giovedì 23 giugno 2011

RECENSIONE: NEIL YOUNG(A Treasure)

NEIL YOUNG A Treasure ( Reprise records,2011)


Quella di Young sembra una corsa contro il tempo. La voglia di far uscire tutto il materiale composto in cinquant'anni di carriera è tanta e sembra non seguire nessuna regola di classificazione, bellezza e cronologia. Con l'artista canadese ormai siamo abituati: tutto è possibile. Da alcuni anni stiamo assistendo ad un alternarsi continuo di uscite, tra nuovi lavori, vecchie canzoni inedite e performance live. Dopo la prima mastodontica parte degli archivi e lo spiazzante nuovo Le Noise dello scorso anno , quest'anno è la volta di una raccolta live risalente al periodo 1984/1985 che ha moltissimi punti di interesse e una canzone "tesoro" che da sola vale l'acquisto.
Già nel 1972 il buon Neil ci chiedeva Are you ready fo the Country? Da quella domanda/canzone ai concerti qui registrati sono passati dodici anni. Anni che lo hanno visto salire nell'olimpo dei cantautori e nei primi anni ottanta anche cadere vertiginosamente, fautore del prorio male. Vicende intime e personali, beghe con la casa discografica e voglia di sperimentare l'hanno portato nel giro di soli pochi mesi dalla celebrazione del punk (alla sua maniera) in un disco capolavoro come Rust never sleeps alle poche idee dell'hard rock di Re-ac-tor (1981), all'artificiosità di computer e sintetizzatori in Trans (1983) fino al poco convincente e tirato per i capelli ritorno alle origini nel rockabilly di Everybody's Rockin' (1983) e nel country di Old Ways (1985).
Proprio da quest'ultimo disco bisogna partire per parlare di questa raccolta live, A Treasure.
"Old Ways", registrato a Nashville, è la risposta a quella domanda fatta nel lontano 1972. Una risposta che però lasciò l'amaro in bocca. La voglia del canadese di tornare al country cozza contro l'eccesiva pulizia del suono che usciva dalle canzoni, evidentemente troppo lavorate in studio di registrazione e che perdevano l'aspetto ruspante delle tipiche ballate country che Young aveva sempre dato alle sue passate composizioni.
Canzoni già provate nei live con il gruppo che lo accompagnava in quegli anni, gli International Harvesters, e che sopra ad un palco suonavano giuste così come dovevano suonare. Non stupisce, quindi, che Neil Young al ritrovamento delle bobine contenenti le registrazioni di quei concerti abbia esclamato: "è un tesoro(a treasure)".
Da Old Ways spuntano Get back to the country e Bound for Glory che grazie a professionisti della country music come gli International Harvester si riappropriano della grezza esecuzione live che la registrazione in studio tendeva a smorzare riducendone le potenzialità.
Si arrichiscono di calore anche canzoni come Motor City e Southern Pacific, tutte e due tratte da "Re-Ac-Tor" , il violino di Rufus Thibodeaux, il piano di Spooner Oldhman e la slide di Ben "Long Grain" Keith regalano a Young il suono che in quel determinato periodo stava cercando, un pò per ripicca verso la sua casa discografica, poco contenta dei suoi precedenti dischi e sicuramente per tornare al suono di dischi come "Comes a time", summa del country-pensiero del canadese.
A Treasure contiene cinque canzoni mai apparse prima in nessun disco di Young. Amber Jean che apre il disco fu scritta per la figlia appena nata dal suo rapporto con compagna Pegy. Le altre sono il country-walzer guidato dal violino Let your fingers do the walking, il blues di Soul of a woman, Nothing is perfect e la gemma Grey Riders.
Grey Riders è un piccolo capolavoro rimasto nascosto per troppo tempo, una cavalcata country- elettrica, come se gli International Harvesters incontrassero il garage-rock dei Crazy Horse, con la chitarra elettrica di Young che torna a ruggire, impazzando lungo tutta la canzone.

Completano il set, una bella e tirata Are you ready for the country? e l'esecuzione di Flying on the ground is wrong ripresa dal primo omonimo disco dei Buffalo Springfield.
La sbornia country continuò ancora dopo questa serie di concerti con l'organizzazione insieme a Willie Nelson e John Mellencamp del primo Farm Aid, sorta di festival nato per raccogliere fondi da dare alle famiglie dei contadini americani colpiti da una forte crisi economica. Il Farm Aid sopravvive ancora oggi, mentre Neil Young dal 1986 con l'album "Landing on Water" cambiò nuovamente faccia, facendo uscire due tra i suoi peggiori e discutibili dischi (sono certo che attingendo dagli archivi, Young riuscirà a rivalutare anche questo suo periodo artistico).
A opera finita, l'unica recriminazione su questi tesori potrebbe essere la mancata possibilità di aggiungere altre canzoni alle dodici qua presenti (durante quei tour vennero riletti anche tanti suoi classici), ma certamente anche queste compariranno nei prossimi capitoli dei suoi infiniti, mirabolanti e magici archivi.




mercoledì 22 giugno 2011

in RICORDO DI "BIg Man" CLARENCE CLEMONS


Quando gli viene chiesto qual'è il segreto della longevità della band, lui risponde:"Siamo rimasti vivi". Tratto dal libro "Big Man" di Clarence Clemons & Don Reno.(Arcana, 2010)

Questa risposta ad una domanda di un giornalista, Springsteen la diede il 29 Gennaio 2009 durante la conferenza stampa per l'atteso show durante la finale Super Bowl 2009. Bruce era ignaro del destino che colpirà ancora una volta la sua E street Band dopo la perdita di Danny Federici avvenuta nel 2008.
Ignaro lo ero anch'io quando, solo poche settimane fa, avevo finito di leggere l'autobiografia scritta da Clarence Clemons insieme al giornalista Dan Reno. Un libro originale e divertente dove realtà e finzione si mischiano dando come unico risultato: la grande voglia di vivere del sassofonista Clarence. La lettura del libro mi aveva lasciato rinfrancato ed ottimista sulle sue condizioni di salute dopo le ultime operazioni alle ginocchia che lo avevano debilitato, impedendogli grandi movimenti sopra ai palchi di tutto il mondo.
Quando vidi Springsteen per la prima volta era il 1993 durante il tour conseguente all'uscita dei suoi dischi Human Touch e Lucky Town, il divorzio con la E street Band era già avvenuto da parecchio tempo, già le registrazioni di Tunnel Of Love(1987) vedevano i suoi fedeli musicisti comparire in modo alquanto alterno e distaccato. La grande band era un lontano ricordo quella sera di Pasqua, piovosa e fredda, allo stadio Bentegodi di Verona, l'unico supersiste della E Street Band fu il pianista Roy Bittan.
Bisognerà aspettare il 1995 per vedere la E Street Band al completo di nuovo unita, è per la registrazione di alcuni brani che andranno ad inserirsi nel Greatest Hits in programma.
Io, invece, dovrò aspettare un pò di più per gustarmi finalmente il mio piccolo sogno che negli anni settanta infiammò la scena rock americana. Il Tour di Reunion si materializza in Italia in tre date: due in Aprile e una l'11 Giugno del 1999 allo Stadio Ferraris di Genova.
Già il biglietto del concerto sembra promettere bene, riprendendo le sagome di Bruce e Clarence così come avvenne per le foto promozionali di Born To Run nel 1975, foto che vanno aldilà di un semplice scatto artistico per una copertina musicale. Dentro c'era tutta la vita e l'amicizia che li accompagneranno in eterno. L'emozione di vedere quelle due ombre materializzarsi sul palco fu tanta così come il concerto verrà ricordato per la presenza di mamma Adele sopra al palco con il figlio Bruce a ballare una tarantella napoletana suggellandone le origine italiane.
I concerti di Springsteen a cui ho assistito, da quel momento in avanti, furono tanti, ed escludendo la parentesi con la Seeger Session Band, hanno sempre visto la E Street Band al suo fianco, costatandone, purtroppo, anche quanto i componenti della band stessero invecchiando sempre più, sfigurando se paragonati all'eterno vigore del Boss e chiedendomi cosa c'era di tanto sbagliato? Era Bruce un eterno ragazzo o il resto della band è stato colpito da improvvisa vecchiaia.

