente e non pensate, in futuro, di usare altri strumentisti insieme a voi?Ci esibiamo cercando di suonare contemporaneamente piu strumenti, e spesso suoniamo quello che capita. Saremo sempre e solo ZERO e ONE, almeno finchè il codice binario non cesserà di esistere.
Di cosa parlano le vostre canzoni? Mi ha colpito soprattutto No!No!No!...Parlano di ciò che abbiamo visto dall'interno dei nostri elmetti da saldatori.Parlano del futuro, e non dicono nulla di buono, purtroppo.
Ci saranno momenti migliori, in questo confidiamo...
Avete da poco registrato il vostro primo video ufficiale di Dancy. Come è avvenuto l'incontro con il regista Ivan Cazzola..siete soddisfatti dei risultati?Dancy è uno dei tanti video che abbiamo prodotto, e come in ogni nostra produzione non ci chiediamo mai se siamo soddisfatti.
Il progetto con Studio Blu 2.0 di Torino , invece, in cosa consiste?E' un progetto di 12 monografie sul Blues in Italia... molto interessante.
Ci siamo molto divertiti a raccontare la nostra storia attraverso foto e musica.
Quest'anno avete aperto per Jeff Beck e avete seguito il tour italiano di Eric Sardinas. Come sono andati i concerti e siete riusciti a comunicare con questi artisti e il loro pubblico?Sia per Jeff Beck che per Sardinas siamo stati contenti di trovare un pubblico attento e preparato alla nostra musica.
L'esperienza con Eric Sardinas è stata sicuramente la piu interessante. Lo abbiamo seguito in tutte le sue date italiane, e abbiamo stretto con lui un'amicizia che è andata oltre la musica. Grande uomo e grande musicista...
Se aveste la possibilità di collaborare con qualche nume tutelare del blues del passato o anche del presente chi scegliereste e perchè?Ce ne sarebbe piu di uno... indubbiamente Fred McDowell, R.L.Burnside, Son House, e il perchè si puo intuire ascoltando la loro musica.
Avete tre dischi del "genere" che vi portate sempre con voi durante i vostri viaggi temporali e a cui non rinuncereste mai?Non portiamo mai dischi con noi... preferiamo cercarli e trovarli ogni volta che viaggiamo. Ogni viaggio e ogni momento ha la sua colonna sonora...
Fra poco partirete per l'estero. Dove andrete? Avete già pianificato il vostro 2012, sarà un anno che dovremo temere?Siamo già in giro per l'europa... in questo momento scriviamo da un piccolo locale di un piccolo paesino della Svizzera.
Domani saremo in Germania... e poi ancora in giro... (le date del tour europeo si possono prendere da qui: http://www.facebook.com/#!/thecyborgsboogie?sk=app_123966167614127)...
Nel 2012 avremo ancora molto da fare. A gennaio saremo di nuovo in Olanda per l'eurosonic festival a Groningen e poi ancora in Italia per molti concerti...
Stiamo inoltre preparando il nostro nuovo disco, quindi suppongo proprio che il 2012 sarà un anno da temere....
Foto by KASCO Design http://kascodesign.deviantart.com/
RECENSIONE: THE CYBORGS -the Cyborgs (2011)
mercoledì 23 novembre 2011
RECENSIONE: BOB SEGER (Ultimate Hits:Rock and Roll Never Forgets)
BOB SEGER Ultimate Hits:Rock and Roll Never Forgets ( Capitol, 2011)
L'impatto della musica di Bob Seger sul suolo del rock'n'roll americano è stato , almeno negli anni settanta, squassante più di quanto si possa pensare. I suoi dischi hanno generato schiere di nuovi cantautori rock, hanno venduto tanto e sono stati le cartucce dinamitarde per i suoi esplosivi set live. Un culto in patria che, inspiegabilmente, non ha attecchito ugualmente nel resto del mondo. Mentre lui aprì tante strade negli anni settanta, altri nel decennio successivo ne goderono i benefici in termini di popolarità, rubandogli la scena, approfittando anche di una ispirazione in fase calante. Il suo blue collar rock, tra sogno e autostrade, sarà setacciato da altri artisti (inutile fare nomi) che ne faranno una bandiera di appartenenza.
Anche se nell'ultimo ventennio si contano più raccolte che album di studio, questo doppio Cd, approfitta per racchiudere in una sola confezione il suo meglio, includendo anche 4 canzoni inedite ed un booklet di 24 pagine bello ed asaustivo.
Purtroppo pur essendo un doppio cd taglia di netto in maniera completa la prima parte di carriera di Seger, quella sicuramente con meno successi commerciali e canzoni conosciute, che va dal primissimo disco Ramblin' Gamblin' man nel 1968, rappresentato solamente dalla versione mono della title track, passa per dischi come Noah(1969), Mongrel(1970), Brand New Morning(1971), Smokin'O.P.'s(1972), Seven (1974), qui completamente saltati ed ignorati seppur rappresentanti del periodo più prolifico fatto di garage, soul e psichedelia che apriranno le porte al successo di metà anni settanta. Solamente Back in '72 è presente con l'immortale Turn the page ( sì, proprio quella che rispolverarono i Metallica nel loro Garage Days Revisited), in versione live.
La data di partenza della raccolta può benissimo essere fissata al 1976 con l'uscita di Beautiful Loser da cui vengono estrapolate il rock'n'roll '50 di Katmandu e le due versioni live di Travellin' man e Beatiful Loser registrate a Dretoit per Live Bullet, uno dei più intensi, scoppiettanti e rappresentativi live album della musica rock e vero e proprio trampolino di lancio per Seger che da lì in poi, in compagnia della sua macchina da rock'n'roll, la Silver Bullet Band, non sbaglierà più un colpo, almeno fino al 1982.
Artista dal grande carisma che sapeva coniugare il grezzo rock'n'roll con il calore della soul music, il southern con la melodia di ballate che trovavano nell'energia di un palco il luogo ideale per essere rappresentate, più di quanto potessero dire i suoi best sellers di carriera, racchiusi nel periodo 1976-1982(Night Moves, Stranger in Town, Against the Wind, The Distance) da cui proviene il grosso di questa raccolta.
Dal rock'n'roll di Rock and Roll Never Forgets, Old Time Rock & Roll, Hollywood Nights, Her Strut alle spruzzate di soul Night Moves, al blues di The Fire Down Below, le countryeggianti Mainstreet, Fire Lake e Shame on the moon, alle sognanti ed evocative e pianistiche Still the Same e Against the wind, tutte entrate nella cultura musicale americana e nelle radio del grande paese da cui usciva la sua riconoscibilissima voce.
Gli ultimi trent'anni lo vedono in disparte ad osservare la scena, qualche sprazzo: Live a Rock, dall'omonimo del 1986, Shakedown dalla colonna sonora di Beverly Cop II del 1987 e Wait For me dal buon ritorno sulle scene di Face The Promise del 2006.
Fino a qui, tutto quello già edito. Le uniche novità di questa raccolta, sono la cover della natalizia Little drummer boy, già edita nel 1987 e per la prima volta in un suo disco, la ripresa non originalissima di Downtown Train, canzone di Tom Waits tra le più coverizzate del repertorio del cantautore di Pomona e lo scatenato rock'n'roll Hey Hey Hey Hey (Going Back to Birmingham)di Little Richard.
