sabato 12 febbraio 2011
Retro RECENSIONE: BLACK SABBATH- Dehumanizer (I.R.S., 1992)
Questa recensione ha due ragioni di esistere, la prima è rendere omaggio al grande R. J. Dio che ci ha lasciato nello scorso 2010, la seconda per rendere giustizia ad un album, troppo spesso sottovalutato o addirittura sciaguratamente considerato, da molti, uno dei peggiori album dei Black Sabbath, come se dischi quali Technical Ecstasy, Never Say die del periodo Ozzy o Forbidden del periodo Martin non fossero mai usciti.
Dehumanizer è un disco figlio del suo tempo che però a mio modesto parere è l'unico post Ozzy a contenere alcune peculiarità che fecero dei primi Sabbath degli anni settanta, un gruppo in grado di influenzare in modo netto e tangibile il futuro heavy metal.
Uscito nel 1992, Dehumanizer è paradossalmente più granitico, heavy e malvagio di molte uscite dell’epoca da parte di grossi nomi dello starsystem metallico, dai Maiden di Fear of the dark, ai Metallica che si godevano il successo planetario del Black album, tanto per citare due grossi nomi.
Un canzone dall’incedere doom e fumoso come After All (the dead), non si sentiva dai primi anni settanta e con un po’di fantasia, sostituendo la voce di Dio con quella di Ozzy, il gioco è fatto.
Ronnie J. Dio è la grande novità di questo album. Dopo aver prestato la la sua ugola nei due meravigliosi dischi dei primi anni ottanta che ebbero il pregio di far entrare i Black Sabbath in un nuovo decennio a gareggiare con la nascente NWOBHM, i rapporti tra il folletto di Portsmouth e Iommi non furono dei più amichevoli, complice una miriade di clausole legali ma soprattutto i famosi ritocchi apportati a Live Evil, mai digeriti da Dio che ne decretarono la separazione.
La formazione che registra Dehumanizer nei Rockfield Studios nel sud del Galles, sotto la produzione di Mack(già produttore dei Queen) è la stessa di Mob Rules che vedeva oltre a Dio e Iommi, Geezer Butler al basso e Vinny Appice alla batteria, formazione che diciassette anni dopo darà vita agli HEAVEN & HELL di The devil you know, tanto per ribadire la bontà di questa formazione, sicuramente la migliore mai avuta dai Sabbath dopo l’originale e storica line-up.
Se all’epoca, la reunion della formazione con Dio, sembrava una bella mossa commerciale per rialzare le quotazioni di due carriere, quella solista di Dio, dopo il poco ispirato Lock up the wolves e quella dei Sabbath reduci dall’epicità di un disco come Tyr ( che comunque conteneva anche lui i suoi gioielli), con gli anni la bontà di questo disco sembra accrescere. Canzoni ben impiantate nel presente di allora, con Dio che lascia i suoi testi fantasy a favore di liriche proiettate alla vita di tutti i giorni e nell’incerto futuro con tutte le sue insidie umane e tecnologiche. I suoni riabbracciano la solenne lentezza del passato, perdendo il calore del blues ma acquistando la freddezza di riff metallici e quasi thrash.
L’apertura affidata a Computer God è un monito contro la nuova generazione cresciuta con i computer ma ancora lontana dall’ingabbiamento totale di internet e dei social network ma certamente profetica. Canzone che parte lenta e sontuosa per accellerare nel finale con Iommi a dimostrare l’assoluta leadership di re dei riff. La componente doom è presente oltre che nella già citata After all(the dead) anche nella straziante e pesantissima Letters from earth, e nella bella e sontuosa Sins of the father. Il basso caratteristico di Butler apre invece la cadenzata Master of insanity che sfocerà nell’epicità del chorus guidato da un Dio in ritrovata forma.
Discorso diverso per Tv crimes, la canzone più veloce del disco e ancora con Dio sugli scudi per l’ottima interpretazione che mette alla berlina i famosi telepredicatori, in quegli anni sulla cresta dell’onda nelle reti televisive americane e nemici numeri uno della musica metal e per la groovy e malvagia I, ancora con Dio protagonista in un crescendo di teatralità vocale.
Too late è una semi -ballad che parte acustica fino crescere sfociando nell‘assolo di Iommi, in verità sempre molto ispirato durante tutta la durata del disco, spargendo buoni assoli in tutte le canzoni, la finale Buried alive e la più famosa del lotto, Time Machine, che verrà usata anche nella colonna sonora di Fusi di testa sfiorano il tipico rifferrama del thrash metal.
Purtroppo il sodalizio di questa formazione durò lo spazio di questo disco, con il relativo tour che toccò anche l'Italia nel 1992 in un Monsters of rock a Reggio Emilia, insieme a Iron Maiden, Testament, Megadeth e Pantera, poi i soliti litigi si impossessarono della scena e il resto è storia...
Il disco passerà nel dimenticatoio e ricordato solo per la pessima copertina che rivaleggia con quella di "Forbidden", per venire in seguito rivalutato dagli stessi Heaven & Hell che da esso hanno ripescato alcune canzoni come I, After All e Computer God durante i live.
giovedì 10 febbraio 2011
RECENSIONE: SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES- Pills and Ammo
Questo è il disco che mi sono regalato nel Natale appena passato. Desideroso di cercare qualcosa di caldo, rassicurante ed avvolgente. Una musica che scaldasse cuore ed anima, che non ti lasciasse immobile ma che ti facesse muovere e battere i piedi in ogni situazione della giornata, in ogni luogo e circostanza. Mai autoregalo fu più azzeccato ad assolvere i desideri di cui sopra.
Difficile, veramente difficile, immaginare Southside Johnny in un posto che non sia un piccolo club dall'insegna esterna tanto luminosa e sgargiante quanto buio e fumoso all'interno, affollato di gente festante, con il calore e il sudore che diventano un tutt'uno. Gente festante ed inneggiante un personaggio e la sua numerosa crew che non si risparmiano, incendiando le assi del palco con il loro Jersey sound.
Johnny Lyon, ma per tutti Southside Johnny, non è mai diventato una star del rock come il suo grande amico Springsteen, ma non per questo ha mollato la presa. Al suo fedele seguito di fan ha sempre dato dischi dignitosi, accompagnati da live performances all'ultima goccia di sudore. Rimasto, forse, l'ultimo vero depositario di quel suono denominato Jersey Shore sound, un miscuglio di Soul, R&B e Rock'n'roll che nei primi anni settanta mise a fuoco e fiamme i locali di mezza America.