Anche Clemons aveva limitato sempre più i suoi interventi e i suoi movimenti sul palco, nonostante Springsteen continuasse a presentarlo per ultimo con mirabolante uso di aggettivi e frasi ad effetto , ottenendo sempre il più grande boato della folla e i ringraziamenti commosi di Clarence.
Rimarrà nei miei occhi l'ultimo concerto di Bruce e Clanrence insieme in Italia a Torino il 21 Luglio 2009, un concerto straordinario dove gli acciacchi di Clemons (in verità più in forma che in altre occasioni) passarono in secondo piano, sapientemente nascosti dalla straordinaria prestazione di Springsteen.
Rimarranno i suoi assoli nei dischi di Bruce, del nostro Zucchero e perfino nei solchi Hard Rock della divertentissima Be Cruel to your School dei Twisted Sister e di mille altri artisti ancora, fino alla freschissima uscita di Lady Gaga, superando ogni steccato imposto dai generi musicali.
La notizia del ricovero di Clarence Clemons, avvenuta una settimana prima del decesso, mi aveva fatto crollare tutto l'ottimismo giunto dopo la lettura dell'autobiografia e la sua morte avvenuta il 18 Giugno mi ha subito riportanto a delle immagini contenute nel libro, in particolare quella che immortalava lo speciale sacrario che Clemons era dedito portarsi in scena e che conteneva le foto degli amici scomparsi, tra cui quella di Federici. Mi piacerebbe che quel sacrario continuasse a girare il mondo con una fotografia in più.


"Parlai del mio affetto per Danny e di quanto sarebbe stato rimpianto. Bruce non avrà mai un organista migliore. Danny suonava l'organo per Bruce Springsteen come io suono il sassofono per Bruce Springsteen. Mi commossi, e allora imbracciai di nuovo il sax". Tratto dal libro "Big Man".

Suona ancora Clarence!

lunedì 20 giugno 2011

RECENSIONE: RYAN BINGHAM & the DEAD HORSES Live@Sarnico(BG), 19 Giugno 2011


Nella giornata musicale che passerà tristemente alla storia per la scomparsa del grande "big man" Clarence Clemons, carismatica figura della E-Street Band di Bruce Springsteen, in riva al Lago d'Iseo sbarca un altro premio Oscar.

Il texano Ryan Bingham conferma il trionfo del suo esordio italiano nel gennaio del 2008 al Rolling Stones di Milano, quando inaspettatamente fu accolto da una numerosa schiera di fan, curiosi di vedere all'opera il nuovo sconosciuto talento del folk-rock "americana".
Una serata sicuramente da ricordare che ha coronato una splendida gita intorno ai paesi che delimitano il Lago d'Iseo, sotto un sole che, finalmente , sembra annunciare l'estate.
L'evento, completamente gratuito, rientra nel festival itinerante, Andar per Musica, giunto alla ventisettesima edizione, che animerà molti paesi della bergamasca unendo buona musica e tradizioni locali.

Sarnico è situato nella punta più ad Ovest del lago e già durante il pomeriggio per il soundcheck sembra dimostrare interesse verso Ryan Bingham e is suoi Dead Horses. Turisti d'età e giovani fan si mischiano insieme nella piazza xx Settembre, formando una brigada colorata e festosa, mentre solo le sedie posizionate dagli organizzatori davanti al palco sembrano smorzare l'entusiasmo, ma dureranno poco.
Ad aprire il concerto, come già successo in altre occasioni, compare l'amico Liam Gerner, cantautore folk australiano, ormai di casa in Inghilterra. Il biondo e giovane musicista, scopriremo più tardi, coprirà anche il ruolo di chitarrista nella band di Bingham, sostituendo il defezionario Corby Schaub e divenendo a tutti gli effetti il mattatore della serata.
Gerner presenta le canzoni del suo recente cd "All we've done", da solo, in compagnia della sola chitarra, salvo poi essere raggiunto dal batterista e bassista dei Dead Horses. Gerner si fa apprezzare, ricordando la scomparsa di Clarence Clemons e rendendogli omaggio con la sentita esecuzione di I'm on fire di Springsteen.
Velocissimo cambio di palco e Ryan Bingham & the Dead Horses salgono davanti al pubblico di Sarnico, con Liam Gerner nel ruolo di chitarrista. Bingham si ripresenta in Italia da premio oscar, grazie alla fortunata canzone The weary kind, colonna sonora del film Crazy Heart che nel 2010 gli è valsa il famoso riconoscimento, contribuendo a far girare e conoscere il suo nome in tutto il mondo, senza tralasciare la sua comparsa come attore nello stesso film al fianco di Jeff Bridges, che gli potrebbe aprire anche una strada artistica alternativa. Il suo aspetto fisico da "bello e dannato" potrebbe essere d'aiuto.
Il set, contrariamente alla direzione dell'ultimo album Junky Star, è molto elettrico e durante la serata abbiamo assistito a dei buoni duelli chitarristici tra Bingham e Gerner, che non ha fatto rimpiangere il fido Schaub, anzi, ha regalato sano e contagioso entusiasmo