Il ritorno ad una intensa attività live ( in questi giorni è impegnato in un tour americano) e in studio di Seger per dare un seguito all'ultimo e discreto Face The Promise del 2006 sarà quindi anticipato da questa raccolta, rivolta principalmente a chi non conosce la musica dell'ex ragazzo capellone del Michigan. Qualche inedito potrà far gola anche agli irriducibili, pur non avendo il crisma degli imperdibili.
27 canzoni che purtroppo non riescono ad essere definitive, perchè la mancanza dei primissimi dischi si fa pesare. Comunque vista la qualità di quello che c'è, due ore di buon ripasso durante le feste natalizie sono assicurate.
L'impatto della musica di Bob Seger sul suolo del rock'n'roll americano è stato , almeno negli anni settanta, squassante più di quanto si possa pensare. I suoi dischi hanno generato schiere di nuovi cantautori rock, hanno venduto tanto e sono stati le cartucce dinamitarde per i suoi esplosivi set live. Un culto in patria che, inspiegabilmente, non ha attecchito ugualmente nel resto del mondo. Mentre lui aprì tante strade negli anni settanta, altri nel decennio successivo ne goderono i benefici in termini di popolarità, rubandogli la scena, approfittando anche di una ispirazione in fase calante. Il suo blue collar rock, tra sogno e autostrade, sarà setacciato da altri artisti (inutile fare nomi) che ne faranno una bandiera di appartenenza.
Anche se nell'ultimo ventennio si contano più raccolte che album di studio, questo doppio Cd, approfitta per racchiudere in una sola confezione il suo meglio, includendo anche 4 canzoni inedite ed un booklet di 24 pagine bello ed asaustivo.
Purtroppo pur essendo un doppio cd taglia di netto in maniera completa la prima parte di carriera di Seger, quella sicuramente con meno successi commerciali e canzoni conosciute, che va dal primissimo disco Ramblin' Gamblin' man nel 1968, rappresentato solamente dalla versione mono della title track, passa per dischi come Noah(1969), Mongrel(1970), Brand New Morning(1971), Smokin'O.P.'s(1972), Seven (1974), qui completamente saltati ed ignorati seppur rappresentanti del periodo più prolifico fatto di garage, soul e psichedelia che apriranno le porte al successo di metà anni settanta. Solamente Back in '72 è presente con l'immortale Turn the page ( sì, proprio quella che rispolverarono i Metallica nel loro Garage Days Revisited), in versione live.
La data di partenza della raccolta può benissimo essere fissata al 1976 con l'uscita di Beautiful Loser da cui vengono estrapolate il rock'n'roll '50 di Katmandu e le due versioni live di Travellin' man e Beatiful Loser registrate a Dretoit per Live Bullet, uno dei più intensi, scoppiettanti e rappresentativi live album della musica rock e vero e proprio trampolino di lancio per Seger che da lì in poi, in compagnia della sua macchina da rock'n'roll, la Silver Bullet Band, non sbaglierà più un colpo, almeno fino al 1982.
Artista dal grande carisma che sapeva coniugare il grezzo rock'n'roll con il calore della soul music, il southern con la melodia di ballate che trovavano nell'energia di un palco il luogo ideale per essere rappresentate, più di quanto potessero dire i suoi best sellers di carriera, racchiusi nel periodo 1976-1982(Night Moves, Stranger in Town, Against the Wind, The Distance) da cui proviene il grosso di questa raccolta.
Dal rock'n'roll di Rock and Roll Never Forgets, Old Time Rock & Roll, Hollywood Nights, Her Strut alle spruzzate di soul Night Moves, al blues di The Fire Down Below, le countryeggianti Mainstreet, Fire Lake e Shame on the moon, alle sognanti ed evocative e pianistiche Still the Same e Against the wind, tutte entrate nella cultura musicale americana e nelle radio del grande paese da cui usciva la sua riconoscibilissima voce.
Gli ultimi trent'anni lo vedono in disparte ad osservare la scena, qualche sprazzo: Live a Rock, dall'omonimo del 1986, Shakedown dalla colonna sonora di Beverly Cop II del 1987 e Wait For me dal buon ritorno sulle scene di Face The Promise del 2006.
Fino a qui, tutto quello già edito. Le uniche novità di questa raccolta, sono la cover della natalizia Little drummer boy, già edita nel 1987 e per la prima volta in un suo disco, la ripresa non originalissima di Downtown Train, canzone di Tom Waits tra le più coverizzate del repertorio del cantautore di Pomona e lo scatenato rock'n'roll Hey Hey Hey Hey (Going Back to Birmingham)di Little Richard.
Il ritorno ad una intensa attività live ( in questi giorni è impegnato in un tour americano) e in studio di Seger per dare un seguito all'ultimo e discreto Face The Promise del 2006 sarà quindi anticipato da questa raccolta, rivolta principalmente a chi non conosce la musica dell'ex ragazzo capellone del Michigan. Qualche inedito potrà far gola anche agli irriducibili, pur non avendo il crisma degli imperdibili.
27 canzoni che purtroppo non riescono ad essere definitive, perchè la mancanza dei primissimi dischi si fa pesare. Comunque vista la qualità di quello che c'è, due ore di buon ripasso durante le feste natalizie sono assicurate.
martedì 22 novembre 2011
BRUCE SPRINGSTEEN: TRE concerti a Giugno. Ecco le date!
Alle 00:22(notare l'ora:esattamente la stessa che portò tanti guai nel 2008, durante l'ultimo concerto a Milano, per via dello sforamento dall'orario imposto) di Martedì 22 Novembre , il promoter della Barley Arts, Claudio Trotta, dopo giorni di indizi, ha comunicato ufficialmente, dalla sua bacheca facebook, le tre date dei concerti di Springsteen con la sua E Street Band in Italia nel Giugno del 2012.
Eccole:
7 Giugno MILANO-Stadio San Siro10 Giugno FIRENZE-Stadio Franchi
11 Giugno TRIESTE-Stadio Nereo Rocco
Il prossimo anno ucirà anche il suo nuovo disco, di cui si sa ancora pochissimo.
Tutte le notizie relative ai concerti: posti, prezzi e prevendite sono già sul sito ufficiale Barley Arts.
http://www.barleyarts.com/News/1/5/7503/e-ufficiale-gioved-7-10-e-11-giugno-il-boss-torna-in-italia
domenica 20 novembre 2011
RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS ( Best Of 1999-2011)
DAVIDE VAN DE SFROOS Best Of 1999-2011 (Pdt Sa Universal, 2011)
Il momento per tirare le somme è quello giusto. Gli anni di carriera stanno diventando tanti, così come le sue uscite discografiche, sempre comunque oculate e fatte uscire quando c'è veramente qualcosa da dire. Tante esperienze, riconoscimenti e concerti hanno portato il nome di Davide Bernasconi dalle prime esperienze a suon di punk rock nei Potage(sua prima band rock) a diventare il Davide Van De Sfroos, musicista, scrittore e poeta che l'Italia intera ha tardivamente scoperto solo quest'anno con la sua inaspettata partecipazione a Sanremo.