Bluesman dalla voce calda e sporca quanto basta, con Pills and Ammo, ritorna a pestare il piede sull'acceleratore, facendo uscire un disco ruspante e parecchio chitarristico, semplice e diretto dove le due anime, soul e rock vanno a braccetto.
Rimanere indifferenti alla sua voce è impresa ardua, a partire dalle canzoni più rock come l'omaggio al vecchio rock'n'roll dei '50 di una Keep on Moving, dove un trascinante piano alla Jerry Lee Lewis traghetta una infuocata song che nel testo ricalca tutto l'amore per la musica e fumosi locali di divertimento.
Voce maschia e decisa in Heartbreak City, un rock-blues dove le chitarre di Bobby Bandiera e Andy York fanno furore e in One more night to rock , armonica, chitarre, fiati e la passione che trabocca.
C'è poco spazio per tirare il fiato anche quando le canzoni sono delle ballate che rimandano la memoria all'America di Bob Seger come nella stupenda Lead me on, l'energia musicale cala ma la voce sopperisce a tutto o come nella malinconia di Strange strange Feeling, vita passata e presente che scorre inesorabile.
Quando parte Umbrella in my drink, sembra di vederli Southside Johnny e un altro vecchio amico, vera e propria istituzione del New Jersey, Gary Us Bond, duettare davanti al loro pubblico e cantare il loro amore per il New Jersey anche se è un posto dannatamente freddo come loro stessi dicono. Forse questo il motivo per cui questi personaggi riescono a scaldare i cuori e se serve anche un pò di alcol in corpo per farlo, ben venga.
Avete capito, questo disco è ciò che serve quando le temperature esterne ed interne iniziano a calare, quando il ghiaccio deve essere per forza sciolto e la vostra ricerca di calore non ammette più spreco di tempo.
domenica 6 febbraio 2011
Morto il chitarrista irlandese GARY MOORE
GARY MOORE Wild Frontier (1987)
Gary Moore, irlandese classe '52, è uno dei chitarristi più influenti e spesso sottovalutati della sua generazione.
Artista della sei corde genuino e sanguigno ha sempre prediletto la forma canzone alla pura spettacolarizzazione e alla tecnica della chitarra pur non avendo nulla da invidiare a chitarristi piu' egocentrici e in vista. La sua carriera e' un continuo alternarsi tra dischi di matrice hard rock e dischi blues. Ormai vicino ai quarant'anni di carriera, Moore inizio' giovanissimo prestando, negli anni '70, il suo feeling chitarristico a gruppi come Skid Row (non quelli di Sebastian Bach ovviamente), Colosseum e Thin Lizzy (suono' in 'Black Rose', uno dei migliori dischi del gruppo irlandese).
Gli anni ottanta si apriranno ancora prestando i servigi ai G-FORCE per poi iniziare la sua carriera solista vera e propria."Wild Frontier", settimo disco solista, esce nel 1987 ad un anno dalla scomparsa del fraterno amico PHIL LYNOTT, morto un anno prima, inghiottito dalla droga. I due collaborarono gia' nel precedente disco di Moore 'Run For Cover' (1985) e avrebbero dovuto farlo anche in questo nuovo capitolo che invece sara' solo dedicato allo scomparso leader dei Lizzy.
'Wild Frontier' e' un disco ambizioso e sperimentale per Moore che cerca di unire Hard Rock e folk irlandese creando qualcosa di nuovo e fresco, se non fosse, il tutto, rovinato dalla moda imperante degli anni'80, di usare synth e batteria elettronica a coprire ogni buco libero delle canzoni. Insomma sarebbe stato un capolavoro del rock se solo fosse uscito un decennio prima, invece in alcuni punti rimane inghiottito in un vortice di suono pomposo che ne mina la tenuta negli anni. Fu lo stesso Moore a pentirsi pubblicamente per non aver usato un batterista in carne ed ossa. Ma se si passa sopra a questo incoveniente, ci rimangono almeno sei o sette canzoni da tramandare ai posteri.
I primi due pezzi sono l'esempio chiaro dell'intento di Moore. OVER THE HILLS AND FAR AWAY in apertura e' un pezzo epico in cui rock e folk vanno a braccetto grazie anche all'intervento di strumenti tradizionali folk suonati dai leggendari THE CHIEFTAINS, vere e proprie icone folk dell'Irlanda, paese a cui tutto in disco e' dedicato. WILD FRONTIER, e' la continuazione ideale della splendida "Military man", cantata da Lynott sul prcedente 'Run for Cover'. Anch'essa doveva essere cantata dallo scomparso cantante. Rimane comunque una delle migliori canzoni in assoluto di Moore con un testo che mette in risalto bellezze naturali e bruttezze della guerra in Irlanda.
TAKE A LITTLE TIME e' un hard rock dal chorus accattivante così come THUNDER RISING, veloce e diretta. Stupenda la strumentale THE LONER in cui Moore mette in pratica tutta la sua classe chitarristica. FRYDAY ON MY MIND e' una di quelle canzoni rovinate da synth e tastiere a cui accennavo prima, tanto da ricordare certe cose di Billy Idol dell'epoca (e' solo una mia sensazione). STRANGERS IN THE DARKNESS e' una semi ballad che riporta alla mente U2 e SIMPLE MINDS di quegli anni. Chiude l'atmosferica CRYING IN THE SHADOWS in cui Moore fa sfoggio anche della sua ottima voce.
Infine una menzione per NEIL CARTER che suona le tastiere e a BOB DAISLEY al basso. Alla batteria... ehm... perche' Moore ha rovinato un disco del genere??