La rauca ed originale voce di Bingham anche dal vivo fa la sua figura e pezzi semi-acustici come la stupenda Southside of Heaven, le nuove Hallelujah e Depression ne esaltano la bellezza e la particolarità. La sezione ritmica dei suoi Dead Horses formata dal batterista Matthew Smith e dal bassista Elijah Ford picchia giù duro nei momenti più rock del set, che ha visto il culmine quando Bingham ha finalmente rotto le fila, invitando tutti ad alzarsi dalle sedie ed avvicinarsi al palco. Da quel momento il concerto ha preso, giustamente, un'altra piega. The Other side, Hard Times, Dylan's Hard Rain, Tell my mother I miss Her So, Bluebird sono solo alcuni dei titoli delle canzoni proposte ad un pubblico oramai conquistato. Anche chi ha visto o ascoltato Bingham per la prima volta, ha sicuramente apprezzato, venendo ammaliato definitivamente alla esecuzione in solitaria della premiata e già citata The Weary Kind, durante l'encore.
Il concerto però non si chiude in tranquillità, ma con due infuocate versioni di Sunshine e Bread and Water che vedono i Dead Horses protagonisti e jammare, divertendo e divertendosi.
Bingham si sta costruendo il suo seguito con cura e calma e la sua prossima calata in Italia , ne sono certo, lo vedrà ancor più protagonista. Per ora godiamoci la brezza di una serata di Texas in riva al lago.




vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)



venerdì 17 giugno 2011

RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY ( The songs remains not the same)

BLACK LABEL SOCIETY The songs remains not the same ( E1 Music, 2011)

Che sotto alla lunga barba rossa da vichingo americano batta un cuore certamente sfinito dagli eccessi, ma anche romantico, lo sapevamo già da parecchio tempo. Zakk Wylde ci ha abituato fin dal suo esordio solista, lontano dal papà adottivo Ozzy Osbourne, quel Pride And Glory, che puzzava di sterco, sudore e sud con armoniche , slide e tutto l'amore per il rock dalla bandiera confederata che usciva prepotente. Così come si distinguevano la grande passione per i Led Zeppelin più bucolici e per il vecchio Neil Young che animavano dischi come "Hangover Music" e "Book of Shadows". Eravamo nel 1993, sono passati 18 anni e Zakk Wylde ha percorso tanta strada nelle polverose highways americane fino ad arrivare all'eccelso "Order of the black" uscito nel 2010.
Proprio da quel disco, che ci restituiva una band nuovamente in forma, prende spunto questo . Una mossa, è bene dirlo, poco chiara commercialmente ma interessante per i completisti ed estimatori del buon Wylde.
Quattro le canzoni riprese da "Order of the black" e risuonate unplugged. Parade of the dead è completamente stravolta e trasformata in una ballad pianistica con aperture orchestrali con cantato e assolo che non smentiscono la bravura di Wylde. Particolarmente riuscite anche Riders of the Damned e Overload. Cambia poco, invece, Darkest days, nata come ballad , perde il piano per acquistare un flavour country/southern ed essere riproposta in due versioni, una con il cantante country John Rich.
Tutto l'amore per i suoi idoli musicali è poi riscontrabile nelle restanti tracce, a partire dal titolo dell'album, storpiatura della zeppeliniana The song remains the same per arrivare alle cover proposte. Non stupise la scelta di pescare nel canzoniere dei Black Sabbath una poco conosciuta Junior's Eyes dall'ultimo album con Ozzy degli anni settanta("Never say die!",1978) o prendere una Helpless di Neil young contenuta nell'epocale "Deja vu" (1970) di CSN & Y. L'amore di Wylde per il cantautore canadese è di vecchia data, ricordo una Heart of Gold come bonus track in suo precedente disco.
Can't find my way home , canzone dei Blind Faith di Eric Clapton e Steve Winwood, già era presente come bonus in una versione di "Order to the Black" e qui viene riproposta.
Stupisce, invece la rilettura di Bridge over troubled water di Simon & Gearfunkel, forse spinto dall'ala emotiva che quest'anno ne festeggia i quarant'anni dall'uscita.

Chiude la strumentale e tradizionale The first Noel, assaggio della bravura chitarristica anche sotto l'albero di Natale.
Un disco di 10 canzoni piacevoli, che poteva essere spalmato come bonus disc in Order of the black, come tra l'altro già fatto in precedenza dai Black Label Society, ma che esce da solo per volere di mercato. L'unica nota negativa di questa operazione.

lunedì 13 giugno 2011

RECENSIONE: SEASICK STEVE (You can't teach an old dog new tricks)

SEASICK STEVE You can't teach an old dog new tricks (Play it again Sam, 2011)


La foto di copertina, la lunga dedica interna e il titolo del disco dicono tutto o quasi di un personaggio, perchè tale si tratta , come Seasick Steve. Il vecchio cane dallo sguardo malinconico e conquistatore si chiama TWM( per la serie: date un nome corto al vostro amico a quattro zampe), ha dodici anni ed è stato trovato in una strada nel South Wales. Steven Gene Wold, ha settant'anni e si fa chiamare Seasick Steve(pare, solo perchè soffra il mal di mare) è in pista dagli anni sessanta, ma solamente da otto anni ha iniziato ad incidere dischi. In mezzo c'è tutta una vita passata a lavorare nel retrobottega della musica come produttore e tecnico del suono ma sopratutto, a girovagare per il mondo come un solitario hobo guadagnandosi la pagnotta ai marginai delle strade, raccimolando il poco necessario.
Seasick Steve è lo sguardo penetrante di quel bastardo incrocio tra un labrador ed un collie. Due occhi che hanno visto la fame e che vogliono godersi la meritata vecchiaia con i pochi soldi che stanno entrando, grazie alla piccola fama che si sta guadagnando in questi ultimi anni e che non hanno, certamente, cambiato la sua visione di vita. Le canzoni parlano per lui.
Che stia suonando nell'angolo adibito a "pisciatoio" di una metropolitana o ospite di una trasmissione televisiva del sabato sera, il buon vecchio Steve, sfoggia con orgoglio la sua collezione di vecchie chitarre, costruite e riadattate da lui stesso, tanto che ognuna di loro merita una foto personale nel libretto del disco. E' un suo vanto personale.
Un vecchio zio dalle mille storie da raccontare che suona come un punk rocker immerso nelle acque del Mississipi. "Non puoi insegnare nuovi trucchi ad un vecchio cane", accettatemi così come sono, ne ho già viste troppe in vita che nulla più mi sorprende . Come non accettare e prendere in simpatia un tizio settantenne con un cappello verde recante la scritta dei trattori John Deere in testa, lunga barba bianca, camicia di flanella e tatuaggi.
Canzoni che ammagliano come l'iniziale Treasures,un sospiro, voce bassa(alla Mark Lanegan, tanto per intenderci), chitarra, banjo e violino suonato da Georgina Leach o che ti stordiscono come la torrenziale titletrack, un blues grezzo, senza fronzoli, chitarra, basso e batteria. Quando poi un certo John Paul Jones( Led Zeppelin) decide di prestare il suo servizio in 3 canzoni, suonando basso e mandolino, il nome d'arte del vecchio Steve, avrà ancor più possibilità di uscire dalla Norvegia, paese dove ha scelto di fermarsi in questo ultimo decennio.
Blues elettrico e scarno fino all'osso quello proposto da Seasick Steve. Burnin'up è un mantra blues per sola chitarra e batteria da far invidia ai the Black Keys, mentre I don't know why she love me but she do suonata con la stupenda cigar box guitar ti fa tenere il tempo fino alla fine.