Anni in cui la sua musica è riuscita a legare così bene la poetica tra visione e realtà dei suoi testi in lagheè con le influenze musicali più svariate e cangianti durante gli anni. Dai Clash a Bob Marley, da Dylan a Johnny Cash, dai Pogues ai Ramones dal combat folk al cantautorato, tutti convivono e rivivono nelle sue canzoni, dentro alle balere del sabato sera, ai bordi del lago di Como in giornate autunnali di nebbia, nei prati e nei boschi di collina durante le giornate di sole, nei sapori di feste di paese, nelle navi e barche nelle storie degli emigranti, negli stabilimenti balneari estivi, dentro ad una buia miniera o in una lontana New Orleans sprofondata nell'acqua.
Da Caino e Abele a Yanez, c'è un'arca piena di personaggi comuni salvati dal loro dimenticato destino e riportati alla ribalta, rilucidati a nuovo e consegnati alla pubblica diffusione come assoluti protagonisti con i fari di scena puntati : l'autista della curiera, il Genesio, El Bestia, El mustru, lo ziu Gaetan, nona Lucia, il Cimino, il costruttore di motoscafi, il reduce e Maria. Un campionario vario di umanità che diventa protagonista. La rivincita di chi sta in seconda linea, quando si dà ai gregari il giusto e meritato riconoscimento.
Come sempre Davide Van De Sfroos pensa ai suoi fans. Quelli nuovi a cui questa raccolta è principalmente rivolta e a quelli di vecchia data che lo seguono con fede quasi maniacale. E' lo stesso Van De Sfroos nel DVD incluso a raccontarci il perchè di questa raccolta.
Due CD, 30 canzoni, tra cui due inediti registrati in solitaria a casa sua(Live fron cà mia), un DVD di un'ora e per non far mancare nulla anche due racconti inediti nascosti nel libretto. Cinque album presi in esame: Brèvà e tivàn(1999), E seem partii(2001), Akuaduulza(2005), Pica!(2008) e Yanez(2011), lungo 12 anni di attività discografica. Manca solo Manicomi .Questi sono i numeri ed è tanta roba come sempre, racchiusa in una bella confezione dalla copertina di stoffa.
I venti delle sue zone, i luoghi, le leggende di provincia che scalpitano per diventare metropolitane e i personaggi del primo disco sopravvivono in canzoni come Cauboi, Il duello, La balera, e Pulenta e galèna frègia; l'amaro viaggio in cerca di speranza e vita di E semm partii in Grand Hotel, E semm partii, L'omm de la tempesta.
Van De Sfroos dà il primo scossone forte alla sua carriera con Akuaduulza, uscito nel 2005, un disco carico di ombre, con una accurata ricerca sonora che lo porta in America. Un disco dove il lago di Como diventa il suo Mississippi, dove le leggende del Delta diventano quelle racchiuse nella sua provincia dentro a Akuaduulza, Il libro del mago e Nona Lucia.
E poi la consacrazione nazionale con Pica! con i suoi personaggi quasi mitologici: Il minatore di frontale, La ballata del Cimino, Il costruttore di motoscafi. Con il primo grande concerto evento al Forum di Assago nel 2008 che il prossimo 25 Febbraio 2012 verrà ripetuto con la sua schiera di fans che in questo solo anno, dopo la partecipazione a San Remo e il disco Yanez si è moltiplicata. Il camionista Ghost Rider, El carnevaal de Schignan e La machina del Ziu Toni stanno viaggiando in tutto lo stivale.
I due inediti sono due canzoni folk per sola voce e chitarra acustica, la splendida ed autunnale Foglie, quando la natura diventa anche specchio della vita umana e la più giocosa e divertente Lettera da Marte, registrate in solitaria dentro le mura domestiche. Anticipo del carattere del prossimo disco?
I due brevi ed introspettivi racconti:"Il cedro del libano” e “Retha Mazur il vento” che continuano sulla scia dei libri che Davide ha già scritto e che gli hanno garantito una discreta fama anche come originale scrittore:Le parole sognate dai Pesci e Il mio nome è Herbert Fanucci.
Infine il DVD,dove sono catturate immagini live e prese dal backstage dell'ultimo fortunato tour estivo: il rapporto con i suoi musicisti e i suoi fans vecchi e nuovi(fantastico un signore toscano che la prima volta che lo vide in tv a Sanremo ha esclamato:"ma chi è quel pirla!", per poi iniziare a seguirlo rapito in giro per l'Italia); Van De Sfroos che racconta il perchè dell'uso del dialetto( che tanto ha fatto discutere in chiacchere fondate nel nulla politico) , Van De sfroos ripreso nei suoi luoghi: da casa sua al bar sottocasa, di fronte al lago e alle sue amate onde. Infine il perchè di questa raccolta("i Desfans sono pazzi, hanno tutti i dischi ma ne comprano anche dieci copie , anche da regalare") e la scelta della copertina e delle foto.
Tutto il "piccolo-grande" mondo di Van De Sfroos. Per chi c'era e per chi no. Perchè no?
TRACKLIST: BEST OF 1999-2011
CD1-Cau Boi, Pulènta e galèna frègia, Il duello,La balàda del Genesio, La balera, Ninna nanna del contrabbandiere (live), Il figlio di Guglielmo Tell,Sugamara, Grand Hotel, E semm partii,Ventanas, El mustru, San Macau & San Nissoen, L’omm de la tempesta, Foglie (Bonus track )
CD2-Akuaduulza, Il libro del mago, Nona Lucia, Il minatore di Frontale, La ballata del Cimino, Il costruttore di motoscafi, New Orleans, 40 pass, Yanez, La machina del Ziu Toni, Il camionista Ghost Rider, El Carnevaal de Schignan, La figlia del tenente, Dove non basta il mare, Lettera da Marte (Bonus Track)
DVD- Fronteretro- onde su Onde- Glottologia- Dettagli- I musicanti
Vedi anche:
RECENSIONE "YANEZ":
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/03/recensione-davide-van-de-sfroos-yanez.html
RECENSIONE concerto Koko Club, Castelletto Cervo(BI),7 Maggio 2010:
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
RECENSIONE concerto Castagnole delle Lanze(ASTI),20 Agosto 2011:
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/08/recensionereportage-davide-van-de.html
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venerdì 18 novembre 2011
RECENSIONE: 99 POSSE ( Cattivi Guagliuni)
99 POSSE Cattivi Guagliuni ( NoveNove, 2011)
"Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere
credo che apparteniamo tutti ad una stessa famiglia
che è la famiglia umana " Vittorio Arrigoni
Dieci anni di pausa dopo aver corso e poi ancora corso sono tanti. Quando ti accorgi, però, che poco è cambiato, se non in peggio, capisci perchè il guaglione che correva(forse scappava?), adesso si è moltiplicato ed è diventato anche cattivo ma si poteva anche rischiare un "incazzato" o "indignados" per rendere ancor meglio l'idea e entrare meglio nei tempi.