La recensione compare in origine su Debaser:
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_17252/Gary_Moore_Wild_Frontier.htm
mercoledì 2 febbraio 2011
RECENSIONE: MINISTRI Live Koko club, Castelletto Cervo(BI) 28/01/2011
Stasera nella set list, come giusto che sia, il protagonista è l'ultimo album, già dall'apertura affidata a Il sole(è importante che non ci sia) passando a canzoni che a pochi mesi dall'uscita del disco sembrano aver già trovato una loro collocazione tra i classici da concerto. Noi Fuori, Tutta roba nostra, Una questione politica, Due dita nel cuore, Gli Alberi dimostrano la straordinaria capacità del gruppo nello scrivere anthem di facile presa sul pubblico che però riescono ad inglobare al loro interno una certa forma di impegno e forza musicale. Un mix quasi perfetto che fa presa soprattutto sulle nuove generazioni, sempre alla ricerca di nuove guide spirituali.
lunedì 31 gennaio 2011
RECENSIONE: WANDA JACKSON (The party ain't over)
WANDA JACKSON The party ain't over (Nonesuch Records, 2011)
Che in questi anni del nuovo millennio e sono già undici, si stia cercando di riportare a galla personaggi pionieri del rock'n'roll anni '50 caduti in disuso penso sia un dato di fatto appurato. A partire dall'intuizione di mister Rubin che fece rinascere Cash consegnandolo in pasto alle nuove generazioni e facendogli guadagnare l'immortalità, ai duetti con le più grandi rockstar mondiali di Jerry Lee Lewis(bello Last man standing,un pò tirato per i capelli il recente Mean Old man). La ricetta è quanto di più semplice ci possa essere: prendi un settantenne dal grandioso passato rock, affidalo ad un buon produttore e fagli cantare classici e nuovi successi rivestendoli di suoni attuali ma non troppo.
Anche per Wanda Jackson, il tentativo ad opera di Jack White sembra funzionare. La Jackson fu senza dubbio la prima donna che rivaleggiò con i grandi ometti del rock'n'roll. La sua voce graffiante, la sua carica di ironia la fecero presto diventare un'icona del rockabilly. Dopo aver attraversato la popolarità degli anni sessanta, il buio dell'abisso dell'alcol nei settanta e aver ritrovato le forze anche attraverso la strada religiosa negli ottanta, a settantatre anni (classe 1937) accetta di buon grado la sfida lanciatagli da White(White Stripes ), già abituato a sortite del genere, vedi il disco con Loretta Lynn.
Registrato nella casa di Nashville di White, con musicisti a lui cari (membri di Raconteurs e My Morning Jacket hanno suonato nel disco), The party ain't over sprizza energia in barba a chi crede che i vecchi dinosauri del rock dovrebbero andare in pensione e lasciare il campo libero. Tutt'altro, di questi esempi, nell'era del successo facile e di durata effimera delle stelle contemporanee, bisognerebbe averne sempre.
La chitarra di White e la voce unica della Jackson sono protagoniste di queste undici canzoni. La chitarra di White sa accompagnare per ergersi a protagonista di volta in volta in assoli grezzi e al limite dell'hard. La voce della regina del Rockabilly sa essere carta vetrata in episodi rock come l'apertura affidata a Shakin' all Over di Johnny Kidd and the Pirates e nella trascinante Nervous Breakdown(Eddie Cochran), mentre riesce a mantenere una incredibile cadenza infantile e senza tempo nel pieno rock'n'roll di Rip it up(Little Richard) e nel country-gospel-soul di Dust on the bible. Quando poi ricevi il nullaosta da Bob Dylan a cantare una sua canzone, la recente Thunder on the Mountain(presente in Modern Times, 2006) che lo stesso Dylan sceglie e consiglia, Wanda Jackson ringrazia e interpreta, trasformandola in una ruspante ed energica versione rockabilly.
Il lavoro di White in produzione e negli arrangiamenti è superlativo soprattutto nell'inserimento dei fiati, presenti e il più delle volte protagonisti in tutte le canzoni e in special modo in episodi come le caraibica Rum and Coca Cola, nel country di Busted dove le trombe riescono a donare un tocco tex-mex, nel blues di Like a Baby e nel soul di You know i'm no good(Amy Winehouse).
Alla fine, i due protagonisti, si regalano una passerella con l'acustica, solo chitarra e voce, di Blue Yodel #6 di Jimmie Rodgers. Esperimento riuscito e piacevole che riporta alla ribalta una protagonista femminile fondamentale del rock, bravi tutti.
martedì 25 gennaio 2011
RECENSIONE: GREEN LIKE JULY(Four Legged Fortune)
Ci risiamo. Ancora una volta, dobbiamo fare i conti con la fuga di giovani talenti italiani all'estero. Già dalla copertina firmata da Olimpia Zagnoli, giovane artista di gran fama negli States. Questa volta però il risultano di tale trasmigrazione vedrà i propri frutti, almeno spero, anche in Italia. I Green Like July sono una band, nata nel 2003 nel basso lombardo-piemonte, che ha trovato, per un breve periodo di tempo, utile alla realizzazione del proprio secondo disco, habitat naturale ad Omaha nello stato del Nebraska. Da buoni ospiti in terra straniera sono riusciti a far loro, con alcune correzioni geografiche, il vecchio detto "quando sei a Roma, la miglior cosa è vivere come i romani" . Essendo i Green Like July una band di folk-rock già avviata, hanno fatto di più, sono riusciti a coinvolgere i musicisti americani al loro progetto e che musicisti, Mike Mogis dei Bright Eyes e Monster of Folk(uno dei tanti supergruppi creati da Conor Oberst) e Jake Bellows dei Neva Dinova tra gli altri, riuscendo a registrare un disco in grado di tener passo, senza nessun problema, ai grandi nomi del genere.
Se nomi e cognomi dei componenti non tradissero la loro italianità, sfiderei chiunque ad individuare la vera provenienza della band.
Il folk rock prodotto da Andrea Poggio, Nicola Crivelli e Paolo Merlini si avvale comunque di un'esperienza costruita in anni di lavoro che hanno portato all'uscita di due mini ep e di un debutto May this winter Freeze my heart uscito nel 2005. Dopo una breve esperienza di alcuni di loro, sempre fuori dall'Italia, a Glasgow per la precisione, è capitata la grande occasione di poter registrare in America nei prestigiosi Arc studios con la produzione di A.J. Mogis (già produttore di The Faint e Bright Eyes tra i tanti).