La scassatissima e vissuta chitarra a tre corde Trance Wonder( eh sì, ogni chitarra ha il suo nome) guida un blues quasi zeppeliniano con il basso di John Paul Jones e la batteria del fedele amico Dan Magnusson pronti a seguirlo.
L'altra faccia del disco, sono le canzoni in solitaria come Underneath a blue and cloudless sky, voce arruginita e banjo per un folk dove l'amore vince sulla miseria e la vecchiaia che avanza o come in What a way to go amara quanto sarcastica canzone su una vita di un qualsiasi comune mortale passata a lavorare, non certo la sua.
Whiskey e bevute le protagoniste di Whiskey ballad, lieve e leggera apoteosi al liquore, scritta e suonata con uno dei figli( tutti aiutano papà in questo disco) e Party.
Che per il buon Seasick Steve, la vita vada vissuta fino alla fine è quasi un credo ribadito e cantato nella nervosa Days gone mentre nella finale e corale Long Long way, ringrazia tutti coloro che ascoltano la sua musica con una ballad che ricorda tanto l'ultimo Johnny Cash.
Se vi piaciono i perdenti, se avete ascoltato almeno una volta il povero e compianto Calvin Russell, date una chanche ad un settantenne, pieno di voglia di vivere, ricordatevi solo del suo nome d'arte e di non farlo mai salire in barca con voi per una battuta di pesca, Steve apprezzerà fino ad un certo punto.

vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)




vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)



venerdì 10 giugno 2011

RECENSIONE: EDDIE VEDDER( Ukulele Songs)

EDDIE VEDDER Ukulele Songs (Monkeywrench Records, 2011)

Già sembra di sentirle le voci dei maligni, nascosti dietro le fronde che danno sulla spiaggia, dicono che Eddie Vedder, queste canzoni poteva tenersele per sè o come minimo continuare a suonarle lì , la sera davanti al fuoco in compagnia del suo ukulule e dei pochi fidati amici, dopo aver trascorso la giornata a surfare le grandi onde del pacifico. Ma chi sono questi maligni? Sicuramente non hanno provato ad entrare nella profondità di certi testi che solo lo scarno accompagnamento di una "bizzaria rivalutata" come l'ukulele riesce a far risaltare, altrimenti persi nel marasma di un qualsiasi palco occupato da un impianto rock.
Perchè le 16 canzoni( anche i 9 secondi di Hey Fahkah) sono un grido di sopravvivenza che non ha bisogno di troppo rumore per essere amplificato. Una rivendicazione di vita dopo qualcosa che è andato storto, un invito a proseguire, più forti di prima.
E' inutile nasconderlo, Vedder mette in musica la solitudine in prima persona, quella stessa solitudine contenuta in Into the Wild. Mentre nella colonna sonora del film era cercata dal protagonista del film e raccontata in terza persona sul disco, con il finale che tutti conosciamo, ora deriva da un divorzio amaro e tocca Vedder a nervo scoperto.
Ukulele songs non è disco improvvisato ma costruito negli anni , un pò bui e travagliati vissuti dal cantante di Seattle. Canzoni nate e messe da parte, da far uscire ad acque nuovamente quiete.
Quel momento è arrivato, Vedder ha ritrovato la serenità affettiva dopo aver smarrito se stesso e Ukulele songs suona come un disco esorcizzante con dei ricordi che non vanno buttati in pasto alle onde ma tenuti in considerazione e chiudere per sempre in un disco, per proseguire più forti di prima. Parole di rassegnazione e rivincita, chiare, escono da Sleeping by myself, Broken Heart, Without you, ricordi di una vita( ...non per sempre) passata in due, duri a morire in Goodbye fino a rivedere la luce (Light Today) con il rumore dell'oceano in sottofondo e una canzone del 1929 come More than you know che si inserisce alla perfezione tra i testi autografi di Vedder. Perchè Ukulele songs è fatto anche di cover "datate" e misconosciute come Once in a while(1937),Tonight you belong to me(1926), Dream a little dream of me(1930) e più recenti e conosciute come Sleepless Nights degli Everly Brothers e la sua Can't Keep, presente in Riot Act dei Pearl Jam, qui rivisitata con l'ukulele e posta ad apertura del disco.

Se i maligni dietro le fronde cercano sorprese, ne troveranno poche e presenti solamente in Longing to belong dove compare il violoncello suonato da Chris Worswich e dalle voci di Chan Marshall( aka Cat Power) in You belong to me e Glen Hansand(the Frames) in Sleepless Nights.
Un diario privato, reso pubblico, un sogno(quello di suonare un intero disco con l'Ukulele) che si è avverato, una profondità che a prima vista spaventa ma che con un buon spirito di immedesimazione può essere raggiunta e dire molto di più degli ultimi lavori( di mestiere) targati Pearl Jam.
I maligni sono avvisati, ora si può tornare in spiaggia a far festa, tutti invitati da Eddie.

martedì 7 giugno 2011

COVER ART#2. ANTONIO DE FELIPE: LPOP...le copertine rivisitate

Ci fu un tempo (e qui, la voglia di scrivere" nemmeno troppo lontano" è tanta) in cui l'arte visiva, che fosse pittura o fotografia, viveva a stretto contatto con la musica. Anni in cui i più grandi artisti del pennello e della macchina fotografica prestavano la loro arte al Rock, per rendere uniche altre opere d'arte come i vinili.
Anni in cui non era difficile giudicare il prodotto attraverso la sua copertina e il suo arwork prima ancora di appoggiare la puntina del giradischi sulla plastica nera. Lavori firmati da Warhol erano già di per sè un importante veicolo di .
pubblicità. Va da sè che con l'avvento del cd, sul finire degli anni ottanta, lo spazio su cui un artista poteva imprimere il proprio talento diminuiva a dismisura fino a scomparire del tutto con l'arrivo della musica digitale. Mp3 e Computer hanno annullato, quasi del tutto, il fascinoso giochetto del riconoscere un artista dalla copertina.
Insomma, l'artwork dei dischi sembra un discorso da nostalgici.
Nostalgico è certamente l'artista spagnolo Antonio De Felipe, classe 1965, nato a Valencia, che dopo aver rappresentato e rivisitato il mondo del cinema e dello sport, ora si butta sulla musica con una mostra intitolata LPOP in questi giorni a Madrid ( dal 29 Maggio al Centro Cultural Casa De Vacas), sperando possa passare presto in Italia.
Quello che De Felipe fa, non è altro che riprendere le più grandi copertine del rock/pop e rivisitarle alla sua maniera, a volte in modo veramente geniale, anche se l'idea non è certamente qualcosa di nuovo. Quanti di voi non hanno mai provato a immedesimarsi all'interno di una foto e con la fantasia aggiungere e togliere elementi? Lui ci ha provato ed i risultati sono ad effetto.