I 99 Posse sono mancati. La loro assenza mi sembrava una sconfitta di fronte alle derive etico/sociali e politiche che hanno caratterizzato l'ultimo decennio della repubblica italiana.
La loro voce di dissenso e denuncia ha fatto la rivoluzione nei primi anni novanta. Il fenomeno delle posse (in compagnia di Bisca ma anche di Isola Posse All Star, Assalti Frontali e tutte quelle voci nate dall'underground di tutte le grandi città italiane, non solo Napoli) furono la vera rivoluzione "punk italiana", la voce con le "mani Pulite" che usava il rap e l'hip hop( ma non solo, visto il crossover totale che mischiava punk, reggae e rock) come linguaggio di attivismo e propaganda che nel nostro paese mai si era visto così forte; lontano da quello dei cantautori un pò snob degli anni settanta.
La discesa in campo di certi personaggi da bagaglino e la corruzione politica dilagante del periodo furono manna per certi gruppi, forse taggati superficialmente di retorica, ma che a conti fatti avevano visto lungo, molto lungo. Anche chi non era della scena subiva censure e tagli: vi ricordate il famoso primo Maggio con Elio e le storie tese?
Qualcuno ha fatto finta di non accorgersene ma il segno che hanno lasciato è profondo. Come tutti i "forti" movimenti musicali di rottura, la stagione è stata breve ma intensissima.
Gli stessi 99 Posse per stare in vita hanno dovuto fare le loro scelte artistiche, che hanno dato loro ragione senza mai mancare quell'estremismo che caratterizzò i primi anni e la sfilza di denunce collezionate parlano da sè e fanno impallidire i vari Fabri Fibra di oggi.
Luca O Zulù Persico, Sascha Ricci, Marco Messina e Max Jovine si sono ritrovati dopo tanti anni con troppe cose da raccontare tutte insieme. Anni fatti di tante esperienze musicali e personali. Un ritorno che musicalmente e testualmente guarda più ai primi anni che non a quelli insieme a Meg(unica assente di questa reunion) che arrisero loro anche i primi posti delle classifiche e video in heavy rotation.
Gli ingredienti ci sono sempre tutti e tanti amici, anche più giovani, hanno contribuito a dare un aiuto. Scelta l'indipendenza anche discografica, si riparte.
Un manifesto programmatico per capire il perchè del loro ritorno che poi è lo stesso della loro nascita è Canto pè dispietto. Perchè là fuori, a certi personaggi, certe parole danno ancora fastdio.
Un disagio che nasce dal basso dai quartieri di Napoli e di tutte le grandi città, dove l' università di vita è la strada University of Secondigliano, e i carceri sono un set di anime dimenticate con poca voce: Morire tutti i giorni (con Daniele Sepe) e Cattivi Guagliuni (...Cundannate, cundannate in primo grado a commettere i reati/nati dint'a certi quartieri ca tutto chello ca tenimmo/è chello c c'ammo arrubbato/concentrati invogliati sedotti abbandonati/po' l'appello 'a cassazione e jammo tutte quante carcerate/niente clemenza e se non fosse abbastanza/dopp' si pregiudicato sospettato delinquente abituale sorvegliato...)..
Musica usata ancora come veicolo combattivo e punto di ritrovo per chi alle risposte politiche di questa Italia non ci crede( Massimo Troisi introduce :Italia Spa), da qualunque lato arrivino. La dissacrante Yes Weekend, con i campionamenti di politici di sinistra, appropiatosi di slogan altrui e pronti all'opposizione, quasi a tempo perso:
(...Lo sai come si fa l'opposizione all'italiana/Si va tutti in vacanza per ilo fine settimana...).
Il ritorno al punk di La Paranza di san Precario per denunciare il precariato lavorativo, i protagonisti cambiano (Marchionne) ma i problemi sono sempre quelli e peggiorati. Abbiamo creduto alla favola del lavoro interinale ma qui non si campa senza la sicurezza di uno stipendio.
Tracce del progetto Al Mukawama(progetto post -scioglimento) nei veloci beat ragamaffin' di Antifa 2.0; il ricordo di un piccolo eroe degli anni duemila in Resto Umano , costruita con i samples della voce di Vittorio Arrigoni.
Se Zulù era la voce "contro" degli anni novanta, Caparezza, in qualche modo è diventato quella degli anni duemila, i suoi messaggi travestiti da canzoni quasi da cabaret sono forti e diretti. Chi vuole non capire, continui pure. Il matrimonio è quindi d'obbligo, visto anche il rispetto reciproco e avviene in Tarantelle pè campà.
Ma poi arrivi alla fine e il messaggio di resistenza più forte arriva con Penso che non me ne andrò.
(...Resto qua/ho ancora da fare un poco di cose anch'io/e in più c'ho/ancora da fumare le piante da curare/devo ancora andare in giro per il mondo/voglio perdere di vista il giorno/e poi non posso andare via perché/il mio cane ha bisogno di me/voglio vedere come va a finire/questo paese vuole un bel finale/io casomai vorrei contribuire qualche cosa troverò da/fare qua/mi trovo bene qua/tiro annanz a campa'/fra i viali di cemento je provo a respirà...)
Il guagliò che prima correva e scappava, ha trovato la soluzione:"io resto" e combatto...ad andarsene saranno altri. Sembra stia iniziando a funzionare!!!
mercoledì 16 novembre 2011
RECENSIONE: SAXON/ANVIL Live@Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia(NO),15 Novembre 2011
Concerto d'altri tempi questa sera al Rock'n'Roll Arena di Romagnano Sesia(NO).
Un sold out annunciato che ha lasciato fuori al freddo dell'incombente inverno chi è arrivato in ritardo e non ha potuto timbrare il cartellino con la storia dell'heavy metal. Perchè i Saxon, nonostante non abbiano mai raggiunto il successo planetario dei compagni di inizio avventura, Iron Maiden, rappresentano ancora oggi, più di Steve Harris e soci , la vera anima stradaiola che caratterizzò il movimento NWOBHM che animava i sobborghi inglesi nei fine anni settanta. Nonostante tutte le beghe legali e i conflitti personali con gli ex componenti, i Saxon sono ancora quei "son of a bitch"(primo nome della band) di inizio carriera.
Poi per questa serata erano in accoppiata con un'altra leggenda del metal degli anni ottanta, i canadesi Anvil e molti erano qui per non perdersi quel mattacchione di "Lips".
Ad aprire la serata i giovani britannici Crimes Of Passion, sponsorizzati dagli stessi Saxon e con all'attivo un album ed un ep, il loro old school metal, nonostante parecchi problemi tecnici abbiano infestato la mezz'ora di esibizione, ha conquistato. Il biondo e simpatico cantante Dale ci ha messo del suo e a fine concerto si sono meritati l'ovazione.