Quello che ne è uscito, è un disco di nove canzoni dal carattere fresco ed omogeneo, maturo, dove l'amore per i suoni della tradizione americana riesce a convivere con la modernità di alcune scelte care all'alternative -folk e melodie che a volte sembrano rivelare anche un forte amore per il pop-folk di matrice anglosassone. Dalla corale Hardly Thelma, da cui sembra trasparire tutta la devozione verso il passato di gruppi come The Band a ballate fortemente evocative come Jackson, guidata dalle pedal steel o la bella e narrante Better man. Un hammond che richiama i fantasmi del primo Dylan elettrico nella iniziale Flying Scud e l'atmosferica nostalgia evocata da Nothing is forever. Canzoni che pur richiamando grandi nomi dell'odierna scena, riescono a mantenere un piede nella tradizione, tramutandosi in una originalità intrisa di calda malinconia emotiva che ha pochi paragoni almeno in Italia. Batteria, basso, chitarra e piano per costruire canzoni semplici ma di una concretezza già di valore assoluto. Dalle note delle canzoni e dalla bella voce traspare tutta la passione di un gruppo motivato e con pochi dubbi sulla strada giusta da percorrere, anche se porta in terre apparentemente lontane come il Nebraska.
TRACKLIST:
Flying scud
No light will shine on me
Jackson
Wai is worth after all
A better man
Hardly Thelma
Nothing is forever
A perfect match
St. John of the cross
INTERVISTA su ImpattoSonoro.it
venerdì 21 gennaio 2011
RECENSIONI: SAHG (III),SOCIAL DISTORTION(Hard Times...), THE DECEMBERISTS(The king is dead)
Questo disco, uscito nella tarda estate del 2010, mi era sfuggito, ma visto l'enorme potenziale in suo possesso, si candida, in ritardo, a rientrare nella classifica delle più piacevoli uscite dell'anno appena trascorso in campo doom/hard rock. I norvegesi guidati dall'ugola di Olav Iversen,un perfetto mix tra Ozzy Osbourne e un buon cantante di hard rock settantiano, arrivano al terzo disco e sbancano con una prova fresca ed agile, forse meno fumosa dei due precedenti lavori ma con un occhio all 'hard di annata con organo hammond a fare la sua comparsa senza essere troppo invasivo e disburbante nei confronti dei massicci riff chitarristici. Si potrebbe partire dal fondo e dalla più cadenzata e doom del lotto, Spiritual Void, una lenta e psichedelica discesa nell'oscurità degna dei migliori nomi del genere. Un salto nelle paludi hard/stoner con la cavalcata Mortify e la più cadenzata Hollow Mountain che non dispiacerebbero affatto a Zakk Wylde. Anche se alla fine il metro di paragone più calzante rimangono i maestri Black Sabbath (e gli adepti più famosi, passando da Trouble, Saint Vitus e Cathedral), i cui germi si possono trovare in tutte le altre composizioni dalla più heavy e "moderna" Mother's Revenge, alla più sulfuree Shadow monunent e Hollow Mountain.
SOCIAL DISTORTION Hard times and nursery rhymes(Epitaph,2011)
RECENSIONE COMPLETA: http://www.impattosonoro.it/2011/01/24/recensioni/social-distortion-hard-times-and-nursery-rhymes/
THE DECEMBERISTS The King is Dead (Rough Trade, 2011)
La voglia di semplicità porta il gruppo al ritorno verso suoni e testi lontani dalla complessa architettura che costruiva il loro precedente The Hazards of love . Là dove vi era un concept di base (anche piuttosto lungo ed arzigogolato) ed un suono che spesso toccava l'hard progressive degli anni settanta, questa volta le dieci canzoni che compongono The king is dead ricercano la semplicità di suoni folk e country. Nelle nuove composizioni scritte da Colin Meloy viene a galla tutto l'animo americano del gruppo. Ospiti illustri sono Peter Buck dei REM che lascia l'impronta del gruppo di Atlanta in tre canzoni (Calamity song ne è un esempio significativo), mentre la cantante Gillian Welch impresta la sua ugola che diventa protagonista in quasi tutto il disco. Tra i richiami alla tradizione irlandese contenuti dentro a Rox in the box, l'honk tonk country di All arise!, le velate malinconie folk di January Hymn e della finale Dear Avery, l'andamento ciondolante dell'iniziale Don't carry it all( una "Out on the weekend" dei giorni nostri), i richiami a Dylan di June Hymn vi è un universo rurale che sembra fatto di ampie vallate verdi, incontaminati boschi ed una serenità e pacatezza che danno tanta rassicurazione.
lunedì 17 gennaio 2011
INTERVISTA a SAMUEL KATARRO
-In recensione(http://enzocurelli.blogspot.com/2010/06/samuel-katarroda-robert-johnson-alla.html
), ho scritto che il tuo sembra un piccolo viaggio nel rock, dal blues primigenio e acustico dell'esordio "Beach party" al rock psichedelico di fine anni sessanta del secondo "The halfduck MysterY". Tutto casuale o una tua voglia di metterti in gioco con la musica?
La voglia di mettersi in gioco è fondamentale per divertirsi e non stancare me stesso ancor prima degli altri, ho semplicemente fatto ciò che mi andava di fare senza pensare troppo a scrivere qualcosa che fosse una logica continuazione di “Beach Party”. Proprio per questo non c è mai stato un intento filologico nelle mie canzoni ma una componente istintiva molto prevalente soprattutto in fase di stesura iniziale dei pezzi, soltanto successivamente ho pensato agli “abiti giusti” da far loro indossare.
-Alla luce degli apprezzamenti ricevuti da personaggi "cult" del rock come Patti Smith e Julian Cope, un pensierino agli States o all'Inghilterra, l'hai mai fatto? Magari solo per trarre nuove ispirazioni e perchè no registrare nuovi brani?
Penso spesso all’importanza di uscire fuori dall’Italia per mettermi in gioco (dicevamo....) e confrontarmi con altre realtà e per realtà intendo altri musicisti, altri palchi, un pubblico diverso con attitudini e reazioni diverse ecc. ecc. Il mio discorso non è limitato soltanto agli Usa o all’Inghilterra ma a tutti i paesi con un minimo di cultura rock alle spalle, non ho assolutamente idea di quale sia il luogo in cui riceverei l’accoglienza migliore, non ne ho idea!
-Insomma la tua musica, certo non facile e immediata, potrebbe avere più esposizione all'estero piuttosto che in un paese come il nostro legato forse più al pop?
Mah....non saprei, il pop (in quanto genere “popular”) è certamente il più seguito ovunque, non solo in Italia. Dal momento che pure io faccio pop, non dovrei avere nessun tipo di problema in nessun angolo del mondo! :-)
-Non credi che certi "giovani artigiani" della musica come te abbiano l'esposizione mediatica tarpata dai "talenti" dei reality a cui si propongono contratti discografici milionari?