Un Artista che coverizza altri artisti, aggiungendoci del suo. Come in musica i grandi musicisti si cimentano nel riprendere canzoni di altri autori per piegarle al proprio stile e genere (paradossale pensare a Dylan che riesce a coverizzare se stesso tutte le sere, stravolgendo le sue canzoni), così De Felipe prende le copertine e imprime loro la sua neo-pop art. Cartoni animati, colori, ironia e sdrammatizzazione, i segreti delle sue opere. Dal metal degli Iron Maiden
al pop di Madonna, nessun genere ed artista viena risparmiato. Vediamo così, Eddie, la celebre mascotte degli Iron Maiden, camminare nella via periferica e notturna che si trasforma nel set del famosissimo video Thriller in compagnia di Michael Jackson e suoi zombies. Da qui Killers (titolo del secondo album della band inglese) diventa Thriller e siamo sicuri che Eddie avrebbe fatto la sua figura come comparsa. Oppure la popstar Madonna con un vistoso morso di Dracula sul collo nella copertina del disco True Blue che inevitabilmente diventa "True Bloody". Ancora Born in The USA di Springsteen, che all'epoca venne frainteso dall'allora
presidente degli States, Ronald Reagan, che ne fece l'inno del paese, senza aver evidentemente ascoltato le parole della canzone, fortemente critica verso la politica militare degli Stati Uniti, soffermandosi, forse, al solo ritornello. De Felipe accentua l'americanità dello scatto di copertina aggiungendoci tre simboli universali del consumismo degli States nel mondo:il marchio Coca-Cola, Mickey Mouse e un Hot-Dog.
Il consumismo denunciato, invece, nella ormai storica copertina di Nevermind dei Nirvana diventa un fondale marino del cartoon Nemo colorandosi e stemperando la negatività espressa da Cobain e soci nei loro testi.

Le due più celebri copertine di Andy Warhol ( Sticky Fingers dei Rolling Stones e Velvet Underground) vengono unite insieme con un risultato finale che sicuramente sarebbe incorso nella censura (cerniera lampo giù, più banana).
Bad di Michael Jackson, diventa "Bart", con il celebre rampollo di casa Simpson in posa, vestito di pelle nera a fianco del re del pop.
Una Alice in libera uscita dal suo paesello delle meraviglie si ritrova a braccetto di tre Kiss nel celebre album Destroyer prendendo per un attimo il posto del
chitarrista Ace Frehley, incamminandosi con i tre chissà dove?
E poi ancora: Bowie, the Beatles, Cure, Blondie, Van Halen, Pink Floyd e tanti altri, tutti acrilici su tela. Da vedere assolutamente.
Questo il link del sito di Antonio De Felipe, nella sezione Lpop(woks) troverete le altre copertine(opere):

http://www.antoniodefelipe.es/

venerdì 3 giugno 2011

REPORTAGE recensione:SYSTEM OF A DOWN Live@Arena fiera Rho(MI), 2 Giugno 2011













Che fosse uno degli eventi più attesi di questo inizio estate, lo si era già capito dalle prevendite, già sold-out da parecchie settimane e dai numeri che parlavano di 40.000 biglietti staccati. Biglietti cari e salati per la filosofia di un gruppo come i System of a Down(queste le critiche espresse), ma che comunque a fine evento si riveleranno adeguati, vista la proporzione che ha assunto il concerto, divenuto un vero e proprio mini festival.
Il posto. La Fiera di Milano, ubicata a Rho, quest'anno è la grande protagonista dei maggiori eventi musicali che si svolgeranno a Milano. I prossimi appuntamenti saranno Il Rock in Idrho(Foo Fighters, Iggy Pop and the Stooges, Social Distorsion e Flogging Molly e altri) e l'atteso arrivo in Italia dei Big4 del Thrash metal americano(Metallica, Slayer, Megadeth e Anthrax).
Purtroppo, come sempre più spesso avviene in Italia, risulterà inadeguata per ospitare festival musicali dalla durata giornaliera. Se all'estero il verde ed il fresco regnano sovrani, qui da noi continua la politica del cemento e se oggi il tempo metereologico è stato d'aiuto e ha dato una mano ai 40.000 presenti, conducendoli a fine concerto in condizioni umane, non oso immaginare se dalle nuvole, che oggi hanno dominato, fosse spuntato il sole. Se da un lato bisogna segnalare la discreta funzionalità degli stand gastronomici, non si può dire altrettanto per i i prezzi di bevande e cibo( e qui parlo anche della birra) e delle t-shirt ufficiali dei gruppi vendute tutte a 30 Euro. Senza dimenticare i 15 euro per i parcheggi. A conti fatti si può leggere cosa ruota intorno a eventi di questo genere e riflettere su quanto, a volte, si sfrutti la passione e la voglia di musica delle persone per arricchirsi, con poco rispetto verso il portafoglio dei fans, giocando sulla psicologia del "tanto son disposti a tutto per...".
L'arena è capiente, il palco imponente, ma sviluppandosi in lunghezza, penalizza la buona visione per chi ha deciso di rimanere nelle retrovie e dubito che i due megaschermi abbiano aiutato la visione.
Il pubblico. Comunque la si guardi, il concerto è stato un evento. Radunare 40.000 persone in Italia per un concerto di questo genere è di per sè una buona notizia per lo stato di salute della "buona "musica lontana dalle luci dei mass media. Tanti giovanissimi accorsi a vedere i propri idoli, assenti dal mondo discografico da sei anni ma che con questa reunion hanno certamente raccolto i frutti del buon lavoro che hanno fatto nei loro soli 7 anni di attività.
Un seguito che stupisce, calcolando anche la fama di non essere mai stata una band da concerti memorabili, facendosi sempre più apprezzare su disco che dal vivo.
La giovane età del pubblico e l'unidirezionalità della loro preferenza musicale non hanno impedito alle bands di supporto di ricevere le loro meritate e giuste acclamazioni, a parte lo spiacevole episodio che ha toccato Glenn Danzig.