Vidi i canadesi Anvil circa quindici anni fa e devo dire che ero qua, come tantissimi altri anche per loro. Gli Anvil hanno attraversarto fasi alterne di carriera, dai fasti scollacciati dei primi anni ottanta con i poco nascosti riferimenti sessuali che strabordavano dalle liriche-alla faccia dei benpensanti- e veri e propri prime movers dello speed and thrash metal(prima ancora di quel Kill'em all da prima pagina), fino ad arrivare alla rinascita di questi ultimi anni, grazie anche al divertente documentario che tanto successo ha avuto(Anvil: the story of Anvil) e all'ultimo album Juggernaut of Justice che ne hanno rilanciato la carriera. Chi non è mai cambiato è Steve "Lips" Kudlow, un vero monello dalle mille smorfie che passa dai spettacolari assoli impossibili, anche con l'immancabile vibratore usato come bottle neck, a rasoiate chitarristiche che definiscono il suono "in your face" della sua creatura. La formazione a tre con Glenn Five al basso e il "vecchio"Robb Reiner che dietro le pelli è un martello pneumatico, ha avuto modo di mettersi in mostra tra una gag e l'altra di Lips.
Il loro set ha goduto del miglior suono della serata, ed ha alternato vecchi successi come 666, Mothra, March of the Crabs, la terremotante Winged Assassins, l'inconfondibile Metal on Metal ai più recenti Juggernaut of justice e la bluesata New Orleans Voo Doo. Gli Anvil rimangono una piccola istituzione, lontana dai grandi circuiti, da preservare e sostenere.
Un peccato è aver assistito alla prima parte del concerto dei Saxon, con dei suoni veramente boombastici che ne hanno penalizzato il set. Fortunatamente, questa volta è da dire, l'impianto audio salta alle prime battute di Rockn'n roll Gypsy e quello che poteva essere un disasto si trasforma nella salvezza del concerto che proseguirà con i giusti suoni fino alla fine e con i Saxon ancora più micidiali.
I britannici presentano il loro nuovo e buon album Call to Arms(2011). Tanti gli estratti che si sono incastonati con i vecchi cavalli di battaglia, dall'apertura del concerto con Hammer of the Gods, passando per Mists of Avalon, all'epica Call to Arms fino a When Doomsday comes(Hybrid Theory).
Il sempre più regale Biff Byford, dall'inconfondibile e unica voce, rimane quel catalizzatore che è sempre stato, un uomo che ha raggiunto i sessant'anni d'età e che da quasi quaranta porta avanti le sue battaglie e la sua creatura Saxon(raccontato così bene nel suo libro autobiografico "Never Surrender"), tra alti e bassi ma con immutata passione.
Il working class metal degli esordi sopravvive in anthems entrati di diritto nella storia della musica pesante: Heavy Metal Thunder, l'inno "bykers" Motorcycle Man, Dallas 1Pm e Denim and Leather non hanno bisogno di troppi commenti e spiegazioni. La band poggia sulle chitarre del pirata Paul Quinn(fantastici alcuni suoi assoli), l'altro superstite della prima line-up del lontano 1976 e dell'ultimo entrato(ormai da quindici anni nella band) Doug Scarratt , sulla strabordante esuberanza ed headbanging instancabile del rosso bassista Nibbs Carter e sul drumming preciso del veterano Nigel Glockler, nascosto dietro alla sua faraonica batteria.
Una carriera rivisitata guardando soprattutto agli anni ottanta, fino ad arrivare a quei dischi che cercavano l'America e il glam, al tempo poco digeriti dai die-hard fans, qui rappresentati bene da Rock the Nations.
La velocissima e squassante 20.000 Ft, l'immancabile e ormai "fatta loro" cover di Ride like the wind di Christopher Cross e Wheels of Steel (“She’s got wheels… wheels of steel!”) portano al caldo ed incandescente finale con Byford che cerca sempre più il contatto con i suoi fans e si appropria di una maglietta da calcio azzurra che si lega intorno al collo. Dopo 747(Strangers in the night) e l'anthemica Power and the Glory arrivano le finali ed immancabili Strong Arm of the Law e Princess of the Night, assurte a veri e propri inni e stile di vita, che chiudono la serata vintage all'Arena.
I primi anni ottanta si sono rimaterializzati per una sera, ma senza effetto nostalgia perchè Anvil e Saxon, "kick some ass", come direbbero Lips e soci, a molte novelle e pretenziose band di oggi.
And the band played on...
VIDEO di "HEAVY METAL THUNDER":
martedì 15 novembre 2011
RECENSIONE/Reportage: BOB DYLAN/MARK KNOPFLER Live@ Forum di ASSAGO(MI) 14 Novembre 2011
"Da bambino pensavo che Dio assomigliasse a mio nonno; da adulto penso che assomigli a Bob Dylan." PERRY MEISEL, The Times Literary Supplement
Venghino signori e signore, il Never Ending Tour passa anche quest'anno in città. Quattro città, per l'esattezza.
Bob Dylan è un Dio che non si nasconde, ma che ama travestirsi da diavolo, che ogni anno, ogni mese e quasi ogni giorno dell'anno, ha bisogno di sentire la sua comunità riunita ad acclamarlo. Di guardare i suoi fedeli e farsi guardare e giudicare, farsi misurare lo stato di salute, di giorno in giorno, come un bollettino medico redatto da chi teme per lui e la musica tutta.
Il suo status da quasi premio nobel(prima o dopo arriverà)imporrebbe palchi da mille e una notte, celebrazioni e fuochi d'artificio di ogni sorta. Quest'anno poi, ci sono da festeggiare le settanta candeline. Ma a lui, tutto questo contorno, interessa veramente poco. Basta solo salire sul palco, come esigenza primaria di sopravvivenza, potrebbe essere anche un pub se fosse possibile. Cerimoniere attento a scuotere e rovesciare le sue canzoni, divertirsi a suo modo, anche se guardandolo non credi sia possibile. Così come negli ultimi anni non può fare a meno di condurre programmi radiofonici, offrire le sue canzoni a pubblicità e fare dischi natalizi. La musica placa la sua bulimia. Un vuoto(?) che solo la musica può colmare.
I beni informati lo davano in buona salute e allegro.
Stasera erano presenti: i vecchi devoti che conoscono parole, scalette e movimenti, tanto da sapere con precisione svizzera se quella o questa canzone l'ha suonata al centro palco o di lato, con le mani sulla tastiera , sulla chitarra o intente a tenere l'armonica; i fans nostalgici fermi a Desire; chi lo vede per la prima volta e chi continua a rifiutarsi di vederlo per non rovinarsi l'immagine che porta nel cuore e negli occhi;tutte le sere ci sono anche loro con Dylan.
Al di là di tutto, questo Tour con Mark Knopfler ha assunto l'appellativo di evento, il giorno dopo l'annuncio. I motivi sono qui:http://enzocurelli.blogspot.com/2011/07/bob-dylan-mark-knopfler-untour-insieme.html
Poveri gli spettatori delle prime date europee(primissima a Dublino) che dell'evento poco hanno percepito, visto che Dylan e Knopfler non si sono mai visti insieme sul palco- sarebbe altresì bello vedere cosa succede nel retropalco. Con il proseguio del tour le apparizioni dell'ex Dire Stratits si sono moltiplicate come i pani e i pesci, fino ad arrivare a presenziare sul set di Dylan per 6 canzoni o solo per tre come avvenuto qui a Milano, stasera. Quarta ed ultima tappa italiana, dopo Padova, Firenze e Roma. Accontentiamoci, poteva andar peggio o non andare proprio come a Dublino.