Indirettamente sì, perchè un meccanismo del genere più che “occupare posti” che potrebbero (dovrebbero?) spettare a noi musicisti indipendenti, cambia totalmente il modo di pensare e di agire delle etichette discografiche più importanti che non perdono tempo e soldi per promuovere un interprete (“artista” non mi sembrava molto calzante.....) già ampiamente pubblicizzato in TV grazie appunto ai reality. Nel nostro paese tutto ciò è sicuramente amplificato dal fatto che gli italiani sono degli accaniti teledipendenti, con il risultato che adesso le modalità di fruizione della musica sono completamente controllate dalla TV. Alla fine dei giochi il risultato è esattamente quello che hai esposto tu nella domanda.
-Mai provato a comporre in italiano? A te piace giocare e ironizzare sul tuo inglese usato molto spesso in modo fonetico...
Mi trovo così bene con l’inglese che per il momento non ho voglia di complicarmi la vita più di tanto, oltre che avere una metrica più malleabile, le vocali inglesi richiedono tecniche di emissione vocale molto meno rigorose, non è facile da spiegare ma funziona!
-Entrando più in dettaglio nei tuoi testi molto visionari, come nascono?...e chi è Bobby Bunny?
I testi nascono quasi tutti per associazione sia fonetiche che di significato, è una tecnica che mi piace definire “impressionista” per il modo in cui prendono forma le liriche. Non amo partire con un’idea definita, una storia da raccontare o cose del genere, l’ho fatto poche volte e non sono mai rimasto completamente soddisfatto. Bobby Bunny è uno dei pochi miei testi “narrativi”, parla di un bimbo cresciuto in un bordello, infatti il testo di quella canzone mi interessa relativamente....il lato musicale invece è molto più stimolante, decisamente il mio “mio “ pezzo preferito dopo “Rustling”.
-I am the musunator e Sudden death sono da considerarsi due canzoni a sè o potrebbero essere l'inizio di una nuova strada da percorrere?
Penso che tu ti riferisca al fatto che sono stati “suonati senza strumenti”....in realtà non credo ripercorrerò quella strada, almeno in un futuro immediato. La cosa veramente interessante di quei due pezzi è che sono stati assemblati con un software di audio editing scarsissimo scaricabile gratuitamente (alcuni avranno capito a cosa mi riferisco ma non lo paleserò in questa sede!), la dimostrazione che la povertà di mezzi molto spesso è fonte di creatività: “Necessity is the mother of invention”.
-In che ambiente musicale sei cresciuto? Le tue particolari influenze dove e come sono nate?
Mi sono fatto una cultura musicale piuttosto estesa con estrema pazienza e soprattutto molta molta curiosità e voglia di approfondire....poi naturalmente il giro di amicizie giusto, un professore di religione intrippato con l’alternative rock americano e Piero Scaruffi hanno fatto il resto.
-Negli ultimi anni c'è stata una autentica riscoperta del folk e della psichedelia, mi vengono in mente personaggi come Devendra Banhart, Fleet Foxes e The black Angels, tra i tanti...ti dai una spiegazione?
Devendra Banhart non è psichedelico per niente e tra l’altro lo sopporto abbastanza poco. Fleet Foxes e Black Angels sono due band che ascolto spesso e che stimo tantissimo. Ormai non ha più senso parlare di riscoperte e revival duraturi visto che ogni anno si “riscoprono” miliardi robe e spesso anche in maniera piuttosto maldestra e priva di contenuto.
-Droghe e ispirazione, può essere un connubio ancora d'attualità nel 2010?Boh....per il momento non ne ho avuto bisogno, al primo calo di ispirazione farò una prova.
-Ho sentito che ultimamente ascolti molto Neil Young, hai ascoltato l'ultimo lavoro Le Noise? Quali altri artisti stai ascoltando ultimamente?
“The Noise” è un disco grandioso....per le atmosfere evocate, per ciò che esprime e per le scelte strettamente musicali. E'un disco a suo modo classico e sperimentale allo stesso tempo, cioè....come cazzo ti viene in mente di registrare un intero album di pezzi superdistorti e cattivissimi senza batteria? Alla fine è un’idea semplice ma devastante, così come l’utilizzo della viola elettrica nel primo disco dei Velvet Underground, vai a pensarla tu una roba del genere nel ’66! Cosa ascolto ultimamente? Il singolo dei Superchunk e poi tutto il resto.
-Ci sono differenze tra Alberto Mariotti e Samuel Katarro( se vuoi rispiegare da dove arriva iil tuo nome,... fai pure)? Diventi un'altra persona sopra ad un palco?
Posso non risponderti? Sono un po’ stanco di questo genere di domande....senza offesa eh! (Lo sapevo che non avrei dovuto fare questa domanda...!)
-Piccoli, imminenti progetti e sogni nel cassetto, magari qualche collaborazione con un nome famoso?
Attualmente sto scrivendo canzoni sia per il nuovo di Katarro che per un altro progetto a cui probabilmente darò un altro nome ma è ancora tutto da vedere....visto che mentre scrivo dei pezzi penso immediatamente a come collocarli in un disco e a quale sarà il tono generale dell’intero lavoro mi viene spontaneo pensare anche a quali musicisti (oltre alla Tragic Band) coinvolgere, ho già qualcuno in mente ma per adesso non ve lo dirò!
lunedì 10 gennaio 2011
Recensione Live: EDDA, circolo Arci DHARAMSHALA, Tronzano Vercellese, 8 GENNAIO 2011
Quando penso a Edda degli ultimi 2 anni , vedo un uomo sopra ad un enorme e lungo ponte che congiunge un'isola "delle scelte sbagliate", ormai alle spalle e molto lontana, con un'isola "della vita felice" che si scorge in lontananza, ancora avvolta, però, da nubi e nebbie. Edda ,sopra a questo ponte, cammina, osserva la vita sotto ai suoi piedi con occhio timido e curioso da bambino. Si affaccia dal guard rail con molta prudenza e con passo disincantato continua la sua camminata per raggiungere la sponda buona con il suo bagaglio di vita che lo ha fatto crescere.