Le Band.Sempre difficile aprire concerti, quando la stragrande maggioranza del pubblico, se non tutta, è lì ad aspettare gli headliner. Gli Anti-Flag ci provano e ci riescono catturando l'attenzione con espedienti da navigati performers.
Attivi ormai da più di vent'anni, la band punk della Pennsylvania cerca di coinvolgere il pubblico da subito, invitandolo a circle pit e coinvolgendolo nei cori delle loro canzoni altamente anti-americane. Tra uno sfottò a Berlusconi e la eccessiva mossa finale del batterista che si cala tra il pubblico e suona quel che è riuscito a portarsi dietro della sua batteria, gli Anti-Flag conquistano tutti giocando facile, con la cover di Should i stay o should i go dei padri Clash. voto 6,5


Volbeat. Io aspettavo loro e a fine serata, devo dire che ne sono usciti vincitori tra i gruppi di apertura.
Per la prima volta in Italia, come sottolineato dal cantante e chitarrista Michael Poulsen, i danesi si stanno imponendo con la loro originale mistura di Thrash metal/punk e country. Pochi fronzoli e tanta musica sparata in faccia , poche concessioni a parole e spazio alla musica. Guitar gangsters and Cadillac blood, The mirror and the ripper, Only want to be with you(di Dusty Springfield) e Sad man tongue(dedicata a Johnny Cash) per finire sulle note di Raining blood degli Slayer. Ovazione e completa soddisfazione dei Volbeat. Ora che hanno conquistato anche l'Italia hanno l'obbligo di ripassare da Headliner con il prossimo loro tour. Voto 8,5






Sick of it all.I più estremi del lotto. Il loro New York hardcore "old School", come ribadito a più riprese dal cantante Lou Keller è certamente una novità per la maggior parte dei giovani presenti, nonostante la quasi trentennale presenza nel panorama musicale e il nome iscritto tra le leggende del punk/hardcore mondiale.
Il loro show è a carburazione lenta ma alla fine riescono a smuovere il pubblico grazie ai loro inni da pogo sfrenato. Lou Keller non ha perso una virgola della sua voce urlata e la sua continua chiamata alle armi avrà effetto con molto fatica in Scratch the Surface. Voto 7

Danzig.Glenn Danzig, nella giornata di oggi è purtroppo un pesce fuor d'acqua, nonostante alcuni primati che si porta a casa. Il primo è certamente quello dell'età e dell'esperienza. Dai Misfits ai Danzig, la sua carriera non ha bisogno di spiegazioni, anche se molti giovanissimi, al calar del tiepido sole, si siano chiesti chi era quel "brutto e vecchio" signore di nero vestito.
Il secondo è certamente quello di avere dalla sua parte la miglior formazione della giornata con calibri da novanta come Tommy Victor(Prong) alla chitarra e Johnny Kelly(Type O Negative) alla batteria. Il suo oscuro Metal/blues fatica a conquistare la giovane audience e qualche lancio di bottiglia di troppo(ormai in Italia è cattiva abitudine, difficile da estinguersi) non aiutano un navigato rocker come Danzig, di suo già incazzato per il pessimo audio(in verità presente durante tutti i concerti) e qualche problema tecnico. Passano così inosservate canzoni come How the Gods kill, Hammer of the gods, Thirteen(dedicata anch'essa a Johnny Cash che la coverizzò su uno dei suoi "American recordings") e la finale Mother, facendo scappare Danzig anche prima del dovuto. Voto 6,5
System of a Down. Un trionfo che è andato al di là dei meriti e demeriti della band. Nei primi venti minuti di concerto sembrava di assistere ad un karaoke totale, con la band sul palco a mimare di suonare e i presenti a cantare, con gli strumenti e la voce persi chissà dove. Poi , fortunatamente tutto si mette a posto ma il volume rimarrà comunque basso e a volte ovattato. I System of a Down si presentano con un NON look assoluto, Serj Tankian in camicia bianca e jeans da impiegato in libera uscita durante una pausa d'agosto, Daron Malakian , presenta un look alla Jack White, giacca viola, cappello, baffi e barba inclusi, il bassista Shavo Odadjian, visibilmente appesantito da come lo ricordavo, in bermuda mimetiche e calzettoni da basket anni '70 che fanno molto Mike Muir(Suicidal Tendencies) e il batterista John Dolmayan non pervenuto.


Il loro è stato un greatest hits di quasi trenta esecuzioni concentrato in un 'ora e mezza di concerto dove le canzoni sono le vere protagoniste, più delle effettive capacità dei singoli. Il loro repertorio è un sapiente miscuglio di inni cantabili che fanno passare molto spesso in secondo piano le loro pecche. Prison song, Chop Suey!, Toxicity, Suite-pee, Lost in Hollywood, Cigaro, Psycho,Aerials e Sugar non hanno bisogno di troppi contorni. A parte l'istrionico Malakian, il resto della band svolge il proprio compito in modo compunto e sono sempre dell'idea che Tankian, sia sempre un pò troppo rigido e a volte dovrebbe lasciarsi andare e trasportare un pò di più. Da qualunque parti la si guardi i System of A down ,un pezzettino di storia della musica sono riusciti a scriverla quando nel 1998 uscirono con un album originale e sotto molti punti di vista spiazzante.
Unici e poco imitabili, in soli sette anni hanno scritto la loro carriera, divenendo già un gruppo di culto. La massiccia affluenza di questa serata lo dimostra, come dimostra anche, purtroppo, che i System of Down si siano giocati le loro carte troppo in fretta e per un gruppo relativamente giovane come loro, mi ha ricordato la "reunion" di un gruppo in scena da quarant'anni. Voto 8 alla carriera.

lunedì 30 maggio 2011

RECENSIONE: STEVE EARLE ( I'll Never Get Out Of This World Alive)

STEVE EARLE I'll Never Get Out Of This World Alive ( New West, 2011)


Steve Earle è sempre stato un ribelle e alla lunga ha pagato questa sua poca accomodante visione della vita in termini di popolarità e successo ma non certamente in qualità musicale. Le sue scorribande con la legge e una vita sentimentale a dir poco tormentata e burrascosa sono difficili da affiancare al modello di vita di un suo quasi coetaneo, preso a caso, come Springsteen, attento calcolatore di ogni mossa artistica e privata. Un personaggio contro che a volte ha pagato più del dovuto.
Lontano dalla rivoluzione in rock di un disco come Copperhead Road, suo lovoro manifesto della prima parte di carriera, uscito nel 1988, I'll Never Get Out This World Alive, nasconde due grandi dediche: una ad Hank Williams, a cui ruba letteralmente il titolo della sua ultima composizione, ponendolo come titolo del proprio album, l'altra molto più importante e personale, al padre scomparso nel 2007.
Intorno a queste due figure è costruito il disco di impianto Country-Folk con temi che guardano al mistero della morte, come lo stesso Earle spiega nelle note introduttive del disco.
Earle impiega tre anni a scrivere le undici canzoni, tre anni in cui si pone letteralmente davanti al dolore della morte e da esso sa coglierne ispirazione e speranza, cercando nuova linfa di vita. Perchè l'ultimo viaggio non fruga nelle tasche delle persone in cerca dei poveri o dei ricchi ma si pone democraticamente davanti loro, compiendo scelte che a volte sono ingiustificabili ma da accettare.
Poco importa se le vite umane che ci lasciano per compiere chissà quale nuovo viaggio, siano legate dall'indissolubile parentela o sconosciute, come quelle che hanno perso la vita a New Orleans travolte dagli scherzi della natura a cui la finale This City è dedicata.
Allora nascono anche delle domande e dei dubbi, come in God is God (canzone che Earle rifà sua dopo averla regalata a Joan Baez) dove il cantautore ammette di credere in Dio, ma Dio certamente non crede in noi. Ammissione quanto mai vicina ad una negazione.
Chi rimane si aggrappa all'amore e Every part of me è sicuramente una dedica all'attuale compagna Allison Moorer(fresca di gravidanza), presente nei cori dell'intero disco e nel duetto di Heaven Or Hell.