Il Forum di Assago si riempie lentamente, ma il colpo d'occhio a inizio concerto c'è! Tanti giovani, famiglie e irriducibili fans tra cui tanti attempati tedeschi.
Alle chitarre di Mark Knopfler, cambiate in modo ossessivo quasi ad ogni canzone, il compito di aprire il concerto. Chitarre che mantengono quel tocco inconfondibile di quando i già radi capelli erano tenuti fermi da una fascia di spugna e i colori dei suoi abiti erano quelli improponibili degli anni ottanta. Ora viaggia sul caldo e rassicurante territorio folk/country con qualche puntata blues. Territori che iniziò a calpestare sempre più assiduamente già con i Dire Straits finali di "Calling Elvis" e con il progetto The Notting Hillbillies.
Crede a quello che fa, Mark, potrebbe campare a vita con una decina di estratti dal catalogo Dire Straits. Non lo fa. Si gode la sua vecchiaia. Lo apprezzo. Le note della sua chitarra aleggiano nel Forum meglio di quanto potrebbe avvenire con il rock da stadio del suo vecchio gruppo.
Le influenze irlandesi e scozzesi si sono quasi impadronite della sua musica e la band di sette elementi suona cristallina, senza sbavature. Contrabbasso(Glen Worf), violino(John Mc Cusker), flauto(Mike Mc Goldrick) e tante chitarre.
I momenti forti: l'iniziale What it is, Sailing to Philadelphia la nuova e trascinante irish folk Privateering, le suggestioni american-western di Speedway at Nazareth e le due uniche concessioni al suo passato nei Dire Straits: Brothers in Arms e la conclusiva So far Away, dopo un finto accenno d'uscita che si poteva evitare.
Un cambio palco veloce. Le luci si riaccendono, fioche. Sembra di essere in una vecchia sala da ballo degli anni cinquanta con un tendone rosso a fare da cornice. Rimarrà così tutta la sera.
Dylan, di nero vestito, con un cappotto da guerra di secessione, cappello di ordinanza ed un accenno di pizzetto che gli contorna il viso è circondato dal grigio della sua band. Con loro sul palco, per le prime tre canzoni, c'è Mark Knopfler e la sua chitarra si fa sentire. Il "seghilineo" e bravo Charlie Sexton gli lascia la ribalta che si riprenderà dopo. Leopard-skin Pill box hat apre senza sorprese. La prima delle due chicche delle date italiane è It's all Over Now, Baby blue estratta da quel capolavoro che fu"Bringing it All back Home(1965). L'altra sarà Simple twist of fate da Blood on the tracks(1975).
Dopo la "premio oscar" Things have changed, Knopfler di defila silenziosamente nel retro palco, senza presentazioni e cerimonie.
D'ora in avanti, il suono sarà un torrenziale blues che marcia incontrastato come un cingolato. Dylan comanda la sua band e si prende i suoi spazi, presenziando spesso a centro palco con le sue armoniche che riesce a perdere una volta usate, non riuscendole più a trovare quando gli servono nuovamente. Si alterna tra chitarra e tastiere, sorprendendo per alcune sue timide pose, quasi a ritmo di danza e alcuni accenni di sorriso.
A parte la ciondolante Spirit of Water e Desolation row, tutto viaggia pesante, con la sua voce che riesce ad essere rantolo e lamento, grido e sofferenza, poetico tramite tra gioventù e vecchiaia, rumore assente e palpabile esaltazione cavernosa. Là dove la band di Knopfler aveva suoni puri e cristallini, quella di Dylan è torrida e grezza in Honest with me, Highway 61 e Thunder on the Mountain. Ciniche riletture blues alla Dylan. Studio di rivisitazione del suono americano intrapreso da circa venti anni.
Non poteva mancare All Along the watchtower, pachiderma gettato in pasto ai suoi fans, quasi hard nel suo incedere. Dylan arrivato a fine concerto, pronuncia le sue uniche parole e sono per presentare la band, ormai fida e collaudata: Donnie Herron, George Receli, Charlie Sexton, Tony Garnier e Stu Kimball.
La chiusura è tutta per Like a Rollihg Stones, con il pubblico che finalmente può cantare con il suo idolo, anche se con estrema difficoltà nel seguirlo: "How does it feel, to be without a home,like a complete unknown, like a rolling stone".
Niente bis. Va bene così. Chissà cosa spinge Dylan a fare un bis una sera sì e due no?
Si esce consapevoli di aver visto un pezzettino di storia. Riletta e modificata ma pur sempre storia. Tra chi rimprovera a Knopfler di non aver fatto abbastanza canzoni dei Dire Straits, giovani che volevano sentire da Dylan, Hurricane e Knockin' on Heaven's door e chi, utopisticamente si immaginava di vederlo ancora in acustico nei panni del menestrello folk.
Io che volevo fortissimamente Man in the long black coat che stasera ha saltato.
Il Dylan di oggi è questo:cinico e spietato, quasi violento. Prendere o lasciare.
SETLIST MARK KNOPFLER:
1)What it is 2)Cleaning my gun 3)Sailing to Philadelphia 4)Hillfarmer blues 5)Privateering 6)Song for Sonny Liston 7)Donegan's gone 8)Marbletown 9)Brothers in arms 10)Speedway to Nazareth 11)So far away
SETLIST BOB DYLAN:
1) Leopard-Skin Pill-Box Hat (con Mark Knopfler) 2) It's All Over Now, Baby Blue (con Mark Knopfler) 3) Things Have Changed (con Mark Knopfler) 4) Spirit On The Water 5) Honest With Me 6) Tangled Up In Blue 7) The Levee's Gonna Break 8) Desolation Row 9) Highway 61 Revisited 10) Simple Twist Of Fate 11) Thunder On The Mountain 12) Ballad Of A Thin Man 13) All Along The Watchtower 14) Like A Rolling Stone
lunedì 14 novembre 2011
RECENSIONE: GUY LITTELL (Later)
GUY LITTELL Later (autoproduz., 2011)
L'estate scorsa, durante la pausa forzata dovuta ad una estenuante coda di automobili, mi è capitato di perdere lo sguardo in modo malinconico attraverso le maglie quadrate di una rete metallica che dividevano il ponte di un'autostrada con il vuoto apparente di un paesaggio lontano. Gli occhi accecati dal sole superavano i palazzi, grandi come casermoni, di una sonnolenta Genova mattutina e si tuffavano nel mare che si intravedeva in lontananza. Forse stavano già cercando la lontana Napoli e un suo abitante che però con lo stesso gioco di sguardi , gli occhi li ha puntati ancora più lontano.
Lo sguardo di Guy Littell attraversa mari e oceani e sbarca negli States, scrutando il lato meno solare di un continente che troppo spesso identifichiamo come un'isola del tesoro. Il lato ombroso della west coast californiana dei primi anni settanta incontra l'elettrico deserto alternativo degli anni novanta, dove i Giant Sand di Howe Gelb e i Dream Syndicate di Steve Wynn hanno lasciato impronte indelebili. Proprio per Steve Wynn, Guy Littell ha aperto i concerti poche settimane fa. Un biglietto da visita che può valere rispetto e attenzione.