INTERVISTA http://www.impattosonoro.it/2011/01/10/interviste/intervista-a-edda/
"Iniziamo il concerto con una canzone dei No Guru". Esordisce così , quasi sottovoce, Edda, mentre con gli occhi scorge tra il pubblico una t-shirt del gruppo. La mia. No, non suonerà nulla della band dei suoi ex compagni, ma non mancherà, durante e dopo la serata, di ricordarsi di loro, spendendo buone parole e mantenendo intatto il filo che lo collega al suo passato.
L'accogliente e ben gestito Circolo Dharamshala di Tronzano Vercellese, si e ci regala un venerdì sera diverso dal solito, con un personaggio che, se per qualcuno rappresenta una piccola icona del rock italiano degli anni novanta, per altri, i più giovani ed abituali frequentatori del locale rappresenta un signore sconosciuto, ultraquarantenne vestito di grosse scarpe, pantaloni di una vecchia tuta blu scolorita e improponibile maglione di lana extralarge. Edda ci metterà poco a conquistare anche loro.
Accompagnato dagli ormai fidi Andrea Rabuffetti alla chitarra e mandolino e Sebastiano Di Gennaro alle percussioni e rumori vari, Edda stravolge, massacra e imbastardisce le sue e altrui canzoni, rendendole spesso e volentieri irriconoscibili, ma regalandone ogni volta una nuova ed originale versione.Come lui stesso ammetterà a fine concerto, facendo due chiacchiere e facendo trasparire tutta la sua timidezza e tenerezza, "...che senso ha suonare le canzoni sempre uguali, che palle e poi loro sono bravissimi(rivolgendosi ai due suoi compagni)a venirmi dietro".
Chi non lo conosce potrebbe rimanere incredulo nel pensare che quel "coglione fatto e finito"(queste le sue testuali parole) che una volta agitava i lunghi capelli a suon di rock ora delizi con intatta voce e con canzoni nude e spoglie che raccontano il suo difficile passato. A Edda non si può rimanere indifferenti, se non lo conosci, finirai per prenderlo in simpatia, anche se non capisci nulla di quello che canta e le uniche parole che impari e percepisci delle sue canzoni sono le imprecazioni e le volgarità improvvisate e sparate dirette, un pò come quando inizi a studiare una lingua straniera e a rimanerti impresse per prime sono le cosidette parolacce. Dopo, però, ti si apre un universo come quello di chi sceglie di coverizzare un Finardi d' annata ( Sulla strada) o un, poco conosciuto ai più, cantautore napoletano che di nome fa Ciro Sebastianelli. "Questa canzone "Laura" è bellissima ma non la conosce nessuno" dirà sempre chiacchierando a fine concerto prima di andare via imbarazzatissimo.
Tra una versione stravolta di Sogna dei Ritmo Tribale, i nudi testi di Io e te, L'innamorato, Scamarcio, Fango di Dio, Per sempre biot del suo disco d'esordio, tra una canzone cantata per intero dando le spalle al pubblico, tra riferimenti sessuali esorcizzanti e provocatori, tra parole sbiascicate tra una canzone e l'altra, c'è il suo mondo e una vita ritrovata, fatta di pura semplicità, sincerità e voglia di suonare e divertirsi,"anche se non riusciamo a trovare dei bravi tecnici ed arrangiatori per le nuove canzoni che stiamo registrando", ci confida sbuffando, sempre a concerto terminato,"una volta era diverso,anche Marcelle Bella, può piacerti o no, ma aveva dei suoni fantastici".
Un piccolo eroe minore e modesto che ha scelto di mettersi a nudo usando la musica e che sta ritrovando quelle piccole cose della vita che poi sono le più grandi e che scelte passate sembravano aver nascosto, fortunatamente non così bene da non essere riscoperte e godute.
Il ponte sembra sempre più corto.
Foto gentilmente concesse da Circolo Arci Dharamshala
venerdì 31 dicembre 2010
PLAYLIST:top 20 DISCHI CLASSIC ROCK 2010
Canzoni quasi intime, che richiamano il folk ed il blues e dove la presenza dei suoi concittadini texani Okkervil River si limita ad accompagnare il maestro, lasciando poca traccia di sè, se non in alcuni episodi, perchè, dopo tanti tributi da parte del più disparato mondo musicale, Roky Erickson è tornato per restare, perchè la musica ha ancora bisogno di "pazzi" come lui. Recensione
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/06/roky-ericksoninferno-e-ritorno.html
2 NEIL YOUNG Le Noise
Il connubio Young-Lanois ha funzionato e il canadese ne esce, finalmente, con un disco degno del suo nome. Chitarre e voce, nulla più. Recensione
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/09/neil-young-recensione-le-noise.html
3 KULA SHAKER Pilgrims Progress
Ora e solo ora, i Kula Shaker fanno uscire il lavoro che li consegna alla maturità. Non cercate facili melodie pop o hit da classifica. Crispian Mills e soci consegnano ai loro fans un disco intriso di folk a quattro anni dal loro ultimo disco. Recensione http://www.impattosonoro.it/2010/09/10/recensioni/kula-shaker-pilgrim-progress/
4 EELS Tomorrow morning
Con Tomorrow Morning, Mister E conclude la trilogia partita con il garage-rock-blues di Hombre Lobo e continuata con l' ancora fresco e acustico End Times..conclude questo prolifico periodo di ispirazione, dettato dalle sue sventure di vita, dando alle stampe un disco che finalmente sembra dare un pò di luce positiva alle sue composizioni.