Piace la produzione affidata a T-Bone Burnett, molto vicina agli ultimi lavori fatti con Mellencamp e che fanno risaltare canzoni come l'iniziale e piacevole country-billy Waitin' on the sky, l'oscuro blues Meet me in The Alleyway( che ricorda tanto Tom Waits) o The Gulf Of Mexico, border ballad tra folk e Irish music. L'Irlanda torna prepotente come ai tempi della collaborazione con i Pogues nel lontano 1988(Johnny Come Lately, contenuta in "Copperhead Road"), anche nella trascinante Molly-O.
Con questo disco Steve Earle conferma il buon periodo della sua vita, forse arrivata ad un punto di totale stallo e rilassatezza ma con il fuoco dell'ispirazione che arde ancora anche se, per una volta , non è alimentato da brutte storie di droga e amori finiti ma dall'amore verso una vita ancora tutta da vivere e godere meglio se da "vero sopravvissuto".

vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES(& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)


sabato 28 maggio 2011

RECENSIONE: THE FEELIES (Here Before)

THE FEELIES Here Before ( Bar None , 2011)

Anche se non sono mai stati riconosciuti loro, i meriti, in termini di popolarità, i Feelies occupano un posto di prestigio per capire la nascita di una certa New vawe . Il loro " Crazy Rhytms" si può certamente considerare tra i punti più alti toccati da una band al proprio esordio. Uscito nel 1980 conteneva un esplosiva miscela tra il rock più colto e decadente del decennio precedente( Velvet Underground, Television, Talking Heads) e le tipiche derivazioni folk rock americane. Un lavoro fresco ed urgente , suonato da una band giovane, smaniosa di mettersi in gioco, a tratti ingenua ma vera e diretta. Il minimalismo delle chitarre schizzate e la nervosa batteria, i loro testi e il look da "eterni nerds" fecero scuola a tanti adepti del successivo indie/rock. Ora a trent'anni da quel disco e 19 dalla loro ultima prova di studio, ritornano.
Here Before è un lavoro a tratti solare ed intelligente, non farà la storia, ma ci riconsegna la band del New Jersey, certamente lontana dal grezzo, glaciale ma superlativo esordio del 1980, ma con un carico di melodie da far invidia a ben più blasonate band. Insomma, non troverete le nuove Fa cè-la, Loveless Love e Moscow Nights anche se piccole schegge del passato rimangono in canzoni come When you know e Time is Right, dove l'urgenza e l'alternarsi acustico -elettrico rimane prerogativa basilare e ricorda i primi anni.
Piace il pop, che tocca il beat di Should be gone, il folk che fuoriesce da Bluer Skyes e Again today con lo spirito di Lou Reed ancora ben presente a fare da guida, le atmosfere sussurrate e soffuse di Morning Comes , la batteria metronomo che scandisce Later On o la solare circolarità dell'iniziale Nobody Knows.


Un disco che mantiene, per una volta, le promesse fatte. In anni di finte reunion, quella rimessa in piedi da Bill Million e Glenn Mercer è ispirata, senza puzzare di vecchio, pur sembrando il giusto seguito alla rottura avvenuta anni fa. Ora che l'anello mancante e di congiunzione tra passato e presente è stato aggiunto, il futuro è ancora tutto da scrivere. Speriamo.

mercoledì 25 maggio 2011

RECENSIONE: FLOGGING MOLLY (Speed Of Darkness)

FLOGGING MOLLY Speed Of Darkness ( Borstal Beat Records, 2011)


Sì, si sente, l'oscurità presente nel titolo del quinto album della band di Los Angeles è presente ed avvolge il loro lavoro più intransigente, vario ma allo stesso tempo con molti punti accessibili, della loro carriera. Il singolo Don't Shut 'em Down è quanto di più mainstream rock e moderno uscito dai loro strumenti mentre la "finta" ballata The Heart of The Sea potrebbere mietere molte vittime.
Un' oscurità in cui si è risvegliata la società americana e mondiale, schiava dei sistemi capitalistici che stanno facendo sprofondare sottoterra quello che ci avevano promesso come un radioso futuro. I Flogging Molly prendono spunto da qui per creare una sorta di concept, in cui i valori positivi in cui credere prendano il sopravvento alla falsa pubblicità ingannatrice del mondo moderno.

Registrato , non a caso, a Detroit, la città dell'auto che sta vivendo una forte stagione di crisi economica e che ha fornito l'ispirazione per far nascere queste dodici canzoni, senza dimenticare che Detroit è anche la città che, negli anni settanta, dettava legge in fatto di rock, la casa degli Mc5 e degli Stooges, tanto per intenderci.
Dave King e soci , durante gli anni, sono cambiati, il loro irish/punk rock si è affinato, inglobando più influenze musicali che vedono la loro summa in questo Speed Of Darkness. Stupisce, quindi, una canzone come The Power's Out, una potente marcia blues di denuncia con la città di Detroit protagonista tra chitarre elettriche,slide, farfisa e percussioni con la voce di King che si ricorda d'essere stata alla guida, negli anni ottanta, dell 'hard rock di gruppi come Fastway e Katmandu. Uno dei migliori momenti del disco.
Il Country/folk della ballad This Present State of Grace con il violino Bridget Regan a guidare le danze tra Irlanda e America, odora di antico.
Saint & Sinners è una fast Irish/punk song, guidata dal violino, con un break centrale, quasi western che ricorda il Johnny Cash "cowboy".
Osano in The Cradle of Humankind, ballata pianistica toccante e piena di positiva speranza per chi sceglie di scappare verso un futuro più radioso e la "terra promessa". Una canzone che cresce , fino alla coralità finale. Sullo stesso piano metterei le brevi ed acustiche preghiere So Sail On e A prayer for me in silence, dove la violinista (e compagna di King) Bridget Regan si cimenta alla voce.
I momenti più rock del disco rimangono l'iniziale Speed Of Darkness, la chiamata alla rivolta di Revolution( con l'irruzione anomala di una tromba) e la presa di posizione contro la politica guerrafondaia di Oliver Boy(All of Our Boys). Canzoni che creano il ponte con il passato della band.