Later è il primo album del napoletano Gaetano di Sarno(il nome d'arte è preso da un romanzo di James Ellroy), dopo l'ep "The Low Light & The Kitchen" uscito nel 2009.
Due cose colpiscono immediatamente l'ascoltatore dopo solo pochi secondi dell'iniziale Tired Of Tellin'. La voce e i suoni grezzi ma al contempo avvolgenti ed incalzanti, grazie anche alla produzione di Ferdinando Farro.
L'America di Guy Littell è quella di chi cammina dalla parte cattiva della strada e sta cercando se stesso, così intrisa di quella velata e rabbiosa malinconia che gli improvvisi scatti elettrici dietro alle acustiche strutture delle canzoni mettono in risalto. Una solitaria camminata contromano verso la folla incalzante e schiamazzante. La solitudine imposta e la solitudine cercata per uscire da meccanismi stritolanti.
Gli spazi dilatati aperti dalle chitarre elettriche dell'iniziale Tired of Tellin' che si apre in acustico, il fervido incedere di Needed That call, dai suoni elettrici e indie trovano la loro controparte nel folk acustico intriso di amarezza ed intimistica malinconia di Within e dagli incubi notturni di The Nightmare Come.
I conflitti interiori che affiorano in What a war(for my soul) e i fantasmi della dimessa Black Water con i loro beat elettronici incastrati alla perfezione sulle canzoni che riportano alla riuscitissima collaborazione tra i Soulsavers e Mark Lanegan..
Proprio la voce di quest'ultimo sembra il metro di paragone più calzante per descrivere la profondità vocale di Guy Littell. Una voce che sembra nascere dal profondo dell'anima che però sa cambiare registro all'occorrenza come in Kill the Winter con il suo andamento pop con una coda elettrica che ricorda il miglior Ryan Adams, altro artista a cui Guy Littell potrebbe essere accomunato. La sua voglia di destrutturare le canzoni che affiora in Small American Town, un'America nascosta e di provincia squassata da improvvise esplosioni elettriche. Particolari, infine, il mood sixty-psichedelico di A Gifted Summer e l'incedere alla Neil young della conclusiva Best Thing ever con un violino che ci lascia in bellezza.
Dopo il disco dei Verily So, altra sorpresa italiana dell'anno, "Later" di Guy Littell sembra viaggiare nella stessa direzione, verso un' America che sembra essere vissuta come solo chi ci è nato potrebbe fare, lontana dai soliti e banali luoghi comuni. Non oso immaginare cosa potrebbe tirar fuori Guy Littell se la terra promessa riuscisse a calpestarla oltre che vederla dalle grate di una rete.
Un conclusivo grazie a chi mi ha fatto conoscere Guy Littell, testimonianza di come il passaparola funzioni ancora in un mondo musicale sempre più superficiale.
INTERVISTA su ImpattoSonoro.it
L'estate scorsa, durante la pausa forzata dovuta ad una estenuante coda di automobili, mi è capitato di perdere lo sguardo in modo malinconico attraverso le maglie quadrate di una rete metallica che dividevano il ponte di un'autostrada con il vuoto apparente di un paesaggio lontano. Gli occhi accecati dal sole superavano i palazzi, grandi come casermoni, di una sonnolenta Genova mattutina e si tuffavano nel mare che si intravedeva in lontananza. Forse stavano già cercando la lontana Napoli e un suo abitante che però con lo stesso gioco di sguardi , gli occhi li ha puntati ancora più lontano.
Lo sguardo di Guy Littell attraversa mari e oceani e sbarca negli States, scrutando il lato meno solare di un continente che troppo spesso identifichiamo come un'isola del tesoro. Il lato ombroso della west coast californiana dei primi anni settanta incontra l'elettrico deserto alternativo degli anni novanta, dove i Giant Sand di Howe Gelb e i Dream Syndicate di Steve Wynn hanno lasciato impronte indelebili. Proprio per Steve Wynn, Guy Littell ha aperto i concerti poche settimane fa. Un biglietto da visita che può valere rispetto e attenzione.
Later è il primo album del napoletano Gaetano di Sarno(il nome d'arte è preso da un romanzo di James Ellroy), dopo l'ep "The Low Light & The Kitchen" uscito nel 2009.
Due cose colpiscono immediatamente l'ascoltatore dopo solo pochi secondi dell'iniziale Tired Of Tellin'. La voce e i suoni grezzi ma al contempo avvolgenti ed incalzanti, grazie anche alla produzione di Ferdinando Farro.
L'America di Guy Littell è quella di chi cammina dalla parte cattiva della strada e sta cercando se stesso, così intrisa di quella velata e rabbiosa malinconia che gli improvvisi scatti elettrici dietro alle acustiche strutture delle canzoni mettono in risalto. Una solitaria camminata contromano verso la folla incalzante e schiamazzante. La solitudine imposta e la solitudine cercata per uscire da meccanismi stritolanti.
Gli spazi dilatati aperti dalle chitarre elettriche dell'iniziale Tired of Tellin' che si apre in acustico, il fervido incedere di Needed That call, dai suoni elettrici e indie trovano la loro controparte nel folk acustico intriso di amarezza ed intimistica malinconia di Within e dagli incubi notturni di The Nightmare Come.
I conflitti interiori che affiorano in What a war(for my soul) e i fantasmi della dimessa Black Water con i loro beat elettronici incastrati alla perfezione sulle canzoni che riportano alla riuscitissima collaborazione tra i Soulsavers e Mark Lanegan..
Proprio la voce di quest'ultimo sembra il metro di paragone più calzante per descrivere la profondità vocale di Guy Littell. Una voce che sembra nascere dal profondo dell'anima che però sa cambiare registro all'occorrenza come in Kill the Winter con il suo andamento pop con una coda elettrica che ricorda il miglior Ryan Adams, altro artista a cui Guy Littell potrebbe essere accomunato. La sua voglia di destrutturare le canzoni che affiora in Small American Town, un'America nascosta e di provincia squassata da improvvise esplosioni elettriche. Particolari, infine, il mood sixty-psichedelico di A Gifted Summer e l'incedere alla Neil young della conclusiva Best Thing ever con un violino che ci lascia in bellezza.
Dopo il disco dei Verily So, altra sorpresa italiana dell'anno, "Later" di Guy Littell sembra viaggiare nella stessa direzione, verso un' America che sembra essere vissuta come solo chi ci è nato potrebbe fare, lontana dai soliti e banali luoghi comuni. Non oso immaginare cosa potrebbe tirar fuori Guy Littell se la terra promessa riuscisse a calpestarla oltre che vederla dalle grate di una rete.
Un conclusivo grazie a chi mi ha fatto conoscere Guy Littell, testimonianza di come il passaparola funzioni ancora in un mondo musicale sempre più superficiale.
