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I Wolf People, in giro per l'europa a bordo del loro pulmino bianco, sembrano affrontare l'audience con la giusta umiltà, senza eccessi ma con concentrazione e dedizione, veramente d'altri tempi. Il loro rock ha quel lontano sapore rurale derivante dal folk progressive britannico dei seventies( Fairport Convention, Traffic, Amazing Blondel, Jethro Tull) che si mischia ad un hard rock dal carattere zeppeliniano e pesanti riff di scuola Black Sabbath ricordando a più riprese un gruppo mai troppo elogiato come i Wishbone Ash del capolavoro "Argus". La forza delle loro canzoni risiede nella melodia e nella capacità compositiva di creare canzoni infarcite di rallentamenti e ripartenze con la voce di Jack Sharp, che pur non essendo particolarmente dotata, calza a pennello.
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A volte sembra di essere lì,nei loro luoghi di nascita, dentro a sterminati boschi per trovarsi poi nella vecchia casa di campagna del diciasettesimo secolo in Galles, dove è stato registrato il loro album.
Forti di una canzone come Tiny Circle, che dal vivo perde il flauto che su disco fa tanto Jethro Tull, fino a quasi risultare uscita dai primi dischi di Ian Anderson e soci, acquistando in vigore blues grazie a l'incessante dialogo tra le due chitarre , con il solista Joe Hollick spesso protagonista.
L'armonia folk mediovaleggiante del "traditional" Bank of sweet Dundee, rivestito di hard, cattura al primo ascolto, facendo compiere viaggi pindarici ad elevate altezze sopra alle verdi campagne britanniche.
Piaciono il flavour sixties che avvolge il blues di Painted Cross, l'hard psichedelico di One by one from Dorney Reach, il lungo ed ipnotico crescendo di Castle Keep, con la batteria di Tom Watt il basso di Dan Davies protagonisti fino ad una canzone come Silbury Sands, quasi perfetta nelle sue cangianti armonie ed umori.
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foto di Roberto Tambone
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