5 JOHN MELLENCAMP No better than this
Mellencamp con questo disco riesce , forse, a spiegare e dare al viaggio il suo giusto significato, quello di vivere i luoghi che si visitano non da semplici turisti, a volte insospettiti da usi e costumi diversi dai propri, ma di vivere i luoghi, entrandoci dentro, confondendosi, mettendosi alla prova con quegli usi e costumi. Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/08/john-mellencamp-un-vecchio-microfono.html
6 GRACE POTTER & THE NOCTURNALS
Bella e brava. Il nuovo talento femminile del rock americano...Un disco piacevole, per gite on the road, verso mete californiane preferibilmente e la reggaeggiante Goodbye Kiss ti fa sognare di avere la bionda Grace al tuo fianco... Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/07/grace-potter-nocturnalsoltre-le-gambe.html
7 JOHNNY CASH American VI:ain't no grave
A sette anni di distanza dalla sua morte, esce il secondo disco postumo di Johhny Cash. Quando muore un’artista, ancor di più se una leggenda come Cash, c’è sempre il rischio di grattare il fondo del barile nel far uscire a tutti i costi una raccolta di canzoni rimaste inedite.Con Cash, fortunatamente, questo pericolo sembra scongiurato. Recensione http://www.impattosonoro.it/2010/04/01/recensioni/johnny-cash-american-vi-aint-no-grave/
8 TOM JONES Praise & blame
Chi l'avrebbe mai detto che un disco di Tom Jones potesse essere una rivelazione. Le prime indiscrezioni su questo disco erano le colorite frasi dei dirigenti della Island records, etichetta di Jones, che pensarono subito ad uno scherzo dopo che il gallese dalla voce d'oro presentò loro le nuove canzoni. Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/09/tom-jones-recensione-praise-blamequello.html
9 ROBERT PLANT Band of joy
Un disco di covers che certamente non porterà nulla di nuovo nella carriera di chi la storia della musica l'ha già ampiamente scritta ma che cementa ancor di più il futuro musicale di un artista che tutto sommato non si è mai svenduto...Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/10/robert-plant-recensione-band-of-joy.html
10 XAVIER RUDD & IZINTABA Koonyum sun
Uno dei più sinceri cantori di world music di questi anni. Soul, funk, reggae, blues e ritmi afro che mettono a nudo la sincerità musicale ed intellettuale di Rudd. Musicista australiano a tutto tondo.
11 GIANT SAND Blurry blue mountain
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/12/dischi-in-ascolto-recensioni-di-volbeat.html
12 PAUL WELLER Wake up the nation
13 TOM PETTY Mojo
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_31676/Tom_Petty__The_Heartbreakers_Mojo.htm
14 ISOBEL CAMPBELL & MARK LANEGAN Hawk
15 ELTON JOHN/LEON RUSSELL The union
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/11/dischi-in-ascolto-recensioni-di-elton.html
16 VICTOR DEME Delì
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/06/victor-deme-se-questa-deve-essere.html
17 WILLIE NILE The innocent ones
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/10/recensione-willie-nile-innocent-ones.html
18 JOHNNY FLYNN Been listening
19 ALEJANDRO ESCOVEDO Street songs of love
20 RONNIE WOOD I feel like playing
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/10/dischi-in-ascoltorecensioniin-rigoroso.html
martedì 28 dicembre 2010
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY- Elliott Murphy
ELLIOTT MURPHY- Elliott Murphy (Blue Rose Records, 2010)
Elliott Murphy è un onesto cantastorie del rock che alla pari di altri grandi songwriters americani, mi vengono in mente personaggi come Willie Nile e Alejandro Escovedo, per fare solo due nomi, ha sempre lavorato dalla parte opposta del successo, vuoi per sfortuna o per precisa scelta personale e artistica, non venendo mai a mancare, però, per caratteristiche di qualità.
Presentato e sbandierato, negli anni settanta, come il nuovo Dylan (ma chi non lo era in quegli anni, quando il menestrello di Duluth sembrava vivere in netto calo di ispirazione), da parecchi anni ha lasciato New York che ne segnò i primi anni in bilico tra il decadente glam e la nascente scena punk, per trasferirsi in Europa, nell'amata Parigi.
Arrivato a sessan'tanni e con una trentina di dischi incisi (Elliott è uno che non si risparmia nè in studio , nè live), questa nuova ed omonima uscita sembra avere tutte le carte in regola per raggiungere l'intensità e la profondità dei suoi vecchi dischi e, perchè no, far ripartire la carriera. Registrato tra New York e la Francia, vede la produzione affidata al giovanissimo figlio appena ventenne Gaspard Murphy, un attestato di fiducia di tutto rispetto fatto da papà Elliott.
L'iniziale Poise'n Grace strizza subito l'occhio a Bob Dylan nel cantato ed omaggia l'amico Springsteen nella strofa finale della canzone: "I've been listening to Nebraska, Johnny 99 hits 100 as the new Jersey sky turns dark". Bruce Springsteen, sempre pronto ad invitare Murphy sul palco durante le sue calate europee.
Le canzoni scritte quasi interamente da Murphy, eccetto alcune in compagnia dell'ottimo chitarrista Olivier Durand, sono ballate dall'antico sapore, come Counterclockwise che non avrebbe sfigurato su "Oh Mercy" di Dylan, per il suo carattere oscuro e dark, la supplica di Take the devil out of me, la più jazzata You don't need to be more then yourself, piccolo saggio di filosofia di vita o With the ring, ariosa ed orchestrale negli arrangiamenti fatti dal figlio.
Più sostenute e sentiti omaggi al rock'n'roll sono la divertita e dal titolo rivelatore Rock'n roll'n rock'n roll e la quasi hillbilly Rain, rain, rain, dove a mettersi in mostra è la sua buona band di accompagnamento, The Normandy All Stars.
A chiudere, gettando un ponte verso la terra che gli ha dato i natali , la lunga ed evocativa epopea dalle atmosfere quasi western Train kept a rolling.
Murphy, rimane ancora un cantautore d'altri tempi, un dandy del rock che fa ancora della poesia in musica un vanto ed una ragione di vita, lontano dai grandi circuiti che contano ma sempre più vicino ai cuori e all'anima. Una carriera senza hit epocali ma piena di coerenza e dedizione al rock.
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes A Worried
Man (2013)
martedì 21 dicembre 2010
Recensione: MOTORHEAD-The World is yours
MOTORHEAD The World is yours (UDR, 2010)
"...voglio dire, voi insegnate alla gente che il Messia era il frutto dell'unione tra la moglie di un vagabondo(fra l'altro vergine)e di uno spirito? E questo sarebbe il fondamento di una religione diffusa a livello mondiale? Non mi convince. Immagino che se Giuseppe si è bevuto questa, si meritasse di dormire in una stalla!..."da "La sottile linea bianca- autobiografia"-Lemmy
Ecco, l'anno si conclude con una certezza in campo rock. Lemmy festeggerà il suo sessantacinquesimo Natale il 24 Dicembre e noi sotto l'albero avremo il ventesimo album della sua band. Tanto per mantenere le tradizioni.