INTERVISTA su ImpattoSonoro.it
sabato 12 novembre 2011
RECENSIONE: DAVID LYNCH ( Crazy Clown Time)
DAVID LYNCH Crazy Clown Time ( Sunday Best, 2011)
Fuga dal cinema. Dice lui. Poche idee da proiettare sul grande schermo si tramutano in suono. David Lynch ha sempre condiviso la sua arte cinematografica con le note, a volte rendendole inseparabili come un lento monolite che catturava anima e pensiero. Le sue collaborazioni con Badalamenti per Twin Peaks e altre mille collaborazioni teatrali (Industrial Synphony N.1) e musicali (soundtracks e produzioni) hanno fatto solo da apripista a un qualcosa che prima o poi doveva accadere. La sua arte ha sempre dovuto liberarsi in qualche altra forma concreta. Se il cinema non accende più in lui la scintilla , sotto con la scrittura, i video musicali, la scultura, la pittura e poi ancora con le chitarre.
Crazy Clown Time, nasconde già nel titolo quello che Lynch vuole far uscire. Il pagliaccio non ha mai fatto ridere nessuno. La solitaria inquietudine di un sorriso sbavato, rosso che cola sul cerone bianco; riccioli biondi ai lati di una stempiatura nascosta da un cappello, specchio di un animo tormentato, nascosto da una risata forzata. Riso forzato per compiacere se stessi e il tempo che inesorabile avanza. Mano che sfida la sorte con un dado truccato.
Crazy Clown Time è ingenua mietitura di idee. Un blues che libera l'anima e i pensieri di Lynch. Oppressione davanti ad un mondo che ha voglia di ribellione. Ribellione davanti ad un mondo oppresso.
Non tutto funziona a meraviglia è bene dirlo. Il vocoder usato su Good Day Today, Strange and unproductive Thinking e Shine Rise Up andava bene per Kraftwerk e Rockets negli anni settanta, iniziava a dare già fastidio e irritava nel 1983 quando Neil Young lo usò su Trans (e lì aveva un almeno un senso molto profondo, si scoprì in seguito) se poi lo si incolla su ripetitivi samples elettronici, il risultato non cambia ma tende a peggiorare.
Cambia tutto quando ci si sposta sulla titletrack Crazy Clown Time. Sette minuti di voci agghiaccianti su un freddo blues dall'incedere marziale. Macchina da presa liberata nel deserto dell'anima alla ricerca di una luce. Buio, tanto buio in questo disco.
Lo spoken word di Speed Roaster ti catapulta dentro un quadro serale di Edward Hopper, illuminato da neon stanchi. Tutto è immobile tranne le ombre, nessuno fiata e il barista continua a tenere la bottiglia in mano, obliqua, ma di versare quel goccio di Whisky che potrebbe riscaldare la scena, non ne vuole sapere.
Football Game è un altro scheletrico blues che piacerebbe a Lanois ma che il collaboratore di Lynch, Dean Hurley riproduce in modo perfetto. Voce impastata e inquietante che narra instancabile così come in I know, lentissima discesa negli inferi scanditi da batteria, hammond e chitarre. Ossessiva ripetizione che ipnotizza come il ticchettio trip hop della liquida e fumosa Noah's Ark.
Tutto sembra comparire e scomparire: come le chitarre nel glaciale incedere di So Glad e Movin On; come la luce nella twinpeaksiana Stone's gone Up, dove sembra intravedersi uno spiraglio di raggio solare che illumina la scena, ma era solamente un raggio vero e proprio. Troppo poco, veramente.
Poi c'è Pinky's dream, piazzata in apertura, chitarre che portano a Twin Peaks e andatura quasi da psychobilly disossato con la voce di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs a elevarsi.
Non tutto è perfetto ma la curiosità riesce a tenerti incollato fino alla fine per chiederti : cosa succederà adesso e come andrà a finire? Se non è un film questo...
Fuga dal cinema. Dice lui. Poche idee da proiettare sul grande schermo si tramutano in suono. David Lynch ha sempre condiviso la sua arte cinematografica con le note, a volte rendendole inseparabili come un lento monolite che catturava anima e pensiero. Le sue collaborazioni con Badalamenti per Twin Peaks e altre mille collaborazioni teatrali (Industrial Synphony N.1) e musicali (soundtracks e produzioni) hanno fatto solo da apripista a un qualcosa che prima o poi doveva accadere. La sua arte ha sempre dovuto liberarsi in qualche altra forma concreta. Se il cinema non accende più in lui la scintilla , sotto con la scrittura, i video musicali, la scultura, la pittura e poi ancora con le chitarre.
Crazy Clown Time, nasconde già nel titolo quello che Lynch vuole far uscire. Il pagliaccio non ha mai fatto ridere nessuno. La solitaria inquietudine di un sorriso sbavato, rosso che cola sul cerone bianco; riccioli biondi ai lati di una stempiatura nascosta da un cappello, specchio di un animo tormentato, nascosto da una risata forzata. Riso forzato per compiacere se stessi e il tempo che inesorabile avanza. Mano che sfida la sorte con un dado truccato.
Crazy Clown Time è ingenua mietitura di idee. Un blues che libera l'anima e i pensieri di Lynch. Oppressione davanti ad un mondo che ha voglia di ribellione. Ribellione davanti ad un mondo oppresso.
Non tutto funziona a meraviglia è bene dirlo. Il vocoder usato su Good Day Today, Strange and unproductive Thinking e Shine Rise Up andava bene per Kraftwerk e Rockets negli anni settanta, iniziava a dare già fastidio e irritava nel 1983 quando Neil Young lo usò su Trans (e lì aveva un almeno un senso molto profondo, si scoprì in seguito) se poi lo si incolla su ripetitivi samples elettronici, il risultato non cambia ma tende a peggiorare.
Cambia tutto quando ci si sposta sulla titletrack Crazy Clown Time. Sette minuti di voci agghiaccianti su un freddo blues dall'incedere marziale. Macchina da presa liberata nel deserto dell'anima alla ricerca di una luce. Buio, tanto buio in questo disco.
Lo spoken word di Speed Roaster ti catapulta dentro un quadro serale di Edward Hopper, illuminato da neon stanchi. Tutto è immobile tranne le ombre, nessuno fiata e il barista continua a tenere la bottiglia in mano, obliqua, ma di versare quel goccio di Whisky che potrebbe riscaldare la scena, non ne vuole sapere.
Football Game è un altro scheletrico blues che piacerebbe a Lanois ma che il collaboratore di Lynch, Dean Hurley riproduce in modo perfetto. Voce impastata e inquietante che narra instancabile così come in I know, lentissima discesa negli inferi scanditi da batteria, hammond e chitarre. Ossessiva ripetizione che ipnotizza come il ticchettio trip hop della liquida e fumosa Noah's Ark.
Tutto sembra comparire e scomparire: come le chitarre nel glaciale incedere di So Glad e Movin On; come la luce nella twinpeaksiana Stone's gone Up, dove sembra intravedersi uno spiraglio di raggio solare che illumina la scena, ma era solamente un raggio vero e proprio. Troppo poco, veramente.
Poi c'è Pinky's dream, piazzata in apertura, chitarre che portano a Twin Peaks e andatura quasi da psychobilly disossato con la voce di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs a elevarsi.
Non tutto è perfetto ma la curiosità riesce a tenerti incollato fino alla fine per chiederti : cosa succederà adesso e come andrà a finire? Se non è un film questo...
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