Perchè ormai è assodato che i Pogues sembrano aver trovato i loro successori più in America che in patria e i Flogging Molly si contendono il trono con gli amici Dropkick Murphys, anche loro freschi d'uscita in questo 2011. La maturità artistica che il precedente "Float"( 2007) prometteva si è fatta realtà.


vedi anche: recensione/reportage FLOGGING MOLLY live@Carroponte, Sesto San Giovanni(MI)17 Agosto 2011

domenica 22 maggio 2011

RECENSIONE: WAINES (Sto)

WAINES Sto (2011)


Un bel muro di suono hard rock blues, questo quello che dal vivo riesce ad alzare il trio palermitano , visto recentemente sopra alle assi di un palco. Due chitarre e una batteria capaci di annichilire, senza compromessi, quasi come i primi Motorhead, stordenti ed impenetrabili.
Uscito da poco il loro secondo full lenght album, un disco che potrebbe dare quelle soddisfazioni che la band, con sacrificio e tanto lavoro merita, facendo attraversare il loro rock "fumoso" aldilà del mare che circonda la loro Sicilia. All'estero già si sono accorti di loro e il mixaggio affidato a Mario J McNulty( al lavoro con Bowie, NIN e mille altri) la masterizzazione affidata ad un calibro da novanta come JJ Golden e i suoi studi californiani, già al lavoro con una lista interminabile di grandi nomi dai Calexico, ai Primus, dai Sonic Youth fino ai Neurosis, tanto per tracciare dei paletti.
Nonostante questo, Sto è un album immediato e in your face, quasi da "buona alla prima" con giusto alcune aggiunte elettroniche che arricchiscono, senza snaturare alcune canzoni, come l'apertura Turn it on. Vi ricordate gli ZZ Top dei primi anni ottanta, quelli che diedero una svolta( molti storsero il naso) al loro Blues, flirtando con i synth? I Waines riprendono quella lezione appesantendola e modernizzandola, venendone fuori con un brano che difficilmente lascia i piedi inchiodati al terreno. Ma questa non è che una delle tante direzioni che Fabio Rizzo (chitarra e voce), Roberto Cammarata(chitarra) e Ferdinando Piccoli(batteria) , riescono a dare alla loro musica.

La polvere desertica che si alza sui giri stoner di Time Machine e nella strumentale Inner View, quei riff che Josh Homme ha quasi dimenticato e che riemergono nella acque del Tirreno, cose da non crederci. Il Blues pesante di The Pot e Birds, quando il delta del Mississippi attacca il jack agli amplificatori e fuoriesce un bastardo incrocio rock'n'roll/sudista che riprende la lezione degli Stones con la slide che imperversa prepotente.

Afrix è un blues percussivo ed ossessionante scritto dal cantautore Fabrizio Cammarata(The second grace), così come Harsh Days gioca sul groove e Mornig Comes, abbandona l'elettricità per un a boccata di melodia e coralità acustica.


Piacciono le due chitarre in continua simbiosi, gli assoli, così come le melodie vocali, i testi e la pronuncia, i Waines sono un gruppo "orgoglioso" della propria sicilianità che in America viaggerebbe sulla stessa autostrada di White Stripes e The Black Keys con una scorta di carburante in più che in sede live mi ricorda l'attitudine Hard Rock/Metal diretta e senza compromessi di certe grandi bands inglesi come Motorhead, Raven e Tank ... la corsia di sorpasso sembra essere libera. Buon viaggio.

lunedì 16 maggio 2011

RECENSIONE: WOLF PEOPLE live@SPAZIO 211, Torino, 14 Maggio 2011

Spero vivamente che tra qualche anno i pochi che hanno assistito a questa prima calata italica dei britannici Wolf People allo Spazio 211 di Torino, potranno dire" io c'ero" e chi ha strappato un autografo a fine concerto possa custodirlo con gelosia. I giovani componenti hanno tutte le carte in regola per fare una buona carriera, nonostante per ora, il loro suono risulti essere derivativo verso l'epoca d'oro del rock, si legge nelle loro facce e nell'impegno profuso , la voglia di arrivare, la professionalità, la cura dei particolari e soprattutto delle grandi capacità compostive. Al loro attivo un solo album, Steeple, uscito nel 2010 e che ha già fatto proseliti tra la stampa di settore inglese. Stasera è stato sviscerato per intero in una setlist intensa che ha catapultato i presenti indietro di almeno quarant'anni.

I Wolf People, in giro per l'europa a bordo del loro pulmino bianco, sembrano affrontare l'audience con la giusta umiltà, senza eccessi ma con concentrazione e dedizione, veramente d'altri tempi. Il loro rock ha quel lontano sapore rurale derivante dal folk progressive britannico dei seventies( Fairport Convention, Traffic, Amazing Blondel, Jethro Tull) che si mischia ad un hard rock dal carattere zeppeliniano e pesanti riff di scuola Black Sabbath ricordando a più riprese un gruppo mai troppo elogiato come i Wishbone Ash del capolavoro "Argus". La forza delle loro canzoni risiede nella melodia e nella capacità compositiva di creare canzoni infarcite di rallentamenti e ripartenze con la voce di Jack Sharp, che pur non essendo particolarmente dotata, calza a pennello.
A volte sembra di essere lì,nei loro luoghi di nascita, dentro a sterminati boschi per trovarsi poi nella vecchia casa di campagna del diciasettesimo secolo in Galles, dove è stato registrato il loro album.
Forti di una canzone come Tiny Circle, che dal vivo perde il flauto che su disco fa tanto Jethro Tull, fino a quasi risultare uscita dai primi dischi di Ian Anderson e soci, acquistando in vigore blues grazie a l'incessante dialogo tra le due chitarre , con il solista Joe Hollick spesso protagonista.
L'armonia folk mediovaleggiante del "traditional" Bank of sweet Dundee, rivestito di hard, cattura al primo ascolto, facendo compiere viaggi pindarici ad elevate altezze sopra alle verdi campagne britanniche.
Piaciono il flavour sixties che avvolge il blues di Painted Cross, l'hard psichedelico di One by one from Dorney Reach, il lungo ed ipnotico crescendo di Castle Keep, con la batteria di Tom Watt il basso di Dan Davies protagonisti fino ad una canzone come Silbury Sands, quasi perfetta nelle sue cangianti armonie ed umori.
Tra le tante bands che in questi anni si rifanno al passato, i Wolf People hanno la buona capacità di far confluire più influenze nella loro musica, prendendo le distanze dai gruppi "clone". Ora l'importante verifica del secondo disco potrebbe essere decisiva per il loro futuro. Intanto la prova live è stata superata, un concerto piacevole e il fatto che una volta finito, c'era la voglia di sentirne ancora, pone a loro favore. Buona fortuna.



foto di Roberto Tambone







vedi anche RECENSIONE: WOLF PEOPLE-Fain (2013)