I Motorhead o si amano o si odiano. Chi li tagga di immobilismo cronico, chi ne elogia la coerenza. Non si può obiettare sulla dedizione totalitaria al rock di un personaggio, culto rock'n'roll vivente e recentemente, pure oggetto di studi medici improntati sulla sua straordinaria longevità tentata ed ostacolata da tutti i possibili vizi. Lemmy con il suo basso e i Motorhead passano il loro tempo a registrare dischi e fare tour, cosa si vuole di più da una band che suona rock? I maligni invocheranno una maggior cura nelle uscite discografiche, ormai a scadenza biennale ma i Motorhead continuano ad impartire lezioni e questo "The World is yours" è un pachiderma in grado di schiacciare l'aspirazione di qualunque giovane band che si affaccia nel mondo della musica.
Nessuna pausa durante le dieci canzoni e i quaranta minuti di questo disco. Nessun rallentamento o concessione a ballads, che in fondo non erano poi così male interpretate dal vocione cavernoso di Lemmy. Se negli ultimi lavori erano comparsi alcuni omaggi al blues, questa volta ad uscire dalle casse è l'amore di Lemmy e soci per il rock'n'roll primigenio, con il quale sono cresciuti. Rock'n'roll music, strizza l'occhio al boogie rock dei migliori Ac/Dc ,era Scott e la scollacciata e finale Bye bye bitch bye bye tradisce l'amore incondizionato per Chuck Berry, naturalmente rivisto a volumi alzati.
Quando poi si ascolta la più moderna, pesante ed oscura Brotherhood of man, con un Lemmy più ringhioso del solito, si capisce che ai Motorhead piace anche cambiare le carte in tavola e spiazzare. Con testi diretti ed esplicti come la titletrack che esorta tutti a riprendersi il mondo finito in mano a pochi potenti o la pesante critica sulla religione che compare in Get back in line finendo con l'unica certezza, vera religione e salvezza: il rock'n'roll( Rock'n'roll music).
Le restanti sono, più o meno, mid-tempo convenzionali e con il marchio Motorhead ben impresso a fuoco con tanto di autoriferimenti, come il primo singolo Get back in line, Outlaw o l'apertura affidata a Born to lose, mentre più spedita viaggia I know what you need. Comunque da sottolineare la sempre pregevole prova di Philip Campbell alla chitarra e negli assoli sparsi in tutti i brani, un chitarrista sempre troppo sottovalutato e l'incessante potenza della batteria di Mikkey Dee, compagni perfetti di padron Kilmister da molti anni a questa parte e formazione più stabile della storia del gruppo.
In periodi come questi è sempre bene e consigliabile andare sul sicuro, anche nella musica. I Motorhead non hanno mai tradito. Buon Natale e buon compleanno Lemmy!
lunedì 20 dicembre 2010
PLAYLIST:top 20 DISCHI,ALT-HARD-HEAVY 2010
Un ritorno prepotente e rabbioso. Tra perdite umane importanti e la loro visione senpre più apocalittica che con gli anni diventa sempre meno utopistica. Coleman riunisce i componenti dell'esordio e traccia un bilancio di carriera sonoro. Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/10/dischi-in-ascoltorecensioniin-rigoroso.html
2 BLACK MOUNTAIN Wilderness Heart
La loro scrittura ancorata agli anni '70 si è fatta più semplice e diretta. Le canzoni sono ben bilanciate tra bordate hard e rilassatezza folk rinunciando alla psichedelia dei passati dischi. Un altro grande passo in avanti verso i settanta. Recensione
http://www.impattosonoro.it/2010/10/17/recensioni/black-mountain-wilderness-heart/
3 BLACK LABEL SOCIETY Order of the black
Zakk Wylde abbandona definitivamente zio Ozzy e dopo alcuni dischi poco esaltanti si rituffa nella melma metal/southern degli esordi. Graniticità e alcuni lenti di grande spessore. Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/10/black-label-society-recensione-order-of.html
4 THE SWORD Warp Riders
Il terzo disco è quello della maturità per la band americana. Allo stoner/doom si aggiunge una componente blues e melodica ed un concept fantascientifico. Recensione
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/10/recensione-swordwarp-riders.html
5 DANKO JONES Below the belt
Il rocker canadese continua la sua marcia, rock’n'roll, blues, hard e metal vengono frullati sottoforma canzone con ritornelli che ti si stampano in testa al primo ascolto e musica che ti fa sobbalzare dalla sedia. Recensione http://www.impattosonoro.it/2010/06/22/recensioni/danko-jones-below-the-belt/
6 DANZIG DethRed Sabaoth
Ormai lo si era dato per perso e bollito, ma lui ritorna con quello che sa fare meglio, riguardando al passato. Così ci piace. Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/07/danzigun-passo-avanti-verso-il-passato.html
7 HEATHEN The Evolution of Chaos
Il mio disco thrash metal dell'anno. Furono autori di due soli dischi che bastarono per farli entrare nella leggenda ( Breaking the silence(1987) soprattutto). Il loro ritorno non tradisce.
8 SOULFLY Omen
Mentre gli ex compagni Sepultura sono in agonia da molti anni, Max Cavalera trova il tempo di far pace con il fratello( Cavalera Conspiracy) e sfornare, con i Soulfly, un disco di thrash/core metal vecchia maniera abbandonando momentaneamente le influenze tribali.
9 THE BLACK ANGELS Phosphene dream
"Dopo averti inizialmente stordito la percezione visiva con la copertina, ti conducono con la musica verso i posti immaginifici della perdizione sensoriale in compagnia dei fantasmi più allucinati della musica anni sessanta." Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/10/recensione-black-angels-phosphene-dream.html
10 PRO -PAIN Absolute power
La band di New York capitanata da Gary Meskill è ormai una garanzia in fatto di coerenza e fedeltà al thrash/hardcore. Vent'anni di carriera senza sbavature.
11 OVERKILL Ironbound
12 THE BLACK KEYS Brothers
Recensione
http://www.impattosonoro.it/2010/07/08/recensioni/the-black-keys-brothers/
13 YEAR LONG DISASTER Black magic;all mysteries revealed
14 GOGOL BORDELLO Trans-continental hustle
15 HOGJAW Ironwood
16 ARMORED SAINT La Raza
Recensione
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_31416/Armored_Saint_La_Raza.htm
17 BLACK COUNTRY COMMUNION
18 VOLBEAT Beyond Hell/Above Heaven
Recensione
http://enzocurelli.blogspot.com/2010/12/dischi-in-ascolto-recensioni-di-volbeat.html
19 SLASH
20 IRON MAIDEN The final frontier